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Considerazioni sull'evoluzione umana


Introduzione
Lo so, sto un po’ in fissa con questa cosa, ma continuo a trovare documentazione aggiornata che insiste nel riportare quest’immagine, persino in un libro di testo per la scuola media edito soltanto un paio d’anni fa! Insomma, va bene che si fa fatica ad accettare quanto la moderna paleoantropologia, la genetica molecolare e/o l’archeologia ci raccontano da meno di dieci anni, va bene capire la fatica di riscrivere quanto fino a poco fa si considerava accettabile, ma è proprio questo uno dei ruoli della scienza: rivedersi. Per quanto riguarda la fissa suddetta qui, ma soprattutto qui, potrete trovare altri post sull’argomento.

Schema di classificazione delle catarrine esistenti (in inglese ape e monkey indicano rispettivamente primati di grandi dimensioni, come i gorilla o gli scimpanzè, e le piccole scimmie) - Science, 2010

L'immagine dell'evoluzione umana rappresentata in quel modo lineare, progressivo, in cui c'è un nostro presunto antenato molto simile a una scimmia che si trasforma gradualmente e lentamente in un essere umano, è solo una ricostruzione semplicistica che vede sempre come culmine all'estrema destra di questa carrellata di nostri parenti un Homo sapiens, tra l’altro sempre un maschio bianco; un’icona considerata all'apice della storia umana. Si fa fatica ad accettare che sia sbagliata perché quella sbagliata è un'immagine che ci gratifica, affascina, colpisce e consola. La grande iconografia della speranza umana che quella è la storia, la giusta conclusione del percorso che, necessariamente, doveva condurre fino a noi. E soprattutto è un modello semplicissimo, persino i bambini lo capiscono: poche idee chiare e dirette…ma sbagliate!

Rappresentazione alternativa alla precedente

Più tentativi, più successo
Sbagliate perché quello che sappiamo oggi dell'evoluzione è quanto rappresentato nell’immagine seguente, parte di un articolo di Terry Harrison pubblicato sul numero 327 di “Science” nel febbraio del 2010. L’immagine rappresenta schematicamente le relazioni tra ominoidi (ominidi o scimmie) in prospettiva temporale, a partire dalle primissime scimmie primitive, agli inizi del Miocene, passando dalla biforcazione avvenuta circa 6 milioni di anni fa, data della comparsa dell’antenato comune tra i  generi che hanno portato fino ad Homo sapiens e gli altri rappresentanti degli ominidi, ovvero scimpanzè, oranghi, bonobi e forse anche i gibboni. Le barre grigie continue rappresentano l'intervallo di tempo noto di ciascun genere, sottili linee scure sono relazioni dedotte tra i generi e sottili linee tratteggiate con un punto interrogativo denotano relazioni incerte.

Dentro quella fascetta degli ominini comparsa meno di due milioni di anni fa c’è tutta la storia evolutiva che ha portato fino ad Homo sapiens, ma ci sono anche gli altri Homo, e poco prima, in termini geologici, c’erano ad esempio gli australopitechi come la famosissima Lucy, nella ricostruzione qui a fianco.






Schema relazionale tra Hominoidea in prospettiva temporale - Science, 2010

Schema evolutivo e relazioni delle forme preumane (arancione) ed umane (azzurro) - Pievani, 2019

Un cespuglio intricato 
Si osservi invece il cespuglio di forme dell’immagine precedente: un modello che ne evidenzia la loro ramificazione e che rappresenta le relazioni, le parentele tra queste. In basso a destra gli appunti in proposito presenti su uno dei quaderni di Charles Darwin: la straordinaria intuizione!

Una storia lunga e complessa e andando dentro quelle fascette colorate, che rappresentano generi, ci sono quindi complessi di specie diverse, potete apprezzarne la quantità. Moltissime sono dei vicoli ciechi che ci hanno preceduto. Ominini: già, siamo diventati una sottofamiglia di questo cespuglio di forme che si sono diversificate molto recentemente, sempre in termini geologici. E quanti punti interrogativi, perché non abbiamo informazioni sufficienti, perché non riusciamo a ricostruire molti rapporti di parentela in ciò che viene prima di Homo sapiens. Ma è certo che siamo parte di un cespuglio ramificato con oltre venti specie diverse: non siamo mai stati soli, la nostra è una storia plurale.

Adesso consideriamo quest’altra rappresentazione, col tempo che passa in verticale e qualche dettaglio in più. La linea ondulata nera rappresenta un limite evolutivo tra primati preumani ed umani: da quel momento in poi si assiste ad una continua e progressiva crescita delle dimensioni del cervello man mano che procede l’evoluzione delle varie specie.

Pievani, 2019

In base alle ultime ricerche siamo comparsi in Africa 200.000 anni fa, forse 300.000, una specie giovane che ha appena iniziato la propria storia evolutiva. Ma ecco la scoperta più sconvolgente di questi ultimi anni, talmente sorprendente che molti scienziati faticano ancora a interiorizzarla, inaspettata com’è.

Se avessimo potuto viaggiare sulla Terra, tra Africa e Asia, 50.000 anni fa, un battito di ciglia rispetto al tempo geologico profondo, il tempo necessario a formare uno strato sottile di roccia sedimentaria, avremmo incontrato non una ma ben cinque specie umane. Se la storia dell’evoluzione umana degli ultimi due milioni di anni fosse rapportata a 24 ore noi saremmo apparsi da un paio d’ore! Ma non da soli. La Terra era già abitata da più forme umane, diverse tra loro, specie cugine, ma con storie ambientali molto diverse a creare una sorta di biodiversità umana.

Nel cespuglio lussureggiante degli ominini si scopre inoltre che specie ritenute sequenziali hanno in realtà avuto lunghissimi periodi di evoluzione parallela, in altre parole di convivenza sullo stesso pianeta e magari negli stessi territori, per centinaia di migliaia di anni.

Le nozioni monolitiche di “uomo primitivo” e di “ambiente ancestrale” perdono di significato: non vi è traccia né di una specie unica né di un ambiente ancestrale omogeneo.

Inconcepibile? Diamo per scontato di essere gli unici umani del pianeta, ci sentiamo molto orgogliosi guardando un gorilla allo zoo negli occhi, accettiamo il fatto che possa essere un nostro cugino stretto ma un retropensiero ci ricorda immediatamente che no! siamo diversi, noi umani, loro un’altra cosa. La solitudine della nostra storia è un’illusione da un punto di vista evoluzionistico, e nell’ultimo tratto del nostro percorso ne siamo stati la causa, perché il primo evento di estinzione della biodiversità umana, e non solo, è stato provocato da Homo sapiens che, in qualche modo, non necessariamente violento, ma soprattutto per lenta sostituzione come avvenuto con i Neandertal, si è liberato dei parenti, estinguendoli, in un arco di tempo che probabilmente va dai 30.000 ai 12.000 anni fa: vicinissimi dunque alla soglia della storia che si studia a scuola, vicinissimi alla comparsa delle prime civiltà, ancora più vicine alla cosiddetta rivoluzione neolitica, con la comparsa dell’agricoltura e della domesticazione di specie animali.  Gli ultimi Neandertal si estinguevano poche migliaia di anni fa.

