Trump libera tutti!

 


Nel linguaggio colorito a cui Trump ci ha abituato da molto tempo, nelle sue primissime dichiarazioni da neo-eletto presidente USA, definisce il green deal ridicolo e dispendioso, una truffa verde, mettendo una pietra tombale sulla transizione ecologica almeno per i prossimi quattro anni.

A seguito delle sue dichiarazioni, con una serie di ordini esecutivi scioccanti, nei giorni scorsi tutte le riviste scientifiche al mondo, con le più importanti come Nature e Science in testa, hanno pubblicato editoriali preoccupatissimi per quel che sta accadendo, forse perché Trump è andato anche oltre quello che aveva preannunciato: tutti sapevano che sarebbe uscito dall'Accordo di Parigi, così come ha sancito l’uscita dall’OMS, salvo in quest’ultimo caso, ripensarci 24 ore dopo!

Tra le molte una cosa poco nota è che ha silenziato e bloccato tutti i lavori del NHI, National Health Institutes, che rappresenta gli istituti nazionali statunitensi per la salute: non possono più comunicare, ha congelato i finanziamenti, non possono più fare convegni, e ha persino revocato la scorta a Tony Fauci, scelta particolarmente odiosa perché Fauci riceve minacce di morte, da prendere seriamente in considerazione, costantemente tutti i giorni. Ancora, le dichiarazioni sull’Alaska sono estremamente preoccupanti perché, cavalcando l’onda della retorica dell'emergenza energetica ha emanato un ordine esecutivo sull’Alaska che in breve afferma che, indipendentemente dai parchi, dalle riserve, dai diritti dei nativi, d'ora in poi quello stato sarà considerato né più né meno che una riserva di risorse per gli Stati Uniti, e le elenca tutte: petrolio, gas naturale, pesce dal mare e legno dalle foreste, annullando tutte le regolamentazioni verdi e, peggio ancora, sdoganando l'idea del liberi tutti nel devastare l'ambiente per le risorse di cui hanno bisogno gli americani: basta con gli accordi di qualunque tipo e con chiunque perché l’idea che deve passare è che tutto quel che è stato fin qui è sbagliato e dannoso per gli Stati Uniti. Anche a costo di incrementare la devastazione ambientale sul proprio territorio pur di ottenere la totale autonomia energetica. Cosa che Trump aveva già detto con estrema chiarezza in campagna elettorale: drill, baby drill! Diventato ormai una specie di ritornello, ma che significa che c'è un pezzo degli Stati Uniti nel quale succede e succederà che le perforazioni petrolifere saranno molto più diffuse, ma non soltanto, come ovvio, in Texas, New Mexico o nel Golfo del Messico e in Alaska, ma una liberatoria per tutti affinché possano aumentare l’attività estrattiva, a riguardare tutti. Compreso quegli stati dove erano state interrotte le tecniche di fracking a causa degli elevati e conclamati rischi ambientali, e che ora potranno riprendere.

L’uscita degli Stati Uniti dall'Accordo di Parigi significa che non c'è praticamente più nessuna possibilità di stare sotto gli 1,5 °C di riscaldamento climatico, e la possibilità di arrivare ai 2 °C nei prossimi anni è pressoché certa. Tutto ciò che è stato raccontato in questi ultimi anni e si è sostanziale cancellato con una manciata di parole.

E agli stolti che pensano che da questa parte dell’Atlantico non ci interessa se gli Stati Uniti aumenteranno le perforazioni, riprenderanno con maggior intensità le tecnologie di fracking laddove erano state interrotte, che ci riguarda relativamente, ricordo che rimettere in discussione praticamente tutto quello che è stato fatto fin qui, ha dato il colpo di grazia a una situazione che già era in grande stallo (sia chiaro che non sto demonizzando la tecnologia del fracking, faccio solo dei distinguo su quanto effettivamente ha provocato in termini di danni ambientali). Le negoziazioni internazionali sul clima, lo abbiamo visto con le ultime COP fatte nei paesi petroliferi, hanno sostanzialmente partorito topolini, dichiarazioni d’intenti, che spesso restano tali, praticamente nulle: con l'uscita degli Stati Uniti dall'Accordo di Parigi saranno inoltre ridotti o azzerati molti finanziamenti a progetti ambientali, e vuol dire inoltre che altri paesi, come l’Argentina ad esempio, emuleranno gli USA, e molti altri che faranno la stessa cosa. Se già prima c'era una situazione di grande difficoltà nel prendere decisioni sul clima a livello internazionale, adesso sarà praticamente impossibile almeno per i prossimi quattro anni.

La cosa potrà anche riguardare l’Italia direttamente: anche per una serie di scelte politiche che andrebbero forse oggi rilette, siamo arrivati al punto che una buona parte dell’opinione pubblica pensa che la transizione ecologica come è stata pensata è una follia, che il ruolo dell’Italia e dell’Europa tutta è pressoché insignificante, vista la presenza dei soliti grandi inquinatori come Cina e India, e USA. La Cina sta guadagnando quantità di denaro enormi col green ma al tempo stesso continua a inquinare, e lo farà finché farà loro comodo, sfruttando al limite le loro risorse fossili,  pur dovendo ammettere che l’ambizioso piano di decarbonizzazione di quel paese sarà messo in atto quasi certamente. L'India continua a guardare all’Occidente con grande distacco. E l'Europa sta assumendo, agli occhi di molti, il ruolo del Don Chisciotte di turno, un vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. La lamentela comune è che l’Europa tutta (non solo la CE) produce il 12 percento delle emissioni totali di gas serra (CO2 e altri), in netto calo da oltre un ventennio grazie a comportamenti e scelte tutto sommato virtuosi, e deve sostenere una parte altissima dei costi di transizione, anche per gli altri.

La Cina si farà trovare pronta quando sarà necessario si diceva. Già ma quando sarà necessario? Quando proprio lo dovranno fare tutti, anche quelli che non vogliono crederci? Ovvero quando sarà, e forse lo è già, troppo tardi.

E qui stanno le novità degli ultimi due anni, di cui si è parlato troppo poco. Sui media finora si è sempre parlato di proiezioni, cioè di scenari di probabilità, come quelle famose dell’IPCC; adesso invece abbiamo i dati diretti, i valori veri ottenuti con miliardi di rilevazioni in tutto il mondo. Il riscaldamento medio registrato nel 2023 è prossimo ad 1,5 °C, il limite da non raggiungere, e nel 2024 di 1,6 °C, limite superato: oltre tutte le peggiori previsioni a certificare che la prima raccomandazione degli accordi di Parigi è già saltata, visto che indicava di stare sotto gli 1,5 °C e soprattutto imponeva di evitare di arrivare ai 2 °C. Ciò che ci si era posti come obiettivo in termini di incremento in realtà è andato nel segno esattamente opposto: se questa tendenza dovesse essere confermata, e non c'è ragione di pensare che non lo sarà già a partire dal 2025 o nei prossimi anni, significa che arriveremo a 2 °C molto velocemente, e quando ciò avverrà il processo di riscaldamento accelererà ulteriormente perché si sarà già innescato un ulteriore meccanismo di auto amplificazione (feedback positivo) a rinforzare i cosiddetti tipping point già superati. Soprattutto nel caso dei ghiacciai delle correnti oceaniche.


Ci stiamo arrivando più velocemente di quanto non pensassimo, le emissioni del 2024 sono aumentate anziché diminuire, dal 2020, cessata la diminuzione apparente causata dal rallentamento delle attività per la pandemia da Covid, le emissioni globali sono aumentate di circa 5 gton di CO2 equivalente.

Ecco perché quel che sta facendo adesso Trump è un'ulteriore colpo che rende inevitabile tutto ciò.

Quando si diceva, soprattutto in Europa e nel nostro paese, che avremmo potuto effettuare la cosiddetta transizione ecologica con una certa lentezza, un passo alla volta, eravamo in errore: ma lo scenario prospettato indica che oggi più la facciamo lentamente più pagheremo un costo alto in termini di adattamento.

Qualcosa è andato storto anche politicamente, soprattutto nel raccontare le urgenze e, come Europa, nel ritrovarci a pagare dei costi che andrebbero ridistribuiti a livello globale. Come ho avuto modo di scrivere in passato il cambiamento climatico è innanzi tutto un problema di ordine sociale, con implicazioni drammatiche per una parte gigantesca dell’umanità, parte che corrisponde soprattutto a coloro i quali non hanno pressoché responsabilità alcuna nella produzione di gas serra. C’è una parte di verità nelle lamentele delle persone che accusano i governi di scaricare sul singolo i costi della transizione.

