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Siccità di idee

Sembrerà strano parlare di siccità in questo che, pur appena iniziato, è statisticamente il periodo più piovoso dell’anno in Italia. Ma questo post vorrebbe rappresentare un po’ la conclusione del precedente, per non lasciare sospese alcune tematiche e per non rendere né questo né quello noiosi per eccesso di lunghezza.

Il ciclo idrologico e le sue implicazioni socio-ambientali

Il cambiamento climatico che sta affrontando l’Italia è il peggiore d’Europa, come dimostrato dal riscaldamento dell’area  mediterranea che procede più rapidamente che altrove, e più velocemente del resto del continente europeo con l’Italia a rappresentarne i massimi assoluti; il tutto alternando a periodi di siccità ed estati ogni anno più calde, piogge monsoniche, nubifragi che concentrano nel tempo e nello spazio enormi quantità di precipitazioni ed uragani, novità assoluta nel Mediterraneo, tanto da averne meritato una definizione a sé stante: medicane, dalla fusione dei termini inglesi MEDIterranean hurriCANE.

Nel marzo del 2022, dopo mesi di caldo anomalo e precipitazioni sotto la norma, dalle secche del Po è apparso un carro armato appartenuto alla Wehrmacht tedesca. L’anno dopo in Romagna hanno rotto gli argini praticamente tutti i fiumi, sommergendo case, aziende e coltivazioni.

E’ normale, non eccezionale. Contrariamente all’opinione comune, non stiamo vivendo una tragica e sfortunata serie di eventi eccezionali, catastrofici. E’ la statistica di una nuova normalità. Un ottimo esempio di integrazione tra esigenze territoriali, economiche ed industriali, non slegate da questa nuova normalità ma che anzi ne considerano ogni aspetto, è raccontato molto bene dall’amico Aldo Piombino in questo suo recentissimo post che invita a «fissare le prescrizioni idrauliche non su eventi precedenti» ma sulle cosiddette condizioni estreme da considerarsi quindi normali ed altamente plausibili.


Tuttavia, dati alla mano, in Italia non è che manchi l’apporto d’acqua: ne riceviamo tra 250 e 300 miliardi di metri cubi ogni anno[1], più o meno come la Gran Bretagna, paese noto per i suoi verdi prati proprio perché estremamente piovoso. La differenza tra noi e loro sta nel modo in cui l’acqua attraversa il territorio e nelle diverse economie idriche.

Innanzi tutto, a parità di quantità annua, le variazioni tra regioni sono altissime, possiamo passare da oltre 2000 mm l’anno delle regioni alpine a meno di 500 mm al sud. E questa disparità tende ad accentuarsi nel tempo, o in presenza di fenomeni meteorologici estremi, quando ad esempio si sente affermare che in poche ore è caduta la stessa quantità di pioggia che in un’intera stagione, i cosiddetti wet downburst (non citerò come i media abbiano ribattezzato quel che da sempre è noto come nubifragio). Le tempistiche di deflusso sono cambiate e cambieranno a causa dei minori accumuli nevosi e della loro permanenza o per scioglimenti anticipati; potremo quindi avere non tanto scarsità d’acqua in generale, quanto ottenerla dove e quando serve.

Il grafico seguente compara la media di piovosità annua del periodo 1961-2017 proprio con quest’ultimo anno, perché è passato alla storia per essere stato il più siccitoso degli ultimi 60 anni insieme al 2001 con il 19% di precipitazioni in meno. In 12 mesi sono mancati all'appello circa 40 miliardi di metri cubi d'acqua, otto volte l'acqua contenuta nel Lago di Bracciano. Di contro il 2021 registra un record di media nazionale pari a 1300 mm e un 2022 che crolla invece a 455.

Il fatto che più complica un quadro del genere è che l’acqua scorre, e tutti i nostri tentativi di confinarla, di irregimentarla, di asservirla ai nostri bisogni immediati nel tempo e nello spazio, sono comunque effimeri e potrebbero essere soggetti alla disponibilità o al controllo da parte di territori diversi da quello in cui le necessità si manifestano. In altre parole: qualsiasi infrastruttura lungo un corso d’acqua è posizionale. Se la siccità colpisce un territorio mentre un altro ha, ipoteticamente ma oculatamente, raccolto gli eccessi in strutture locali opportune, mettere a fattor comune le cose diventa un problema politico e, da questo punto di vista, va ricordato che la gestione delle acque non è dello Stato, ma della Repubblica, ovvero tutti noi.

L’acqua è presente sulla Terra da quasi quattro miliardi di anni, e la sua quantità è tutto sommato costante. Non si tratta quindi di scarsità delle molecole che compongono l’acqua ma dalle mille espressioni che queste assumono sul territorio fino ad avere troppa acqua di un tipo contemporaneamente a scarsità d’acqua d’altro tipo. L’acqua insomma non va considerata come una sola cosa, ma è in realtà un insieme di prodotti diversi in cui l’uno non può sostituire l’altro. Per fare degli esempi l’acqua impiegata per un processo industriale non può sostituire l’acqua potabile destinata ad un ospedale, così come l’acqua che un contadino pompa dai fossi, variabile a seconda della disponibilità, per irrigare i propri campi, non sostituisce quella che esce dai nostri rubinetti sette giorni su sette. 