Direttrici della prima ondata migratoria delle specie umane fuori dall’Africa
(Istituto Geografico De Agostini)

Out of Africa!
Ma facciamo un passo indietro e passiamo dal tempo allo spazio.

A partire da circa 2 milioni di anni fa le specie preumane africane iniziano a produrre un comportamento anomalo mai visto prima e che probabilmente è proprio ciò che ci ha reso umani: migrare, spostare il nostro areale di distribuzione, a differenza dalle scimmie antropomorfe abituate a nascere in un posto ed a restarci. La mobilità è una caratteristica fondamentale delle specie umane, quale miglior prova l’attuale mondo iperglobalizzato? La mappa precedente, realizzata con la collaborazione del prestigioso Istituto Geografico De Agostini di Novara, illustra la prima grande diaspora dell’umanità, la cosiddetta Out of Africa 1, iniziata circa due milioni di anni fa.

Nella mappa è possibile osservare come siano stati ricostruiti anche i profili delle linee di costa nei periodi glaciali, coincidenti con abbassamenti anche notevoli del livello medio dei mari protrattisi per lunghi periodi: Africa ed Asia erano agganciate in un unico grande continente, e quest’ultima, laddove ora c’è il mare dello stretto di Bering, era collegata alle Americhe attraverso la Beringia, da cui prende il nome, un istmo di terra emersa. Era quindi possibile muoversi senza incontrare ostacoli dal sud Africa al sud America.

L’instabilità ecologica e i cambiamenti climatici sono stati le cause principali che hanno spinto i nostri antenati a spostarsi, unitamente alle enormi capacità di adattamento ad ambienti diversi con grandissima flessibilità, una plasticità adattativa che, se da una parte ha fatto la nostra fortuna, dall’altra potrebbe ribaltarsi a nostro sfavore visto che, come ha detto qualcuno, siamo diventati una specie cosmopolita invasiva: abbiamo occupato tutti gli ecosistemi possibili, persino quelli più estremi e meno ospitali.

Impossibile? Ipotizziamo un avanzamento di appena 10 chilometri ogni secolo: in 10.000 anni, anche se la densità demografica di stimata era di un individuo ogni 10 chilometri quadrati, gli appartenenti ad una determinata specie avrebbero potuto coprire una distanza di 1.000 chilometri. Con questi valori è semplice constatare che, nei 200.000 trascorsi dalla comparsa delle prime forme di Homo sapiens in Africa centrale, ai primi ritrovamenti di ominini in Asia orientale si può ipotizzare uno spostamento potenziale di 20.000 chilometri. Senza considerare che erano presenti altre forme umane migrate in precedenza.

La prima grande migrazione iniziava due milioni di anni fa e si è ripetuta almeno altre due volte.

Direttrici della seconda ondata migratoria delle specie umane fuori dall’Africa
(
Istituto Geografico De Agostini)

La cosiddetta Out of Africa 2 è iniziata circa 800.000 anni fa: di nuovo altre forme umane lasciano l’Africa, tra l’altro sempre dalla stessa zona, e questo dato è affascinante: tutte le grandi migrazioni umane che hanno prodotto anche la diversità attuale umana partono tutte dal Corno d’Africa. Come lo sappiamo? Ce lo dicono in modo estremamente preciso le molecole del DNA mettendoci in grado di collocare il punto e la data precise di inizio di queste migrazioni.

Ogni volta rappresentanti di specie Homo diverse, anche in piccolissimi gruppi di qualche decina di individui, sono partiti dalle vallate tra Eritrea, Etiopia, Kenya e Tanzania e da lì, seguendo corridoi naturali, ad esempio quello del Nilo od altri, sono arrivati in Medio Oriente, punto di smistamento fondamentale verso rotte dirette al nord, verso l’Europa, o verso est. Oppure con percorsi di migrazione che, seguendo la costa meridionale della penisola araba, doppiando il continente indiano a sud, hanno raggiunto quello che allora era un unico lunghissimo territorio che dalla Malesia, passando per l’Indonesia arriva a quello che oggi è Papua-Nuova Guinea, e isola dopo isola, o su strisce di territorio emerso, hanno raggiunto l’Australia forse già 80.000 anni fa.

Questa è l’ondata migratoria che ha visto uscire dall’Africa forme umane antecedenti a quanto in seguito, esclusivamente sul continente europeo, sarebbe stato indicato come Homo neandertalensis, un’esclusiva del vecchio continente, qui presenti fin da 300.000 anni fa.

Il percorso geografico e quello evolutivo che ha portato gli esseri umani dal Corno d’Africa al Mediterraneo, e quindi all’Europa e al Medio Oriente, è ciò che ci ha reso umani. Spostarsi da ambienti inospitali, muoversi attraverso tracciati diversi causati dalle diverse condizioni climatiche della zona del Sahara, che ha avuto diversi cicli, con lunghi periodi di fertilità seguiti a periodi altrettanto lunghi di aridità, attirando o respingendo le popolazioni umane: tutto ciò che ha provocato ondate migratorie ci ha reso umani. Fino alla cosiddetta Out of Africa 3, che sembra aver interessato soltanto Homo sapiens.

E tutto questo mi rende impossibile non pensare alle famiglie che oggi lasciano i propri paesi di origine, mettono a rischio la vita dei loro stessi figli, per imbarcarsi in un viaggio della speranza in cerca di migliori condizioni di vita.

Direttrici della terza ondata migratoria delle specie umane fuori dall’Africa
(Istituto Geografico De Agostini)

Dappertutto
E questa terza grande ondata fuori dall’Africa riguarda proprio noi, Homo sapiens, a differenza delle precedenti che riguardarono specie diverse. Anche Homo sapiens arriva dapprima in Medio Oriente e poi lungo la costa meridionale del Mediterraneo, affiancato da un’irruzione in Europa oltre che da percorsi migratori verso nordest e sudest.

Anche Homo sapiens è una specie immigrata. La specie autoctona europea erano i Neandertal, già presenti e comparsi proprio in questo continente oltre 300.000 anni fa.

Una scoperta recente, sempre grazie alla genetica molecolare, ha evidenziato che i geni connessi allo schiarimento della pelle in Homo sapiens hanno circa 16-18.000 anni. Considerando che l’arrivo di Homo sapiens in Europa è iniziato circa 40.000 anni fa, è evidente che i primi immigrati di colore in Europa siamo proprio noi, magari con gli occhi azzurri, predecessore dell’Uomo di Cheddar, come nella ricostruzione qui a fianco di un Sapiens, ma con la pelle scura.

Successivamente ci sono state diverse altre ondate migratorie, alcune che sembrano esser fallite a causa di stravolgimenti climatici che, in qualche modo, hanno come sbarrato la strada ai gruppi che migravano, altre spintesi in avanti anche per decine di migliaia di chilometri dal luogo di origine.

Tra queste forse la più importante è quella di circa 75.000 anni fa, più invasiva delle precedenti.