Anche l'elezione di Trump ci deve far capire che se questo tipo di discorsi non riceve ascolto diventano mainstream, tendenza generale, perché certamente è una narrazione che sta avendo successo, perché è consolatoria, ci dice che in fondo possiamo continuare il nostro modo di vita e cavarcela. In realtà non è così. Anche se l'Europa conta solo per il 12 percento delle emissioni, ciò non impedisce di creare rancori sociali, che si riflettono sulle scelte elettorali, dovuti al dover pagare nonostante un comportamento virtuoso; ma in realtà questo dovrebbe diventare strategico.

Seguendo l’impegno cinese, apparentemente paradossale perché diviso tra convenienza e coscienza del cambiamento climatico, dovremmo prendere atto definitivamente che il processo sta avvenendo, lo dicono le leggi della fisica che non sono ideologiche, leggi che si può persino decidere di ignorare ma che comunque esistono e lavorano. Ed essendo sicuri che quegli scenari si manifesteranno dovremmo farci trovare pronti con l'innovazione tecnologica, la ricerca scientifica, la manifattura europea, le capacità intellettive esclusive del vecchio continente, in modo che, visto che questo cambiamento sta accelerando, in Europa e nel bacino mediterraneo più che altrove, che l’Europa sia allora la frontiera della ricerca, a condurre gli altri a venire da noi per adottare le soluzioni tecnologiche del futuro.


Persino quanto è successo a Los Angeles, per la proporzione, la devastazione, per la perdita in valore economico e in vite umane, e che ha riempito le cronache delle ultime settimane suscitando grandissima impressione, ha un legame indiretto col cambiamento climatico. Ma anche qui è passata l'idea che il riscaldamento climatico non c'entri nulla, a causa di un fraintendimento. Certo, le cause prossime di quello che è accaduto sono umane e molto banali, incidenti nella rete elettrica, fuochi d’artificio, anche piromani probabilmente, sono le cause specifiche di quegli incendi: ma lo scenario generale da capire ci dice che quegli incendi stanno diventando, un po’ dappertutto nel mondo, molto più probabili e molto più gravi, oltre che molto più devastanti, perché non ha piovuto quando avrebbe dovuto piovere per mesi, le piante che erano cresciute abbondantemente nel periodo precedente si sono per lo più seccate e inaridite a causa della siccità successiva, creando molta massa secca, con temperature molto più elevate, con venti più caldi e più potenti. Il riscaldamento climatico non è certamente la causa specifica di quegli incendi, ma è lo scenario globale che rende questi incendi molto più probabili, frequenti e gravi: e questo succederà anche nei prossimi anni quindi a sottolineare la tendenza complessiva che dobbiamo imparare a guardare, non il singolo evento specifico.

A proposito di tendenze complessive, di recente il New York Times ha dedicato un articolo alla situazione climatica del Mediterraneo usando un termine non usuale per quel quotidiano: tragedia. Il Mediterraneo si è scaldato anche più di quanto non prevedessero i modelli, si pensava intorno ai 2 °C ma già si sono registrati anche incrementi di 3 °C di riscaldamento complessivo. Durante le scorse estati nell’area italiana del bacino la temperatura di superficie ha superato i 30-31 °C, peggio di quel che succede nei Caraibi quando inizia lo sbiancamento delle barriere coralline, tanto per dare un'idea della gravità della situazione. E per cominciare ciò fa malissimo alla biodiversità perché favorisce incrementi di popolazioni di meduse, fioriture algali di specie tropicali che vanno a sostituire quelle autoctone. Ma le conseguenze peggiori di un mare così caldo non convengono soprattutto a noi: un mare così caldo è un mare ad altissima energia potenziale, un mare che scarica più vapore acqueo in atmosfera, e turbolento; quando poi dall'Atlantico del nord, e lo abbiamo visto a Valencia e in Romagna, arrivano delle perturbazioni fredde e umide, questo scontro con il Mediterraneo dà origine a precipitazioni violentissime difficili da prevedere, sia in termini spaziali che temporali. E questo tipo di precipitazioni sarà sempre più frequente.

Non è il caso di continuare a parlare di emergenze, men che mai di calamità, sarà meglio usare il termine normalità, una nuova normalità climatica. E da ciò ne consegua la presa di coscienza del necessario adattamento, possiamo fare tante cose che si possono annoverare nel tema dell’adattamento: censire le zone più a rischio di dissesto idrogeologico, realizzare i bacini di laminazione per l'acqua in modo da deviare l'acqua quando in poche ore si concentrano decine se non centinaia di millimetri di pioggia, ridurre il consumo di suolo.  Dobbiamo proteggere il nostro territorio perché la prevenzione costa molto meno del dover poi intervenire sull'emergenza: è stato calcolato con molta precisione che il costo del prevenire un disastro, ridurre cioè la probabilità che accada, è pari ad 1/20 di ciò che si dovrà spendere per affrontare il fatto compiuto. La prevenzione non è un costo ma un risparmio netto, un investimento sicuro per futuro, sottolineando che si parla di costi per investimenti e risparmi che coinvolgono la vita delle persone e le risorse di un territorio. A fronte di mancati investimenti, e quindi di mancate o sbagliate scelte politiche, abbiamo storie di famiglie, di imprenditori, di persone che vedono la loro vita distrutta per sempre.

Altro che la buffonata fantascientifica, ma da molti valutata seriamente, che tanto poi arriva un “Elon Musk” qualunque e salva l’umanità portandoci su Marte. Tecnologia a parte, quando mai noi umani siamo stati in grado di eseguire, nel corso di molti secoli o persino pochi decenni, un costruttivo progetto internazionale (o quantomeno qualcosa di diverso dalla devastazione di civiltà indigene, genocidi o tratta degli schiavi) che abbia richiesto spese immense senza immediato tornaconto? Come possiamo immaginare di poter prosperare su un corpo celeste con il quale non abbiamo nessuna connessione evolutiva? Non abbiamo nemmeno imparato a prenderci cura gli uni degli altri su questo vecchio, accogliente, ospitale pianeta.

Non esiste un pianeta né un piano “B”.

Opporsi alla negazione del tempo

 

Link all'originale con possibilità di zoom

In un paio di occasioni ho avuto modo di ricordare un antico proverbio Navaho che dice, più o meno «noi non ereditiamo la terra dai nostri padri ma la prendiamo in prestito dai nostri figli». A questo aggiungo che, non so dirvi quale gruppo etnico, c’è un antichissimo popolo africano che il passato lo vede davanti a sé, ed è il futuro ad essere, ignoto, alle proprie spalle. Notevoli visioni del tempo. Una visione del mondo comprensiva del tempo e politemporale. Capire come le cose sono diventate così come sono, cosa è scomparso e cosa no, consente di riconoscere la differenza tra l’effimero e l’eterno, così come capire che una città giunge fino a noi anche grazie alle modifiche, talvolta distruttive, e non nonostante. Non esiste una sola versione del mondo e questo lo si capisce meglio invecchiando: forse è per questo che i geologi, che siano professionisti o ricercatori, migliorano e danno il massimo invecchiando maturando gradualmente, al contrario di altri scienziati di eminenti settori che danno il massimo a vent’anni. Convinti, erroneamente, che la Natura sia qualcosa di estraneo, muta ed immutabile rispetto a noi, non riusciamo a comunicare, ad ascoltare i messaggi che continuamente manda.

E continuiamo ad agire come se non ci fosse un domani
Ho di recente letto e recensito il bel libro di Marcia Bjornerud, una geologa. “Il tempo della Terra. Come pensare da geologo può aiutare a salvare il mondo”, e indipendentemente dal sottotitolo, non a caso, ho rafforzato la convinzione, ottimamente e splendidamente raccontato dall’autrice (leggete la recensione!), che davvero la geologia può aiutare a sviluppare la consapevolezza che il passato e il futuro sono importanti tanto quanto il presente. E qualcosa su questo ho già scritto nel mio post precedente, sempre ispirato da questa lettura.

È come si avesse il potere di sfogliare a caso un qualsiasi libro e nonostante ciò si riesca a comprenderne l’intero contenuto, mettendo insieme i pezzi in un continuum esso stesso fatto di tempo. Raccogliere quindi la saggezza e l'intuizione che derivano da un radicale cambiamento di prospettiva. Un'acuta consapevolezza di come il mondo sia fatto da, anzi, fatto di, tempo, la capacità sensoriale che il passato e il futuro siano importanti e presenti tanto quanto, scusate il gioco di parole, il presente. Non ci vuole molto: basta una base, anche essenziale, di pensiero geologico.

