[Nota] – Questo post nasceva nei giorni immediatamente precedenti alla immane tragedia che ha colpito la Spagna. Pur cercando di restare su temi di carattere generale gli eventi di Valencia non possono essere ignorati, soprattutto per il seguente preciso motivo.
Le condizioni geografiche e geomorfologiche di buona parte del nostro paese non sono poi così diverse da quelle della costa meridionale spagnola. Come quella abbiamo rilievi montuosi, bacini idrografici relativamente corti e stretti e con corsi d'acqua principali che si riversano a mare lungo brevi tratti di pianura costiera, a stretto intervallo l’uno dall’altro. Urbanizzazione altissima, consumo di suolo a livelli drammatici. Oltre che, come qui cerco di trattare, una serie di azioni non fatte, spesso nemmeno mai immaginate né pianificate, aggravate invece da quanto fatto. Nessuna regione italiana è immune al rischio idrogeologico.
E le condizioni dettate ormai
dal cambiamento climatico non ci esentano dal subire anche noi eventi
estremi analoghi a quello spagnolo, le cui prove generali sono già state fatte,
più volte.
Nel frattempo da ben tre
legislature si cerca di far approvare una legge che fermi il consumo di suolo.
E ricordiamo sempre che anche se è molto facile attribuire ogni evento estremo al cambiamento climatico, questo non è la causa, ma l'effetto. Le cause vanno cercate nelle nostre abitudini energetiche, produttive, alimentari. E prima ancora nelle tre principali fonti di energia: carbone, gas naturale e petrolio.
Il post sarà articolato in due parti: in questa, la prima, ci saranno considerazioni generali, e sarà utile soprattutto a collegare i messaggi e gli ammonimenti che la comunità scientifica manda continuamente, colpevole forse di non essere in grado di farsi ascoltare come dovrebbe. La seconda sarà invece più specifica, sugli effetti dell’insieme degli interventi di trasformazione e alterazione che l'uomo compie sul territorio allo scopo di adattarlo ai propri interessi e alle proprie esigenze; in una parola, antropizzazione.
Al solito
“Indi la valle,
come 'l dì fu spento,
da Pratomagno al
gran giogo coperse di nebbia;
e 'l ciel di sopra fece intento,
sì che ‘l pregno aere
in acqua si converse;
la pioggia cadde e
a’ fossati venne
di lei ciò che la
terra non sofferse;”
Dante (Purgatorio V, 118-120)
In Italia in un anno riceviamo
tra 250 e 300 miliardi di metri cubi d’acqua, il che, come ci dice la media 1961-2017,
fa qualcosa come 935 mm/anno, più o meno come in Gran Bretagna (si veda anche qui).
Solo che ormai da parecchi anni ne arriva troppa tutta insieme, troppo
velocemente, devastante e inutile per il prezioso lavoro di ricarica delle
falde freatiche, coinvolgendo località che, a memoria d’uomo, non hanno mai
annoverato eventi meteorici e alluvionali di portata disastrosa, come accaduto
giusto qualche giorno fa a Civitavecchia
e sul litorale tirrenico tra la cittadina e l’Aurelia, qualche decina di
chilometri appena a nord di Roma. Nella regione spagnola colpita dalla
catastrofe climatica è caduta in poche ore la quantità di pioggia che cade in un anno, qualcosa come mezza tonnellata
d’acqua per ogni metro quadro di superficie.
Appena un anno fa, tanto per non
perdere l’abitudine, mi cimentavo nel ricordarlo
ai tanti smemorati in mala fede.
Un aumento termico che comporta
un’enorme quantità di energia intrappolata
nell’atmosfera, che a sua volta alimenta fenomeni meteorologici sempre
più violenti e imprevedibili: per ogni incremento di 1 °C
nella temperatura, l'atmosfera può contenere circa il 7% in più di vapore
acqueo, con conseguente aumento della probabilità di eventi meteo
estremi e, non ultimo, innescando inoltre un classico feedback di
rinforzo, visto che il vapore acqueo è esso stesso un gas serra.
Di conseguenza, alluvioni che in
passato si verificavano ogni 10 o 20 anni ora si ripresentano con una cadenza
sempre maggiore. L’aumento di 1,5 °C da non superare in
base a quanto sancito nel famoso Accordo di Parigi, già da solo è sufficiente per far sì che le
alluvioni considerate eccezionali diventino il 50% più frequenti. E con un
aumento di 2 °C questa frequenza potrebbe crescere fino al 70%.
Persino il fenomeno che ha scatenato l’alluvione di Valencia e delle regioni limitrofe riguardava fenomeni noti e tutto sommato piuttosto frequenti; che lo si etichetti come DANA, un termine piuttosto specifico e comunque non tecnico, molto in uso in Spagna o, com’era da sempre conosciuto, la cosiddetta “goccia fredda”, più informale e meno specifico per quanto riguarda le cause e le conseguenze del fenomeno stesso. Resta comunque una sorta di bolla di aria fredda proveniente dalle correnti a getto che si stacca e muove autonomamente verso sud.
Ma se questa zona concentrata e fredda, e quindi più densa, muove verso sud e inizia a scendere di quota, incontra aria calda e umida sottostante, molto calda se, come in questo periodo il Mediterraneo è 3-4 °C sopra la media ecco pronta la ricetta per il disastro: temporali autorigeneranti dove l'aria viene come risucchiata dalle basse quote e, salendo, si raffredda rapidamente, facendo condensare il vapore acqueo che va a rifornire continuamente di nuovo materiale la cella temporalesca man mano che l'acqua viene scaricata al suolo sotto forma di precipitazioni, intensissime e che possono durare ore concentrate su una regione ristretta.