La migrazione finale? - Pievani, 2019

Ricostruzione morfometrica esatta delle sembianze di un Neandertal
a confronto con una bambina Sapiens

Incontri ravvicinati di tipo primitivo
E non è tutto. L’immagine precedente, un Neandertal e una bambina Sapiens, ci racconta qualcosa che è accaduto veramente. Le due specie, strettamente imparentate l'una con l'altra, sono vissute negli stessi territori a lungo, e quindi davvero non siamo stati soli in Medio Oriente, in Europa, e  principalmente in Italia, in Francia e in Spagna, così come nelle vallate prealpine abbiamo zone di sovrapposizione di popolamento nello stesso periodo di più specie umane, e in particolare di queste due specie umane. Ci distingueva soltanto lo 0,1% del DNA. Ed eravamo talmente vicini dal punto di vista biologico da essere interfecondi, potendo generare individui a loro volta fecondi, e i risultati delle ibridazioni tra Sapiens e Neandertal sono evidenziati dalla presenza nel nostro di DNA di materiale genetico dei nostri cugini. I dettagli genetici di questi scambi sono ancora oggetto di studio e ci sono molti dubbi sui meccanismi di trasmissione e di diluizione delle componenti delle due specie, ma è certo che i due gruppi possano aver avuto rapporti più che amichevoli. Per chi volesse approfondire qui potete trovare il materiale adatto.

In quel periodo i Neandertal avevano già iniziato quanto è noto come sviluppo dell’intelligenza simbolica, processo interrotto dalla loro estinzione avvenuta circa 28-29.000 anni fa. L’ultima comunità Neandertal sopravvisse attorno alla Rocca di Gibilterra con una dozzina di famiglie che, in maniera progressiva e non drammatica furono lentamente sostituiti dai Sapiens che hanno portato ad una marginalizzazione di quest’altra forma umana, che infatti scompare progressivamente dal Medio Oriente all’inizio, poi dall’Anatolia verso i Balcani, Italia, Francia e infine Spagna, come se fosse schiacciata verso occidente dalle continue ondate di ingresso di Homo sapiens in Europa.

Dall’altra parte del mondo, sull’isola di Flores in Indonesia, fino a soltanto 12.000 anni fa, ha vissuto un’altra spece umana, Homo floresiensis (nell’immagine a sinistra una femmina a confronto con una Sapiens), una specie pigmea a causa del cosiddetto nanismo insulare: erano infatti alti circa un metro ma con un cervello ben sviluppato. Un’altra forma umana arrivata fino alle soglie della storia; se questa specie avesse resistito qualche altro millennio avrebbe visto i primi campi coltivati, le prime città.

Siamo soli da pochissimo tempo. E a questo proposito c’è una domanda che non avrebbe avuto senso porre anche solo un paio di decenni fa, quando si dava per scontato che dopo l’estinzione delle altre forme umane, i Sapiens fossero gli unici rimasti grazie ai migliori adattamenti espressi.

Perché invece siamo soli se fino alle soglie della storia c’erano almeno quattro, se non cinque, forme umane diverse?

E’ una domanda a cui è tuttora difficile rispondere ma è ovvio che noi siamo soltanto uno dei modi di essere umani, un’altra prova dei meccanismi dell’evoluzione per selezione naturale che ci dice che, se potessimo riavvolgere il nastro all’indietro e ripartire da capo, per ogni linea evolutiva di qualsiasi organismo vivente, potremmo avere infinite possibilità di futuri diversi.

L’origine delle attuali popolazioni

Cervelloni

Avere un grande cervello, con la parte dedicata ai lobi frontali ben sviluppata, sicuramente ha aiutato. Ma anche questo è un effetto collaterale dell’evoluzione, non è il prodotto delle pressioni selettive.

Un’eccezionalità genetica, assente in tutte le altre forme imparentate, provoca un rallentamento mai visto prima del periodo di crescita e in particolare del periodo infantile e adolescenziale  (neotenia); in pratica, restiamo bambini molto più a lungo di qualsiasi altra specie a noi prossima. Persino nei confronti dei Neandertal: è stato dimostrato che un appartenente a questa specie diventava adulto due anni e mezzo prima dei Sapiens. Nella nostra specie il mantenimento dei tratti infantili permane molto più a lungo e la nostra è l’unica specie in cui il cervello continua a crescere anche dopo il parto per almeno altri due anni.

Dal punto di vista evoluzionistico queste caratteristiche rappresentano costi di adattamento molto elevati: un grande cervello che da solo consuma oltre il 20% dell’energia dell’organismo, molto esigente dal punto di vista metabolico, ma soprattutto cuccioli fragili per più anni rappresentano un investimento parentale consistente, e quindi questa innovazione ha avuto come necessità di altri bilanciamenti nell'organizzazione sociale. La necessità di tenersi nel gruppo cuccioli fragilissimi per molti più anni ci ha evidentemente regalato qualcos’altro: l’espansione del periodo di apprendimento, di gioco, di imitazione, alimentando la plasticità umana, con un cervello letteralmente plasmato biologicamente dalle esperienze successive alla nascita, grazie anche allo sviluppo del cervello successivamente al parto che, fra i suoi effetti collaterali ha prodotto un aumento delle capacità craniche. Per motivi meccanici, legati alle dimensioni del canale del parto delle donne Sapiens, nasciamo con un cervello che continua ad espandersi successivamente, soprattutto nell’area della corteccia prefrontale: un effetto collaterale di un processo di sviluppo. Quindi questa specie che rimane bambina così a lungo diventa una specie capace di avere una vita sociale molto elaborata e in piccoli gruppi.

Tutto ciò ad ulteriore testimonianza che la teoria dell’evoluzione, mantenendo ben saldi i principi darwiniani, è molto più pluralista e flessibile, con la selezione naturale che interagisce con molti altri fattori tra i quali quelli dello sviluppo che sono essenziali. Oggi la teoria dell'evoluzione è qualcosa di molto complesso ed altrettanto interessante che non l’idea, ormai semplicistica, che le pressioni selettive siano soltanto una sorta di problem solving atto al mutare delle condizioni ambientali.

La sintesi neodarwinista estesa - Pievani, 2019


Prede
Phillip Tobias (nella foto a fianco), un eminente antropologo, dimostrò che i segni di trauma riscontrati sul cranio di un fossile di cucciolo di australopiteco vissuto circa 2,8 milioni di anni fa (il Bambino di Taung) non erano, come si diceva fino a pochi anni fa,  segni di riti di cannibalismo, attribuendo chissà quale valore mistico ed esoterico al ritrovamento, ma i traumi riportati a seguito dell’esser stato cacciato da un’aquila. Segni conformi a quanto si può ritrovare ancora oggi in cuccioli di scimpanzè predati da rapaci.

Sappiamo quindi oggi, con ragionevole certezza, che per gran parte della nostra storia non siamo stati predatori ma prede; molti degli adattamenti sociali che abbiamo sono adattamenti da prede e non da predatori, adattamenti difensivi, cambiando quindi la prospettiva sull’evoluzione.

