Le emissioni di gas serra – dare i numeri, ma giusti.

Nota sulla terminologia

E’ noto che prendere a modello del riscaldamento dell’atmosfera quanto accade in una serra è solo una metafora approssimativa, ma è ormai da lungo tempo entrato nell’uso comune parlare di gas serra quando ci si riferisce ai gas che riescono a trattenere, in maniera consistente, una parte considerevole della componente infrarossa, in altri termini, del calore. Dopo tutto, come vedremo, l’equivalente termine anglosassone greenhouse gas, GHG è entrato nell’uso comune anche in ambito tecnico e scientifico.

clip_image002[9]Premessa

Accade spesso di incrociare, sui social, comunicati di vario tipo, per lo più in stile complottista, che fanno improbabili comparazioni associando elementi al cui confronto i famosi Non-overlapping magisteria del famoso biologo statunitense Stephen Jay-Gould diventano terreno di scambio fertile.

Ora, finché si tratta di giochetti divertenti come i tantissimi disponibili sul sito delle Spurious Correlations passi, ma quando si ha a che fare con argomenti seri la cosa può diventare pericolosa perché genera, oltre che disinformazione della peggiore, l’impressione che possa esserci dibattito aperto anche laddove si ha a che fare con un amplissimo consenso scientifico. E la velocità della luce, come disse Piero Angela, non si decide per alzata di mano, non è democratica.

clip_image004[8]Le comparazioni in questione somigliano un po’ tutte al grido scandalizzato “e le navi allora?”, o tipo “e allora quanto consumano gli aerei? Eh?” cercando di distrarre con uno scopo parecchio utilitaristico, in questo caso salvaguardare la categoria del trasporto su strada, soprattutto privato, spostando l’attenzione, quasi urlando, su tutt’altro. Atteggiamento tipico di chi non ha argomenti e, se preso in castagna, cambia soggetto. Insomma «Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito» recita un proverbio di discussa origine ma di chiaro significato: non fermarsi alla superficie delle cose, degli eventi, ma coglierne la profondità, la realtà.

A parte i calcoli sbagliati (i due aerei citati arrivano a meno di 400.000 litri insieme, ma non è questo il punto[1]) la malafede sta nel non presentare i dati più importanti: la percentuale di emissione complessiva dei gas serra rispetto ad altre forme di trasporto. Probabilmente perché questi improvvisati novelli ecologisti non saprebbero dove andare a prenderli, o meglio, pur mettendoglieli sotto il naso sottoforma di grafico non lo capirebbero e continuerebbero imperterriti a saltellare da un “e allora questo?” ad un “e allora quello?”.

Ovviamente non sto dicendo che una nave emetta aria di montagna al gelsomino. E’ noto che le navi sono abitualmente alimentate con olio combustibile della peggior specie: la maggior parte di queste utilizza carburanti fossili ad alto contenuto di zolfo, come il carbone e soprattutto il petrolio pesante, che sono altamente inquinanti. Né posso negare il ruolo del trasporto su gomma, come ben vedremo. Ma i numeri da soli non bastano, soprattutto se presentati con disonestà, vanno discussi e contestualizzati, perché sono gli unici che possono dare il quadro reale della situazione.

Sia chiaro che chi si mette anche a contestare questi ultimi, accusando le fonti di mentire o di falsare i dati non va preso nemmeno in considerazione: non c’è speranza che possa cambiare idea radicato e ingabbiato nella sua stessa stupidità.

Diamo i numeri

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I numeri ci sono tutti. Pubblici e pubblicati, aggiornati quasi in tempo reale. Sul sito Our World In Data, ad esempio, c’è la possibilità di ottenere dati e grafici su un’infinità di argomenti diversi, mappe geografiche, interpolazioni ed estrapolazioni, e se non bastasse ancora spesso la possibilità di scaricare direttamente i dati in comodi fogli di calcolo per farne quel che volete.

Ad esempio qui abbiamo la produzione mondiale del solo biossido di carbonio[2], CO2, che possiamo comparare qui con la produzione mondiale di tutti i gas serra, i GHG appunto, espressi anche in termini di “CO2 equivalente” CO2e (o anche eq) di cui ho parlato tempo fa.

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E’ importante distinguere tra CO2 da solo, il più comune e diffuso dei gas serra, e la somma di questo con metano e protossido di azoto, N2O. Il metano, CH4, è un gas serra dal potere riscaldante almeno cento volte più alto che non il biossido di azoto, ma ha un tempo di persistenza di circa un secolo, comparato con i tempi di permanenza del CO2: circa un quinto del biossido di carbonio emesso oggi sarà ancora lì tra 1.000 anni. Il N2O lo ha di qualche secolo. In altre parole, una molecola di CO2, una volta immessa in atmosfera, verrà riassorbita tempi lunghissimi, una di metano o di protossido d'azoto in tempi mediamente dieci volte minori.

I numeri sono presto detti: siamo oggi a circa 37 miliardi di tonnellate l’anno di biossido di carbonio e circa 55 miliardi di tonnellate di CO2e. Un miliardo di tonnellate si indica con la sigla Gt (giga tonnellata). In crescita.

La quantità di biossido di carbonio misura le emissioni fossili, ovvero quelle derivate dall’utilizzo di combustibili fossili e quanto direttamente prodotto da processi industriali delle acciaierie e dei cementifici. Il CO2 fossile include quindi le emissioni dirette e dovute alla combustione di carbone, petrolio e gas, oltre che conteggiare la produzione che ne deriva dallo scarto di combustione dei processi di produzione di acciaio e cemento o, in misura minore, altre fonti. Tra poco vedremo brevemente perché.

Le emissioni fossili non includono il cambiamento dell'uso del suolo, gli effetti della deforestazione, il suolo stesso o la vegetazione che lo ricopre. Sul sito citato si possono ottenere informazioni globali o soltanto riferite ad uno o più paesi. Le emissioni cosiddette nazionali sono calcolate in base a quanto effettivamente prodotto a cui si sommano le emissioni importate e si detraggono le esportate[3].

Nel dettaglio

Tornando a quanto si diceva in premessa iniziamo a vedere come i numeri, quelli reali, portino immediatamente a smentire quel che si sarebbe voluto dimostrare, con delle correlazioni spurie, ovvero contando i pieni di benzina equivalenti al pieno di combustibile avio, o paragonando le ore di fermo di una nave in porto con migliaia di macchine ferme al semaforo.

clip_image010[6]

Andiamo quindi a vedere da dove vengono realmente le emissioni, prendendo in considerazione il totale dei gas serra, ovvero quelle 55 Gt l’anno che oggi siamo arrivati a produrre[4]; attenzione a non perdervi tra i numeri e per non farlo consiglio di avere sempre il diagramma in vista.

Il bellissimo grafico sul solito sito al primo colpo d’occhio mette già in evidenza un dato: il 73,2% delle emissioni sono legate a ciò che viene definito Energy, ovvero tutto ciò che richiede energia e che per approvvigionarsene usa combustibili fossili. Il restante 26,8%, tutto ciò che non emette gas serra per utilizzo di fonti fossili ma che ne produce autonomamente; tutti questi comparti residuali, fatto 100 tutto il resto, vedono quasi il 70% legato alle emissioni del comparto agroforestale, come avremo modo di vedere in dettaglio più avanti: deforestazione, abbandono di praterie che degradando emettono carbonio, bruciatura dei raccolti o dei loro scarti, risicoltura, allevamento, in quest’ultimo caso soprattutto metano, e altro ancora. Il restante 30% di quel 26,8%, è invece imputabile alla produzione di CO2 diretta dalle industrie del cemento (ecco da dove arriva quanto dicevamo prima) e di taluni processi chimici e petrochimici di natura industriale.

Del cemento ne parleremo in dettaglio e anticipiamo qui che i gas serra possono essere prodotti come sottoprodotto da processi chimici: ad esempio, il CO2 può essere emesso durante la produzione ad esempio di ammoniaca, che viene utilizzata per purificare le forniture idriche, i prodotti per la pulizia e come refrigerante e utilizzata nella produzione di molti materiali, tra cui plastica, fertilizzanti, pesticidi e tessuti. Questi quantitativi non sono quindi produzione dovuta all’industria chimica in senso lato, ovvero a quei processi legati alla produzione di fertilizzanti, prodotti farmaceutici, refrigeranti, di supporto chimico all’estrazione di oli e gas e via discorrendo: non vanno insomma confusi con quel 3,6% indicato in Chemical & Petrochemical nel gruppone Energy del diagramma. Insomma, l’agroforestale ha il suo bell’impatto con quel quasi 20% ma il grosso è altrove, con buona pace dei rutti e dei peti di bovini, caprini e ovini e…affini.