Del totale di acqua che cade sul paese (nel grafico la distribuzione dell’altezza di precipitazione annua media, in mm, del periodo 1961-2017) tra un terzo e la metà viene intercettato dalla vegetazione prima che possa raccogliersi nei corsi d’acqua e torna in atmosfera per evaporazione diretta o per traspirazione vegetale. Abbiamo dodici milioni di ettari agricoli e tre milioni di pascoli o aree incolte: tutto ricoperto da vegetali, a cui dobbiamo aggiungere qualcosa come undici milioni di ettari di foreste o boschi (ne ho parlato anche qui).

Solo considerando l’area agricola qualcosa come 100 miliardi di metri cubi l’anno evaporano o traspirano e tornano in atmosfera. I boschi intercettano circa un terzo di ciò che vi piove sopra: più o meno altri 30-40 miliardi di metri cubi.

Ma l’importante non è solo ovviamente quanto piove, ma quando e con quali modalità. In Italia andiamo da un minimo di 15 miliardi di metri cubi in luglio a due picchi massimi, in aprile con 27 e da novembre a dicembre, con 33. I vegetali seguono un ritmo adattato, con un picco a giugno di evaporazione di circa 25 miliardi di metri cubi che corrispondono a poco più delle precipitazioni medie del periodo.

La siccità non è quindi solo un problema di scarsità ma anche e soprattutto di sfasamento tra bisogni e disponibilità, non quanto, ma quando.

Fondamentalmente l’acqua piovana subisce due destini: quella che chiude il suo ciclo idrologico con la traspirazione delle piante, la cosiddetta «acqua verde», e quella raccolta in fiumi e acquiferi sotterranei, l’«acqua blu».

L’agricoltura sopperisce alla scarsità irrigando con acque che sono raccolte in fiumi e falde, che raccoglie tra i 100 e i 150 miliardi di metri cubi l’anno che vanno poi ad alimentare invasi e canali d’irrigazione o centrali idroelettriche, drenando verso il mare.

L’irrigazione richiede tra i 10 e 30 miliardi di metri cubi l’anno, variabilità enorme che dipende dalle condizioni climatiche. Ma mentre l’acqua che viene dalla falda attraverso un pozzo, o dal fiume, e che viene assorbita per fotosintesi o che in parte evapora, è acqua effettivamente consumata, quella che percola e torna in falda o al fiume attraverso il terreno fluirà a valle e potrà diventare la risorsa di un altro. Lo spreco di uno può diventare la fonte di un altro.

L’acqua potabile è l’elemento importante per distinguere tra uso e consumo, acqua che estrae meno di 10 miliardi di metri cubi l’anno dal totale dell’apporto, circa il 3 percento; un volume comparabile all’uso industriale dell’acqua ma tutto sommato entrambi minori perché, anche se a condizioni diverse, gran parte di quest’acqua torna sul territorio.

Tutti questi bisogni in conflitto tra loro, se mal gestiti, illustrano il problema dei fiumi in secca: basta che piova meno o che faccia più caldo e le foreste vanno in sofferenza, aumentando il rischio incendi che generano un feedback negativo sul bilancio gli agricoltori che si trovano costretti ad estrarre più acqua dai fiumi per tentare di compensare e, con i volumi visti, basta davvero poco per portare a estrazioni enormi: l’estate del 2022 è stata emblematica con le ridotte o assenti precipitazioni e le temperature sopra la media.

La siccità appare quindi un sintomo dell’incapacità di riorganizzare usi e bisogni ed è questo che preoccupa a fronte di un cambiamento climatico secolare e in accelerazione. E, per proprietà transitiva, la cosa vale per qualsiasi altro tipo di risorsa, come ho evidenziato in un mio precedente post.

Sprechi

In Italia si spreca un sacco di acqua, si dice. Partendo dal concetto che al mondo non esistono reti di distribuzione che non perdono in Italia, mediamente, si perde dal 30 al 40 percento dell’acqua per danni di vario tipo alle condutture, un’enormità: con variazioni locali ad ampio spettro (ad esempio si perde il 10 percento a Milano e fino al 70 a Frosinone). I tedeschi perdono mediamente il 10, gli inglesi il 20 e gli irlandesi il 50 percento. Il problema del gocciolio della tubatura che riempirebbe appena una lattina in un’ora, che sembra un’inezia, diventa gigantesco se pensate ai milioni di chilometri di tubature esistenti sul territorio.

Ma problema è innanzi tutto economico: il costo medio di 1,5 euro al metro cubo in Italia contro i 4,5 della Germania spiega perché gli interventi di manutenzione della rete idrica tedesca siano costanti ed efficaci mentre da noi si investe meno della metà in tal senso, pur ammettendo che l’aspetto morfologico di buona parte del nostro territorio rende complesse queste azioni. Comunque sia, goccia dopo goccia, si perdono soldi: tra 3 e 6 miliardi di euro l’anno, tanto quanto servirebbe per ammodernare gli impianti e sottoporli a manutenzione costante. Ma per risparmiare occorre riparare, e per riparare occorre investire in anticipo.

Nessuno si prende l’onere di farlo. Compensare con dissalatori e trattamento di acque reflue? Impossibile, troppo costose da noi rispetto al costo medio al metro cubo, talmente cara sarebbe quell’acqua da mandare in bancarotta l’agricoltore che dovesse servirsene.

Azioni

Siamo un paese adattato perfettamente a condizioni climatiche…che stanno cambiando. Per questo è fondamentale capire ed accettare che occorre cambiare adattandosi alle condizioni che verranno, anzi, che sono già in atto.

