COP28 a Dubai. Dove?!?

 Premessa

A partire dal prossimo 30 novembre, e fino al 12 dicembre, avrà luogo a Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, la 28Conference of the Parties, (COP28); una COP è l’organo decisionale supremo di UNFCC. Tutti gli stati che fanno parte di quest’ultima sono rappresentati alla COP, evento durante il quale si esaminano l'attuazione degli atti della convenzione e di qualsiasi altro strumento giuridico adottato dalla COP, prendendo le decisioni necessarie per promuovere l'effettiva attuazione, comprese le disposizioni istituzionali e amministrative. Diciamo che ci provano e, per lo meno per alcuni tra i partecipanti, ovvero gli stati ed i loro governi più attenti, si danno da fare ottenendo qualche risultato apprezzabile pur in mancanza molto spesso di un quadro globale, elemento chiave indispensabile per affrontare il cambiamento climatico in atto, problema terrestre e non certo regionale.

Un compito fondamentale della COP è quello di rivedere le comunicazioni nazionali e gli inventari delle emissioni presentati dagli stati membri. Sulla base di queste informazioni, la COP valuta gli effetti delle misure adottate e i progressi compiuti nel raggiungimento dell’obiettivo finale della convenzione.

La COP si riunisce ogni anno, salvo diversa decisione. La prima riunione della COP si è tenuta a Berlino, in Germania, nel marzo 1995. Per chi volesse approfondire qui potrà trovare l’elenco di tutte le COP tenutesi finora ed accedere agli atti.

Mi sono già occupato di una COP, la COP26, e non credo che avrei molto da aggiungere se volessi commentare quella dell’anno scorso o, una volta terminata, quella in arrivo. Ma ciò che mi colpisce quest’anno è la sede prescelta, perché non ad Hong Kong allora? Certo, una sede vale l’altra, più o meno, visto il contributo notevole che le città apportano alle emissioni totali di gas serra, ma la scelta di Dubai rimane per me curiosa, così come, lo vedremo a breve, lo sarebbe stato o lo sarebbe un domani, Cina permettendo, scegliere Hong Kong. 

E, tanto per tornare in tema di COP28 aggiungo che questa parte già abbastanza in salita: innanzi tutto all’ombra dello sfarzo della città e dei suoi cittadini, 43.000 €/anno di reddito pro capite, le notizie che giungono sul trattamento dei lavoratori immigrati, soprattutto quelli all’opera sul cantiere degli edifici che ospiteranno la conferenza e, più in generale, i piani che i singoli stati membri, persino i più virtuosi, hanno intenzione di attuare per contenere le emissioni di gas serra sono decisamente insufficienti, e questo è un argomento scottante del quale si parla da parecchio tempo. [ironia on]Però ci sarà il Papa.[ironia off](*)

Per il resto nulla da segnalare sul fronte delle notizie sul cambiamento climatico in atto. Persino la prestigiosa rivista inglese “The Lancet” non fa altro che confermare, sottolineare e ribadire i rischi, dell’inarrestabile processo in corso; e lo fa mettendoci, come si dice, il carico, trattandosi tutto sommato di una rivista di estrazione medica e clinica, sottolineando inoltre i rischi per la salute dell’umanità.

Dubai

Come noto, gli edifici residenziali e quelli commerciali sono presenti soprattutto nelle aree urbane, nelle città che, ad oggi, vedono risiedere circa il 55% degli esseri umani e, secondo stime ONU, nel 2050 si arriverà al 70%. Questi ecosistemi artificiali contribuiscono al 75% delle emissioni di gas serra e 25 mega città da sole producono oltre il 52 percento delle emissioni mondiali. Le città hanno quindi un'impronta ecologica enorme: complessivamente occupano solamente circa il 3 percento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse globali e rilasciano i tre quarti del totale dei climalteranti.

Le città contribuiscono alle emissioni bruciando ad esempio combustibili fossili prodotti altrove; oppure, proprio come nel caso degli Emirati, possono anche essere un fiore profumato dal punto di vista delle emissioni ma i loro prodotti, esportati nel mondo e consumati, contribuiscono alle emissioni.


Proprio recentemente si parlava di impronta ecologica, vi viene in mente qualcosa di più innaturale o, se volete, totalmente artificiale, di una città nel deserto? E “The Line”? 170 chilometri di città lineare nel deserto saudita: ci dovremmo credere? Probabilmente sì.

Gli Emirati Arabi Uniti sono il settimo produttore di petrolio al mondo e tra i principali esportatori, e le previsioni per il 2050 vedono il Medio Oriente in testa alla classifica mondiale dei produttori.

La crescente tensione che sta scuotendo il Medio Oriente a partire dallo scorso ottobre, sebbene latente da tempo, dovrebbe fungere da monito per tutti i principali consumatori, soprattutto per coloro che importano idrocarburi, affinché accelerino il passo nella transizione energetica. Questo imperativo non solo risponde alla necessità di contrastare il cambiamento climatico, ma anche di garantire la sicurezza energetica e l'autonomia strategica.