E con ciò si smontano anche alcuni dogmi, dovuti a narcisismo e pregiudizi, presenti sui testi fino a non molto tempo fa (direi ancora oggi). Tra i tanti “il nostro cervello è diventato grande perché eravamo grandi cacciatori e ci nutrivamo di carne fresca in abbondanza”. Ma la realtà era ben diversa. Siamo diventati grandi cacciatori in tempi molto recenti, lunghi abbastanza comunque da consentirci di sterminare tutte le macrofaune esistenti man mano che la migrazione ci portava a colonizzare la quasi totalità degli ambienti. Abbiamo infatti passato più del 90 percento della nostra storia di specie come necrofagi e saprofagi, come spazzini della savana, contendendoci le prede con avvoltoi e iene; dopo tutto è un comportamento molto adattativo perché la grande fatica della cattura la si lascia ai predatori professionisti, cioè i grandi felini, andando poi a sottrarre quel che resta, pezzetti di carne già ben frollata, essenziale per nutrire il cervello che, come predetto, assorbe da solo il 22 percento dell’energia del metabolismo umano, e da associare a quanto di vegetale fosse disponibile direttamente con la raccolta. Quindi niente lancia in resta e caccia al mammut se non in tempi più recenti ma una dieta onnivora con cui Homo sapiens se l’è cavata egregiamente.

Per tornare al narcisismo che ci ha visto e ci vorrebbe ancora come i dominatori del mondo da sempre voglio ricordare le parole di una grande biologo, Stephen Jay Gould: «Pensiamo che il problema fosse alzarsi la mattina e chiedersi cosa mangiare; in realtà il problema essenziale era arrivare a fine giornata senza esser stati mangiati».

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Riferimenti bibliografici
Guido Barbujani, Come eravamo. Storie dalla grande storia dell’uomo. 2022
Guido Barbujani, Andrea Brunelli. Il giro del mondo in sei milioni di anni. 2018
Telmo Pievani. Homo sapiens ed altre catastrofi. 2002
Telmo Pievani. Ripensare l’evoluzione umana. 2019
Guido Chelazzi. L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica. 2013


Memento mori...necesse est!

 

per l'immagine Telmo Pievani: "Ripensare l'evoluzione umana", gennaio 2019

Introduzione

Nel precedente post abbiamo visto che, per buona parte della lunga storia dell’evoluzione delle specie che ha portato fino a noi, almeno 5 dei 7 milioni di anni a partire dall’antenato comune che abbiamo con le scimmie antropomorfe, la massa cerebrale non subì particolari incrementi. A partire da circa 2 milioni di anni fa, con la comparsa delle cosiddette habiline, le forme preumane come Homo abilis, le dimensioni del cervello iniziano ad aumentare in maniera pressoché esponenziale, la trasformazione morfologica più rapida nella complessità di un organismo.

Perché?

Sembra ormai assodato che il processo venne innescato da una modalità di evoluzione di tipo esclusivo, che prende il nome di coevoluzione genetico-culturale, nella quale, da un lato, l’innovazione culturale determinò un incremento della velocità di diffusione dei geni che favorivano intelligenza e cooperazione, mentre, dall’altro, il cambiamento genetico risultante aumentò la probabilità che si realizzare un’evoluzione culturale.

Qui occorre fare una doverosa precisazione. I cambiamenti genetici avvenivano, e avvengono, nelle modalità che conosciamo, a causa delle mutazioni casuali dovute soprattutto agli errori di copiatura del codice genetico, e che hanno portato alla comparsa di caratteri abilitanti quali la possibilità di opporre il pollice alle altre dita, la modifica anatomica della scatola cranica ad ospitare un cervello di maggiori dimensioni, lo spostamento delle vertebre ileo-sacrali a favorire la postura eretta, il bipedismo ed altro ancora: passo dopo passo nel corso di decine o centinaia di migliaia di anni.

Ma la coevoluzione bio-culturale ha fatto sì che la componente genetica preparasse gli organismi a cambiare abitudini culturali mentre, in parallelo, l’evoluzione culturale favoriva la diffusione di questi cambiamenti dando ai loro portatori maggiori possibilità di sopravvivenza e riproduzione; grazie anche alle caratteristiche emergenti di cooperazione e interazione sociale tra individui del gruppo.

E qui occorre aprire un’altra parentesi.

L’evoluzione per selezione naturale avviene continuamente in tutte le popolazioni di ogni specie, sia cambiando la frequenza dei geni sia mantenendola stabile. Ad un estremo, la frequenza è talmente veloce da produrre una nuova specie in una singola generazione e, all’estremo opposto, l’evoluzione è così lenta che alcune caratteristiche delle specie si mantengono simili a quelle degli antenati che vivevano decine se non centinaia milioni di anni prima (i cosiddetti fossili viventi).

Riducendo ai minimi elementi la teoria dell’evoluzione abbiamo che l’unità ereditaria interessata dalla mutazione è il gene ed il bersaglio della selezione naturale da parte dell’ambiente è il carattere determinato dal gene (semplificando, sappiamo che in realtà è sempre un pool di geni a determinare l’espressione del carattere, o meglio, del fenotipo). 

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con gruppi di individui geneticamente pressoché identici? Tra un essere umano e l’altro meno dello 0,1 percento di DNA varia. 

Tra selezione a livello di individuo e selezione a livello di gruppo è stata fatta spesso un’inutile confusione. Dovuta spesso ad alcuni divulgatori scientifici che parlano di evoluzione rivolgendosi ad un pubblico generico.

Il problema deriva dall’errore commesso nella distinzione tra unità ereditaria e oggetto della selezione.

La selezione a livello di individuo agisce sulle caratteristiche che influiscono sulla sopravvivenza e sulla riproduzione di un membro del gruppo, considerato a prescindere dalle sue interazioni con i compagni; questa selezione prevale nei primi stadi dell’evoluzione sociale, agli albori della formazione di ciò che ci ha reso umani, quando molti dei caratteri ereditari influenzavano il successo del singolo indipendentemente dalle sue interazioni con i compagni di gruppo. Per esempio, pur vivendo da solo per una parte della sua vita, il singolo individuo, rispetto ai compagni di gruppo, potrebbe assicurare a sé o ai propri discendenti una porzione maggiore di cibo e di spazio.

La selezione a livello di gruppo influenza invece le caratteristiche che prevedono l’interazione con i compagni, in modo che il successo dei geni di un individuo dipende almeno in parte dal successo della società cui appartiene. Faccio notare che ciò è riscontrabile in qualsiasi organizzazione sociale progredita, come ad esempio in quelle caratterizzate da caste di individui sterili (api, termiti, formiche…) dove la selezione di gruppo scavalca quasi interamente quella individuale.

Al centro del vastissimo spettro che va dall’individuo al gruppo l’umanità si posiziona al centro: la natura umana appare guidata dal conflitto tra selezione naturale, che promuove egoismo da parte dei singoli individui e dei loro familiari più prossimi, e la selezione di gruppo, che promuove altruismo ed empatia, cooperazione al servizio del gruppo.

La selezione di gruppo nell’evoluzione sociale è coerente con la genetica delle popolazioni e la sua presenza in tutto il regno animale (studi recentissimi ne intravedono qualcosa persino tra i vegetali) è sostenuta da prove consistenti sia raccolte sul campo che in laboratorio.

Negli anni Sessanta del XX secolo si fece strada una teoria alternativa, quella della cosiddetta fitness  inclusiva, alla base della nascente sociobiologia. Dopo anni, decenni, di discussioni, è ormai acclarato che non esiste nulla del genere: nessuno è mai riuscito a “misurarla” e le equazioni elaborate (ad hoc) per dimostrarla presentano problemi matematici notevoli. Non esiste alcuna prova che sia il singolo individuo, e non il gene, ad essere considerato unità della selezione e non serve quest’idea per spiegare il comportamento sociale complesso oggi abbondantemente dimostrato anche nei nostri parenti più prossimi come scimpanzè e bonobo.