Numeri e fenomeni quindi li
conosciamo, possiamo approfondire quanto si vuole, ma il risultato non cambia. Perdita
di vite umane, danni catastrofici, intere comunità bisognose di tutto per anni,
migliaia di sfollati, territori devastati e soprattutto uno sperpero di miliardi di denaro pubblico per
intervenire dopo che il danno è fatto, a costi
di diversi ordini di grandezza superiori a quanto occorrerebbe spendere in
prevenzione e manutenzione e, forse peggio, impiegando anni per ripristinare, o
più spesso tentare di farlo e in modo parziale, quanto perduto in termini di
infrastrutture e risorse, a cui aggiungere anche danni ambientali e paesaggistici, alla faccia dell’Art. 9 della Costituzione.
La storia
E’ vero: trovare bacini idrografici
e fiumi adeguati a reggere al concentrarsi nel tempo e nello spazio di 200, 300
o più millimetri è rarissimo, pressoché impossibile: con questi valori non c’è
terreno che tenga, ma ciò non deve essere utilizzato come alibi riparandosi dietro l’ineluttabilità dell’evento
forse imprevedibile, ma sicuramente prevenibile in una certa qual misura. E da
questo punto di vista trovano ampia umana giustificazione le immagini dei
valenciani lanciare palate di fango al re e al primo ministro giunti in visita.
Tanto per avere un ordine di
grandezza e fare un po’ di storia ricordo che è indelebile il ricordo della
tragica alluvione di Firenze del 1966, che nell’immaginario collettivo resta la
più disastrosa di sempre. Ebbene, negli eventi alluvionali del novembre 2023
che interessarono essenzialmente il bacino del Bisenzio in Toscana, una
stazione idrometrica registrò circa 600 m3/s e un livello di massima
dell’onda di piena di quasi 6 metri di altezza, il doppio
di quanto registrato nel 1966.
Cronaca ordinaria ormai,
indipendentemente dalla frequenza, perché prevedibile conclusione di una serie
di eventi meteorologici estremi che da nord a sud colpiscono il nostro paese
con devastazioni del territorio e frequenza tali da mettere a dura prova la
tanto abusata parola: resilienza.
Cronaca e storia confermano che non c’è alibi che tenga.
La cosa fa ancora più rabbia, sia
per la memoria corta dell’essere umano con questa mentalità fatalistica
dell’ineluttabile, sia perché, sapendo che i fenomeni si vanno intensificando
in vari modi, nulla è stato fatto.
Così come avevo scritto tempo fa, evidenziando una certa statistica della regione emiliana colpita dagli eventi alluvionali nel maggio 2023, e ancora recentemente nel settembre 2024, molto spesso la storia ci racconta che alcune regioni sono più o meno da sempre andate soggette ad eventi alluvionali importanti, spesso gravi e a volte catastrofici, nonostante una minor quantità di pioggia caduta, le cui registrazioni sono per lo più iniziate nel XX secolo.
Anche la regione valenciana ha
una storia, importante e dimenticata, di alluvioni importante. Qui la triste cronologia.
Quindi?
Ma, dopo le asettiche e datocratiche
ricostruzioni quantitative, dopo aver reso in un certo qual modo
prevedibile quali e quanti potranno essere i danni ed altre conseguenze, la
domanda è: cosa fare e cosa non fare?
Ogni volta che avremo avuto un’esondazione, una tracimazione e un sormonto di argini, crollo di ponti, colate detritiche da 7-8 m/s che travolgono ogni cosa e via discorrendo, questi saranno solo gli ultimi di una lunga serie cronologica di eventi estremi che si stanno verificando sempre più spesso in Italia. Per quanto la non linearità della dinamica meteorologica di questi fenomeni possa rendere imprevedibili alcuni di essi, il gravissimo bilancio in termini di vittime e danni non è solo una conseguenza della quantità di pioggia caduta in poche ore, ma un esempio diretto dello scempio del territorio che è stato fatto in Italia, definirlo scorretto è un eufemismo; un paese nel quale non solo si fanno cose che non avrebbero mai dovute esser state fatte, ma che vengono in seguito addirittura condonate! E di contro, molto poco di quel che avrebbe dovuto essere fatto è accaduto.
Restringere, rettificare e spesso
intubare i corsi d’acqua impedisce loro di esondare facilmente, di depositare i
sedimenti nelle pianure che prima allagavano, come gli egizi ben sapevano
attendendo ogni anno che il prezioso limo fertilizzasse i loro campi. Se a
qualsiasi corso d’acqua togli l’area su cui scorrere tornerà a farlo prima o
poi, e nel frattempo lo farà altrove aumentando i danni. Quel che di antropico
è stato fatto nel territorio di un corso d’acqua sarà sempre successivo, e
quasi sempre dannoso, al fiume stesso che sta lì da molto tempo prima della
presenza umana. Emblematiche le immagini di acque impetuose che travolgono ogni
cosa lungo le strade urbane ed extraurbane, scelte come percorso di
minor resistenza e quindi maggior energia.
Molti anni fa l’amico Aldo Piombino ci ricordava che se la geologia e la geografia aggiungono sempre l’aggettivo “alluvionale” dopo il termine “pianura” il motivo è presto detto: una pianura è una «zona sulla quale un po’ di tempo fa un fiume, esondando dal suo alveo, ha depositato i sedimenti che trasportava».
La chiave di lettura principale,
spesso unica, per capire quanto e perché accade durante un’alluvione, è la scarsa o del tutto assente capacità di reazione del
territorio a causa di un reticolo fluviale talmente trasformato
dall’azione antropica che non è più in grado di assorbire le precipitazioni e
se, a parità di altre condizioni e fatte le debite distinzioni locali, queste
aumentano e si inaspriscono nel tempo, la crisi non può far altro che
peggiorare di anno in anno.
Qui la seconda parte.
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