 

I Paesi del Golfo, guidati dall'Arabia Saudita, stanno pianificando un aumento significativo della capacità di estrazione e raffinazione di petrolio nei prossimi dieci anni, pari a circa il 10%. Questo è lo scenario concretamente vero mentre altre potenze, come l'Europa, gli Stati Uniti promettono di ridurre gli investimenti nel settore petrolifero, lo stesso dicasi per la Cina, dipinta sempre a tinte fosche, ha un piano e un obiettivo: le emissioni di carbonio dovranno raggiungere il picco tra il 2025 e il 2030 e la domanda totale di energia inizierà a diminuire intorno al 2035.

La strategia dei paesi arabi invece mira chiaramente a massimizzare lo sfruttamento delle considerevoli riserve petrolifere, rappresentanti oltre la metà delle risorse globali, finché il mercato del greggio mantiene la sua rilevanza e prima che sia gradualmente sostituito.

Analogamente, il Qatar sta perseguendo una strategia simile nel settore del gas naturale, prevedendo un aumento del 60% nella capacità di liquefazione ed esportazione entro il 2027. L'obiettivo è chiaro: capitalizzare sulle risorse di idrocarburi disponibili, finanziando allo stesso tempo il percorso verso la transizione energetica ed economica. Questo percorso li renderà progressivamente autonomi dagli introiti derivanti dai combustibili fossili. Un esempio tangibile di questa visione è rappresentato dagli ingenti investimenti in tecnologia, servizi, turismo e, più recentemente, nel settore calcistico.

Questa dipendenza persistente dal petrolio e dal gas potrebbe portare gli stati che non riescono o non intendono liberarsi da tale dipendenza a trovarsi in un mercato degli idrocarburi ancor più oligopolistico rispetto a quanto lo sia attualmente. Secondo le proiezioni dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA), anche nello scenario più ottimistico necessario per raggiungere l’ambizioso obiettivo di net zero emissions e entro il 2050, il Medio Oriente aumenterà la sua quota di produzione globale di petrolio e gas dal 25% attuale al 40% nel 2050, sebbene su volumi inferiori. Ricordo che la terminologia zero netto si applica a una situazione in cui le emissioni globali di gas serra derivanti dall'attività umana sono in equilibrio con la riduzione delle emissioni.

Guardando alle esportazioni, le percentuali diventano ancor più allarmanti, con la fetta di mercato dei Paesi del Golfo e dell'Iran destinata a salire fino al 65% entro la metà del secolo. Secondo l'Agenzia, a pagarne le spese saranno soprattutto i Paesi più vulnerabili e meno preparati per affrontare la transizione energetica. Mentre l'Europa sta procedendo verso un futuro più sostenibile, seppur non abbastanza rapidamente, e gli Stati Uniti hanno riserve interne di petrolio e gas, saranno principalmente i Paesi emergenti dell’Asia orientale a diventare sempre più dipendenti dalle esportazioni del Medio Oriente.

Ciò comporterebbe una crescente dipendenza da rischi geopolitici caratteristici di quella regione, rischi che oggi appaiono evidenti, come è accaduto molte volte dal 1973 in avanti. In questo contesto, è essenziale che i paesi esplorino e investano in alternative energetiche sostenibili per garantire la propria sicurezza energetica e ridurre la vulnerabilità agli eventi geopolitici nel lungo termine. 

Appare quindi abbastanza evidente che la COP28 a Dubai parte davvero male: a meno che non sia stata provocatoriamente voluta, la scelta della sede somiglia molto ad un convegno di pomposi accademici…nel paese dei Balocchi di Collodi, visto che spesso questa città è stata definita un Luna Park per ricchi. In questo caso però a nessuno spunteranno le orecchie d’asino. L'allungamento del naso stando a quel fanno rispetto a quel che promettono sarà evidente per molti.



Hong Kong

Facciamo un po’ di fiction. Un'ipotetica conferenza plenaria chiude i lavori dell’ennesimo incontro internazionale: poco importa che sia una COP, un congresso scientifico o la riunione di un gruppo di premi Nobel, sul cambiamento climatico, sulla biodiversità, sulla tutela del paesaggio, sugli ambiziosi e quasi utopici obiettivi da rispettare (è in agenda!). Al termine uno dei partecipanti si concede una passeggiata serale che gli consente di godere di uno dei più affascinanti skyline del mondo. Quando, negli anni Trenta del XIX secolo gli inglesi occuparono quello che era poco più di un villaggio di pescatori e un presidio militare sul delta del Fiume delle Perle, mai avrebbero potuto immaginare quel che sarebbe diventata.