Si deve investire in agronomia affinché vengano coltivate varietà meglio adattate a condizioni di aridità. La soluzione è determinata da cosa si coltiva. E gli investimenti in agronomia assumono un ruolo ancor più importante sapendo che non sarebbe mai possibile adottare un modello di agricoltura estensiva. Occorre inoltre investire nello snellimento della burocrazia affinché sia possibile per qualcuno passare la propria acqua a qualcun altro, a fronte di un pagamento; questione complessa e delicata, a rischio di essere monopolizzata da speculatori, e certamente non può essere lasciata in mano ai singoli agricoltori. Infine, si potrebbe pensare al commercio internazionale, come già fanno da tempo Israele o gli Emirati Arabi, che importano acqua. Dopo tutto l’Italia è già un importatore netto perché ogni anno, sottoforma di prodotti agricoli coltivati all’estero con l’acqua di qualcun altro, importa qualcosa come il doppio del flusso medio del Po, esportando la metà. 

Ma non basta. Occorrerebbero più invasi, soprattutto in vista di un minor accumulo nevoso cronico.  Abbiamo invasi per 10 miliardi di metri cubi, la metà del fabbisogno irriguo annuo. In Spagna per 50, due anni e mezzo di bisogni irrigui, gli Stati Uniti hanno stoccaggi per 700 miliardi contro circa 160 di necessità annua, più di 4 anni. E nonostante questo anche questi paesi soffrono problemi di siccità, mettendo in ulteriore evidenza la gravità del fenomeno italiano.

Ma ecco che subentrano problemi politici, sociali e territoriali. Aumentare la sicurezza idrica significa intervenire sulla gestione dell’intero territorio, ovvero quasi cento autorità nazionali, regioni, centinaia di comunità montane e oltre ottomila comuni. Da normare e coordinare.

Allo scopo di coordinare l’uso dei bacini in maniera ottimale, si è cercato di metter mano alla struttura territoriale delle amministrazioni. Ma la nascita delle Autorità di Bacino, che nonostante il nome non ha alcuna autorità strategica, non ha cambiato molto l’intrico burocratico e amministrativo con cui confrontarsi in progetti del genere, a scala nazionale, pur con la consapevolezza che l’acqua si sposta muovendosi attraverso i confini. E soprattutto, cosa potrebbe convincere un abitante delle Prealpi a realizzare un invaso la cui eccedenza potrebbe aiutare un produttore di riso del vercellese o del novarese? (l’Italia produce circa la metà del riso europeo e le risaie rappresentano circa il 40 percento dell’uso irriguo italiano).

Per rispondere ai bisogni idrici occorre imporre scelte che vanno oltre il territorio in cui si accusa la sofferenza. Ci sono studi che dimostrano che lo scioglimento stagionale dei ghiacciai potrebbe essere usato per riempire, tutti da realizzare, invasi per circa un miliardo di metri cubi. Ma a parte l’esiguità dell’acqua accumulata a fronte delle esigenze ma come trasmettere il messaggio che qualsiasi aspetto locale non può prescindere dal benessere totale, anziché fossilizzarsi nell’egoismo territoriale? Ci sono state polemiche persino in occasione della realizzazione delle vasche di espansione di alcuni fiumi in cui i territori interessati protestavano chiedendo fossero spostate altrove.

Ricalcolare i rischi

L’Italia è attraversata da 200.000 km di canali e protetta da quasi 20.000 km di argini. Nel corso dei secoli il territorio e l’assetto idrografico hanno assunto le caratteristiche che vediamo oggi rendendo il paesaggio quasi esclusivamente artificiale, prodotto delle attività umane. Ci sono innumerevoli esempi storici, fin dall’epoca romana, che dimostrano come l’ingegno e la perizia dell’ingegneria idraulica fossero tese a trasformare il paesaggio, la rete idrografica, ora per proteggere le città dalle inondazioni, ora per prosciugare paludi, ora per creare canali navigabili. Il paesaggio è stato storicamente ingegnerizzato per rispondere alle esigenze del momento. 

Se il potere è il prodotto della costruzione di una volontà comune, come disse Hannah Arendt, e in una società democratica la volontà comune è frutto del coinvolgimento della collettività, occorre prepararsi ad una nuova realtà della gestione del rischio, laddove quello idrogeologico nel nostro paese è anche frutto dell’adattamento che il nostro paese ha avuto finora rispetto ad un paesaggio considerato statico e senza considerare le conseguenze di un clima che sta cambiando, che è cambiato, aggravato dalla mancanza di una visione comune responsabile.

Non va nemmeno dimenticato che l’intervento umano, inoltre, risolve molto spesso oggi ciò che domani potrebbe essere un problema. Ci sono innumerevoli esempi storici svoltisi nel corso di secoli già a partire dal Medioevo: le opere effettuate sul Delta del Po che altrimenti non sarebbe affatto esistito o quanto meno avrebbe una forma completamente diversa, la mutata idrografia della Romagna, la trasformazione del territorio facente capo a Milano con la realizzazione di vie d’acqua prima inesistenti. Grazie alla sicurezza idrica creata da quegli interventi sono aumentati produttività agricola e industriale, creando flussi di immigrazione e aumento del benessere, fino al punto che le difese idrauliche hanno permesso alla popolazione di dimenticarsi cosa fosse il territorio d’un tempo e il motivo per cui furono realizzate.