Purtroppo, nonostante coltivare questo senso del tempo sia fondamentale, la nostra cultura è afflitta da quella che lei chiama «un'analfabetismo temporale pervasivo, ostinato e pericoloso» insistendo sul momento presente, qui ed ora, imponendo che sia più importante di qualsiasi altro momento nel tempo. E, per dimostrarlo, inizia fin dalla prima pagina con una sezione dove racconta la negazione del tempo. Intere industrie che sono costruite sulla nostra paura di invecchiare o apparire vecchi. Negazionisti del tempo, credenti nel mito della creazione e che non riescono ad accettare che la Terra sia molto più vecchia di quanto insistono che sia. Ma nessuno di noi è immune perché la nostra società è praticamente costruita sul momento presente: politica ed economia, con la fissa dei piani al massimo biennali o dell’anno fiscale, e delle crescite anno su anno, incoraggiano il pensiero a breve termine, senza considerare affatto il valore del processo, dello sviluppo e della maturazione, sminuendo persino il valore dell’istruzione, esempio illustre di investimento a lungo termine. E la tecnologia digitale, che agisce così istantaneamente che indebolisce la nostra presa sulla struttura del tempo. I social! Un diluvio di post, feed, rilanci e tag il cui valore temporale è immediato, notizie non mediate svolte in tempo reale, leggere qualcosa che duri più di cinque minuti diventa addirittura insopportabile.

Wikipedia

Abbiamo bisogno invece di comprendere la Terra più intimamente che mai ora, e per questo una visione del tempo che sia in grado di vedere e integrare il Tempo Profondo della Terra, mentre la cambiamo in modi senza precedenti. E quanto più si conosce la lunga storia della Terra quanto più terrificante appare quel che l’umanità è riuscita a combinare, sia da quando è parte integrante del pianeta, 300.000 anni stando alle conoscenze attuali, sia nel giro di un paio di secoli o poco più (qui un punto di partenza)! Una visione più concreta del tempo, che si allontana e guarda l'intera vita della Terra da una posizione distante, porta naturalmente ad adottare processi decisionale più sani e a lungo termine per il futuro, persino nel caso in cui, cosa aborrita dalla maggioranza dell’umanità, quando non se conosca se e quando ci sarà un tornaconto.

Persino le rappresentazioni comparative, come quella precedente, per quanto corrette, non consentono una vera comprensione del nostro posto nel tempo. Come quelle che rapportano i 4,5 miliardi di anni di storia della Terra a 24 ore, con tutta la storia dell’umanità sviluppatasi nell’ultima frazione di secondo prima della mezzanotte. Una proporzione concettualmente sbagliata e addirittura irresponsabile. Primo perché comunica un certo livello di insignificanza e di perdita di valore che non solo è psicologicamente alienante, ma che ci consente anche di ignorare l’entità dei nostri effetti sul pianeta in quella frazione di secondo, anzi, nonostante quella sola frazione di tempo! Oltre che negare le nostre profonde radici e il nostro legame con la storia della Terra. Cosa accadrà dopo la mezzanotte?

La vera prospettiva è qualcosa che possiamo ottenere solo familiarizzando con la geologia, afferma la Bjornerud, perché «sondare il tempo profondo è probabilmente il più grande contributo della geologia all'umanità».

Nel mio caso, ovviamente, sta predicando ai convertiti. Sono quello che si potrebbe definire un geologo mancato; ma non ho mai perso la passione per la materia e adesso, da pensionato con tanto tempo libero, ho preso a coltivarla di nuovo. C’è sempre qualcosa di magico nell'idea di scansionare una formazione rocciosa o un paesaggio e leggerlo per scoprire quali cose grandiose erano accadute nel suo passato. Bjornerud scrive che «Le rocce non sono nomi, ma verbi» e ancora, bellissimo «Per i geologi ogni affioramento è un portale verso un mondo precedente».

Purtroppo, come ebbe a dire decenni fa un compagno di studi, i geologi, nella migliore delle ipotesi? Ci scambiano per archeologi.

Affrontare la natura del tempo geologico significa quindi affrontare il fatto che l'umanità è incredibilmente fragile. Ciò che ci insegna il pensiero sul Tempo Profondo ci spinge come specie a comprendere le nostre azioni, ad assumerci la responsabilità di esse, a pianificare saggiamente il futuro e ad affrontare la mortalità: non sono questi indicatori di un’età adulta matura?

«Come conducenti inesperti ma troppo sicuri di sé, acceleriamo in paesaggi ed ecosistemi senza avere idea dei loro consolidati schemi di traffico, e poi reagiamo con sorpresa e indignazione quando affrontiamo le sanzioni per aver ignorato le leggi naturali».

Sono state scritte molte biografie geologiche del nostro pianeta, ma quest’interpretazione è decisamente unica.

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Riferimento bibliografico:
Marcia Bjornerud "Timefulness: How Thinking Like a Geologist Can Help Save the World", 2018

Estinzioni, spirito del tempo, immaginario e certezze

In passato ho già trattato di estinzioni di massa, e non molto tempo fa ho anche avuto modo di leggere e recensire il bel libro di Elizabeth Kolbert. 

Vorrei però riprendere alcuni concetti, in relazione soprattutto a quanto ad oggi è ampiamente riconosciuto e legato al tema della cosiddetta sesta estinzione, - proprio come il titolo del libro della Kolbert – relazionandoli con quanto fa parte di temi più sociologici che scientifici. In un post successivo invece, altre considerazioni.

Sappiamo che in un’estinzione di massa il fine cesello della selezione naturale diventa una sorta di scure che elimina di colpo non tanto singole specie, ma interi gruppi di organismi, e fare confronti sarebbe come comparare i morti a causa di una guerra con quelli dovuti a incidenti naturali o malattie. Una comparazione inutile e insensata.

Il tasso di scomparsa delle specie si può misurare, soprattutto per il passato, grazie ai registri fossili: è chiamato tasso di estinzione di fondo, e i paleontologi ci raccontano, ad esempio, che gli anfibi nel Cenozoico, gli ultimi 60 milioni di anni circa, scompaiono, di fondo, al ritmo di una rana o di una salamandra ogni secolo: 0,01 specie/anno (una specie ogni secolo). Al verificarsi di un’estinzione di massa gli equilibri tra evoluzione e cambiamenti ambientali vengono stravolti e accade che nel giro di tempi (geologicamente) brevissimi scompaia il 70 o persino l’80 percento delle specie animali e vegetali, falcidiando non solo singole specie ma interi gruppi di queste. Le modifiche ambientali accelerano così tanto che la biosfera non riesce a stare al passo. D'altra parte invece, calcolare il tasso di speciazione, ovvero di comparsa di nuove specie, è piuttosto arduo perché dipende da una varietà di fattori ambientali e biologici.

Fotogramma dal film "Fantasia"

Quando ero da poco laureato in geologia (1982) e con una scarsa simpatia per la paleontologia, a pochi anni di distanza dal lavoro degli Alvarez - padre e figlio - del 1980, sull’impatto meteoritico che comportò l’estinzione della fine del Mesozoico circa 65 milioni di anni fa, su questa ecatombe se ne diceva di tutto e di più (l’estinzione più famosa e di moda, che eliminò il 76% delle specie marine e continentali, e tra queste, provocò la scomparsa totale dei dinosauri non aviani). Furono tirate fuori persino vecchie idee evolutivamente insostenibili, tipo quella che vedeva i dinosauri grossi, pigri e stupidi, farsi fregare dai furbi, vivaci, a sangue caldo, e persino intelligenti mammiferi. Ricordo perfettamente che il grandissimo Prof. Bruno Accordi, mi parlò, autografandomi il suo libro “Storia della geologia” (del 1984!), di senescenza (sic) delle specie.

Ma trovare qualcosa che li avesse sterminati, così come appariva evidente dalle prove paleontologiche, era difficile. Nessun’altra ipotesi - raffreddamento globale, epidemie virulente, genocidio da parte dei mammiferi che mangiavano le loro uova, allergie mortali (sic) alle piante appena evolutesi – era migliore di quell’apocalittica caduta del meteorite.

A dire il vero di ipotesi extraterrestre ce n’era un’altra: radiazione cosmica letale partita da una supernova esplosa chissà dove, che aveva raggiunto la Terra proprio nel momento in cui i poli magnetici si stavano invertendo, esponendola ai terribili raggi gamma.