Il carattere genetico, controllato dalle mutazioni, che influenza le interazioni, il comportamento di gruppo, fa emergere la selezione di gruppo. E ciò non vale solo per la scelta, governata dalla scelta femminile nella selezione sessuale, di un paio di occhi azzurri o nel taglio a mandorla, particolarmente graditi a favorirne la diffusione.

Charles Darwin, che raramente sbagliava, aveva correttamente anticipato e dedotto, nel suo “L’origine dell’uomo”, che la competizione tra gruppi di esseri umani ha rappresentato un contributo rilevante rispetto alla comparsa di caratteristiche considerate da tutti molto nobili: generosità manifesta, coraggio, sacrificio, giustizia, saggia autorità. In altre parole i lati migliori della nostra natura non hanno bisogno di essere inculcati a forza dentro di noi sotto la minaccia del castigo divino ma, al contrario, sono biologicamente ereditati: grazie ad una conseguenza fortuita derivata dai principi fondamentali della selezione naturale siamo molto più di semplici selvaggi istruiti. Siamo naturalmente buoni, rimandando alla lettura del bellissimo libro, proprio con questo titolo, del compianto Frans de Waal.

Cultura…genetica

La coevoluzione geni-cultura ha determinato la diffusione dei geni che favorivano intelligenza e cooperazione e la probabilità che ciò portasse ad un’innovazione culturale fu da questi geni aumentata.

Fu cruciale il passaggio da una dieta vegetariana a una dieta ricca di carne cotta, probabilmente già in una delle specie australopitecine africane (forse già nella specie cui apparteneva la famosissima Lucy, oltre 3 milioni di anni fa). La carne cotta potrebbe, almeno all’inizio, esser stata consumata dopo il ritrovamento casuale di animali vittime di incendi.

Il passaggio si tradusse in una trasformazione ereditaria che interessò l’anatomia, la fisiologia e il comportamento. Il corpo si assottigliò, mandibola e dentatura divennero più piccole e leggere, il cranio aumentò di dimensioni assumendo una forma più sferica; anche la società cambiò, passando dal nomadismo puro alla creazione di punti di ritrovo geograficamente stabili ai quali tornare la sera. Le già citate habiline probabilmente impararono a procurarsi il fuoco dalle braci residuo di incendi, e a portarlo in quei siti controllandolo e mantenendolo vivo. Così come ancora oggi fanno, spostandolo da un accampamento all’altro, le tribù di cacciatori-raccoglitori che vivono tuttora in Sudafrica (le popolazioni più antiche del mondo!)

La condivisione della carne di prede più grandi, una ricostruzione corroborata dalle testimonianze fossili e dallo studio degli stili di vita dei cacciatori-raccoglitori contemporanei, preparò uno scenario pronto per lo sviluppo di cooperazione e divisione del lavoro. La selezione naturale, a livello di gruppo, favorì l’altruismo e la cooperazione con un meccanismo di rinforzo positivo tra evoluzione culturale e genetica. Ovviamente ciascuna delle due, da sola, avrebbe potuto determinare un incremento della velocità di crescita del volume cerebrale, ma insieme esercitarono il feedback tale da determinarne una crescita esponenziale, inizialmente lenta ma via via più rapida, fino al raggiungimento dei limiti fisici relativi alla dimensione del cranio.

Perché dobbiamo morire?

Il processo di invecchiamento è quanto di più utile esista per comprendere le contemporanee evoluzione genetica e culturale.

Tutte le specie, indipendentemente dal loro maggiore o minore successo adattativo, hanno una durata della vita caratteristica. Persino le piante hanno una durata della vita programmata.

Tra i biologi evoluzionisti, la teoria più diffusa per spiegare l’invecchiamento programmato e la morte, è che in ogni organismo vivente si sia evoluto uno stile di vita caratterizzato dal fatto che la maggior parte degli individui muore per cause esterne – malattia, incidente, difetti congeniti, malnutrizione, omicidio, guerra – molto prima di raggiungere la massima età possibile: situazione questa, che rappresentava la regola quando tra gli esseri umani soltanto pochi individui riuscivano a raggiungere i cinquant’anni!


La mortalità precoce, applicabile ancora oggi alla maggioranza degli esseri umani pur essendo spostata in avanti, ha comportato, per effetto della selezione naturale, un’anticipazione e un potenziamento del vigore e della spinta riproduttiva. Ha cioè programmato nei giovani una fisiologia e uno stato mentale più vivaci e vitali a svantaggio dei più anziani preferendo investire nelle risorse più giovani anziché in quelle in età media o avanzata.

L’evoluzione culturale, fin dal Paleolitico, ridusse le cause di morte, aumentando via via l’aspettativa di vita fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui l’età riproduttiva si è spostata in avanti fino all’età della menopausa. La nascita delle prime civiltà, l’avvento dell’agricoltura e la possibilità di immagazzinare cibo, insieme alla riduzione delle cause estreme di mortalità, cambiarono le condizioni, spostando la direzione della selezione naturale nel corso del ciclo vitale umano.

Un effetto inevitabile sulle generazioni future potrebbe quindi essere il cambiamento genetico complessivo a livello di popolazione, non solo quindi un allungamento della giovinezza e della fertilità fin oltre la mezza età, con un inizio della menopausa sempre più avanti negli anni marcando sia l’evoluzione culturale che quella genetica. Tutto ciò ovviamente, al netto di implicazioni e motivazioni d’altra natura, quali quelle geografiche o sociologiche.

E’ indubbio che la coevoluzione geni-cultura abbia favorito la rivoluzione delle habiline, che compirono un passo da gigante verso la condizione umana, spostando in avanti le lancette dell’invecchiamento e della morte, anche contrariamente a quel che naturalmente ci si aspetta da un sistema la cui efficienza è soltanto in apparenza in violazione dei principi della termodinamica. Ogni tanto spunta fuori qualcuno che afferma che gli esseri viventi violano il “Secondo principio della termodinamica”: semplificando, e con riferimento alla riproduzione sessuata, dalla fusione di un paio di cellule, maschile e femminile, organizzazione e complessità vanno via via aumentando per tutto il corso della vita: ma un organismo vivente non è un sistema chiuso, c’è all’origine del suo apparente violare le leggi dell’entropia, la fruizione continua di energia. Un sistema semplice formato da una pianta, dal Sole e dall’Universo tutto ne è la prova. Ne parlammo qui.

(s)Conclusioni

Se non ci fosse morte non ci sarebbe evoluzione. Quindi, per quanto auspicabile che, in condizioni normali, si voglia rimandare il processo che si conclude con la morte, questa la si comprende a partire dalla vita, di cui è funzione: non si muore se non si è vivi. Se non si morisse, le generazioni non potrebbero avvicendarsi. E ciò, nel caso della società umana, avrebbe conseguenze evidenti.

La relazione tra evoluzione biologica e culturale è considerata la pietra filosofale dell’umanità che comprende se stessa. Siamo costruiti e ci comportiamo in questo modo o in un altro perché alcuni dei nostri comportamenti sono da considerare istinti programmati geneticamente, altri acquisiti in seguito all’apprendimento, anch’esso geneticamente predisposto, ed altri ancora come prodotto, vera e propria invenzione, dell’evoluzione culturale. Uno stadio della nostra evoluzione a lungo termine, e non il prodotto di quanto vediamo oggi.