Più le difese sono efficaci più i rischi si riducono a quelli estremi ed improbabili, ma sempre possibili. E intere comunità si stabiliscono all’ombra di questi rischi statisticamente minimi, aumentando la loro vulnerabilità. Più siamo bravi a contenere rischi frequenti, più ci esponiamo a un fallimento catastrofico legato ai rischi estremi che eccedono la nostra esperienza. Il cambiamento climatico sta rendendo normale ciò che un tempo era eccezionale. E lo viviamo anno dopo anno, anche in questi giorni in cui, ad autunno appena iniziato, si ripropongono puntuali, ormai normalità statisticaallagamenti e inondazioni da noi così come nel resto del continente europeo.

Quando per decenni si è creduto di essere al sicuro e si assiste invece allo stravolgimento della propria vita a causa di piogge catastrofiche ci si lascia andare a recriminazioni indistinte, come se la cosa fosse responsabilità esclusiva e solo degli amministratori odierni o passati che non hanno curato la gestione dei fossi, dei tombini, degli argini o delle caditoie. Ma non è così semplice. Da tempo sappiamo che i cambiamenti climatici avrebbero prodotto periodi più lunghi di scarsità e precipitazioni sempre più erratiche e intense.

Ciò che è stato fatto, la prevenzione con bonifiche, infrastrutture, canalizzazioni, argini e quant’altro la natura è cambiata a causa dei cosiddetti eventi estremi: ciò che era valido vent’anni fa non lo è più. E nemmeno è lecito usare questi eventi come alibi alle mancanze. Col clima che cambia, e con esso la statistica degli eventi meteorologici, infrastrutture e istituzioni idriche atte gestire la variabilità del clima e dell’acqua e progettate per rispondere alle diverse esigenze storiche, non sono più calibrate per ciò che ci aspetta: coordinare l’adattamento necessario, ricordando che le scelte fatte per risolvere i problemi di ciascuna generazione hanno sempre portato col definire le sfide di quella successiva. E per affrontarle è tassativo sapere dove si sta andando, quale futuro costruire.

No global? No party

Se la parola chiave è adattamento i cambiamenti dovranno essere radicali, ma senza un piano europeo per aumentarne le capacità non si va molto lontano. L’Unione Europea, il più grande progetto federale contemporaneo, deve realizzare in pratica che l’integrazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici sono inestricabili.

I fenomeni climatici hanno una geografia che trascende la scala individuale, addirittura va oltre quella di nazione. Gli effetti di El Niño non si limitano al Pacifico meridionale dove si manifesta ma modifica in modo statisticamente significativo il monsone indiano, lepiogge del Corno d’Africa, quelle degli stati sudoccidentali degli USA. Occorre affrontare le espressioni del clima terrestre con un’organizzazione sociale senza precedenti, su scala planetaria. Non bastano da sole le azioni degli enti che cercano un governo, che forniscono indirizzi o danno indicazioni, come ad esempio l’UNEP (UN Environment Programme) o la più nota UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), ma vanno coinvolte anche organizzazioni come il WTO (World Trade Organization).

La siccità che nel 2010 colpì la Cina, che reagì facendo scorta di cereali, ebbe una ricaduta economica sul mondo intero perché i prezzi quadruplicarono in breve tempo, con effetti globali a danno soprattutto dei paesi più poveri. E stiamo vivendo la crisi che ha scatenato il blocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina.

Ma non va dimenticato che esiste uno spettro continuo su cui si declinano i cambiamenti climatici, dalle scale globali a quelle nazionali e locali. E noi ci siamo dentro.

Le ricerche di IPCC (The Intergovernmental Panel on Climate Change) hanno dimostrato ampiamente che l’aera mediterranea è estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici perché saranno più pesanti che altrove. Un hotspot. L’Italia è il cuore del Mediterraneo. Se i paesi che si affacciano sul Mediterraneo risentiranno più di quelli del nord Europa dei cambiamenti climatici, Italia e Grecia ne soffriranno ancora di più, e, per restare da noi, le regioni del sud più che quelle del nord. Ma il fenomeno interessa l’Europa intera, comunitaria o no. Le ricadute andranno ad intaccare le economie di tutti. Infrastrutture e istituzioni sono strumenti che convertono il clima reale, principalmente idrico, in condizioni operative imprevedibili.

La siccità e le inondazioni che investono ormai periodicamente l’Europa dimostrano che sta succedendo qualcosa che impone di rivisitare la nostra relazione continentale con il paesaggio. Non siamo certamente al collasso ma i rischi legati al clima fisico hanno creato un’esperienza collettiva. 

Nel bilancio della UE e nel piano NextGenEU non si vede purtroppo traccia concreta di un intervento lucido e disciplinato sull’adattamento del continente ai cambiamenti in corso. Va bene focalizzarsi sulla transizione energetica e sulla digitalizzazione, temi indubbiamente importanti, ma occorre anche un approccio sistematico all’adattamento, visto che l’Europa si sta scaldando più in fretta del resto dell’emisfero boreale e la sua parte meridionale più in fretta del resto del continente.


Non si è, nonostante le evidenze, riusciti a spiegare e trasmettere il messaggio che i cambiamenti climatici ci costringono non solo a limitare i rischi, ma soprattutto a ripensare le attività produttive, l’urbanizzazione e la gestione del territorio di una parte importante del continente. La debolezza politica dei paesi dell’Europa del sud è non solo causa della mancata visione economica e politica ma soprattutto mancanza di visione politica comune per l’intera UE.

