So di non sapere

So diimage non sapere. Questa era la massima competenza di Socrate, quasi 2500 anni fa.

In un determinato ambito o campo di azione essere incompetenti significa semplicemente essere mancanti di quanto occorre, in termini di conoscenze ed abilità, a praticare un compito od un tipo di attività, lavorativa o meno; gli anglosassoni tagliano corto definendo unskilled la persona che si trovi in questo stato tant’è che da qualche anno nella ricerca di lavoro continuamente appare il termine skill (capacità, perizia, abilità) sia da parte di chi offre che di chi cerca lavoro.

Nell’era di Internet e soprattutto con l’avvento dei forum, dei gruppi di discussione, dei social network (di tutto un po’, da LinkedIn a Google+ passando ovviamente da Facebook) sappiamo, spesso a spese della nostra salute mentale, che chiunque può diffondere la propria opinione in qualsiasi campo della conoscenza umana e con essa diffonde molto spesso la propria incompetenza con l’aggravante e la recidiva, come direbbe un magistrato, che l’incompetenza diventa ancor più rischiosa quando è inconsapevole ovvero credersi competente fa più danni che essere incompetenti.

Ci sono poi altri aspetti altrettanto negativi che si associano alla presunzione di competenza e sono quelli che comunemente etichettiamo con termini quali ignoranza, negligenza, supponenza e via discorrendo, tutti atteggiamenti che incontriamo spesso nella quotidianità e su Internet.

Ed è quasi sempre l’ignoranza che genera l’incompetenza saccente; ignoranza non assolutamente limitata all’aspetto culturale perché così come esistono analfabeti estremamente competenti in un determinato campo molto più spesso un ignorante culturale è anche un ignorante sociale.

Essere ignoranti, più o meno profondamente, è uno stato e con ciò ne deriva che certamente non è una colpa: lo si è per mancanza di mezzi ed opportunità per studiare o semplicemente mancanza di capacità, si può essere ignoranti in un ambito semplicemente perché ci si occupa d’altro ma ricordo che l’ignoranza diventa davvero pericolosa se applicata in ambito sociale, di gruppo, pubblico. E da quest’ultimo punto di vista l’ignoranza dilagante su Internet sta facendo parecchi danni.

Se chiediamo ad un ignorante con la presunzione di sapere di spiegarsi o, peggio, di spiegarci, un determinato fatto può imbattersi in errori madornali che il più delle volte, con aggravio di presunzione, vengono passati per opinioni personali su cui, come noto, sembra non si possa mai dissentire ed anche se non si tratta di opinioni quali quelli relative alla sfumatura di un colore, viziata dall’illuminazione o dalle condizioni della propria retina, ma di veri e propri errori di fatto inconfutabili. Ciò che vede l'ignorante può essere assolutamente lontano dalla realtà perché questa è già condizionata dalla percezione personale indipendentemente dal livello di competenza così come la percezione di quanto siamo e sappiamo è altrettanto soggettiva. Quante volte parlando ad un pubblico incompetente non ci si rende conto di questa cosa e si tende a sminuire le proprie competenze sopravvalutando il prossimo? Non è né facile né scontato essere coscienti con pienezza dei propri limiti e delle proprie conoscenze.

Quando poi l’incompetenza arriva da parte di persone che si ritengono invece competenti ma che siano palesemente impreparate la cosa è ulteriormente aggravata: su Internet per esempio moltissime persone sono in condizioni tali da bersi la prima bufala che passa solo perché non solo lo hanno letto su Internet ma chi lo ha scritto era un professore, dottore, esperto e via discorrendo.

Ed il male dilagante del fenomeno ha il suo specchio dei tempi. In quella fiera di ignoranza ed incompetenza che è ormai la quasi totalità dei programmi televisivi invitano a titolo di esperti od opinionisti persone fino a poco prima note per essere, a modo loro, competenti in tutt’altro: showgirl che intervengono in argomenti di geopolitica ed economia globale, attori che dicono la loro su tematiche scientifiche, giornalisti di nera che vengono trattati come criminologi di fama internazionale, e sono solo pochi esempi.