Ma torniamo a concentrarci su quel 73,2 percento di Energy perché là dentro ci sono i trasporti, compreso le navi, da cui siamo partiti.

Il gruppone Energy

Rappresenta dunque, come si diceva, la produzione energetica e il suo consumo: elettricità, calore e trasporti. A sinistra è possibile vedere la ripartizione complessiva delle fonti di emissioni mentre a destra sono elencate le principali categorie di quel 73,2%. Nei grafici a torta a seguire i valori indicati sono assoluti, relativi al totale delle emissioni dei gas serra su base annuale [5].

 clip_image012[6]clip_image014[6]

La produzione industriale, com’è lecito aspettarsi, la fa da padrone e questo porta subito un’incognita futura legata soprattutto non alla capacità di ridurre le emissioni, pagandone ovviamente il sovrapprezzo ma a fronte di migliorate condizioni ambientali, quanto alla volontà di farlo da parte dei cosiddetti paesi energivori in forte crescita da qualche decennio, Cina ed India in primo luogo, e da parte di quei paesi, soprattutto in America Latina e nell’Africa subsahariana, che stanno crescendo grazie anche alla possibilità data da fonti energetiche abbondanti e disponibili. In altre parole, i paesi occidentali hanno finora consumato ed emesso migliaia di miliardi di tonnellate di gas serra da fonti fossili a costi relativamente bassi, e pur con una maggiore attenzione alla riduzione stanno continuando a farlo, perché mai la Nigeria o l’India dovrebbero privarsene?

Condividono il podio del non così onorevole secondo posto, con emissioni comparabili, il settore dei consumi energetici, essenzialmente raffrescamento e riscaldamento, degli edifici residenziali e non, e del trasporto e, da notare, ci sono anche emissioni legate alle fuoriuscite o alle perdite di combustibile non direttamente utilizzato nella produzione di energia o nell’energia necessaria a limitarle. Quel 7,8% di cosiddetta Produzione Non Fossile sono emissioni legate alla produzione di energia da altri combustibili, tra cui elettricità e calore da biomassa, geotermico e fonti di calore in loco; produzione combinata di calore ed elettricità (CHP), industria nucleare e stoccaggio idroelettrico mediante pompaggio. Infine, l’energia della sezione Agricoltura&Pesca è quella legata alle emissioni derivanti dall'uso di macchinari nell'agricoltura e nella pesca, così come per il carburante per macchine agricole e pescherecci.

Energia per l’industria, i trasporti e gli edifici

clip_image016[6]Accertato con una facile proporzione che dell’energia consumata per gli edifici più del 60% è destinata a quelli residenziali e quasi il 40% a quelli commerciali focalizziamo i dettagli dei due comparti.

L’industria siderurgica e quella petrolchimica prendono quasi la metà delle emissioni del comparto industriale. E’ possibile distinguere quell’1% di quella agroalimentare, ovvero la trasformazione alimentare, la conversione di prodotti agricoli grezzi nei loro prodotti finali, come la conversione del grano in pane, od emissioni associate ai tabacchifici e altri settori, come l’industria dei metalli non ferrosi, della carta, quella manufatturiera hanno ognuno percentuali intorno allo 0,5%. Il resto è altro, ovvero emissioni legate all’energia e derivanti dalla produzione in altri settori, tra cui l'estrazione mineraria, l'edilizia, il tessile, i prodotti in legno e le attrezzature di trasporto, come ad esempio la produzione automobilistica.

clip_image018[6]Ed eccoci finalmente arrivati ai trasporti, da cui siamo partiti. Aviazione? 1,9%, con l’81% di questa fettina dovuto al trasporto passeggeri, aumentato in maniera considerevole negli ultimi decenni, e il restante 19% dal trasporto merci; inoltre ad esser precisi il 60% è frutto di collegamenti internazionali mentre il 40% va imputato ai voli nazionali. Navigazione? 1,7%, passeggeri e merci: quindi, a conti fatti davvero, delle 55 Gt prodotte ad oggi ogni anno circa 1 Gt (0,935) è dovuta al traffico marittimo internazionale.

Conteggiando anche quanto imputabile al trasporto su rotaia e quanto necessario a pompare carburanti da un punto all’altro del pianeta resta quell’importante 11,9% di trasporto su strada, su un totale di 16,2% del gruppone Energy: ovvero il 73% delle emissioni di gas serra dell’intero comparto trasporti è dovuto al trasporto su strada.

Emissioni derivanti dalla combustione di benzina e gasolio da tutte le forme di trasporto stradale, urbano e non, che comprendono automobili, camion, motocicli e autobus. Il 60% delle emissioni del trasporto stradale provengono dai viaggi dei passeggeri (automobili, motociclette e autobus) e il restante 40% dal trasporto merci su strada (camion, autotreni, furgoni).

Sono valori importanti, notevoli se vogliamo. Ma non voglio adesso prendere nessuna posizione su ciò e soprattutto quanto comporterebbe elettrificare completamente il settore dei trasporti stradali. Innanzi tutto c’è un evidente limite tecnologico e logistico dell’impossibilità di mandare a batterie i mezzi pesanti, gli autotreni, per lo meno non con le batterie attuali[6]; inoltre anche se, matematicamente, elettrificare l’intero comparto ridurrebbe le emissioni del 10-12% gli studi sull’impatto diretto della produzione di batterie, sulla disponibilità di fonti di ricarica anch’esse rinnovabili[7] e sull’impatto ambientale sono tuttora contrastanti e le direttrici maggiori puntano alla riqualificazione soprattutto del comparto industriale e sulla sostituzione delle fonti laddove possibile. Certo sarebbe stato bello in numerosi paesi che i governanti fossero stati più accorti e lungimiranti favorendo il trasporto ferroviario a quello su strada, lo si dice da decenni, ma è anche oggettivamente vero che ci sono moltissime realtà dove le infrastrutture sono carenti o assenti, e addirittura condizioni geomorfologiche tali da rendere impensabile realizzare una rete ferroviaria moderna. Per i trasporti molte voci suggeriscono di puntare sui biocarburanti o sull’alimentazione ad idrogeno che però, ancora oggi, ha gravi carenze di produzione per via dei costi elevati, ed una rete di distribuzione pressoché inesistente.

Acciaio

Un’acciaieria genera emissioni dirette ed indirette. Le prime sono quelle derivanti dall’energia necessaria ad alimentare i giganteschi impianti, a portare gli altoforni alla giusta temperatura o semplicemente a tenere le luci accese negli uffici amministrativi; le seconde quelle derivanti dalla produzione stessa dell’acciaio.

Per fare l’acciaio occorre legare il ferro al carbonio. Il ferro in natura è abbondante ma non si trova quasi mai da solo bensì sottoforma di minerali come la magnetite o l’ematite (Fe3O4 o Fe2O3), il carbonio necessario viene per lo più dal carbone. Per produrre l’acciaio occorre separare il ferro dall’ossigeno fondendo il minerale di ferro a temperature di 1700 °C in presenza di ossigeno e di un tipo particolare di carbone, il coke.

A queste temperature, il minerale ferroso rilascia l’ossigeno e il coke rilascia carbonio che in parte si lega al ferro, formando l’acciaio voluto, e il resto del carbonio si lega all’ossigeno: ed ecco il sottoprodotto indesiderato, il CO2, parecchio biossido di carbonio, addirittura in rapporto 1:1,8, ovvero per 1 tonnellata di acciaio prodotto vengono rilasciate 1,8 t di CO2. Purtroppo è il modo più economico di produrre acciaio ed è stato calcolato che entro la metà di questo secolo la produzione di acciaio arriverà a 2,8 miliardi di tonnellate (Gt) l’anno, ovvero 5 Gt di CO2 l’anno, circa il 10 percento della emissione attuale di tutti i gas serra. Purtroppo, le ricerche per produrre acciaio a minor impatto sulle emissioni indicano tutte costi molto maggiori e persino dei rischi, costi che andrebbero a scaricarsi sul consumatore finale e i maggiori produttori di acciaio, Cina, India e Giappone, che hanno superato gli Stati Uniti, non sembra si stiano avviando verso processi più virtuosi. Riuscite ad immaginare un mondo senza acciaio?

Cemento

E un mondo senza calcestruzzo?