Insomma, le idee sulle estinzioni sembrano essere in un certo modo influenzate alle fonti di angoscia esistenziale in voga al momento. Cosa c’è di meglio del passato geologico per proiettare le nostre paure più nascoste? Attenzione però: questo non significa che le ipotesi fatte sulle estinzioni di massa non siano scientifiche, ma il terrore per nuovi tipi di apocalisse alimenta la nostra immaginazione su possibile scenari di cataclismi del passato. Per i più curiosi, andate a vedere come Walt Disney, nel suo “Fantasia”, del 1940, immaginò le cause dell’estinzione dei dinosauri: è istruttivo.

Charles Lyell e Charles Darwin

I grandissimi Charles, Lyell e Darwin, vissuti in piena epoca vittoriana, non chiamavano in causa, e anzi aborrivano, ipotesi di catastrofi geologiche – soprattutto bibliche - non solo per convinzione scientifica, ma anche perché parte dello spirito del tempo, ottimista riguardo alla capacità di progresso scientifico e tecnologico a migliorare le condizioni dell’umanità. Uniformitarismo era il motto del primo e natura non facit saltus del secondo. Se Armageddon fosse stato proiettato allora sarebbe stato un fiasco.

Ma nel 1980 si usciva da poco dalla Guerra Fredda e da decenni di terrore per il cosiddetto olocausto nucleare e fu allora che emerse l’ipotesi di impatto meteoritico: causa di un polveroso sudario di roccia disintegrata e lanciata nella stratosfera, bloccando la fotosintesi e portando alla fame gli abitanti del pianeta. A ricordare molto da vicino quel che l’astronomo Carl Sagan e il chimico dell’atmosfera Paul Crutzen (colui che nel 2002 coniò il termine Antropocene) chiamarono inverno nucleare negli anni Settanta. E l’eruzione del Sant’Elena dello stesso anno ci mise un bel carico.

Ma passano gli anni e con questi cambiano le paure. Nel 1990 fu identificato il cratere dell’impatto catastrofico, Chicxulub, nella penisola dello Yucatan. Il muro di Berlino era caduto l’anno precedente, l’olocausto nucleare non faceva più paura come prima, e allora pian piano si faceva strada una presa di coscienza importante che individuava nelle malefatte sull’ambiente uno scenario di declino dell’umanità. Piogge acide, emissioni solforose provocate da decenni di combustione del carbone, le cui conseguenze erano visibili a tutti, come provato dalla devastazione provocata da questi agenti nelle foreste di mezza Europa. 

Pinatubo, 1991

Ed ecco che una nuova scuola di pensiero si fa strada a spiegare l’estinzione del Cretaceo: gli organismi protetti da guscio delle acque profonde se la cavano meglio di quelli dei bassi fondali, quel che ci si aspetta da un oceano inacidito per colpa dell’acido solforico. E guarda caso nello Yucatan, nelle rocce del cratere, c’erano spessi strati di anidrite, una roccia ricchissima in solfato di zolfo che, se vaporizzato dall’impatto nell’atmosfera avrebbe creato piogge acide corrosive. Nel 1991 un’altra straordinaria coincidenza: nelle Filippine, il vulcano Pinatubo, fa un botto dieci volte più potente del Sant’Elena e immette in atmosfera tanto di quel solfato che la crescita inesorabile e continua delle temperature medie del pianeta si ferma per due anni. Gli immensi volumi di zolfo lanciati dal cratere nello Yucatan avrebbero potuto provocare un raffreddamento ancora maggiore. Quindi fu lo zolfo il fattore cruciale, non la polvere. O no?

Ma i paleontologi non erano d’accordo, tanto per cambiare. Le piogge acide dovrebbero alterare soprattutto gli ecosistemi di acqua dolce. Come spiegare che gli anfibi sensibili ai cambiamenti del chimismo dell’acqua ebbero tassi di sopravvivenza prossimi al 90 percento, molto più alti di quelli che vivevano sulla terraferma, dove solo il 12 percento resistette?

E così i paleontologi più seri iniziarono a pensare che il fallimento di uno qualsiasi dei meccanismi di sterminio proposti per rendere conto dei dettagli dipendesse dal fatto che l’asteroide non fosse stato l’unico agente, un assassino solitario, ma che avesse dato una sorta di colpo di grazia alla biosfera già indebolita da altre ferite mortali.

E da questo punto di vista uno degli agenti letali più citato è il vulcanismo, in particolare le eruzioni che produssero un accumulo di basalti spesso 2 km ed estesi per 500.000 kmq, e rintracciabile nell’India odierna: i cosiddetti Trappi del Deccan. Dopo tutto fenomeni effusivi di questo tipo sono rintracciabili anche per altre estinzioni.

Per decine di migliaia di anni precedenti l’estinzione, le colate laviche rilasciarono enormi quantità di biossido di carbonio, creando un mondo che era già in pericolo di vita; quando arrivò la mazzata dell’asteroide che, come non bastasse, vaporizzò uno spesso strato di calcare iniettando ulteriore gas serra, passato l’effetto immediato di clima gelido dovuto alla coltre di cenere che in atmosfera schermava la radiazione solare (avete mai sentito parlare dell’anno senza estate? Ecco, quello fu una sciocchezza in confronto), il clima si sarebbe trasformato in una sorta di serra asfissiante.

Il carismatico asteroide condivide il palcoscenico con i molto meno affascinanti gas serra.

Per chi volesse approfondire consiglio il libro dell’amico Aldo Piombino “Il meteorite e il vulcano”.

Ciò nonostante, il filone del catastrofismo legalizzato è ancora ricco, e numerosi sono gli studi alla ricerca di prove di crateri da impatto che avrebbero causato estinzioni. Peccato, o per fortuna, che in 30 anni non sia giunto nessun risultato che lo provi.

Ed a causa di certe scuole di pensiero si perde di vista un aspetto essenziale: la storia geologica della Terra insegna che molto spesso le cose possono andare terribilmente storte per ragioni completamente interne al sistema terrestre. 

Abbiamo visto in passato che ci sono le prove di ben cinque estinzioni di massa nella storia tutto sommato recente, sempre geologicamente parlando, della Terra. Rivediamole rapidamente.

  1. Dopo l’esplosione della vita nel Cambriano, ci fu una sfoltita nel tardo Ordoviciano, circa 440 milioni di anni fa (Ma).
  2. Nel Devoniano, circa 365 Ma, una coppia di estinzioni molto vicine nel tempo, quando la vita macroscopica si era trasferita sulla terraferma.
  3. A fine Permiano, 250 Ma, la madre di tutte le estinzioni di massa, che pose fine all’era Paleozoica, cosa già nota a metà del XIX secolo.
  4. Dopo soli 50 milioni di anni dalla precedente, l’evento del tardo Triassico (200 Ma).
  5. Quella vista nei paragrafi precedente, circa 65 Ma, tra Cretaceo e inizio del Terziario (K/T) e che fu, a seconda di cosa si misura, specie, generi o famiglie, la quarta o la quinta in graduatoria.

Tutte hanno numerosi punti in comune e sorprendenti somiglianze, indipendentemente da vittime e circostanze che ovviamente differiscono tra loro.

  • Tutte sono caratterizzate da tassi di estinzione di diversi ordini di grandezza superiori a quello di equilibrio.
  • Tutte portarono a bruschi cambiamenti climatici, incluso l’evento di fine Cretaceo.
  • Tutte sono collegate ad un rapido riscaldamento, ad eccezione dell’evento Devoniano che vide raffreddare i mari tropicali.
  • Tutte portarono a gravi alterazioni del ciclo del carbonio e del suo contenuto in atmosfera, sia a causa di fenomeni vulcanici effusivi estremamente intensi (Permiano, Triassico, Cretaceo) e/o attraverso uno squilibrio tra carbonio sequestrato dalla biosfera e carbonio rilasciato da idrocarburi immagazzinati (Permiano, Triassico, Cretaceo).
  • Tutte comportarono un rapido cambiamento nella chimica degli oceani, compresa la loro acidificazione, che devastò gli organismi che secernono calcite (Permiano, Triassico, Cretaceo) e/o anossia diffusa, con creazione di zone prive di vita (zone morte), con asfissia di quasi tutti, tranne i batteri legati allo zolfo (Ordoviciano, Devoniano, Permiano).
  • Tutte furono seguite da un periodo di tempo – da centinaia di migliaia a milioni di anni – in cui i microbi prosperavano mentre il resto della biosfera lottava per rimettersi in piedi.
  • E, non ultimo, citando ancora una volta l'amico Aldo Piombino, dati recenti indicano che ogni volta è possibile individuare un collegamento tra l'estinzione di massa e la messa in posto di una Large Igneous Province (LIP), come nei già citati Trappi del Deccan.