Se la mia nascita è accidentale, la mia morte è una necessità (si veda anche qui).

L'aspettativa di vita in molti paesi si alza continuamente e abbiamo sfondato da poco gli 80; molti biologi credono esista comunque un limite strutturale di 120 anni. Inoltre vivere così a lungo dipende non solo dalla qualità della vita ma da chi pagherà le pensioni di così tanti vegliardi, sempre che, come ritengono i neurobiologi, non prevalgano comunque le degenerazioni cerebrali.

Comunque sia, morire non è una malattia da curare, ma una parte della vita, anche perché l'eternità ha un sacco di controindicazioni, a cominciare dal fatto che più si vive più si accumulano danni e mutazioni.

Fuor di metafora, la religione organizzata rappresenta per tutto questo il cosiddetto “elefante in salotto”. L’ingerenza che questa ha, con le sue storie che narrano di creazioni soprannaturali, ognuna delle quali identifica un diverso credo, influenza negativamente la capacità di comprendere la condizione umana.

Una cosa è possedere e condividere alcuni valori spirituali della religione in senso teologico, anche contemporaneamente ad una qualche fede nel divino e nell’esistenza di vita dopo la morte; ma ben altra cosa, completamente diversa, è scegliere di adottare una particolare storia soprannaturale della creazione. Anche se la fede in una di queste credenze garantisce ai membri di un credo religioso un senso di appartenenza confortante (personalmente non vedo appartenenza, empatia o altruismo dei fedeli una volta terminata la messa…), va detto che non tutte le storie della creazione possono essere vere allo stesso tempo, neppure due alla volta possono esserlo e, ragionando per assurdo, sono quindi tutte false. Ognuna è sostenuta dal dogma cieco della fede di appartenenza.

L'evoluzione, sottoposta al vaglio cieco della selezione naturale, è stata resa un po' meno cieca dall'evoluzione culturale, unicità delle specie Homo, grazie alla selezione di ciò che sappiamo far meglio: pensare.


Imprevedibilmente...

Stephen J. Gould, evoluzionista di Harvard, nel suo libro “La vita meravigliosa” sosteneva che, se potessimo riavvolgere il nastro dell'evoluzione della vita sulla Terra, e schiacciare play nuovamente, difficilmente otterremmo lo stesso film. Interrogarsi sul perché l’evoluzione biologica abbia seguito certe strade invece di altre è evidentemente di cruciale importanza perché mette in discussione l’origine dell’umanità stessa, ma insistere sul tema diventa presto troppo metafisico, per me. Preferisco concentrarmi sul colossale colpo di fortuna che ha portato fino a qui.

Questo post è in un certo modo collegato ad uno scritto successivamente, disponibile qui.

Il “cespuglio” evolutivo degli ominini. In basso a destra l’appunto del genio intuitivo di Charles Darwin

Il “cespuglio” evolutivo degli ominini.
In basso a destra l’appunto del genio intuitivo di Charles Darwin

Ormai è sempre più chiaro che la selezione naturale, così come per qualunque altra forma di vita, ha plasmato ogni aspetto della biologia umana. La selezione naturale, che agisce da gran maestro dell'evoluzione, implica che l'umanità non è stata pianificata da alcuna intelligenza superiore, ne è guidata verso alcun destino oltre le conseguenze delle nostre stesse azioni.

Il materiale umano è stato messo alla prova e rielaborato spesso in ognuna delle migliaia di generazioni succedutesi nel corso della sua storia geologica. Il successo per la nostra specie in evoluzione implica la sopravvivenza ogni ciclo riproduttivo. Un fallimento avrebbe come risultato un declino verso l'estinzione, che porrebbe così fine al gioco evolutivo. È già accaduto alla stragrande maggioranza delle altre specie, in molti casi davanti ai nostri occhi.

Lo stesso destino avrebbe potuto interessare i nostri antenati in un qualsiasi momento, negli ultimi sei milioni di anni. Come ogni altra specie che oggi sopravvive, la nostra è stata straordinariamente fortunata. Oltre il 98 percento delle specie evolutesi finora è scomparso, e queste specie sono state sostituite dalle numerose specie figlie dei sopravvissuti. Il risultato è stato l'instaurarsi di un equilibrio approssimativo tra estinzioni e comparsa di un certo numero di specie che si sono evolute passando da un'epoca alla seguente. La storia di ogni particolare linea di discendenza è un viaggio in un labirinto che cambia costantemente, irripetibile. Una volta sbagliata, un passo falso nell'evoluzione, perfino un solo ritardo nell'adattamento evolutivo, potrebbero essere fatali.

La durata media di una specie, tra i mammiferi nell'era cenozoica, ovvero nell'intervallo di tempo in cui sono vissuti i nostri antenati, è stata di circa mezzo milione di anni. La linea di discendenza che, alla fine, è giunta agli esseri umani anatomicamente moderni si è separata dall'antenato che condividiamo con gli scimpanzè, circa 7 milioni di anni fa. La sua fortuna dura da allora. Mentre nei tempi più duri le popolazioni preumane si sono ridotte, anche più volte, probabilmente a poche migliaia di individui, e molte delle specie a noi imparentate sono scomparse, la nostra linea di discendenza è riuscita a farsi strada nei sei milioni di anni del Quaternario, nonostante abbia rischiato a sua volta l'estinzione almeno una volta, quando, circa 70.000 anni fa, l’eruzione catastrofica del vulcano Toba in Indonesia indusse un cambiamento climatico tale da provocare la scomparsa della quasi totalità degli esseri umani che allora convivevano sulla Terra (sapiens, neanderthal, floresiensis, denisovani), riducendoli a poche migliaia di individui.

I punti salienti, dal bipedismo alla comparsa delle società complesse. Si notino i periodi di convivenza di più specie

I punti salienti, dal bipedismo alla comparsa delle società complesse.
Si notino i periodi di convivenza di più specie

In questi 7 milioni di anni la nostra specie ha continuato a esistere come un'entità in perpetua evoluzione, lungo un complesso labirintico cespuglio. Occasionalmente, si è divisa in due o più specie che hanno continuato a evolvere: finché ne è rimasta soltanto una, quella che - per puro caso - è diventata Homo sapiens. Le altre specie sorelle hanno continuato a evolvere a loro volta divergendo dalla linea di discendenza preumana. Con il tempo, ognuna di queste si è estinta o si è separata a sua volta come specie a parte. Alla fine, però, sono tutte scomparse.

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In evidenza, la linea nera, per le diverse specie, che divide un prima, lunghissimo, privo di crescita del cervello, da un dopo, in cui tutte le specie in breve tempo manifestano crescita esponenziale del cervello

In evidenza, la linea nera, per le diverse specie, che divide un prima, lunghissimo, privo di crescita del cervello, da un dopo, in cui tutte le specie in breve tempo manifestano crescita esponenziale del cervello



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Riferimenti bibliografici.
Edward O. Wilson – La nascita della creatività. 2017
Per le immagini – Ripensare l’evoluzione umana. Telmo Pievani. 2019





Se gli esseri umani si sono evoluti dalle scimmie, perché le scimmie esistono ancora?