L’ambiente è sempre stato al cuore del progetto europeo: la Carta europea deidiritti fondamentali dichiara che: «un livello elevato di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell'unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile.» e, almeno negli intenti, la cosa è stata recepita anche in Italia.

In un clima che cambia l’unione deve uscire dall’ambiguità e abbracciare il proprio ruolo di una nuova federazione modello, un’unione politica forgiata per essere adatta alla frontiera del cambiamento climatico: l’Italia è il cuore di questa frontiera, di fronte ad una sfida epocale. Il clima sta cambiando e la Repubblica italiana deve tutelare il paesaggio produttivo per mitigare la diminuita disponibilità di risorse: le istituzioni dovranno fare delle scelte che la cittadinanza dovrà giudicare.

Le iniziative individuali sono le benvenute e vanno incoraggiate ma la domanda fondamentale che ognuno di noi deve porsi è questa: cosa vogliamo vedere quando guardiamo fuori dalla finestra? La nostra responsabilità di cittadini è avere un’opinione sull’aspetto che dovrà avere il nostro paesaggio.

Affrontare il cambiamento

Il cambiamento climatico va affrontato con una sfida relativa alla gestione del paese, che va spiegata ai cittadini perché ciò che oggi definiamo emergenza rappresenta qualcosa che sarà molto più comune in futuro.

Il dibattito odierno è bloccato su posizioni pressoché dogmatiche, inutili e sterili. Da una parte c'è chi dice che l'agire deve avvenire solo in risposta al rischio evidente di catastrofe climatica, posizione stupida perché quando e se coloro che la sostengono avranno avuto ragione sarà troppo tardi per le reazioni; d'altra parte, gli oppositori più che far finta di nulla non esprimono, accusando di catastrofismo i primi. Possiamo discutere sull'utilità, soprattutto politica, di una narrazione catastrofista, ma non possiamo negare che se non verrà posto un freno o un limite alle emissioni di gas serra i ghiacci dell'Artico e della Groenlandia si scioglieranno, e, una conseguenza tra le centinaia possibili, il conseguente innalzamento del livello del mare allagherà la Pianura Padana fino a Piacenza.

La scienza non deve legittimare le scelte politiche, perché la tecnologia, sua derivazione, è fonte di potere, ma è indiscutibile che deve fornire i mezzi per supportarle, per guidarle; e la politica al tempo stesso deve innanzitutto fare in modo che il linguaggio scientifico sia reso accessibile alla cittadinanza, sia capito in modo che questa possa sostenere e legittimare le scelte politiche, affinché le scelte condivise siano sottoposte al vaglio della comunità.

I risultati scientifici sono comunque chiari: il clima cambierà. Resta da capire quanto. E va ulteriormente ribadito che questi risultati non derivano da domande poste da ambientalisti in cerca di conferme alle loro tesi particolari ma derivano da interrogativi che nacquero quando si cercava di capire come funziona il sistema, senza scopi politici reconditi, quando la climatologia muoveva i primi passi. Come veicolare questi risultati al grande pubblico è fondamentale, bombardato continuamente dalla diffusione di false notizie amplificate dalla cassa di risonanza dei social realizzate perlopiù per strumentalizzare, in un'epoca di incremento del disinteresse e dell'ignoranza generalizzata. La climatologia ha già fatto la sua parte, occorrono adesso scelte che non siano solo basate su principi di precauzione, notoriamente inutili in questi casi perché non indicano una strada univoca.

Si deve mobilitare la responsabilità individuale come accadeva nei primi anni 90 durante i quali le pressioni della comunità internazionale spingevano, a fronte della paura dell'aumento di dimensioni del cosiddetto “buco nell'ozono”, affinché fossero ridotte o eliminate le emissioni di freon.

Sappiamo che i cambiamenti sono già in atto, vanno gestiti.

Un'ulteriore complicazione deriva dall'aumento della distanza tra i contenuti scientifici e la politica. E ciò si aggrava alla luce delle fratture geopolitiche del XXI secolo che minacciano le istituzioni multilaterali stesse[2] e con esse la comunità scientifica internazionale, aumentando il rischio da una parte che ridurre il perimetro della condivisione della conoscenza vada a ridurre le capacità di azione delle comunità più deboli o che l’accentramento di questa nelle mani dei paesi più ricchi, possa creare dei monopoli di potere pericolosi. Si pensi ad esempio proprio alla climatologia, che si avvale ormai di un'infrastruttura computazionale gigantesca, di scala industriale, accessibile a pochi paesi e centri di ricerca.

I tecnici dovranno ulteriormente guadagnarsi la fiducia di una cittadinanza abituata a non sapere della loro esistenza e a dubitare della legittimità delle loro opinioni. I problemi potranno essere risolti in maniera condivisa quando saranno chiare a tutti le definizioni tecniche e la gravità della situazione. Se la cittadinanza non percepirà la propria responsabilità nel contribuire a soluzioni condivise tutti gli sforzi saranno vani, ancora di più in un paese come il nostro che ha sempre faticato a fare dell'educazione civica il pilastro centrale della scolarizzazione.