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Purtroppo lo scontro tra opinioni –ricordo che quasi sempre una tra queste è invece un errore clamoroso- è talmente forte che è praticamente impossibile far cambiare parere a chi si dice già convinto ed allora meglio tagliare corto: ognuno la pensi come vuole ma l'importante è che la realtà che è una sola che deve guidare le scelte senza perdere tempo dietro strade che porterebbero solo all’assunto che tutte le domande sono lecite ma non è detto che ogni domanda debba avere risposta. Inoltre molto spesso è estremamente difficile, spesso impossibile, spiegare le proprie ragioni o dimostrare la realtà perché il substrato culturale dell’ignorante ed incompetente è insufficiente: privo completamente delle basi necessarie si trincera dietro un muro di mutismo talmente alto che la discussione con un incompetente è del tutto inutile non portando a nessun risultato ed anzi, spesso fa chiudere a riccio l'interlocutore che diventa sempre più chiuso ed incapace di osservare anche la semplice realtà.

Provare a far osservare a chi si reca a Lourdes per motivi di salute che un viaggio nella località francese ha un tasso di efficacia nel guarire i malati dello 0.0000335% o, se può rendere meglio, un'inefficacia del 99.9999665% è assolutamente inutile così come dirgli che il tasso di guarigione spontanea, anche inspiegabile, in medicina è più alto di quello di tutti i siti dei miracoli al mondo messi insieme.

Ma allora perché si continuano a diffondere voci allarmistiche, infondate, scientificamente smentite che per molti sono verità scottanti e proibite? E le cui smentite sono spesso bollate come legate agli interessi di caste e lobbies di varia natura.

Perché se un incompetente diffonde una voce allarmante, questa farà il giro del mondo e resterà impressa nelle menti anche se dopo viene smentita. E credetemi che basta molto poco a far sì che perduri nel tempo e nell’opinione comune la falsa notizia piuttosto che quella vera. Le leggende metropolitane nascono in questo modo e la prova della loro tenacia è che resistono decenni, se non secoli in qualche caso, nonostante reiterate smentite.

In Corea del Sud, se provate ad acquistare un ventilatore troverete l'avvertenza di non dimenticare mai l'apparecchio in funzione durante il sonno: in quel paese è infatti diffusa l'opinione che dormire con il ventilatore acceso possa uccidere, già. In Corea del Sud lasciare il ventilatore acceso durante il sonno è considerato un atto particolarmente pericoloso.
La storia nacque da un comunicato stampa del Korea Consumer Protection Board, un ente governativo che si occupa di informare periodicamente i consumatori sui provvedimenti legali e commerciali legati ai prodotti di largo consumo: dai dati raccolti dall'agenzia era "evidente" che dormire con un ventilatore in funzione provocasse la morte per ipotermia e per aumento di anidride carbonica dovuta all'aumentata circolazione di ossigeno nell'ambiente nel quale era in funzione l'apparecchio. In realtà nessuno dei due meccanismi è plausibile e soprattutto non può essere collegato in maniera convincente al funzionamento di un ventilatore, non vi è oltretutto alcuna base scientifica che spieghi la "morte da ventilatore".

Eppure la leggenda si sparse, così velocemente che ancora oggi i ventilatori in vendita in Corea del sud hanno un timer che blocca il meccanismo dopo un certo numero di minuti e soprattutto si sottolinea l'avviso di non dormire mai con il ventilatore acceso.

Per una serie di coincidenze furono rinvenute diverse persone decedute in casa con il ventilatore acceso in un ristretto periodo di tempo e ciò fu sufficiente per spargere la notizia fino al punto da far emanare un comunicato ufficiale da parte di un ente che avrebbe invece dovuto tutelare i consumatori da fesserie del genere.

Qualcuno, invece di riflettere sul fatto che durante la stagione estiva sono in molti (soprattutto anziani!) ad utilizzare un ventilatore e che trovare un anziano morto con un ventilatore acceso poteva essere un normale reperto, notò quella "strana" presenza: trovare consecutivamente più di tre morti con il ventilatore in funzione poteva significare che il ventilatore uccide. Non pensò affatto che molte di quelle povere persone erano appunto anziane, molte altre alcoliste e diverse in cattive condizioni di salute.