La sintesi di tutto ciò e il punto più importante è che nessuna delle estinzioni di massa può essere attribuita ad una singola causa. Tutte vedono rapidi cambiamenti in diversi sistemi geologici contemporaneamente, i quali hanno innescato effetti a catena in altri. L’atmosfera non è l’unica protezione sulla nostra testa. Realizzare condizioni che alterino la chimica dell’atmosfera è pericoloso: forze ingovernabili possono uscire dal nulla. Come scrissi tempo fa, la Terra non è soltanto un sasso al Sole!

Se da una parte tutto questo in parte potrebbe rassicurare perché occorre quindi una quasi concomitanza di cause diverse per destabilizzare la biosfera, d’altro canto dovremmo osservare con maggior attenzione che molti di quei fattori negativi li abbiamo già scatenati, tutti insieme: gas serra, disturbi del ciclo del carbonio, acidificazione degli oceani, anossia, ed a loro volta ne innescano altri, aumento delle temperature, innalzamento del livello medio dei mari, fusione dei ghiacci. E altro ancora.

A coloro i quali osservano che, in quest'ultimo caso, manca l'intensa attività vulcanica dovuta ad una novella LIP, faccio notare che in quanto ad emissioni di CO2 riusciamo benissimo a far da soli, senza la spinta del vulcanismo.

Questi venti di cambiamento si diffondono con una rapidità estrema, sotto i nostri occhi, a scale temporali umane, con sconvolgimenti nei cicli biogeochimici di tutti gli ecosistemi, a qualsiasi livello.

Tanto per fornire qualche dettaglio in più, nel 2008 un gruppo di ricercatori della Geological Society of London compilò un elenco di cinque distinti sistemi in cui le attività umane hanno almeno raddoppiato la velocità dei processi geologici.

  • erosione e sedimentazione, in cui gli umani superano tutti i fiumi del mondo di almeno 10 volte;
  • innalzamento del livello dei mari, rimasto vicino allo zero negli ultimi 7.000 anni e che adesso è di circa 30 centimetri al secolo, con un raddoppio previsto entro il 2100;
  • composizione chimica degli oceani. stabile per millenni ma oggi più acida di 0,1 unità di pH rispetto al secolo scorso;
  • tassi di estinzione, da 1.000 a 10.000 volte quelli di base;
  • quantità di biossido di carbonio, che col suo valore attuale di circa 420 ppm, è la più alta di qualsiasi altro periodo degli ultimi 4 milioni di anni, con le emissioni umane che superano quelle di tutti i vulcani del mondo di un fattore 100;


Tornando a noi, la nostra presenza è dovuta all’estinzione cretacea che ha creato una pausa ed ha aperto una nuova strada.

Ma non siamo il culmine trionfale di 3,5 miliardi di anni di evoluzione. La vita sperimenta di continuo, è estremamente inventiva, ma non ha nessuna nozione di progresso. L’ho ribadito diverse volte sul blog.

Se osservassimo la storia della vita sulla Terra considerando solo i microorganismi più semplici, le estinzioni sarebbero a malapena individuabili. Ancora oggi i procarioti, i batteri, costituiscono il 50 percento della biomassa della Terra, almeno. Quando le grandi forme di vita vacillano i microorganismi infinitamente adattabili, con tassi di evoluzione misurabili in mesi anziché in millenni, riaffermano il loro dominio di lunga data. 

Quindi chi sono i leader? Noi o i batteri?

Non siamo alla fine della Natura, ma alla fine della nostra presuntuosa illusione di essere qualcosa al di fuori di essa. I nostri smisurati effetti sul pianeta hanno rimesso saldamente al comando la Natura, con un nuovo insieme di regole tutte da prevedere. E il Tempo Profondo della Terra ci racconta che potrebbe esserci un lungo periodo di capricci biogeochimici prima di tornare ad un nuovo, stabile, equilibrio.


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Riferimento bibliografico:
Marcia Bjornerud "Timefulness: How Thinking Like a Geologist Can Help Save the World", 2018



Comunicare la scienza

 

CC BY-NC-ND-Giacomo Milazzo

Riprendiamo il discorso introdotto nel mio post di fine dicembre per approfondire il tema della comunicazione scientifica e della divulgazione in genere.

Nel 2012, Donald Rumsfeld, ex segretario della Difesa degli USA, prima con Ford e poi con Bush Jr., rispondendo ad una domanda che gli era stata fatta, tentò di giustificare l’assenza di risultati nella ricerca delle famose armi di distruzione di massa in Iraq, in questo modo.

(…) ci sono cose note note; ci sono cose che sappiamo di sapere. Sappiamo anche che ci sono cose note incognite; vale a dire che sappiamo che ci sono alcune cose che non sappiamo. Ma ci sono anche cose note incognite, quelle che non sappiamo di non sapere  (…)[*]


Le incognite note si riferiscono ad esempio a rischi di cui si è a conoscenza, come il sapere che un volo è stato cancellato, alterando un programma di viaggio. Le incognite sconosciute sono rischi che derivano da situazioni così inaspettate che non verrebbero prese in considerazione e che addirittura non rientrano nemmeno nel novero di ciò che avrebbe potuto essere preso in considerazione.

Per quanto riguarda la consapevolezza e la comprensione, gli sconosciuti sconosciuti possono essere paragonati ad altri tipi di problemi in una matrice di questo tipo:

Wikipedia

Ma l’affermazione di Rumsfeld, soltanto apparentemente paradossale, contiene molta più saggezza di quel che appare, come ho avuto modo di trattare in questo mio precedente post.

Ed è strettamente legata al metodo scientifico.

CC BY-NC-ND-Giacomo Milazzo (Annenberg Learner per il diagramma)

Per chiarire tutto ciò, come spero, potremmo prendere spunto dallo stato dell’arte delle conoscenze che oggi gli scienziati hanno sulla composizione del nostro Universo. Decenni di osservazioni, condotte oggi con apparecchiature sofisticatissime, hanno portato a conoscerne, con un elevato grado di certezza, appena il 5 percento circa. Il resto, diviso tra materia ed energia oscure, rappresenta il restante 95 percento circa. Di cosa è fatta la materia oscura? Quali sono la fonte è il tipo di energia che chiamano oscura? Tantissime ipotesi ma sono domande tuttora irrisolte. Man mano però che gli orizzonti della ricerca si allargavano, al diminuire dell’ignoranza, la mancanza di conoscenza e, appunto, l’incertezza di un determinato aspetto, ecco che il metodo scientifico propone nuovi interrogativi.

Arrivare a comprendere di non sapere, porsi nuove domande e, nonostante sia un paradosso, procedendo sulla strada della mancata conoscenza si finisce per saperne più di prima.

Ed è questo paradosso che per primo va spiegato ai non addetti ai lavori: il lavoro della comunità scientifica, che procede mettendo continuamente in discussione i suoi presupposti, e non essendo mai sicura di nulla: una fabbrica di dubbi, come scrivevo tempo fa. Dubbi che genereranno consenso sulle spiegazioni.

Partendo dal non sapere, di fronte ad ogni nuovo interrogativo, soprattutto quando si cerca di fare comunicazione scientifica, è fondamentale saper ammettere di non sapere, dire «non lo so», a maggior ragione quando le tematiche trattate riguardano da vicino temi sociali o relativi alla salute pubblica.

La recente pandemia da coronavirus avrebbe dovuto insegnare molto relativamente a questo modo di procedere, eppure ancora oggi, in diverse occasioni, si assiste al compimento degli stessi errori.

Allora l’incertezza regnava, ad aumentare uno stato di paura già evidente, e le tante discipline scientifiche coinvolte, diversissime tra loro, contribuivano ad alimentare la fretta, da parte di tutti, di avere previsioni, certezze, risultati, di capire cosa fare e cosa sta accadendo, con l’opinione pubblica che dovette familiarizzare in fretta con le figure di scienziati e divulgatori. Il tutto avveniva condividendo dati spesso diversi tra loro e messi a disposizione di tutti, ad un pubblico per lo più privo delle conoscenze necessarie a valutarli o interpretarli, e costruendo un finto consenso scientifico; finto perché basato su qualcosa in corso, che stava accadendo, alimentato anche da un certo voler apparire continuamente in TV o sui social; ognuna delle reti aveva il suo scienziato preferito, con persone che spesso parlavano a titolo personale impedendo di capire esattamente a nome di quale comunità scientifica stessero parlando, e sollevando sconcerto quando le organizzazioni internazionali, a nome delle quali qualcuno avrebbe dovuto esprimersi, smentivano le affermazioni udite poco prima da parte di questi singoli.