Un cementificio produce emissioni più o meno nello stesso modo di un’acciaieria: dirette, e sono quelle della sezione Other Industries del gruppo Energy e quelle legate alla produzione. Il cemento, costituente fondamentale del calcestruzzo, proviene dal calcare, una roccia sedimentaria che in sostanza è formata da un minerale, la calcite, ovvero carbonato di calcio, CaCO3, ovvero da calcio, carbonio e ossigeno: avrete già capito dove finiremo. Si brucia il calcare e si ottiene quel che si cercava, il calcio per il cemento e il solito indesiderato biossido di carbonio e l’unico modo per produrlo è sottostare a questa reazione chimica, calcare + calore -> ossido di calcio + biossido di carbonio, o meglio ancora CaCO3 + calore -> CaO + CO2.

Ovviamente il calcestruzzo è pressoché sempre associato all’acciaio nel cosiddetto calcestruzzo armato.

Altri prodotti

Troppi per essere trattati. In maggioranza ci sarebbero le materie plastiche, ma in termini di emissioni per la loro produzione non sono molto preoccupanti, fanno già abbastanza danni di ogni genere disperse nell’ambiente, talmente dure a deteriorarsi che il carbonio in esse contenute resta intrappolato a lungo. Amara consolazione.

Ancora, riuscite ad immaginare un mondo senza acciaio o senza cemento? E senza plastiche?

Io no[8].

Le città

clip_image020[6]Come noto, gli edifici residenziali e quelli commerciali sono presenti soprattutto nelle aree urbane, nelle città, che, ad oggi, vedono risiedere circa il 55% degli esseri umani e, secondo stime ONU, nel 2050 si arriverà al 70% e, cosa ancor più eclatante, il 75% delle emissioni di gas serra ha origine urbana con soltanto 25 mega città che da sole producono oltre il 52 percento delle emissioni mondiali. Le città hanno quindi un'impronta ecologica enorme: complessivamente occupano solamente circa il 3 percento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse globali e rilasciano i tre quarti del totale dei GHG. Un momento: ma se il gruppo Energy è responsabile del 73,2% delle emissioni come è possibile che le sole città ne producano per il 75%? Semplicemente perché la maggioranza dell’energia prodotta viene poi consumata in aree urbane, ed è da queste che dipendono le emissioni, aggravate dal fatto che numerose città ospitano complessi industriali notevoli.

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Quanto mangiamo

clip_image026[6]clip_image024[6]Ma torniamo un momento a quel 26,8% di, ancora una volta, altro, non Energy. Come abbiamo visto nel dettaglio l’industria del cemento genera emissioni dalla produzione stessa, 3%, il chimico e petrolchimico il 2,2% producendo prodotti vari come refrigeranti, detergenti, solventi, vernici e chi più ne ha più ne metta e un altro pezzetto quel 3% dovuto alle emissioni di gas serra, in maggior parte CH4, generate dal trattamento soprattutto da discariche e acque reflue; ripensando al ruolo delle città, che sono i luoghi dove viene prodotta la maggior parte dei rifiuti del mondo, abbiamo un altro elemento per capire come le città da sole contribuiscano per il 75% del totale dei GHG. Le emissioni dovute alle acque reflue (1,3%) derivano dalla materia organica e dai residui di animali o vegetali, soprattutto dagli esseri umani che accumulano prodotti di scarto nei sistemi di acque reflue; i residui decomponendosi producono metano e protossido di azoto. Un altro 1,9% viene dalle discariche che sono spesso ambienti a basso contenuto di ossigeno; in questi ambienti, la materia organica genera metano quando si decompone. Ma, fatto 100 il totale del gruppo siamo al 30%, il restante 70% delle emissioni, come anticipato, è direttamente dovuto, in varia misura, a comparti del settore agricolo e zootecnico, all’uso del suolo e ai processi di deforestazione o riforestazione: e cosa fa questo settore quasi esclusivamente? Produce cibo. L’agricoltura, la silvicoltura e l’uso del territorio rappresentano direttamente quindi il 18,4% delle emissioni di gas serra. Ma il sistema alimentare nel suo insieme, compreso quindi elementi accessori come la refrigerazione, la lavorazione degli alimenti, l’imballaggio e il trasporto, è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas serra. Nel diagramma sono riportati i dettagli. Di seguito i dati in cui questo 18,4% viene suddiviso e ci saranno parecchie sorprese, come ad esempio il settore della risicultura che nonostante rappresenti il 20% delle calorie consumate nel mondo e cibo di base per miliardi di persone, produce emissioni davvero contenute legate soprattutto agli elementi accessori di cui s’è detto.

Praterie (0,1%): quando le praterie si degradano, questi terreni possono perdere carbonio, convertendosi nel processo in anidride carbonica. Al contrario, quando i pascoli vengono ripristinati (ad esempio, dai terreni coltivati), il carbonio può essere sequestrato. Le emissioni in questo caso si riferiscono quindi al saldo netto di queste perdite e guadagni di carbonio derivanti dalla biomassa dei pascoli e dai suoli.

Terreni coltivati ​​(1,4%): a seconda delle pratiche di gestione utilizzate sui terreni coltivati, il carbonio può essere perso o sequestrato nel suolo e nella biomassa. Ciò influisce sull'equilibrio delle emissioni di anidride carbonica: la CO2 può essere emessa quando i terreni coltivati ​​sono degradati; o sequestrati quando vengono restaurati. La variazione netta delle scorte di carbonio viene catturata nelle emissioni di anidride carbonica. Ciò non include i pascoli per il bestiame.

Deforestazione (2,2%): emissioni nette di anidride carbonica derivanti dai cambiamenti nella copertura forestale. Ciò significa che la riforestazione viene conteggiata come “emissioni negative” e la deforestazione come “emissioni positive”. La variazione netta del settore forestale è quindi la differenza tra la perdita e il guadagno di silvicoltura. Le emissioni si basano sulle riserve di carbonio perse dalle foreste e sui cambiamenti nelle riserve di carbonio nei suoli forestali. E’ stato ormai ampiamente dimostrato che una gestione attenta e ben programmata del patrimonio boschivo e forestale è un’ottima arma contro il cambiamento climatico anche se in misura inferiore a quanto previsto.

Bruciatura dei raccolti (3,5%): la combustione dei residui agricoli, residui vegetali di colture come riso, grano, canna da zucchero e altre colture, rilascia anidride carbonica, protossido di azoto e metano. Gli agricoltori spesso bruciano i residui colturali dopo il raccolto per preparare il terreno alla risemina dei raccolti.

Coltivazione del riso (1,3%): le risaie allagate producono metano attraverso un processo chiamato 'digestione anaerobica'. La materia organica nel suolo viene convertita in metano a causa dell’ambiente povero di ossigeno delle risaie sommerse dall’acqua. L’1,3% sembra sostanziale, ma è importante contestualizzarlo: il riso rappresenta circa un quinto della fornitura mondiale di calorie ed è un raccolto di base per miliardi di persone in tutto il mondo.

Suoli agricoli (4,1%): il protossido di azoto, come abbiamo detto un forte gas serra, viene prodotto quando i fertilizzanti[9] sintetici a base di azoto vengono applicati ai terreni. Ciò include le emissioni provenienti dai suoli agricoli per tutti i prodotti agricoli, compresi gli alimenti destinati al consumo umano diretto, i mangimi per animali, i biocarburanti e altre colture non alimentari (come tabacco e cotone).

Bestiame e letame (5,8%): gli animali (principalmente ruminanti, come bovini e ovini) producono gas serra attraverso un processo chiamato "fermentazione enterica": quando i microbi nel loro sistema digestivo scompongono il cibo, producono metano come sottoprodotto. Ciò significa che la carne di manzo e l’agnello tendono ad avere un’elevata impronta di carbonio e mangiarne meno è un modo efficace per ridurre le emissioni della propria dieta. Infine, Il protossido di azoto e il metano possono essere prodotti dalla decomposizione del letame animale in condizioni di basso ossigeno. Ciò si verifica spesso quando un gran numero di animali vengono gestiti in un'area ristretta (come allevamenti da latte, allevamenti di bovini e allevamenti di suini e pollame), dove il letame viene generalmente immagazzinato in grandi cumuli o smaltito in lagune e altri tipi di sistemi di gestione del letame. Le emissioni del “bestiame” in questo caso includono solo le emissioni dirette del bestiame e non considerano gli impatti del cambiamento dell’uso del suolo per pascoli o mangimi per animali.

Virtuosismi?

Vorrei chiudere le rappresentazioni grafiche dei dati con due immagini che evidenziano la situazione nel caro vecchio mondo a cui ho, deliberatamente aggiunto anche la Russia per confronto, perché in controtendenza e che, nonostante si senta arbitrariamente minacciata dai suoi vicini, considero a tutti gli effetti Europa e inoltre, nonostante la brexit, la Gran Bretagna. A scopo comparativo nel primo dei due grafici trovate anche l’Italia che, ovviamente, è dentro il gruppo dell’Unione Europea. Per meglio evidenziare l’andamento del nostro paese c’è il secondo grafico. Per molti sono sicuro che i dati saranno una sorpresa.