Un po' come dire che trovare tanti fazzolettini di carta a casa di chi è raffreddato, significhi che i fazzolettini causano il raffreddore. Chi può smentirlo, in fondo.

L'incompetenza unita alla capacità di discernere realtà da fantasia, i fatti dalle ipotesi può modificare il corso di una vita.

Infiniti noi

Perché noi qui, infiniti noi
siamo il tempo innocente
che nasce dal silenzio del mondo
intorno a noi.
(I Pooh, 1973)

 

 

 

Se l'universo fosse infinito? Avremmo il paradosso della replicazione infinita.

Immaginate di vivere in un universo dove nulla è originale. Nessuna idea è mai nuova. Non c'è nessuna originalità, nessuna novità. Nulla è mai stato fatto per la prima volta è nulla sarà mai fatto per l'ultima volta. Nulla è unico. Ognuno non soltanto ha un sosia ma ne ha un numero illimitato.

Questa insolita situazione si verifica se l'universo è infinito quanto a estensione spaziale (cioè a volume) e se la probabilità che la vita si sviluppi non è uguale a zero. Si verifica a causa del modo singolare in cui infinito differisce radicalmente da qualsiasi grande numero finito, per quanto grande è esso sia.

In un universo di estensione infinita tutto ciò che ha una probabilità non nulla di accadere deve accadere infinite volte.

Così in ogni istante - per esempio, in questo momento - deve esserci un numero infinito di copie identiche di ciascuno di noi che stanno facendo esattamente ciò che ognuno di noi sta facendo ora. Ci sono anche numeri infiniti di copie identiche di ciascuno di noi che stanno facendo qualcosa di diverso da quello che stiamo facendo noi in questo momento. In realtà si potrebbe trovare un numero infinito di copie di ciascuno di noi che in questo momento stanno facendo qualsiasi cosa ci fosse possibile fare con una probabilità non nulla in questo momento.

Il paradosso della replicazione spaziale, a parte il comprensibile disagio psicologico che crea, ha conseguenze di ogni tipo anche strane.

Una delle conseguenze logiche del risultato dell’evoluzione della vita è che questa ha probabilità non nulla visto che siamo qui a parlarne; quindi in un universo infinito deve esistere un numero infinito di civiltà in vita con al loro interno copie di noi stessi di tutte le possibili età. Quando moriremo ci sarà sempre altrove un numero infinito di copie di noi stessi, che avranno tutti i medesimi ricordi e le esperienze delle nostre vite passate, ma che continueranno a vivere nel futuro. Insomma così vista la questione è come se ognuno di noi «vive» per sempre.

I teologi, primo fra tutti Agostino, hanno confutato questo argomento sostenendo che la vita deve esistere solo sulla Terra e non altrove perché se la crocifissione di Cristo ha avuto una probabilità non nulla di accadere – e stando a quanto sostengono è accaduta – allora in un universo infinitamente grande essa è accaduta infinite volte altrove: in questo modo essa perde il significato che le si attribuisce.

E’ inoltre dimostrabile che se incontrassimo uno dei nostri cloni non sarebbe come rivedere se stessi nello specchio del tempo perché è più probabile che pur avendo avuto passati identici di fronte a nuove situazione si prenderebbero decisioni diverse, proprio come farebbero gemelli identici con i futuri di ognuno dei cloni con più probabilità di divergere che di rimanere simili.

La cosa curiosa di questa «teoria» è che essa stessa non sarebbe originale. E’ già stata proposta infinite altre volte.

Come se ne esce? Qualche ipotesi c’è. La scappatoia meno elegante ma più semplice è ammettere che l’universo sia finito oppure ricorrere alla finitezza della velocità della luce che come noto ha un limite ben preciso. Il fatto che la velocità della luce abbia un limite pari a circa 300.000 km/s fa sì che l’universo che possiamo osservare abbia delle dimensioni circoscritte. La conseguenza è che a conti fatti (che vi risparmio) la distanza alla quale potremmo incontrare un primo sosia, mio o vostro, è pari a circa 10N metri dove N=1027, un numero enorme!

C’è un altro modo per evitare il paradosso della replicazione infinita ovvero ammettere che la probabilità dell’evoluzione della vita nell’universo sia nulla.