Durante quel triste periodo, abbiamo visto inoltre scienziati che litigavano apertamente tra loro in televisione o sui social, o addirittura in entrambi gli ambienti. Migliaia di inutili commenti asincroni rilanciati giorno dopo giorno. Persone che appartenevano alla comunità scientifica che comunicavano se stessi prima di qualsivoglia contenuto scientifico; senza nemmeno immaginare, o pur sapendolo rimuovendone gli effetti deleteri che ciò poteva avere nel pubblico che avevano davanti. Per non parlare di onnipresenti persone di scienza che arrivavano ad abbassarsi al livello di chi li denigrava rispondendo con insulti ad insulti.

Esporsi pubblicamente non è obbligatorio, soprattutto sapendo che le dinamiche televisive sono il più delle volte incompatibili con un certo modo di fare comunicazione della scienza, l’unico possibile, ovvero quello rigoroso ed attendibile. Che dire poi degli scienziati che accettano il confronto con personaggi che esprimono posizioni antiscientifiche o pseudoscientifiche, che nel nome del diritto d’opinione e del libero pensiero, fanno affermazioni scientificamente false e pericolose? O dei montaggi ad arte che fanno di un estratto manipolato di un’intervista di pochi minuti, inserita tra chi prima e dopo lo smentisce, quasi sempre senza nessun titolo per farlo? La comunicazione scientifica in televisione va preparata, con una scaletta ben precisa. Non si deve mai improvvisare. È importantissimo spiegare alla gente quello che non si sa, oppure quello che prima era conosciuto e che adesso sappiamo,  meglio ancora raccontare quanto prima nemmeno si sapeva di non sapere. Proprio come accaduto con la conoscenza della composizione dell’Universo ad oggi.  

Raccontare quel cambiamento di paradigma di cui parlava Kuhn, il cambiamento di modello che sta alla base di una spiegazione scientifica.

CC BY-NC-ND-Giacomo Milazzo (fonte web per gli schemi)

Un esempio, con riferimento all’immagine precedente. Con le informazioni a nostra disposizione fino a qualche decennio fa, furono messi insieme i frammenti, non solo fossili ma soprattutto di conoscenza, e in modo fin troppo facile fu ricostruita la storia dell’evoluzione che ha condotto fino a noi, in maniera lineare, progressiva, come avesse, cosa che al nostro cervello piace molto, un fine.

Oggi invece, all’aumentare delle conoscenze, la ricostruiamo come una filogenesi ramificata, un grande cespuglio pieno di specie di nuova scoperte, fino alla straordinaria scoperta della moderna paleoantropologia: fino a 40.000 anni fa su questo pianeta convivano cinque specie umane diverse e la nostra era solo una di queste.  

Il modello attuale, dove l’evoluzione è una ramificazione, un procedere per diversificazione, esplorando nicchie ecologiche diverse, muovendosi attraverso derive, spostamenti o associazioni deriva sempre da quel mosaico di frammenti illustrati in basso nella figura precedente, ma è un cambiamento di modello radicale che fornisce più informazioni, molto più ricco di quello lineare precedente, in grado di spiegare altre correlazioni, di generare nuove domande adatte a progredire, in poche parole, riducendo incertezza e ignoranza. Il progresso scientifico. Pur restando domande irrisolte, per fortuna.

Per chi volesse approfondire l’argomento oltre al post citato nel paragrafo precedente, può far riferimento a questo.

CC BY-NC-ND-Giacomo Milazzo

Nel post precedente ho citato Popper. Vale la pena riprenderlo.

Il fondatore della filosofia della scienza diceva che esistono due tipi di ignoranza. Quella cattiva, quella che oggi regna sovrana sui social, impregnati di ignoranza criminale e prepotente, di chi crede di avere i numeri del sapere e spesso non sa nemmeno risolvere un semplice calcolo, di chi è pieno di certezze e quindi è un ignorante vero, nel senso che con tutte le sue supponenza e presunzione, non solo in definitiva non sa nulla ma contribuisce a rendere tossico e pericoloso il clima di disinformazione che si crea. 

In secondo luogo c’è invece l'ignoranza buona,  generativa come diceva Popper. L'ignoranza di chi sa di non sapere, come ebbe a dire Socrate migliaia di anni fa, e che quindi esercita il dubbio, pone e si pone domande, aggiunge dati, mette a confronto ipotesi ed è pronto a cambiare idea, aspetto fondamentale, perché un errore, un’anomalia, una difformità nei risultati di un esperimento, sono tutte cose che generano spesso nuove scoperte o suggeriscono nuove conoscenze.

Anche coloro i quali appartengono al mondo della scienza e soprattutto nel caso vogliano fare comunicazione scientifica devono evitare di mettersi dentro una bolla. Fortunatamente chi conosce veramente, ha in genere sempre voglia di condividerlo, un po’ a causa di una sorta di narcisismo benevolo e un po’ perché trattenere per se la conoscenza non ha molto senso, a meno che non si tratti di mettere a rischio segreti industriali o militari.

Ad aggravare l’aspetto negativo dell’ignoranza cattiva, nel nostro paese, ci si mette la situazione disastrosa in termini di capacità cognitive minime, come denunciato dall’ultimo rapporto del Censis, e un dilagare di analfabetismo funzionale spaventoso. Per quanto moltissime persone di scienza facciano attivamente divulgazione il numero di persone che frequentano eventi in qualche modo legati al mondo scientifico, come ad esempio i Festival della Scienza, la Giornata del Ricercatore, che vanno a vedere mostre o frequentano i musei, è tragicamente basso: meno di un milione di persone, più o meno sempre gli stessi.

Sono molto frequenti, infatti, i resoconti di eventi dedicati alla divulgazione che raccontano di come le persone presenti sono normalmente già perfettamente convinte di quello che si va raccontando, si va dunque predicando ai convertiti. Si parla ad una fetta di italiani che messi insieme non supererebbero lo sbarramento minimo necessario per fare un partito che possa essere rappresentato in Parlamento. 

CC BY-NC-ND-Giacomo Milazzo – (Telmo Pievani rielaborazione)

Dopo la pandemia il filosofo della scienza Telmo Pievani ha raccolto in un libro una sorta di decalogo dei punti da seguire quando si fa divulgazione scientifica, per indicare soprattutto gli errori da non commettere mai. Ne riporto qui un breve estratto rimandando alla fine del post per chi volesse approfondire.

Comunicare i processi oltre che i contenuti è fondamentale, occorre far capire come si è arrivati ad ottenere determinati modelli, visioni del mondo, prodotti finiti o teorie consolidate, quasi come fosse un contrappasso a ciò che porta a smontare le fake news pezzo per pezzo per dimostrarne la falsità, come visto nel mio precedente post. Occorre fare sempre molta attenzione a fare delle previsioni che non siano sostenute da contenuti scientifici che godano di ampio consenso. «E’ difficile fare delle previsioni, soprattutto sul futuro» si dice abbia detto ironicamente Niels Bohr, uno dei padri fondatori della moderna fisica atomica; anche se pare sia apocrifa questa affermazione apre comunque a degli scenari da non sottovalutare affatto: ironicamente, è opportuno fare previsioni solo su quel che accadrà tra dozzine di miliardi di anni, quando il cosmo sarà buio e freddo, e soprattutto senza nessuno a controllare la qualità della previsione stessa.

Attenzione quindi a dire che qualcosa è certo e soprattutto, quando si comunicano i contenuti scientifici ciò non va fatto usando argomenti d’autorità, è sempre controproducente; e nessun argomento va nascosto.

Ma la cosa fondamentale è spiegare cosa sia il consenso scientifico, un argomento molto complesso della filosofia della scienza, che ho cercato di raccontare in diversi post. Persino gli scienziati a volte faticano a capirlo completamente, o ad accettarlo su alcune evidenze che sono tali, come si dice, al di là di ogni ragionevole dubbio, quali ad esempio il cambiamento climatico attuale che ha origine antropica, che non c’è connessione alcuna tra i vaccini e l'autismo, che l'evoluzione è dovuta a un processo chiamato selezione naturale e a tanti altri ancora.