Dopo tutto, la formula di valutazione del rischio, genericamente dato, è semplice. S’intende la probabilità per cui un pericolo crei un danno e l'entità del danno stesso. Come riassunto nella tabella riportata in precedenza il rischio connesso a un determinato pericolo viene calcolato mediante la iformula: R = P x E Quindi il rischio (R) è tanto più grande quanto più è probabile (P) che accada l'incidente e tanto maggiore è l'entità del danno (E). Le probabilità che eventi in grado di procurare danni notevoli si verifichino sta aumentando, è già aumentata come, ripetiamolo, normalità statistica. Non mi sembra così difficile da capire.



[1] Sappiamo che 1 mm di pioggia caduta corrisponde all’altezza di 1 litro d’acqua caduto su 1 metro quadro. Usando la media 1961-2017 della pioggia caduta sul territorio nazionale, ovvero circa 935 mm ogni anno, arrotondiamola a 1000 mm, cioè un metro. Sapendo che il territorio italiano ha un’estensione di 302.073 kmq, i mq equivalenti sono, arrotondando, circa 3x1011 mq. Moltiplicando 1 m x 3x1011 mq otteniamo appunto circa 300 miliardi di metri cubi d’acqua ogni anno.

[2] Ne è stato dato un esempio nel precedente post a proposito dell’azione della Russia, membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nei confronti di un altro stato membro, l’Ucraina.

Nota bibliografica. Liberamente ispirato dai capp. I, II, III e V di “Siccità. Un paese alla frontiera del clima”. Di Giulio Boccaletti, 2023.

Otto miliardi...e continua

Per quasi tutti noi il passato si ferma un paio di generazioni fa: quanti di noi conoscono il nome di tutti i loro bisnonni? Eppure se abbiamo certe caratteristiche lo dobbiamo a loro. E le genealogie si moltiplicano: due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via. E ognuno di loro aveva a sua volta otto bisnonni…Venti generazioni fa, più o meno due secoli e mezzo, fa 220 antenati: un milione circa. E nel DNA di ognuno di noi c’è un milionesimo del loro DNA. Pochissimo, dal punto di vista strettamente genetico, ma molto da altri punti di vista. Siamo elementi di una continuità genealogica che proviene dalle profondità del tempo e si estenderà nel futuro, se non saremo così stupidi da compromettere la nostra stessa sopravvivenza.

Alla fine del 2022 la popolazione mondiale ha superato la soglia degli 8 miliardi di individui, il 7% vivente dei circa 114 miliardi di tutti gli esseri umani che hanno mai abitato il nostro pianeta. Dai 4 milioni di circa 10.000 anni fa, all’inizio della rivoluzione agricola, l’umanità è salita gradualmente a circa 800 milioni al momento della prima rivoluzione industriale, avvenuta solo due secoli fa. In confronto all'arco temporale della storia umana, che abbraccia più di due milioni di anni, l'incremento del numero di persone sulla Terra si è verificato principalmente negli ultimi due secoli, risultando in una concentrazione senza precedenti.


Tutti dovrebbero conoscere il biologo americano Paul Ehrlich che nel 1968 scrisse un libro, The Population Bomb, in cui dipingeva a tinte fosche il futuro, prevedendo centinaia di milioni di morti per fame e con l'India che non sarebbe sopravvissuta oltre il 1980.

Nulla di tutto ciò accadde. Restando ancora all'India la sua popolazione è raddoppiata rispetto al 1968, ha di recente superato la Cina, ma è anche il paese che ha più che triplicato la propria produzione di grano e riso e la sua economia è cresciuta di cinquanta volte. 

Ancora, nel 1990, meno della metà della popolazione della Terra aveva accesso a sistemi di distribuzione idrici centralizzati; oggi questi sistemi raggiungono il 60 percento della popolazione, un successo enorme se si tiene conto che nel frattempo siamo passati da 5,3 a quasi 8 miliardi di persone.


I miglioramenti sono inoltre ovunque: una famiglia media oggi spende per il cibo una percentuale minore del proprio budget di quanto non accadesse trenta anni fa.

Attenzione, ciò non significa che sia partita una inesorabile marcia verso il progresso e il benessere per tutti né voglio sostenere con questo che la malnutrizione non sia un problema serio o drammatico in alcune zone del mondo.

E anche se non possiamo liquidare Ehrlich dandogli del catastrofista la sua previsione era sbagliata.


Non aveva tenuto conto della forza dell'innovazione, comprese le varie rivoluzioni agricole che hanno consentito di produrre una quantità di cibo per ettaro maggiore, un aumento di resa con la selezione artificiale di nuove varietà.

Ancora attenzione però. Abbiamo appena sfondato il muro degli 8 miliardi di terrestri, entro la fine del secolo ce ne saranno 10. Tutti da nutrire.

Un incremento in percentuale di popolazione non significa produrre cibo in più con un aumento dello stesso valore: molto di più, con parametri diversi per l'uso del suolo da destinare a terreni agricoli, risorse idriche, dinamiche di mercato, ridistribuzioni.

E tutto questo perché man mano che il benessere si diffonde, che la gente diventa più ricca, assume più calorie e in particolare assume più carne e più latticini, che a loro volta richiedono la coltivazione di maggiori quantità di cibo da destinare alla zootecnia. In altre parole, il tasso di crescita del cibo necessario per sfamare una popolazione in crescita è molto più alto che non quello della popolazione stessa. Ricorda un po' Malthus, un altro che, in buona fede, aveva dipinto a tinte fosche il futuro dell'umanità, pur se guidato dalle più nobili intenzioni, ma pur sempre "vittoriane". 