In tal caso il numero delle copie di ognuno di noi sarebbe pari a 0 x ∞ che può essere uguale a qualsiasi numero finito, perché se dividiamo 1 per 0 otteniamo infinito, se dividiamo 2 per 0 otteniamo ancora infinito e così via. Quindi potrebbe esserci soltanto un nostro sosia altrove, ma potrebbero benissimo essercene un milione di miliardi!

Ma affermare a priori che la vita compaia pur avendo una probabilità nulla di realizzarsi in modo naturale equivale a dire che essa ha un’origine miracolosa o soprannaturale. Quindi il paradosso della replicazione infinita è scongiurato ammettendo che la vita sulla Terra sia pre-programmata per evolversi. Personalmente questo introduce per me ben altri paradossi.

Se fosse infinito nel tempo, anche solo nel tempo e non nello spazio, le cose non starebbero certo meglio. Con un tempo infinito a disposizione qualsiasi cosa abbia una probabilità finita di accadere sarà accaduta infinite altre volte nella storia passata. Nessuna idea può essere nuova ed universi di questo tipo hanno una caratteristica sorprendente.

Se c’è una probabilità finita che la vita intelligente si sviluppi (e c’è visto che, ancora, siamo qui a parlarne) questa deve essere infinitamente comune e con il passare del tempo dovrebbe esserci un enorme incremento della frequenza di esseri viventi tale che in un universo infinitamente vecchio dovremmo vedere extra terrestri ovunque ma visto che non li vediamo ecco un altro paradosso anche se non è escluso che ET sia talmente piccolo, nanoscopico, da non poter essere visto nella maniera che intendiamo comunemente.

Ultimo paradosso. Con implicazioni etiche e morali.

In un universo infinito ne consegue che la quantità di bene o di male, intesa come azioni che li producano, è altrettanto infinita. Quindi nulla che possiamo fare (o non fare) può aumentarla: infinito più qualcosa è sempre ancora infinito. In un universo infinito gli imperativi etici che spingono a fare il bene non hanno senso alcuno; perché dovremmo agire per il bene se in questo momento ci sono infinite copie di noi stessi che stanno facendo esattamente il contrario scegliendo alternative moralmente riprovevoli? Ecco che quindi più che imperativi etici che spingono a fare il bene occorrerebbe che gli stessi imperativi spingano a fare azioni giuste analizzate individualmente.

Ma ciò non toglie che un universo infinito porta con sé una serie di conseguenze che definire bizzarre è solo un inizio pur ammettendo che la finitezza della velocità della luce restringe il nostro orizzonte ad un punto tale che possiamo teoricamente preoccuparci ed occuparci soltanto delle nostre azioni visto che le probabilità di avere un contatto, od un impatto se volete, diretto con un nostro sosia sono pressoché nulle, ma non nulle.

Non c’è una soluzione semplice per i problemi etici posti da un universo infinito. Forse c’è qualcosa di sbagliato nella nostra concezione geocentrica dell’etica.

Vi affascina o vi inquieta?

Infinitesimi

In termini cosmici la mia esistenza non ha senso: o meglio l'unico senso della mia esistenza è il fatto stesso che io esisto. Lo scopo della mia vita? "Lo scopo è vivere". Una tautologia che vale sempre la pena di tenere a mente.

Quindi, dal punto di vista del cosmo, la mia esistenza non ha un senso né uno scopo né alcuna necessità (non c'è da vergognarsene - varrebbe lo stesso anche per Dio, se Dio esistesse). Io sono qualcosa di accidentale, di contingente. Avrei potuto benissimo non esistere.

"Benissimo" quanto? Facciamo un piccolo calcolo. Appartengo alla razza umana e perciò possiedo un’entità genetica precisa. Il genoma umano consiste di circa trentamila geni attivi. Ognuno di essi ha almeno due varianti, o “alleli”. Quindi, il numero di identità geneticamente distinte che il genoma può codificare è pari ad almeno 2 elevalo alla trentamilesima – a spanne, 1 seguito da diecimila zero. E’ il numero degli individui potenziali permesso dalla struttura del DNA.