Affermare che su queste o altre posizioni c'è consenso scientifico significa che non si torna più indietro, un lungo lavoro di controllo reciproco delle evidenze, che porta a un risultato che assume l’aspetto di una sorta di pietra di fondamento a partire dalla quale poi si cerca altro, in definitiva la tesi su cui sono fondate le pubblicazioni scientifiche, dando per assodato qualcosa si procede da lì per indagare e capire dell’altro. Una conoscenza di sfondo, qualcosa che pur non essendo certezza assoluta, ha comunque un’altissima probabilità che sia certa, all’atto pratico come lo fosse. E a partire da questa ci si pone nuove domande che porteranno a nuove scoperte, che magari rimetteranno in discussione l’acquisito con una proporzionalità inversa tra grado di consenso e possibilità d’errore, in costante aggiornamento. Ecco perché il consenso scientifico va spiegato. A dimostrare inoltre che nella scienza non ci sono posizioni relative, non è vero che in qualsiasi momento chiunque possa mettere in discussione tutto ciò che è stato consolidato finora. Anzi, ironicamente l’argomento è utilizzato per sostenere il contrario, come quel paleontologo che disse «sono disposto a confutare la teoria dell’evoluzione se qualcuno mi trovasse un fossile di coniglio in rocce del precambriano…». Di questa assenza di relativismo ne ho scritto in questa serie di tre post.

Uno dei problemi principali nel fare divulgazione e comunicazione scientifica oggi è dato dal grandissimo cambiamento che c’è stato nella velocità di fruizione e di attenzione degli interlocutori: primo fra tutti l’incapacità di stare attenti per più di pochi minuti, le difficoltà nel leggere brani che siano più di una mezza paginetta. Ma siamo sicuri che vada assecondata?

Proprio per non sottostare a questo tipo di limiti vanno diffondendosi, e con successo, modelli di comunicazione basati anche su contenuti multimediali lunghi, anche di un’ora, che poi è la durata di una normale lezione.

Alcuni influencer scientifici di grandissimo successo, inoltre, lasciano un po’ perplessi. Danno spesso l’idea che vogliano comunicare più se stessi che non il contenuto scientifico. Persone che si presentano con strane acconciature, ad attrarre attenzione, che usano espressioni dialettali, ambientazioni strane ed un continuo raccomandare a mettere like, ad iscriversi ai canali, a sostenerli. La logica dei social lo richiede ma è compatibile con la comunicazione della scienza questa cosa per cui il divulgatore sopravvive solo se cliccato, se rilanciato, interruzioni pubblicitarie lucrative comprese?

Un divulgatore dovrebbe avere un aspetto istituzionale, occorre potersi fidare di quello che racconta, va distinto se lo fanno affinché ricevano questi like o perché c'è una storia scientifica importante da raccontare?

CC – BY 4.0 Javatpoint.com

E come vanno gestiti commenti totalmente anarchici che imperversano rispetto a chiunque stia sui social? Li banniamo tutti, li cancelliamo, blocchiamo le utenze? Non è democratico, direbbe più di qualcuno. Ne ho scritto nel post precedente: esiste la libertà di mentire?

Resta comunque intollerabile il fatto che un divulgatore serio impieghi tempo e fatica per produrre o scrivere qualcosa che riduca la nostra ignoranza, per farci comprendere cose che ci riguardano da vicino, e poi debba stare ore a perdere tempo, più di quel che ha impiegato a produrre i contenuti, a rispondere al primo idiota che passa, al provocatore, al troll, all’hater. Avete presente i commenti, tristemente maggioritari, di gente che frequenta pagine di divulgazione scientifica al solo scopo di negare persino l’evidenza, al solo scopo, come amo dire, di farsi insultare?

E che contributo dà alla correttezza della comunicazione scientifica rispondere a degli stolti ignoranti che fanno obiezioni prive di senso?

Dobbiamo proprio essere democratici fino a questo punto?

Non credo.

Nella sesta ed ultima edizione (1872) de "L'origine delle specie", Charles Dawin si impegnò, con una profonda revisione, a renderla più comprensibile a un pubblico vasto e integrata con un nuovo capitolo di risposte argomentate e dettagliate alle critiche raccolte nei dodici anni trascorsi dalla prima edizione.

Con una clausola restrittiva, all'inizio del settimo capitolo, Darwin si dichiarò disposto a rispondere a tutte le obiezioni, purché l'interlocutore sia in buona fede e si sia preso la briga di comprendere l'argomento.

Sulla base di questo criterio, molto ragionevole, oggi non si dovrebbe rispondere a gran parte delle presunte "obiezioni" degi antievoluzionisti e, per estensione, dei negazionisti e degli scettici radicali.

L’esistenza in parallelo di social e televisione ha creato una barriera apparentemente invalicabile. C’è chi si informa su entrambe le piattaforme e chi lo fa sull’una o sull’altra, con i più giovani e i giovanissimi con una spiccata preferenza per i social. Sempre che sia informazione ciò di cui fruiscono.

Si rischia, esempio paradossale, di andare in TV a raccontare che vivere fino a 100 anni non sia necessariamente un valore evolutivo, con i rischi di demenza, malattie croniche, problematiche sociali e così via, e si finisce per urtare la suscettibilità del pubblico televisivo che ascolta trasmissioni scientifiche e che, mediamente, è ultrasessantenne! Avete letto bene, ultrasessantenne.

Un difficile compito quello di mescolare linguaggi per non predicare ai convertiti, per fare in modo che cresca la fiducia, che va riposta nella scienza per molte ragioni, alcune delle quali diverse da quanto normalmente si pensa. Come ho avuto modo di dire in passato, è il processo di apprendimento continuo che caratterizza la scienza, la disamina collettiva e le trasformazioni che subisce nel tempo, che la rendono degna di fiducia più di qualsiasi altro ambito. Il confronto sui dati, l’evidenza empirica che genera il consenso intorno ai risultati che, comunque, sono rivedibili. E soprattutto un messaggio collettivo che arriva, espresso da qualcuno che parli a nome di autorità.

Purtroppo in Italia manca un’autorità centrale che parli a nome dell’intera comunità scientifica, come accade ad esempio in Gran Bretagna con la storica Royal Society inglese (la più antica istituzione del genere, fondata nel 1660, The President, Council, and Fellows of the Royal Society of London for Improving Natural Knowledge), e questo comporta spesso che ogni scienziato parli a titolo personale su temi complessi, con uno spettro di visioni differenti che genera confusione e sfiducia.

Tornando ancora una volta agli insegnamenti che dovremmo trarre dagli anni della pandemia, già allora furono condotte indagini da società specializzate nel monitoraggio della percezione pubblica della scienza, ed attestarono che la fiducia nei confronti della comunità scientifica si abbassava giorno dopo giorno, calando bruscamente tra il primo periodo di lockdown e il successivo, un anno dopo. Durante la primavera 2020 la popolazione guardava alla scienza e agli scienziati tutto sommato con fiducia e speranza, ma dopo dodici mesi prevalsero sfiducia e confusione. La causa stava nella contraddittorietà dei messaggi provenienti dalla comunità scientifica.

Confusione spesso alimentata in malafede, scienziati con visioni differenti, evidenziando più i disaccordi, che fa più spettacolo, che i punti di accordo: una scienza divisa, non porta che danni e disaffezione.

In diverse occasioni ho scritto che la politica deve ascoltare la scienza per valutare e prendere decisioni, assumendosene la responsabilità. Va preteso che i politici ascoltino la scienza, occorre deprecare l’insufficiente cultura scientifica media, soprattutto quella nostrana, insegnare di più la scienza fin dalle elementari. Una pandemia ha messo la scienza in prima pagina tutti i giorni per anni, dando agli scienziati l’occasione di spiegare la scienza e il suo metodo, con una platea mondiale a disposizione: ciò nonostante è stata sprecata, comunicando in modo sbagliato e scomposto, con risultati disastrosi e deleteri sulla percezione pubblica della scienza, soprattutto in Italia. Paese il nostro, forse assuefatto a certe situazioni, se si ripensa ad esempio anche a quanto accadde, in termini di comunicazione scientifica, nei mesi che precedettero il terremoto che colpì L’Aquila nel 2009.

La comunità scientifica dovrebbe riflettere sui suoi errori di comunicazione uscendo dalla bolla.