L’Unione Europea, che fino agli anni Ottanta produceva il 15% delle emissioni globali (allora erano circa 32 Gt/anno a livello mondiale) è passata dalle circa 5 Gt/anno alle attuali 3, e da allora ha iniziato un trend di riduzione notevole, partito prima ancora del primo accordo internazionale in tema di cambiamenti climatici, quello del Protocollo di Kyoto. Questa partenza anticipata, sicuramente virtuosa, nasce probabilmente a seguito della comparsa di nuove tendenze sociali e politiche che hanno contraddistinto l’Europa in tema di politiche ambientali e di azioni tese a mitigare l’inquinamento che, in alcune regioni del continente, soprattutto vaste aree della Germania e della Gran Bretagna, negli anni ’60 e ’70 aveva raggiunto livelli drammatici. E la tendenza c’è anche per l’Italia che, sebbene in ritardo, dal 2005 mostra una netta inversione passando da 0,5 a 0,3 Gt/anno.

clip_image028[6]clip_image030[6]

Conclusioni

Questi numeri, espressi con serietà e trasparenza nella ricerca e nelle fonti, dimostrano che volendo si può cambiare, si sta cambiando, nonostante alcuni eventi recenti, la recente pandemia di Covid-19, l’aggressione russa all’Ucraina, il momento economico infelice a livello globale che ha costretto molti paesi a dirottare i fondi originariamente destinati alle azioni di mitigazione del cambiamento climatico[10].

La strada è lunga e gli obiettivi dell’Agenda 2030 appaiono spesso piuttosto utopici se non decisamente imbarazzanti, se confrontati uno ad uno con la realtà.

clip_image032[6]Le azioni concrete da intraprendere, se non addirittura ancora da decidere e pianificare, sono molte e personalmente ritengo che l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 sia molto ambizioso, al limite dell’impossibile, ma è già importante averlo concordato. Molte delle voci autorevoli in tema di adattamento e mitigazione restano scettiche, uno scetticismo derivato soprattutto dall’incoscienza con cui l’umanità da sempre, tende ad ignorare il futuro, nemmeno quando è prossimo e riguarda al massimo due o tre generazioni a venire, e che non capisce né ritiene importanti eventuali benefici futuri di azioni compiute oggi; priva di lungimiranza, ancora oggi che ha mezzi e capacità scientifiche e tecnologiche per essere conscia del pericolo della strada tracciata (ne ho parlato qui di recente). Ma i numeri, non sparati a casaccio proprio come l’antico adagio del dare i numeri vorrebbe, ma contestualizzati, non mentono. I grafici attuali mostrano un picco di risalita relativo all’ultimo paio d’anni, dovuto probabilmente ad episodi locali e contingenti, ma la tendenza è in discesa, e su questo dobbiamo continuare ad impegnarci e non mollare né distrarsi, non esporre il fianco a reazioni lassaiz faire, ad estremismi che portano ad inutili blocchi stradali o criminali danneggiamenti di opere d’arte, controproducenti soprattutto per quella parte razionale dell’ambientalismo.

clip_image034[6]Purtroppo, va detto, il problema del cambiamento climatico non è un fenomeno locale, ma planetario. E basta guardare all’andamento della Russia, nostra vicina, negli ultimi decenni[11], od a Cina ed India che da sole contribuiscono al 36% delle emissioni globali, rispettivamente con 13,7 e 3,9 Gt/anno (dati 2021) e in crescita! E nemmeno recentemente, nemmeno a fronte di estremismi ambientali devastanti, di tassi di inquinamento mortali, la Cina sembra non voler prendere una nuova posizione dimostrando apertura, mentre l’India prosegue ignorando qualsiasi raccomandazione o indicazione reputando sostenibili i rischi in termini di salute e sicurezza ambientale, nonostante il sorpasso demografico rispetto alla Cina che l’ha portata a 1,5 miliardi di abitanti. E l'aspetto più preoccupante in tutto ciò è che l’aumento delle emissioni nei paesi emergenti supera di molto le faticose e costose riduzioni ottenute in Europa che, per farlo, ha inciso molto sulle economie europee.  L’altro grande paese energivoro per definizione, gli Stati Uniti, sembra aver preso la china delle riduzioni per lo meno dal 2000, anche se, osservando le emissioni pro capite, ogni cittadino degli USA consuma ed emette più del doppio di un cinese ed una decina di volte più di un indiano. Ma questo era noto e non cambierà.

Infine, in coda, ho inserito la possibilità di interagire direttamente con il grafico delle emissioni globali, che vi consentirà di realizzare rappresentazioni personalizzate, di trasformare le visualizzazioni in mappe o tabelle e persino di scaricare i dati sorgente affinché possiate generare dei grafici o, perché no, delle tabelle pivot che mostrino diversi punti di vista. E questo si noti, vale per tutto ciò che è riportato sul sito Our World In Data.

Aspettando un aggiornamento relativo ai dati 2023.

Appendice

Ci sarà ovviamente chi contesterà, altrettanto ovviamente senza produrne le prove, i dati stessi, per amor di complotto o semplice bastiancontrarismo, il dissidente e contraddicente per sistema. Dopo tutto ancora oggi ci sono dissidenti che, senza averne titolo alcuno, vorrebbero smentire il lavoro di centinaia (mi dicono quasi mille) di scienziati che lavorano per produrre i dati per IPCC, ed a questi mille aggiungiamo le diverse migliaia di collaboratori che con questi lavorano. Con questi c’è poco da fare: appartengono a quella categoria di persone a cui far entrare in testa un qualsiasi concetto è più difficile che farglielo entrare altrove (sic).

E’ vero che alcune, pochissime, voci di dissenso vengono da persone che appartengono al mondo scientifico, ma anche loro, o non hanno nulla a che fare[12] con la climatologia, perché di questo si tratta, o è altrettanto vero che, a ben guardare, vengono smentite e battute sul loro stesso terreno: quello del metodo scientifico.

La politica? Ci vorrebbe un post a sé per affrontare l’argomento della relazione tra negazionismo climatico ed orientamento politico e che, in linea di massima, vede governi conservatori se non reazionari schierati con il polo negazionista e, di conseguenza, i loro elettori, quelli non in grado di usare la propria testa perché privi dei minimi strumenti cognitivi, che si allineano in base a scelte di natura identity politics[13]. Rimando a questo bell’articolo di un paio d’anni fa che riesce a definirne gli aspetti salienti.

Grafico interattivo emissioni globali GHG

 


Note


[1] Un’auto con serbatorio da 65 litri che fa 20 km con 1 litro di carburante? Presa!

[2]Ho già avuto modo di scriverlo. Più conosciuta forse come “anidride carbonica” ma ormai da moltissimo tempo “biossido di carbonio” è il nome corretto negli standard di nomenclatura chimica.

[3] Per esempio un paese produttore di petrolio, che venga in seguito esportato e bruciato altrove, non deve conteggiare come proprie le relative emissioni.

[4] Il diagramma riporta i dati del 2016 quando furono registrate quasi 50 Gt.

[5] Si potrà osservare che le categorizzazioni ed i raggruppamenti potrebbero essere soggetti a cambiamenti dovuti a diversi punti di vista. Inserire od escludere dalle fette questo o quest’altro settore però non sposta il quadro complessivo e soprattutto porta a variazioni minime nelle percentuali qui attribuite.

[6] Il peso del complesso di batterie supererebbe di gran lunga il peso della quantità di merce trasportabile.

[7] Il famoso controsenso della colonnina di ricarica alimentata da centrali elettriche a combustibile fossile.

[8] Suggerisco il bel libro di Mark Miodownik, “La sostanza delle cose”, una storia appassionante dei materiali incredibili che hanno fatto il mondo, dall’acciaio alla carta, la schiuma, il vetro, la porcellana, le materie plastiche, ed altro, persino la cioccolata!

[9] L’argomento è vasto ma, prescindendo dalle posizioni estremiste e disinformate, è ormai appurato che l’agricoltura dev’essere intensiva perché la sua alternativa, quella estensiva, non ha più spazio ed acquisirne, a danno di boschi e foreste, avrebbe effetti negativi ancora più marcati. E la cosa dovrebbe comunque portare ad indagare a fondo sullo sbandierato concetto di agricoltura sostenibile.

[10] Punto 2 – Traduzione. Per "cambiamento climatico" si intende un cambiamento climatico attribuito direttamente o indirettamente all'attività umana che altera la composizione dell'atmosfera globale e che si aggiunge alla variabilità climatica naturale osservata in periodi di tempo comparabili.