Ancora una volta l'innovazione consentirà di produrre più cibo, di aumentare ulteriormente la resa, ma se continuiamo a produrlo con gli stessi metodi che usiamo adesso, le conseguenze climatiche saranno disastrose. E soprattutto drammatiche saranno le conseguenze sociopolitiche e dei fenomeni migratori che da sempre accompagnano la storia dell’umanità. Fenomeni ulteriori su condizioni già aggravate dal clima che cambia, di quanto e quando non è dato saperlo con certezza ma prima di quanto si possa sperare. Persino l'immagine dell'affollatissimo treno indiano è cambiata: fino a vent'anni fa si viaggiava in quelle condizioni ma adesso il 90% della rete ferroviaria indiana è elettrificato e sarebbe mortale viaggiare sul tetto.

Alla fine dell’Età del Bronzo, circa 3500 anni fa, Ugarit era una delle capitali più ricche, grandi e multiculturali del Vicino Oriente, parte di un sistema economico regionale integrato. Poi scomparve. Dimenticata fino alla sua scoperta da parte degli archeologi. Sappiamo che la sua fine avvenne durante un periodo di cambiamento climatico ma la sua scomparsa non fu determinata da quanto le accadeva attorno.

Ugarit, in poco più di un anno soltanto, fu distrutta da popolazioni provenienti dal nord dei Balcani che, a causa dei cambiamenti climatici, avevano visto collassare il regime agropastorale da cui dipendevano. La scia di distruzione che questi «popoli del mare»[1] lasciarono dietro di sé fu vastissima: cominciò in Anatolia, attraversò il Levante e arrivò in Egitto. Queste popolazioni caricarono vettovaglie e famiglie e si mossero in cerca di alternative per la loro sopravvivenza, senza intenzione di tornare indietro. Erano migranti, oggi diremmo forse migranti climatici.

Il rischio più grosso quindi, per le società ricche non è il cambiamento diretto delle proprie condizioni materiali, ma è la risposta indiretta ad impatti che si manifestano altrove. Il cambiamento climatico trasforma la realtà dei soggetti più vulnerabili che reagiscono di conseguenza, anche su periodi molto lunghi, a danno dei primi.

Negli anni ’70, su incarico dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro, fu chiesto all’economista indiano Amartya Kumar Sen, Nobel per l’economia nel 1998, di studiare ed esaminare le cause delle carestie. Fu dimostrato che la carestia non è dovuta alla mancanza di cibo, ma alla mancanza di accesso a questo. Non è un fallimento del sistema di produzione del cibo ma la perdita dei diritti sul proprio lavoro, su ciò che si compra o si produce. Ci sono numerosissimi casi che hanno dimostrato che spesso è stato l’aumento del costo del cibo, a parità di produzione, che ha impedito l’accesso e la fruizione di questo da parte delle classi meno abbienti. E il fenomeno è analogo a quello dell’acqua che impedisce, ad esempio, per mancanza di istituzioni adeguate, di ottenere acqua naturalmente disponibile se si realizzassero le infrastrutture necessarie, a costi contenuti e dover ricorrere ad esempio all’acqua in bottiglia o alle autobotti provenienti da chissà dove, a costi enormemente superiori.

Durante la Grande Depressione negli USA questi erano e restarono granaio del mondo; durante le carestie irlandesi del XIX secolo, persino durante quelle provocate da Stalin o da Mao, mentre la gente moriva di fame i paesi colpiti continuavano a produrre, addirittura ad esportare. Ovviamente il collasso della produzione è parte integrante della crisi ma è sempre instabilità o l’incapacità politica di ridistribuzione la causa prima.

Mancanza di accesso al cibo, povertà, carestie, non sono dovute alla crescita demografica incontrollata delle famiglie povere che producono troppe bocche da sfamare, come scriveva Thomas Malthus in un’ottica vittoriana ed aristocratica, anche se in buona fede e sinceramente preoccupato per la sorte dei poveri nel Regno Unito. Ricordiamo per inciso l'ispirazione che Darwin trasse dalle sue opere.

Ma è la mancanza di interesse da parte dei ceti più abbienti che, così come gli aristocratici contemporanei di Malthus temevano, non hanno alcun interesse a perseguire una crescita economica diffusa, perché il benessere alimenta desideri di emancipazione, di partecipazione, di influenza sulla vita politica ed economica.

E il problema non è nemmeno la sovrappopolazione ma la distribuzione dei diritti di accesso alle risorse come riportato all’inizio. La pandemia di Covid-19 ci ha dimostrato che, in un mondo interconnesso, nessuno è al sicuro finché tutti non lo sono.

Se è chiaro che l’agricoltura è la protagonista assoluta del nostro rapporto col clima, abbiamo già qualcosa come due miliardi di persone che da questa dipendono in condizioni estremamente vulnerabili: un miliardo di persone, poco meno del 20 percento, impiegato stabilmente come forza lavoro mondiale in campo agricolo e un altro miliardo nell’agricoltura di sussistenza. Abbiamo 65 milioni di rifugiati a livello mondiale, ogni giorno 28.000 persone, in fuga da violenze, conflitti e persecuzioni, abbandonano le loro case. Qualcosa come 26 milioni di persone ogni anno, dal 2008, sono state vittime di disastri naturali, soprattutto legati all’acqua, che ne hanno provocato lo sfollamento. E gli impatti subiti dai più vulnerabili si riflettono sulla vita di tutti, da sempre.