Dieci errori di comunicazione della scienza che sarebbe meglio non rifare[1]

1) Non solo prodotti, ma processi

Quando si comunica la scienza non ci si deve limitare a sciorinare i risultati, i prodotti, i dati, i numeri. Sono essenziali, ma cambiano nel corso del tempo, si accumulano e vanno aggiornati. Ancor più importante è spiegare come si arriva a quei risultati, perché sono affidabili ed entro quali limiti. Bisogna raccontare anche i processi che hanno portato alla genesi di determinati risultati, e come questi processi siano stati validati.

2) Certezze pronte all’uso? No, grazie

La scienza ha da sempre a che fare con l'incertezza, con ipotesi esplicative più o meno probabili, sulla base del confronto con i dati in costante aggiornamento. Per arrivare a un consenso scientifico valido oltre ogni ragionevole dubbio, su una certa spiegazione, occorrono tempo e verifiche. Quindi le richieste fatte agli esperti, dai media e dalla politica, di fornire certezze pronte all'uso non vanno assecondate, persino in condizioni di emergenza e di urgenza sociale perché denotano una visione strumentale della scienza. Pur tuttavia, come scrivo nel paragrafo “Un esempio dal passato” di questo mio post, a volte prendere posizioni è davvero arduo.

3) Previsioni? No, grazie

Per motivi analoghi vanno respinte al mittente anche le richieste di fare previsioni scientifiche precise sull'andamento di un fenomeno, quando non si hanno dati a sufficienza, e soprattutto se la richiesta è motivata da ansia sociale o dalla fretta della politica di delegare ad altri le responsabilità delle decisioni. Al massimo è possibile fare delle proiezioni, dipingere scenari, cioè traiettorie possibili del sistema. I contenuti della scienza sono spesso controintuitivi soprattutto quando riguardano statistiche e probabilità. Occorre saper trovare la giusta narrazione senza semplificare troppo.

4) Le verità assolute le detengono i talebani

Gli scienziati che hanno la responsabilità di intervenire sui mezzi di comunicazione di massa non dovrebbero mai atteggiarsi a depositari della verità oggettiva, una volta per tutte, da elargire paternalisticamente al popolo;  devono invece spiegare le loro ragioni, argomentare, chiarire i meccanismi di un certo fenomeno, raccontare diverse ipotesi e scuole a confronto, senza nascondere, laddove ve ne siano, i margini di incertezza. Se un interlocutore punta a buttarla in caciara contestando i dati scientifici consolidati sulla base di sciocchezze senza fondamento, è inutile mettersi sullo stesso piano. L'interlocutore ideologicamente convinto non cambierà comunque idea, ma forse lo farà una parte del pubblico che sta assistendo. 

5) Quando si comunica, anche la postura conta

Imporre il proprio punto di vista sulla base di un argomento di autorità (io so’ io e voi nun sete un *****), oltre a non essere efficace in termini di convincimento, è in linea teorica una negazione del metodo scientifico stesso, che nasce proprio dal rifiuto di qualsiasi autorità precostituita. Far valere le proprie competenze oltre che l’asimmetria fra le proprie competenze quelle di altri interlocutori in un dibattito, è diverso che imporsi per autorità; nessuno nella scienza deve pretendere di avere ragione sulla base del proprio status, ma deve invece far prevalere le proprie idee mostrandone la validità e le evidenze a favore.

6) Il dissenso è il sale della scienza

Nella scienza qualsiasi dissenso va ascoltato, purché argomentato razionalmente e soprattutto se portatore di nuove evidenze empiriche, perché può contribuire alla critica e alla crescita della conoscenza. Quindi è bene, ove possibile, concedere il beneficio del dubbio, smontare a posteriori e non rifiutare a priori persino le obiezioni che già a prima vista appaiono prive di fondamento. Occorre mostrare apertura alla discussione razionale che rispetta lo spirito autentico dell'approccio scientifico.

7) Nessuno scienziato è onnisciente

Ogni scienziato, qualunque sia il suo ambito di studio, conosce bene il proprio campo di studi ed è mediamente ignorante su quello degli altri, soprattutto oggi che la ricerca scientifica ha migliaia di diramazioni e specializzazioni. Inoltre, come abbiamo visto, ci si accorge costantemente di quanto non si sapeva persino nel proprio campo. Il suo mestiere ha a che fare con l'ignoranza, un'ignoranza colta e generativa, cioè il sapere di non sapere da cui discende ogni impulso di ricerca. Quando si comunica occorre essere consci dei propri margini di ignoranza prima di dare degli ignoranti agli altri. Fare i tuttologi è pericoloso, soprattutto in quest'epoca in cui ogni nostro respiro sui media viene registrato e immortalato per sempre sulla rete. A fronte di una domanda giornalistica che non riguarda le proprie competenze rispondere non lo so, o chiedere di porla ad altri, non è una vergogna.

8) Nessun tabù

Nella comunicazione della scienza la trasparenza è un valore essenziale, non esistono argomenti da censurare preventivamente, per paura che non siano capiti. Ancora una volta la pandemia ci ha lasciato un insegnamento: sarebbe stato meglio fin dall'inizio raccontare all'opinione pubblica che i virus vengono normalmente ingegnerizzati e potenziati in laboratorio, spiegando che ciò viene fatto per studiare in anticipo le possibili mutazioni letali degli agenti patogeni, raccontando che su queste ricerche esiste anche un dibattito bioetico circa la loro opportunità e pericolosità. Il tutto proprio per far capire che in base alle evidenze, il virus Sars-CoV-2, ha un’origine del tutto naturale. Far capire all'opinione pubblica che non c'era nulla da nascondere pur ammettendo che alcuni scienziati continuano ad avere i loro dubbi personali sulle origini di questo virus. 

9) I dibattiti scientifici si fanno nelle sedi opportune

Le discussioni scientifiche, anche su temi controversi, seguono regole precise e codificate. Tali procedure per quanto imperfette sono le migliori disponibili per costruire un consenso intersoggettivo sui risultati della ricerca scientifica. Raramente una controversia scientifica è polarizzata attorno a due posizioni contrapposte, radicalmente distinte, quelle tanto amate dai conduttori televisivi. Di solito, nella scienza prevalgono le sfumature di interpretazione su dati condivisi, i dibattiti scientifici non possono essere simulati o scimmiottati o  ancor meno sintetizzati nei talk show televisivi, né sui social network, perché quelli sono contesti in cui vivono regole di dibattito differenti e incompatibili con la scienza. Sono contesti di discussione non sovrapponibili. Assistere ad un confronto tra scienziati, che notoriamente la pensano diversamente, invitati apposta sperando nella lite o nella sovrapposizione di voci, è fuorviante: così facendo sembra che scienza e politica siano in alternativa l'una all’altra o, peggio ancora, che la scienza sia divisa su tutto. Meglio rifiutarsi di partecipare.

10) Spiegare il consenso scientifico

È il punto più difficile, ma forse il più importante. Un dibattito che mette a confronto, uno contro uno, da un lato uno scienziato che rappresenta il consenso scientifico diffuso su un dato problema, e che quindi parla a nome di una comunità scientifica formata da centinaia se non migliaia di scienziati, e dall’altro uno scienziato eterodosso in preda a smanie di malinteso anticonformismo è, per definizione, fuorviante e ingannevole, perché sottende una rappresentazione inesatta delle posizioni in gioco. Quando si fa comunicazione della scienza sarebbe opportuno rimarcare sempre lo stato del consenso scientifico prevalente, su un certo argomento. Per questo è importante che nel dibattito pubblico, oltre ai punti di vista dei singoli scienziati, ci sia anche una voce istituzionale, autorevole, pubblica e indipendente, deputata ad informare i cittadini sullo stato dell'arte delle conoscenze scientifiche su un certo tema. La scienza non è opinionismo, e gli scienziati non devono mai parlare sempre e solo a titolo personale generando confusione nell'opinione pubblica. Non si tratta di ridurre la comunicazione ad una sola fonte né di censurare alcunché, cosa comunque impossibile nella comunità scientifica, ma di dare una rappresentazione istituzionale al consenso scientifico.



[1] Versione ridotta, rivista e aggiornata da “Comunicare la scienza dopo la pandemia: un decalogo”, di Telmo Pievani, 2021, Almanacco della Scienza in «MicroMega» 6/2021, pp. 133-141
[*] Anche se spesso attribuite al discorso tenuto da Donald Rumsfeld nel 2002, queste citazioni risalgono a diversi anni prima, alla prefazione di un libro di Robert M. Hazen, "Perché i buchi neri non sono neri?", scritto nel 1997.