[11] La domanda è lecita. Chissà perché la crescita nelle emissioni è ripartita da quando c’è Putin al potere, ma non vorrei fare io stesso correlazioni spurie.

[12] Chi ha detto che un eminente fisico, magari anche premio Nobel, possa sentenziare, o più spesso pontificare, in aree non sue?

[13] "Identity politics" che si traduce in italiano come "politica identitaria". Si riferisce ad una forma di partecipazione politica in cui le persone votano in base all'identità di gruppo a cui appartengono, come classe sociale, etnia, genere, orientamento sessuale, religione o altre caratteristiche identitarie, anziché basare la loro scelta su considerazioni individuali o politiche specifiche.

Bibliografia

Hannah Ritchie (2020) - "Sector by sector: where do global greenhouse gas emissions come from?". Published online at OurWorldInData.org. Retrieved from: 'https://ourworldindata.org/ghg-emissions-by-sector' [Online Resource]
Wolfgang Behringer (2010) - "Storia culturale del clima"
Gianluca Lentini (2023) - "La Groenlandia non era tutta verde"
Stella Levantesi (2021) - "I bugiardi del clima"

Paradosso controevolutivo

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Nonostante la previsione climatica, di elevata probabilità, su quanto accadrà entro una data futura e che è appena qualche generazione a venire[1], si va delineando una situazione paradossale.

Prima del cambiamento climatico indotto dalle attività umane il clima rivestiva, nel contesto dell’evoluzione darwiniana, un elemento di contingenza data la sua bizzarra imprevedibilità, come aveva ben evidenziato il grande biologo evoluzionista Stephen Jay Gould: «Il clima? Niente di più bizzarro e imprevedibile!».

Le mutazioni erano e sono sottoposte al vaglio cieco della selezione naturale anche in base a cambiamenti climatici, la sopravvivenza stessa delle specie dipendeva dall’incontro casuale di due linee contingenti: il clima della regione in cui si nasce e la possibilità o capacità di adattamento a questo. Gli evoluzionisti dicono che se riavvolgessimo il nastro della storia della vita sulla Terra e ripartissimo da zero potremmo avere pressoché infiniti finali diversi da quello attuale. La vita inaspettata che non ci aveva previsto potrebbe essere del tutto diversa, e la paleontologia ci racconta che i tentativi di evoluzione in forme di vita poi abortite lungo il percorso sono tantissimi.

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Stiamo cambiando il clima e l’ambiente in maniera del tutto prevedibile, e ne siamo consci o per lo meno, molti lo sono, la comunità scientifica innanzi tutto: sappiamo benissimo, abbiamo la scienza e la tecnologia per farlo, dove stiamo andando; siamo al corrente dei danni irreversibili, della causa diretta della cosiddetta sesta estinzione di massa, cioè Homo sapiens; è proprio di oggi la notizia che gli effetti deleteri di queste attività ha letteralmente mutilato l'albero della vita, causando la perdita non solo di specie, i ramoscelli nella metafora dell’albero, ma anche di rami veri e propri che raggruppano più specie imparentate fra loro, i generi: 73 quelli di animali vertebrati che sono già scomparsi dalla faccia della Terra.

Conosciamo con margini di certezza altissimi cosa accadrà, addirittura lo abbiamo misurato e lo vediamo in atto ormai da decenni, ignorando incoscientemente che ne saremo vittime, per di più consapevoli come suicidi, continuando in corsa sulla strada aperta dal cambiamento climatico.


Ed ecco il paradosso.

Qualunque essere vivente è il frutto di una duplice causalità[2], con una parte notevole svolta dal caso. Gli esseri viventi sono sistemi dinamici le cui vicissitudini non possono che obbedire alle leggi del mondo fisico ma, a differenza degli oggetti inanimati, hanno anche un loro percorso indipendente, essendo forzati a seguire i dettami delle istruzioni racchiuse nel loro patrimonio genetico. Un altro grande biologo, Ernst Mayr, avrebbe detto che sono sistemi chimico-fisici spinti da una causalità fisica ma che godono di una sorta di libertà vigilata, essendo forzati a seguire il più fedelmente possibile le istruzioni del proprio genoma.

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E se prima eravamo in balia degli eventi contingenti l’enorme vantaggio evolutivo che Homo sapiens ha tratto dalla possibilità di avere anche un’evoluzione culturale da affiancare a quella biologica, quella che lo ha portato dai rudimentali attrezzi di selce alla Luna o in cima all’Everest, questa stessa evoluzione culturale non sta comportando la necessaria reazione, l’intelligenza non sta portando all’attenzione primaria: che la strada che abbiamo intrapreso è deleteria, pur con tutta la consapevolezza che comunque vadano le cose su questo pianeta la vita saprà trovare altre strade, forse la stessa umanità sopravviverà, a costo di perdite spaventose al cui confronto le grandi epidemie di peste sono banali raffreddori e, in caso contrario, la Terra stessa sopravviverà a noi stessi molto prima che, tra un miliardo di anni, la luce del Sole inizi ad indebolirsi cambiando definitivamente il clima del pianeta, ancora una volta, ma facendolo se non altro in modo naturale.

Paradossalmente ci siamo portati su una strada di cui conosciamo benissimo il percorso e non stiamo facendo nulla per cambiarlo, o per lo meno, siamo ancora alle chiacchiere preliminari quando siamo in ritardo spaventoso con i fatti, soprattutto quelli che riguardano l’adattamento.

Qualcuno resterà a raccontarlo. Dopotutto, a causa di un mutamento climatico di segno opposto e del tutto naturale, i vichinghi groenlandesi furono decimati dal ritorno del freddo, quello vero, alla fine del XIII secolo, ma gli indigeni, gli inuit, non ne furono minimamente colpiti.

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[1] Si dice meno di un secolo. Quattro generazioni appena. Guardando al passato persone di cui avete avuto notizie dirette, i bisnonni, o i loro genitori. E noi stessi saremo parte delle storie dei nostri pronipoti, o dei loro figli.

[2] CaUsalità, attenzione, non CasUalità

Consenso scientifico

 

clip_image002Premessa

«Che cosa tenta di descrivere la scienza? Il mondo, naturalmente. Di quale mondo si tratta? Del nostro mondo, nel mondo in cui noi tutti viviamo e con il quale interagiamo. A meno che la scienza non abbia fatto degli errori davvero madornali, il mondo in cui noi oggi viviamo è un mondo fatto, tra le altre cose, di elettroni, elementi chimici e molecole di RNA. Il mondo di mille anni fa era un mondo di elettroni e RNA? Sì, anche se all’epoca non lo sapeva nessuno.

Ma se qualcuno avesse pronunciato la parola elettrone nel Medioevo non avrebbe significato nulla; quanto meno, non quello che significa ora. Il concetto di elettrone è il prodotto di dibattiti ed esperimenti che hanno avuto luogo in un contesto storico specifico. Quindi come possiamo dire che il mondo del Medioevo era un mondo di elettroni e RNA? Non possiamo farlo; dobbiamo invece considerare l’esistenza di queste cose come dipendenti dai nostri concetti, dai nostri dibattiti e dalle nostre negoziazioni.

Per qualcuno, le affermazioni fatte nel primo paragrafo sono talmente ovvie che solo una persona completamente confusa potrebbe negarle. Il mondo è una cosa e le nostre idee su esso un’altra. Per altri, gli argomenti del secondo paragrafo mostrano che c’è qualcosa di terribilmente sbagliato nelle affermazioni apparentemente semplici del primo. L’idea che le nostre teorie descrivano un mondo reale che esiste in modo completamente indipendente dal pensiero e dalla percezione è un errore, collegato ad altri errori riguardanti la storia della scienza e del progresso, e alla fiducia e all’autorità che dovremmo accordare oggi alla scienza.»[1]

Il brano del filosofo della scienza Peter Godfrey-Smith, mette in evidenza le difficoltà e gli ostacoli con cui il mondo scientifico, e non solo, deve confrontarsi per sostenere di continuo l’immagine positiva che la scienza deve avere: operando con modalità cooperative e guidata da spirito critico. Soprattutto in questi tempi, con le interazioni tra scienza e mercato che stanno portando conseguenze di grande portata, diventa essenziale valorizzare l’autodeterminazione della scienza stessa. E allora ecco il tema.


Il consenso scientifico

Consenso - Il CONSENSO è la concordanza tra la volontà o tra le idee di due o più persone: in questo significato, dunque, la parola è un sinonimo di accordo[2]

Ma cosa rappresenta davvero il consenso in ambito scientifico? Cosa significa che una determinata idea, o una teoria, goda del consenso della comunità scientifica? E’ misurabile?