Le migrazioni degli Unni del IV secolo, causate quasi certamente da cambiamenti climatici, spinsero i Goti verso il limes, il confine romano. La politica di accoglienza dell’Impero funzionò per un po’, ma cause varie condussero Roma a perdere il controllo della situazione e nel giro di un secolo una serie di eventi portarono alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Delle decine di milioni di europei che migrarono verso gli Stati Uniti, qualcosa come quattro milioni lo fece alla fine del XIX secolo, a causa delle prolungate siccità: migranti climatici diremmo oggi. Questi, entrando in conflitto con le classi lavoratrici urbane furono incoraggiati dal governo a spostarsi verso Ovest, le piogge che non vennero associate a pianificazioni agrarie sbagliate prepararono il terreno per il disastro del Dust Bowl, con conseguenze drammatiche per tutto il paese.

Energia idroelettrica e dighe per il controllo dell’acqua, spesso integrate in un’unica infrastruttura, hanno costituito la piattaforma per lo sviluppo e per la modernizzazione di Europa e Stati Uniti per almeno un secolo, attraversando la storia del Novecento. La percezione che ora si ha di questo modello è radicalmente diversa tra paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, o che lo erano fino a non molto tempo fa come Cina ed India tuttora in corsa per continui primati economici. 

Quando nacque la “Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici” (UNFCCC), nel 1992, si era già al punto in cui tutto ciò che doveva essere costruito era già realizzato, che esistevano alternative energetiche plausibili se non possibili, si era insomma in un momento, spinti anche dai movimenti ambientalisti, antidighe, al punto che si iniziò persino a smantellarne qualcuna nel nome del ripristino delle condizioni naturali, emblematica è l’epopea della diga sul fiume Elwha, nello stato di Washington. Insomma, i paesi più ricchi, grazie alle alternative esistenti, iniziarono a potersi permettere di seguire percorsi diversi. Un punto di vista dal quale i paesi emergenti o più poveri, dissentono completamente.

In controtendenza, lo stesso anno la Cina diede inizio alla costruzione della gigantesca Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro; e non fu un caso isolato, continuando a realizzare centinaia di dighe di piccole dimensioni ed una dozzina di dighe gigantesche nel bacino del Mekong. Posizioni fortemente divergenti furono espresse fin dall’inizio dal Brasile e dall’India, che mettevano in evidenza come per oltre un secolo Stati Uniti ed Europa avessero beneficiato di infrastrutture che hanno trasformato il territorio ed agito da volano per l’economia, non comprendendo i motivi per cui i paesi meno abbienti non possano fare lo stesso. Nel nome della transizione ecologica e del ripristino degli ecosistemi i paesi ricchi dimenticano, o fingono di farlo, che se tutto questo è avvenuto è perché l’economia globalizzata ha consentito di spostare la produzione industriale verso nazioni con un costo del lavoro più basso e regole ambientali meno restrittive o del tutto assenti.

Le nazioni che ancora devono impegnarsi nel tipo di trasformazione che possa garantire loro la sicurezza idrica, madre di tutte le altre, perché dovrebbero scegliere un percorso diverso da quello seguito dal mondo ricco? Perché dovrebbero seguire le indicazioni di quest’ultimo senza un’evidenza storica di successo, senza ricevere sussidi, persino quando promessi, senza protezione dai rischi imprevisti di un percorso impegnativo? Come minimo le nazioni ricche dovrebbero sostenere i costi dell’innovazione.

L’aiuto e la ridistribuzione nei confronti dei paesi più poveri sono tassativi. Ma disattesi o semplicemente ignorati. Non un solo dollaro dei cento miliardi, da erogare complessivamente ogni anno, promessi nel 2009 dai paesi ricchi, Italia compresa, è mai arrivato (promessa reiterata nel 2015, nell’accordo di Parigi, al G7 del 2021, alla COP26 dello stesso anno). Si sarebbe trattato di un impegno tutto sommato modesto rispetto alle reali esigenze, ma sarebbe stato già qualcosa, un segnale politico importante. Non si tratta di cinismo politico ma di ottusità: non si capisce che, se i paesi in via di sviluppo non riusciranno a proteggere la propria popolazione dalle conseguenze di un clima che cambia, la catena di eventi che ne segue sarebbe imprevedibile. Dobbiamo concentrarsi sulle esigenze dei più vulnerabili; la storia insegna che la sicurezza delle nazioni più ricche dipende dalle condizioni dei più poveri, dal fatto che abbiano le infrastrutture e le istituzioni necessarie per il loro futuro, ovunque essi vivano.

Se non si aumenta la resilienza di tutti molte più persone si avventureranno verso le coste dei paesi ricchi, incoraggiati da immagini di una vita migliore e più sicura. Il pastore del Sahel conduce le greggi come mille anni fa ma adesso ha uno smartphone.

E’ moralmente indifendibile il non aver onorato le promesse fatte, ma oltre che persino peggiore è stata e sarà una pessima scelta strategica e politica.



[1] Così chiamati dagli archeologi del XIX secolo 

Nota bibliografica. Liberamente ispirato dal cap. VII di “Siccità. Un paese alla frontiera del clima”. Di Giulio Boccaletti, 2023.