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Ancora questa domanda?

Pochi anni fa, nel 2017, un popolare attore comico statunitense ha twittato una domanda, molto poco originale, che ha rivelato quanto poco capisca dell'evoluzione, ciò nonostante sembra essere in ottima compagnia perché il suo tweet ha ottenuto quasi 50.000 "mi piace" e 13.000 retweet. Ovviamente molte persone che hanno reagito al post avrebbero voluto anche conoscere la risposta alla domanda: "Se ci siamo evoluti dalle scimmie, perché ci sono ancora le scimmie?". 

Tralasciando il notevole peso che il paese d’origine, gli Stati Uniti, possa avere sui motivi che generano domande come questa, o più in generale diffidenza, scetticismo e preconcetti sulla Teoria dell’Evoluzione (ne ho parlato ampiamente qui) la risposta breve è che "non ci siamo evoluti da nessuno degli animali che sono vivi oggi"; e ciò vale per qualsiasi animale o vegetale o batterio e persino per i virus. Vale a dire, tornando a noi, che gli esseri umani non si sono evoluti dai gorilla che vediamo oggi, o dagli scimpanzé di cui osserviamo stupiti le straordinarie pose e le espressioni umane. In altre parole è profondamente sbagliato pensare che le scimmie, antropomorfe o no, stiano per diventare umane perché si stanno evolvendo.

Charles Darwin, il magnifico, descrisse l'evoluzione come “discendenza con modificazioni” ovvero che, qualsiasi animale (o vegetale, batterio, virus…), e tra loro gli esseri umani, discendono da antenati comuni (e ora estinti) vissuti milioni di anni fa, in un processo noto anche come "discendenza comune". In altre parole milioni di anni fa esisteva una specie di primati che ha dato origine a linee di discendenza distinte che hanno portato da un lato agli esseri umani e dall’altro alle scimmie: in particolare la separazione per quel che ci riguarda è avvenuta tra 6,5 e 9,3 milioni di anni fa. Poi tutto è cambiato e ognuna delle specie si è adattata ai propri ambienti, a determinate circostanze, o a nicchie ecologiche specifiche.

Il denominatore comune è che tutti gli umani sono scimmie e, come tali, tutti gli umani sono imparentati con altre scimmie. E’ l’umiliazione che deriva da questo concetto che scatena domande come quella: condividiamo antenati non solo con le scimmie ma praticamente con tutto ciò che vive sulla Terra oggi; a partire dai primi procarioti, siamo tutti discendenti di una singola specie che ha vissuto in un passato così profondo da renderlo pressoché inconcepibile. Significa anche, ripeto, che gli esseri umani sono imparentati con balene, squali, alberi, lombrichi e batteri. E non solo.

Inoltre, in quel meraviglioso processo di bricolage (ne ho parlato qui e ancora qui) che fa parte dell’evoluzione, gran parte del materiale genetico che ci rende ciò che siamo è lo stesso materiale che rende gli altri animali ciò che sono: viene semplicemente distribuito in modo diverso.

L’evoluzione è stata, è, sarà 

Un'altra profonda ignoranza, per lo più preconcetta, un malinteso comune, è quello che afferma che gli esseri umani non si stiano più evolvendo. In realtà qualsiasi organismo vivente continua ad evolversi, e noi umani non ne siamo esclusi. Né è lecito filtrare l’evoluzione attraverso una lente incentrata sull'uomo, non siamo l’espressione massima dell’evoluzione, né siamo o mai saremo la perfezione, il grado massimo: l'obiettivo dell'evoluzione non è diventare umani, e nemmeno una creatura che ora sembra più "primitiva" è sulla strada per diventare un giorno umana. Il concetto stesso di primitivo è applicato erroneamente perché richiama una comparazione con gli esseri umani che non ha senso dal punto di vista evolutivo. Non siamo dunque l'apice dell'evoluzione ed è sbagliato credere che tutto si stia evolvendo verso l'umanità. Non c’è scopo, disegno, tendenza, progresso inteso in senso umano, nell’evoluzione. E’ il condizionamento sociale che ci ha portato a pensare all’evoluzione come una sorta di miglioramento.

Per approfondire l’evoluzione umana consiglio una serie di brevi lezioni tenute da Telmo Pievani dell’Università di Padova. Qui la prima puntata.

Alberi ramificati

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Alcuni ricercatori ritengono che sia necessario modificare il modo in cui visualizziamo l'evoluzione e i termini che usiamo per spiegarla. Un altro malinteso è che l'evoluzione sia un processo strettamente lineare, cioè si verifica in linea retta dal primitivo all'avanzato e ancora qui, la contrapposizione tra primitivo e avanzato, moderno, richiama concetti antropocentrici. E’ invece più accurato pensare all'evoluzione come a un processo di "ramificazione", quello che non ha caso in ambiente scientifico è definito come cladogenesi, la comparsa di un nuovo gruppo di organismi attraverso un processo di divergenza evolutiva da un antenato condiviso. In altre parole, gli eventi cladogenetici si verificano quando una specie si divide in due. Sono questi i momenti chiave dell'evoluzione.

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Ecco perché l’immagine più famosa del mondo che illustra l’evoluzione umana è completamente sbagliata.

Va comunque sottolineato che pensare l’evoluzione in termini lineari non è del tutto insensato: non c’è conflitto tra gli aspetti lineari e quelli ramificati dell’evoluzione perché ogni discendenza comune procede con linearità legittima che parte dalla divergenza, con relazioni ramificate, della differenziazione dei lignaggi.

Top-Down vs Bottom-Up

In un articolo del 2021 pubblicato su Science un gruppo di biologi presentarono due diversi approcci allo studio ed alla comprensione dell’evoluzione, in particolare quella umana: nel primo, con metodo Top-Down, dall’alto verso il basso, si parte molto opportunamente dall’analisi di scimmie antropomorfe viventi, come gli scimpanzè ad esempio, mentre quello dal basso verso l’alto, Bottom-Up si concentra sullo studio e sulla comparazione di fossili di scimmie per lo più estinte, a fornire informazioni fondamentali per la comprensione dell’evoluzione umana. La paleoantropologia è comunque, come tutti i rami della ricerca scientifica, in continuo work in progress, e quasi ogni giorno si aggiungono nuovi elementi, e per ottenere il quadro completo dell'evoluzione vanno esaminati entrambi gli approcci. Le specie di scimmie viventi sono specializzate, relitti di un gruppo molto più ampio di scimmie ora estinte, e quando consideriamo tutte le prove, cioè le scimmie e gli ominidi sia viventi che fossili, appare evidente che una storia evolutiva umana basata sulle poche specie di scimmie attualmente in vita manca di gran parte del quadro più ampio. Le scimmie fossili sono essenziali per ricostruire il punto di partenza, di divergenza, da cui si sono evoluti umani e scimpanzé.

Non a caso, la prova che ha retrodatato la presenza di Homo Sapiens in Europa da 40.000 a 54.000 anni fa, in contemporanea con H. Neanderthalensis, viene proprio dalla scoperta, in una grotta nel sud della Francia, di punte di freccia in selce contemporaneamente ad un dente di un fossile di scimmia. Gli esseri umani moderni vivevano accanto ai Neanderthal, qualcosa che prima di allora non era nemmeno lontanamente sospettato.