Il tema del consenso, e di conseguenza di un eventuale fine del dibattito scientifico intorno ad un determinato argomento, tratta di soggetti di cui spesso si sente parlare sui media con, o più spesso senza, un reale chiarimento di cosa questo rappresenti. In questi ultimi anni è piuttosto diffusa, ad esempio, una sorta di querelle intorno al consenso scientifico relativo al cambiamento climatico in atto.

Mappa concettuale della parola “Consenso”

Il consenso è dunque un accordo, in particolare un accordo che viene esplicitamente stabilito e quindi, tornando e restando in ambito scientifico, il consenso implica normalmente un accordo relativo ad un particolare approccio, o meglio, su una particolare teoria – scientifica ovviamente.

Potremmo, in ambito scientifico, avere persone non completamente d’accordo tra loro, ma ciò non vieta che possa esserci un certo grado di consenso anche senza accordo completo o senza completa fiducia in una determinata teoria. Il termine grado comporta la misurabilità di qualcosa e laddove i membri di una comunità scientifica abbiano gradi di credenza simili e ragionevolmente alti riguardo a qualche ipotesi, ecco che emerge il consenso - addirittura misurabile con formule matematiche di tipo probabilistico e statistico.

E’ stato usato il termine credenza e occorre fare una brevissima digressione. Credere in qualcosa significa riconoscerla per vera e, senza avventurarci nei labirinti della definizione di verità, spesso vicoli ciechi, è indubbiamente affermabile che la fiducia in una teoria scientifica, o in una sua ipotesi, è un tipo di credenza del tutto analogo a quel che potrebbe essere la credenza in uno spirito maligno che scatena i temporali o una qualche forma di fede religiosa e dogmatica: dimostrabilità a parte la differenza principale è che nelle credenze scientifiche il grado di fiducia è spesso talmente alto, che chi crede è pronto a scommetterci su. E di nuovo la parola grado ha fatto la sua comparsa.

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Karl Popper, a sinistra, e Paul Feyerabend

Non è proprio brainstorming

clip_image008 Tornando alla questione relativa al disaccordo in una comunità scientifica va detto che ciò rappresenta un valore: moltissimi filosofi della scienza, da Popper a Feyerabend non avevano nulla in contrario e ritenevano che il dibattito, la creatività, la libera esplorazione delle idee, fossero alla base di una ricerca scientifica libera e svincolata da pregiudizi di ogni sorta, e soprattutto svincolata dalle aspettative dei singoli ricercatori che spesso influenzano negativamente l’obiettività e senza dimenticare quel certo grado di serendipità che ci racconta la storia della scienza.[3] Nell’esplorazione creativa delle idee il consenso è del tutto opzionale e se per Popper non c’era affatto da preoccuparsi in caso di mancanza di consenso, o se Feyerabend auspicava una sorta di diversificazione permanente, resta evidente che a volte una certa questione scientifica va comunque risolta, ed una volta fatto se ne deve accettare la risoluzione, soprattutto quando questa deve indurre o indurci in azione, quando dobbiamo fare qualcosa guidati dalla scienza. Qualcuno direbbe, nel gergo aziendale in voga negli ultimi decenni, ben vengano Free-Wheeling e Brainstorming, ma senza esagerare, purché se ne esca e si agisca.

(Se d’ora in poi i vostri pensieri andranno alla recente pandemia da Covid-19 o alle tematiche relative al cambiamento climatico, siete giustificati.)

La ricerca del consensoimage

Le informazioni di cui è in possesso una comunità scientifica implicano spesso, se non sempre, la divulgazione ad enti governativi o simili allo scopo di prendere decisioni politiche. E la domanda che gli scienziati si sentono rivolgere è questa: c’è consenso scientifico su questo tema?

Se, come accade nella maggioranza dei casi, c’è accordo completo all’interno di una comunità scientifica, ambito per ambito ovviamente, non c’è problema. Altre volte potrebbe esserci una maggioranza, anche molto ampia, ma anche dei dissidenti. E qui la cosa si complica, perché spesso la dissidenza ha come fonte valenti scienziati o comunque persone addette ai lavori. C’è un modo per complicare la questione, e negli anni passati ne abbiamo viste di ogni tipo. Basterà inserire, spesso strumentalmente o pretestuosamente, persone assolutamente estranee alla comunità e ignoranti in materia, invitandole a…dire la loro: ciò darà l’illusione che esista un dibattito tra posizioni rigorose e non e, peggio ancora, un dibattito tra opinionisti o influencer e ricercatori e scienziati. Ciò ovviamente non va ad escludere dal dibattito terze parti che pur non appartenendo al mondo scientifico, quali sociologi o filosofi, potrebbero comunque fornire indicazioni preziose. L’esclusione senza appello è per quei personaggi che buona parte dei media sono soliti invitare in trasmissione al solo scopo di aumentare l’audience.

E’ sempre la scienza ad indicare la strada da percorrere nel caso in cui non ci sia completezza di consenso. Senza entrare nei suoi complessi dettagli il Teorema di Bayes, associato alle idee di Frank Ramsey, indica quale azione migliore scegliere pur considerando che il mondo potrebbe essere fatto diversamente da come lo si ritiene: è questione di scelta delle possibilità più probabili e quali meno, cose su cui le persone saranno in disaccordo quando non c’è consenso. In precedenza è stata associata alla credenza la possibilità che ci si possa scommettere su e una scommessa è guidata da parametri statistici di maggiori o minori probabilità che eventi possano accadere. Ecco perché è possibile utilizzare metodi analitici, scientificamente validi, per individuare le migliori opzioni relative al consenso. Ovviamente quando il disaccordo è molto forte, e complicato dal rumore di fondo delle migliaia di dissonanze amplificate e rilanciate dai social, il problema non sarà risolto in fretta anche se spesso può sussistere un certo grado di urgenza, soprattutto nel calcolare prima possibile quali sono le scelte dagli esiti sicuramente disastrosi.

Chiudere il dibattito

clip_image012Se la questione oggetto di dibattito scientifico è risolta sarà la stessa comunità scientifica a dichiarare che il dibattito si è concluso, con una sorta di consenso spontaneo, oppure occorrerà un’ulteriore valutazione della serietà delle incertezze residue, con un consenso curato nel modo in cui debbano essere fatte dichiarazioni pubbliche. L’attenzione maggiore va ovviamente alle tempistiche relative alla conclusione del dibattito: se precoce potrebbe avere come conseguenza, dagli esiti anche drammatici, quali quelli di una decisione politica presa sulla base di un’idea scientifica errata o incompleta; se tardivo, comporterebbe spreco di tempo e risorse, e ancora portare a decisioni politiche più o meno gravi, oltre alla perdita di progresso scientifico. Tardivo o precoce sono entrambi dannosi.

In passato queste decisioni erano prese a porte chiuse, e altrettanto privato era il confronto politici-scienziati. Oggi, nelle moderne società democratiche, con i flussi di informazioni liberi, e con una comunità scientifica interconnessa a livello internazionale, ciò non è possibile e alla comunità scientifica viene spesso richiesto di dire le cose nella maniera più chiara possibile. In altre parole le si chiede responsabilità pubblica, e se il consenso spontaneo riguarda soltanto le interazioni sociali tra membri della comunità scientifica, e loro posizioni individuali, il consenso curato coinvolge la società più ampia, di cui la comunità scientifica è parte. E ancora, oggi abbiamo moltissimi consumatori esterni di informazioni scientifiche, tra cui migliaia di ottimi divulgatori ed esperti, con cui la comunità scientifica deve confrontarsi raggiungendo un compromesso: impedire ad esempio che alcuni individui ossessionati possano boicottare o fermare l’uso ragionevole di una conoscenza conquistata faticosamente.

Un esempio dal passato

clip_image014C’è un caso famoso e drammatico su cui riflettere che viene dal passato recente e che riporterà alla mente le dolorose conseguenze di alcune scelte politiche di minoranza, le scelte novax per esempio, o quelle che hanno seguito l’onda della cosiddetta immunità di gregge senza sapere affatto cosa ciò sia: scelte altrettanto sbagliate, e scellerate, fatte in occasione della pandemia da Covid-19 e, in senso più generale, quelle che non sono state o che non saranno fatte, nel caso dei processi di reazione e/o adattamento ai cambiamenti climatici[4].

Nei primi anni ’80 l’epidemia di AIDS, che allora non aveva nemmeno questo nome, si diffondeva come malattia che colpiva soprattutto gli omosessuali maschi, gli emofiliaci e i consumatori di droga per via endovenosa, e sempre nello stesso periodo si scoprì che un retrovirus poteva esserne causa[5].