E quanti individui potenziali sono esistiti davvero? Secondo le stime, da quando esiste la nostra specie, sono nati circa 40 miliardi di esseri umani. Arrotondiamo a 100, per prudenza. Questo significa che la frazione di esseri umani geneticamente possibili venuti al mondo è meno di 0,00000…000001 (inserire circa 9.979 zeri al posto del puntini). La stragrande maggioranza degli umani geneticamente possibili è fatta di spettri non ancora nati(1). Ecco a quale fantastica lotteria ho dovuto vincere – e voi con me – perché la mia candelina si accendesse. Se non è il massimo della contingenza, poco ci manca.

(…)

Non riesco a non sentirmi meravigliato di esistere – e che l’universo sia riuscito a produrre i pensieri che ribollono adesso nel flusso della mia coscienza.

Tuttavia lo sconcerto che provo pensando alla mia improbabile esistenza ha un curioso contrappunto: la difficoltà di immaginare la mia pura non-esistenza. Perché è così difficile immaginare un mondo senza me, un mondo in cui non ho mai fatto la mia comparsa? In donfo so di essere un dettaglio tutt’altro che necessario della realtà.

(…)

Lo so: la sensazione che la “qualcosità” del reale dipenda dalla mia esistenza è un’illusione egocentrica. Ma non perde il suo notevole fascino neanche se la considero tale. Come posso restarne immune? Forse tenendo bene a mente che il mondo se l’è cavata benissimo senza di me per secoli e secoli, prima del mio improbabile e improvviso risveglio dalla notte dell’incoscienza, e che continuerà a cavarsela senza intoppi anche dopo il mio prossimo ed inevitabile momento in cui a quella notte farò ritorno.

(…)

Se la mia nascita è accidentale, la mia morte è una necessità.

Estratto da Jim Holt “Perché il mondo esiste?”



(1) NdA: e che non avranno mai modo di nascere.

Il teorema dell’aborigeno




La distanza genera credulità, che quanto più un evento è lontano nello spazio tanto più ciecamente gli uomini tendono a prendere per buona qualsiasi cosa si racconti su di esso.

Questo aspetto, legato allo spazio, per estensione è facilmente riportabile anche a distanze nel tempo o nel divario conoscitivo tra un individuo e l’altro o più genericamente tra l’individuo e la conoscenza come antitesi all’ignoranza stessa.

Distanze queste molto spesso ancora più insormontabili che non quelle geografiche: un ignorante può senza dubbio riuscire ad organizzarsi per un viaggio transoceanico a visitare popoli della Melanesia ma sempre ignorante resta. Si pensi, ancora a semplice esempio, alle leggende ed alle mitologie, religioni comprese, tramandate per secoli e millenni a cui ancora la maggioranza crede od alla profonda ignoranza per cui ancora così tanti credono alle intercessioni di santi, patroni, maghi e guaritori o, per associazione di idee passando dal patrono al patronum ed i suoi clientes di romana memoria alla ingenuità con cui la maggioranza si beve le cazzate dei politici.

Il fatto fondamentale sembra essere che i mezzi di comunicazione non hanno affatto annullato lo spazio, nel senso di consentire al genere umano di riflettere in modo razionale su avvenimenti lontani: anzi, è vero il contrario.

Da quasi un secolo grazie a radio, televisione e stampa e da qualche decennio grazie da Internet oggi ci si fanno idee assurdamente errate su popoli, tradizioni, usanze e governi di cui un tempo si ignorava del tutto l'esistenza e dilagano incompetenza, ignoranza di ritorno e supponenza nel saper tutto di tutto soltanto perché lo si è letto in Internet creando un popolo di esperti; letto su Internet velocemente e spesso soffermandosi sulle figure proprio come i ragazzini pigri (e futuri ignoranti) guardano solo le figure dei fumetti che leggevano.

Insomma. Corrado Guzzanti tanti anni fa indirettamente aveva colto il senso completo di questo dato fondamentale col suo, da me ribattezzato or ora, teorema dell’aborigeno. E passando dal particolare al generale come ogni buon teorema che voglia esser parte d’una teoria, direi che il senso finale è questo: la maggioranza è aborigena e la conoscenza non avrà mai nulla da dir loro affinché possano assorbirne anche una minima parte.

Corrado Guzzanti–Aborigeno, anni 90