Lo stupro ha una base genetica?

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Ancora una volta, il biologo e primatologo Frans De Waal, partendo da considerazioni nate dalla ricerca scientifica svolta sulle società dei primati a noi più vicini, mette in evidenza come la socializzazione, l’evoluzione culturale e l’evoluzione biologica abbiano viaggiato e viaggino di pari passo. E di come effettivamente le disuguaglianze di genere, presenti ed inevitabili, siano spesso l’origine e la causa di determinati aspetti della società e della sua rete di relazioni tra individui e comunità.

La violenza degli uomini contro le donne è uno degli aspetti più palesi e pericolosi della disuguaglianza di genere, una questione spesso ignorata dagli uomini ma di ovvia preoccupazione per le donne.

In molti primati, i maschi sono più grandi e più forti delle femmine. Lo stesso vale per gli esseri umani, in cui i due sessi mostrano marcate differenze di forza soprattutto nella parte superiore del corpo. In uno studio tedesco, atlete altamente addestrate hanno raggiunto solo la forza fisica media degli uomini non allenati.

Si pensa che l'evoluzione del dimorfismo sessuale in termini di dimensioni e forza sia guidata principalmente dalla competizione maschio-maschio. Lo scopo principale di una maggiore taglia maschile non è il dominio sulle femmine, ma la competizione con i rivali. Negli esseri umani, questa competizione si riflette nelle statistiche sugli omicidi della maggior parte dei paesi, compresi gli Stati Uniti, in cui prevalgono gli omicidi maschio su maschio.

Tuttavia, la violenza maschile contro le donne è comune. Nelle nostre società, l'abuso coniugale, lo stupro e il femminicidio sono in aumento o più frequentemente segnalati. È un dominio in cui la specie umana si distingue per la sua incidenza eccezionalmente elevata. Poiché si verifica spesso tra individui vicini, un fattore che contribuisce è l'abitudine delle famiglie umane che vivono in relativo isolamento in capanne e case. Queste disposizioni, che sono uniche tra i primati, facilitano il controllo maschile. Durante la crisi Covid e le sue politiche di blocco, gli abusi domestici sono aumentati in tutto il mondo.

Non usiamo il termine "stupro" mentre, in relazione ad altri animali, parliamo invece di "copulazione forzata". Questo comportamento è del tutto assente nei bonobo per la semplice ragione che le femmine dominano collettivamente i maschi. Ma anche negli scimpanzé, che sono dominati dagli uomini, è estremamente raro. Su migliaia di copulazioni osservate nessun primatologo ha mai visto questo comportamento.

Gli scimpanzé maschi intimidiscono le femmine fertili, a volte abbastanza violentemente. Questo è più comune negli scimpanzé dell'Africa orientale, che sono quelli di cui sentiamo parlare di più, mentre rari o assenti in Africa occidentale. Come documentato dal primatologo svizzero Christophe Boesch, le comunità di scimpanzé occidentali sono più coese. Dal momento che trascorrono più tempo insieme, l'equilibrio di potere di genere si è spostato verso le femmine. Quando le femmine viaggiano e si puliscono insieme, piuttosto che essere sparse nella foresta, formano un blocco di interessi condivisi. Si chiedono aiuto l'un l'altro. Questo mette un freno alle brutali tattiche maschili. Secondo Boesch, le molestie sessuali violente e gli accoppiamenti forzati sono assenti nella foresta di Taï in Costa d'Avorio.

In sintesi, la copulazione forzata è altamente eccezionale nei nostri parenti più stretti delle scimmie, mentre la violenza sessuale si verifica ma è soggetta a differenze di specie e culturali. Se le femmine sono in giro per sostenersi a vicenda, sviluppano una sorta di movimento #MeToo come i bonobo. I bonobo hanno efficacemente frenato la violenza sessuale maschile. Ma anche negli scimpanzé possiamo riconoscere questo potenziale di solidarietà femminile.

In quest’altro post ho trattato l’aspetto della dominanza maschile nelle grandi scimmie.

Nelle colonie di scimpanzé in cattività, ad esempio, dove le femmine sono insieme tutto il tempo, la vita sociale è strettamente regolata e i maschi non possono farla franca con comportamenti odiosi. Sono stati osservati maschi minacciare pesantemente femmine riluttanti ad accoppiarsi, ma arriva sempre un punto in cui altre femmine affrontano il maschio e si coalizzano per salvare la vittima urlante. Inseguono il maschio implacabilmente e spesso passano a vie di fatto per insegnargli a comportarsi diversamente.

Al contrario, in un primate senza relazioni sociali strette, come l’orango che vive gran parte della sua vita in modo solitario, le femmine sono da sole. Considerando la preferenza delle femmine per avere rapporti con maschi completamente adulti nono sono affatto rari casi di copulazione forzata da parte di adolescenti e giovani maschi adulti.

Chiedersi quindi se i nostri antenati erano stupratori, ha come risposta che le probabilità sono estremamente basse dato il comportamento dei nostri due parenti più stretti, e dato che i nostri antenati probabilmente vivevano in comunità affiatate segnate da reti femminili.

Non lo sappiamo con certezza, e c’è chi ha sostenuto che lo stupro e la sua diffusione, nelle società umane ancestrali potesse essere una strategia adattiva evoluta: un modo come un altro di assicurarsi una strategia di fecondazione per alcuni maschi, che diffondono i loro geni in questo modo.

Esiste però un numero piuttosto piccolo di specie segnate dalla copulazione forzata (ad esempio anatre, mosche scorpione, oranghi, umani), mentre se lo stupro fosse davvero una strategia così vantaggiosa, dovrebbe essere diffuso nel regno animale. E non lo è. Alcuni antropologi hanno inoltre notato che gli uomini che stuprano in società umane su piccola scala rischiano di essere espulsi o uccisi dai parenti della donna. Lo stupro dunque potrebbe essere stata una strategia piuttosto disadattiva nelle comunità ancestrali.

Oltre a concentrarsi su come proteggere le donne dalla violenza maschile (ad esempio attraverso una rete di relazioni strette tra donne), la società ha il compito di educare i ragazzi in un modo che scoraggi tale comportamento.

Personalmente non credo molto nell'educazione neutra dal punto di vista del genere: i figli non sono figlie e viceversa. I ragazzi hanno bisogno di un'educazione che riconosca le future differenze di genere nel fisico. Il rispetto per le donne dovrebbe essere esercitato in loro.

Citando Frans De Waal: «Se le descrizioni dei primati e del comportamento umano ci insegnano qualcosa, è che i maschi cresceranno per essere più inclini alla violenza. Acquisiranno anche una forza corporea considerevolmente maggiore rispetto alle femmine. Ogni società deve fare i conti con questo duplice potenziale di difficoltà e trovare modi per civilizzare i suoi giovani uomini e guidare la loro spinta aggressiva in una direzione costruttiva. Per assicurarsi che diventino fonti di forza piuttosto che di abusi, i ragazzi devono acquisire abilità emotive e atteggiamenti orientati specificamente al loro genere. Devono imparare che la forza va immancabilmente associata alla responsabilità».

Bibliografia.

Frans De Waal – Different