Nonostante le evidenze si andassero accumulando fin dall’inizio ci furono alcuni dissidenti che ipotizzarono, in base ai loro studi, che il retrovirus HIV non aveva nulla a che fare con l’AIDS, formulando ipotesi diverse che potevano ragionevolmente tenere aperto il dibattito scientifico nonostante un largo consenso per l’ipotesi Gallo-Montagnier. Ciò nonostante, nel 1988 la National Academy of Sciences degli Stati Uniti elaborò una dichiarazione riassuntiva ove si affermava che «l’evidenza che l’HIV è la causa dell’AIDS è scientificamente conclusiva». Col senno di poi questa presa di posizione può essere considerata del tutto precoce perché gli esperimenti, fondamentali e determinanti per fare affermazioni di causa-effetto, non avevano chiarito ancora i motivi per cui l’HIV potesse causare molti danni.

Pochi anni dopo l’epidemia di AIDS nell’Africa subsahariana divenne un problema enorme e l’allora governo del presidente Mbeki in Sud Africa prese posizioni poco ortodosse, fino ad includere nel 2000 all’interno del comitato scientifico consultivo il biologo Peter Duesberg, principale rappresentante delle posizioni dissidenti sull’HIV. Il governo dichiarò di non voler procedere nell’affrontare l’epidemia con i farmaci retrovirali usati altrove, di essere interessato a riflessioni e altre opportunità.

Paradossalmente questo atteggiamento scientifico può essere appropriato in qualche modo, quando il consenso non è unanime e la dissidenza viene da fonti piuttosto autorevoli e ascoltabili; ma in questo caso, la posizione durata circa 3 anni, fino al 2000, provocò direttamente la morte di diverse centinaia di migliaia di persone, come risultato delle decisioni del governo di Mbeki.

Nulla è certo, la storia mostra che possono arrivare grandi sorprese, «la cosa importante è non smettere mai di interrogarsi» disse una volta Albert Einstein, ma dobbiamo anche agire, prendere decisioni e in questo caso l’evidenza che l’HIV era la causa dell’AIDS era forte e si era accumulata regolarmente nel corso degli anni ’80 e ’90. La situazione di emergenza imponeva che le si desse seguito accettandola.

Come trattare la malattia è un’altra storia. L’unico farmaco allora in uso era il Retrovir ed è un farmaco estremamente tossico. Pur accettando le teorie dominanti c’erano forti sospetti sulle compagnie farmaceutiche che giustificavano la dissidenza se non altro allo scopo di incentivare la ricerca di altre opzioni. Oggi si conoscono molto in dettaglio i modi in cui l’HIV porta alla malattia e già dalla metà degli anni ’90 si iniziarono a sviluppare trattamenti farmacologici migliori.

 

clip_image016La morale

Non è dato sapere se questo caso emblematico di ricerca del consenso scientifico possa fornire spunti per altri contesti, per qualcosa che ci tocca da vicino nel tempo e nello spazio come premesso all’inizio del paragrafo. Forse. Ma sicuramente emerge che c’è un lato negativo dell’attraente idea che sarebbe sempre bene mantenere una mentalità aperta ed evitare di chiudere il dibattito. Va bene continuare ad interrogarsi, va bene la ricerca continua di nuove idee[6] ma occorre anche e soprattutto agire.

Conclusioni

Sarebbe fantastico continuare ad interrogarsi se le politiche fossero supportate dal peso di opinioni esperte, Franco Battiato avrebbe detto il centro di gravità permanente della comunità scientifica, e soprattutto senza minarle con uno scetticismo, idiota ed inutile molto spesso o ancora peggio, alimentato da pressioni interessate.

Purtroppo, come accennato in precedenza, è diventato sempre più difficile nei casi recenti, soprattutto nell’importante caso del cambiamento climatico accelerato, oltre ogni ragionevole dubbio, dalle attività di origine antropica. Ma la ricerca di consenso, in questo caso, per quanto le evidenze siano notevoli e consolidate, vede numerosi tentativi di tenere il dibattito ancora aperto, a tratti spalancato verso strade che comporteranno soltanto perdite di tempo e spreco di risorse, soprattutto per quanto riguarda la tematica più importante da sottoporre all’attenzione di tutti: cambiamento va bene, ma di adattamento quando ne trattiamo?

All'alba dell'era nucleare, negli anni '50, Hannah Arendt osservò che un mondo che relega questioni esistenziali al solo linguaggio tecnico e scientifico - definendolo dominio esclusivo di donne e uomini in camice bianco che dicono «fidatevi di noi» - rischia di essere un mondo in cui le persone hanno perso la capacità di essere artefici della propria vita. Una preoccupazione per lo stato tecnocratico estrema, questa della Arendt, dettata dalla sua esperienza di vita e frutto dei tempi in cui viveva.

Ma la sfida fondamentale da lei indicata resta: occorre certamente un linguaggio accessibile che possa sottoporre le scelte al dibattito pubblico altrimenti non sarà possibile affrontare problemi che sono definiti scientificamente in modo che possano essere risolti col contributo dei sistemi politici sostenuti dalla collettività.

Tempo fa, in un altro post, avevo concluso con le parole di Naomi Oreskes, storica della scienza, direi che anche stavolta ci sta:

«Ci si può fidare della scienza non perché fa volare gli arei o ci fa conquistare verità eterne, ma proprio perché è un’impresa sociale fallibile, in cui si raggiunge un consenso crescente su evidenze oggettive grazie ad una disamina collettiva e trasformativa.»

Potete non *fidarvi* di qualcuno, sia pure uno scienziato, ma fidatevi della Scienza.

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[1] Peter Godfrey-Smith. “Teoria e realtà. Introduzione alla filosofia della scienza.

[2] Enciclopedia Treccani online

[3] Telmo Pievani ha scritto un bellissimo libro in proposito, intitolato appunto “Serendipità”.

[4] In questo caso la tematica è vastissima e l’affermazione va intesa come un’ampia generalizzazione.

[5] Molti ricorderanno la disputa per la paternità della scoperta tra l’americano Robert Gallo e il francese Luc Montagnier; di quest’ultimo si ricorderanno anche le dichiarazioni choc che rilasciò all’inizio del 2022 sull’inutilità e addirittura sulla criminalità del vaccinare i bambini.

[6] Anche se, in questo mondo reale, la competizione, ancorché cooperativa, e la ricerca continua di fondi per la ricerca rendono la stessa spesso molto selettiva.

Note a margine degli eventi alluvionali del maggio 2023 in Emilia Romagna

clip_image002Con l’autunno si iniziano a temere gli effetti di eventi meteorologici estremi, a causa della naturale propensione meteorologica che vede, mediamente, piovere di più alle nostre latitudini in quel periodo dell’anno. Ed è spontaneo andare ai ricordi dei recenti episodi emiliano-romagnoli, delle alluvioni in Francia e delle cronache di queste ore del disastro, soprattutto umanitario, che ha colpito la Libia in questi giorni, e poco cambia anche considerando che in quest’ultimo caso la stragrande maggioranza delle vittime è stata dovuta al cedimento delle dighe, dighe che avrebbero dovuto proteggere Derna e sono invece state la sua rovina.

Ecco perché, a seguito della lettura di un interessante articolo, proprio relativo alle tristi cronache ambientali nazionali, l’attenzione ritorna su quel che troppo spesso viene utilizzato come alibi a coprire le necessarie azioni preventive.

Premessa

Mi scuseranno gli autori dell’articolo a cui mi sono ispirato per questa premessa: dopo tutto per raccontare dei fatti non ci sono molti modi.

In due distinti periodi dello scorso mese di maggio vaste aree dell’Emilia Romagna sono state interessate da due eventi meteorologici estremamente intensi, verificatisi in breve successione, il primo dall’1 al 3 ed il secondo il 16 al 18[1], comportando precipitazioni eccezionali, che hanno superato ampiamente la soglia dei 400 millimetri di pioggia[2]. I valori riportati dalla fitta rete di stazioni di monitoraggio pluviometrico, con dati usufruibili in tempo pressoché reale grazie ad Internet, hanno tutti registrato valori significativi. I fenomeni atmosferici hanno interessato soprattutto le zone pedemontane, collinari e pedecollinari, con quantità leggermente inferiori in pianura.

La configurazione meteorologica europea durante il mese di maggio ha subito un cambiamento sostanziale, con l'instaurarsi di anticicloni che si estendevano dall'Atlantico alla Scandinavia, mentre contemporaneamente si attestavano zone depressionarie sull'Italia e sul Mediterraneo centrale. Questa particolare configurazione ha portato un flusso frequente di precipitazioni abbondanti su gran parte della penisola, contribuendo a mitigare la preoccupante siccità che aveva afflitto sia la regione che l’intera Italia nell'ultimo anno e mezzo. Purtroppo le precipitazioni intense non contribuiscono al rifornimento dei suoli profondi e delle risorse idriche sotterranee che hanno invece bisogno di piogge più lente e costanti, nonché delle acque di fusione della neve, che ha scarseggiato sia nelle Alpi che negli Appennini durante l'ultimo inverno.

Da un altro punto di vista, sfortunatamente, questa situazione atmosferica ha portato episodi alluvionali straordinari, che hanno colpito in particolare l'Emilia orientale e la Romagna durante i cicli intensi di piogge nei due periodi di maggio indicati.

Considerazioni

Che il cambiamento climatico in atto, osservabile e misurabile ormai oltre ogni ragionevole dubbio, possa portare direttamente a fenomeni meteorologici estremi è un fatto; che i fenomeni climatici relativi alle oscillazioni di El Niño possano comportare disastri meteorologici anche a distanze enormi dal Pacifico è un altro.
Ma chiamare in causa sempre e comunque, a mo' di alibi, il cambiamento climatico sta diventando quasi una moda.

Che le precipitazioni del mese di maggio 2023 siano state del tutto eccezionali, soprattutto in termini di rapidità con cui sono andate cumulandosi e concentrandosi sul territorio, è comunque evidente dalla lettura dei dati[3]. Le piogge del mese hanno raggiunto un valore totale medio regionale di 250 mm, superiore di 175 mm rispetto al valore medio climatico (+230%), valore più alto dal 1961; anche rispetto al valore medio, l’anomalia è di circa +173 mm. A livello territoriale, si riscontrano anomalie eccezionali sulle colline e sui rilievi tra Bologna, Forlì-Cesena e Ravenna, anche lungo la costa, con picchi fino a +500% rispetto alla media 2001-2020, mentre nella parte più occidentale della regione le anomalie, pur presenti e positive, sono molto più contenute, intorno a +50%.

L’osservazione dei grafici[4] delle precipitazioni cumulate e dell’anomalia delle precipitazioni totali mensili rispetto al 2001-2020 (in mm di pioggia) sono autoesplicative.

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clip_image008L’articolo
Sul numero
3/2023 della rivista "Geologia dell'Ambiente" edita dalla SIGEA - Società Italiana di Geologia Ambientale, il primo articolo (pag. 2) ripercorre gli eventi alluvionali del maggio 2023 che interessarono l'Emilia Romagna, con danni diretti stimabili in circa 15 miliardi di euro, 15 vittime e decine di migliaia di evacuati.
Eventi eccezionali quelli dell'1-3 e del 16-18 maggio ma, come vedremo, non certamente unici o imprevedibili, né non ricordabili a memoria d'uomo, nonostante questa sia spesso molto corta.

Gli autori riportano che è bastata una semplice ricerca a tavolino di pochi giorni, condotta analizzando i documenti estratti da varie fonti pubbliche, per ritrovare dozzine di episodi alluvionali dovuti a fenomeni meteorologici intensi, episodi accompagnati da rotture degli argini di numerosi corsi d’acqua con frequenza pressoché annuale; solo nel corso del XVIII secolo il fiume Lamone (uno dei fiumi che ha rotto nel maggio 2023 allagando Faenza), ricordano le cronache, ruppe ben 22 volte in 60 anni, citando inoltre episodi del tutto analoghi a quelli di quest’anno. Il più simile nel 1939, persino nei periodi, con due episodi nel mese di maggio, caratterizzato da precipitazioni estese e fino a 400-500 mm sull’Appennino Tosco-Romagnolo che comportarono lo sconvolgimento dell’intero territorio romagnolo con associate perdita della produzione agricola, di capi di bestiame morti per annegamento e disfacimento pressoché completo della rete viaria. In definitiva, dozzine di eventi fotocopia.

Previsione, prevenzione e allertamento

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Anche soltanto intuitivamente emerge che gli episodi del maggio 2023 possono essere annoverati tra quelli possibili, anche più volte l’anno. Ciò comporta un certo grado di prevedibilità, pur considerando che molto spesso i tempi con cui si sviluppano le celle temporalesche -che danno origine ai cosiddetti wet downburst- sono strettissimi; ma con accurate operazioni di monitoraggio, che in questo caso non sono certamente mancate, è possibile quanto meno mitigare i danni e soprattutto consentire alla popolazione un certo grado di salvaguardia. Va detto che ARPAE emanò due bollettini di allerta per le onde fluviali di piena dapprima arancione e poi rossa per gli episodi dell’1-3 maggio e direttamente rossa per quelli del 16-18. Se così non fosse stato, come ad esempio nel 1939, le vittime e il numero di sfollati sarebbero probabilmente state molte di più.

Pur considerando che l’anomalia nelle precipitazione del maggio 2023 ha di gran lunga superato la media storica il fenomeno, con intensità minori o a volte analoghe, è storicamente conosciuto in quelle stesse regioni, e in un certo qual modo, peggiorante al crescere delle condizioni generali dovute all’aumento della antropizzazione del territorio, del conseguente incremento del consumo del suolo, dell’abbandono delle zone montane e pedemontane e della relativa cura delle aree boschive e di sottobosco, che spesso fanno da freno al deflusso delle acque meteoriche. Queste condizioni non possono che aver peggiorato o intensificato gli effetti di eventi meteorologici eccezionali, ma non unici lo si ripete, in oggetto.

 

Analisi dei dati

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Al conteggio estratto dalla lettura dell’articolo sono stati aggiunti i due episodi del 2023 per un totale di 60 episodi documentati dal 1636 al 2023, riassunti nella tabella. Per il 10 percento del totale degli episodi riportati non è noto il mese dell’accadimento e mancano inoltre riferimenti di dettaglio per le 22 esondazioni del Lamone riportate per circa 60 anni del XVIII secolo.

Da un’analisi numerica degli episodi riportati è emerso come la maggioranza degli episodi alluvionali a seguito di intense ed anomale precipitazioni, siano, come attendibile, concentrati nei periodi autunnali, mediamente da fine settembre a parte di dicembre, con una media di circa 8 episodi al mese, notoriamente più piovosi alle nostre latitudini con dei picchi in novembre (con ben 12 episodi su 60 pari al 20 percento della serie); non va però trascurata la numerosità dei mesi di maggio e gennaio, con 6 e 5 episodi rispettivamente.

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Conclusioni

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La cosa importante che emerge abbastanza chiaramente da questa analisi essenziale è che la regione non è affatto nuova ad episodi eccezionali o comunque assimilabili, con un frequenza ed una conoscenza tali, soprattutto per gli ultimi decenni, da non rendere tollerabile demandare a Giove pluvio la causa di questi disastri che ogni anno colpiscono il nostro territorio; ed altrettanto intollerabile è l’appello all’ineluttabilità degli eventi perché causati dal cambiamento climatico che ha, molto probabilmente e quasi sicuramente, un certo grado di corresponsabilità, ma non ne è certo la causa primaria. Senza per questo negare l’evidenza, lo si ribadisce, che il cambiamento è in atto e che ancora oggi, a decenni di distanza dai primi allarmi, molto poco si è fatto in termini di azioni di contrasto e soprattutto nulla si sta facendo in tema di adattamento al cambiamento consci della storia climatica del nostro pianeta e delle conseguenze che questa ha avuto sulla distribuzione di popoli e risorse. E adattamento significa anche prevenzione e, laddove possibile, previsione allo scopo di mitigare i danni di questi disastri. Il disastro emiliano-romagnolo è un ulteriore terribile test di un dissesto non soltanto territoriale, ma anche amministrativo. Sembra che a nulla siano valse le insistenze presso i governi che si sono succeduti negli anni affinché siano rafforzati i servizi tecnico-scientifici di Stato, fulcro necessario di un coordinamento delle azioni di prevenzione e di difesa del territorio. Nonostante questo la tendenza, ormai acclarata, è stata quella di delegare tutto agli enti locali senza però assisterli adeguatamente e, gravissimo ancorché endemico, quella di emarginare i servizi tecnico-scientifici di Stato e le professioni a questi associate.

Aspettando la prossima alluvione…


[1] L’articolo indica 16-17 ma i dati ARPAE (Agenzia Prevenzione Ambiente Energia Emilia Romagna) sono relativi all’intervallo 16-18.

[2] Ogni millimetro in altezza di pioggia caduta corrisponde ad un litro d’acqua per ogni metro quadro di superficie.

[3] Fonte ARPAE (Agenzia Prevenzione Ambiente Energia Emilia Romagna)

[4] Ibidem