Sette milioni e cinquecentomila abitanti in 1000 chilometri quadrati, 7.500 abitanti per ogni chilometro quadrato. L'isola di Hong Kong, che dà il nome all'area, assieme a Kowloon, forma il cuore urbano di Hong Kong. Le loro aree, sommate, sono circa di 88,3 km² e la loro popolazione totale di circa 3.156.500 persone, che corrisponde ad una densità di popolazione di 35.700 abitanti per km²! Strade principali per quasi 2.000 km, 200 km di linee di metropolitana, un aeroporto che vede transitare 50 milioni di passeggeri l’anno e milioni di tonnellate di merci, ogni anno. Case alveare.

La produzione agricola è pressoché inesistente, le oltre 300.000 tonnellate di riso che accompagnano 30 kg di carne bovina, 70 kg di carne suina e più di 60 kg di pesce che ogni anno in media un abitante consuma, sono tutte di importazione. E’ uno dei più grandi centri commerciali e finanziari della Terra e, nonostante la digitalizzazione spinta, vengono consumate qualcosa come 600.000 tonnellate di carta l’anno.

 


Una macchina mostruosa nascosta dietro le visioni tutto sommato gradevoli dei grattacieli in acciaio, vetro e cemento, della baia.

L’impronta ecologica lasciata da ogni abitante di Hong Kong è gigantesca: 4 ettari ciascuno. Se tutti i terrestri avessero un simile impatto occorrerebbero due pianeti e mezzo per sostenere l’umanità: 4 ettari a fronte di una disponibilità di 0,04 ettari a testa, il che significa che il 99 percento di quel che occorre per il loro sostentamento è prodotto consumando risorse altrui, che poi, come abbiamo visto, è quello che accade normalmente per qualsiasi centro urbano. C’è di peggio: a Singapore siamo a 5,5 ettari di impronta.

Metà dell’impronta di Hong Kong è dovuta all’emissione di gas serra: il 26 percento di CO2 è prodotto localmente (milioni di condizionatori per consentire di vivere in un clima subtropicale tremendo, milioni di litri di carburante per veicoli e imbarcazioni…), il restante 74 percento viene emessa altrove, da qualche parte del mondo, per produrre quanto si vende o si commercia ad Hong Kong ogni anno. Totale, quasi 100 milioni di tonnellate di gas serra l’anno, un quinto di ciò che produce l’Italia.

Un paradossale ecosistema totalmente costruito dall’uomo, che ha sostituito foreste e praterie, insenature e rive frequentate fin da 40.000 anni fa.

E questo salto nel passato ci ricorda che ad Hong Kong non hanno inventato nulla: hanno esasperato quanto accadeva già nel Neolitico in una cittadina turca di 8.000 anni fa o nella Roma imperiale, che aveva già una densità di ben 5.000 persone per chilometro quadrato e che, al tempo del suo maggior splendore, importava quasi 4 milioni di tonnellate di frumento l’anno per sfamare i suoi abitanti. E per tornare al nostro tempo e al nostro paese abbiamo Napoli, riferendosi al solo territorio comunale, con ben 8.500 abitanti per chilometro quadro. Candido virtualmente Napoli come sede per la prossima COP29.

Conclusione

Mi ripongo e pongo le domande.

Una conferenza sul clima, una COP, che si tenesse ad Hong Kong, non scatena in voi, come in me, stridore di strumenti non accordati?

E quel che accadrà a Dubai non sarà mica quel che accade prima di un concerto, tra i suoi 90 elementi d’orchestra sinfonica, senza che intervenga un direttore a tacitare tutti con i famosi colpi di bacchetta?

Come quando commentai la COP26, assistendo alla realtà delle azioni rispetto ai programmi, attendo la prossima COP con il solito senso, tra seccatura ed amarezza, che si avverte quando si ha la certezza di essere presi in giro.

(*) il 28 novembre scorso è stato annunciato che, per motivi di salute, il Papa non sarà fisicamente presente alla COP28. Ma le vere assenze, ingiustificate e ingiustificabili, sono quelle di Stati Uniti e Cina.

Aggiornamento del 3 dicembre 2023. Le mie erano facili previsioni, realizzate con un'analisi davvero minima di ciò che tiene in piedi l'economia del paese ospitante. Ma oggi l'emiro ha tolto la maschera affermando: "Senza petrolio torniamo alle caverne". Ci sono alternative, costose, ma ci sono. Rileggerei la cosa in questo modo: "Senza vendere petrolio tornano alle caverne. Loro".

Articolo di riferimento qui.

Uomo-Natura «» L'antitesi inesistente

In un paio di post pubblicati di recente (qui e qui) scrivevo di due aspetti abbastanza paradossali che stanno caratterizzando l’approccio al cambiamento climatico in atto. Da una parte mettevo in evidenza come, nonostante gli insegnamenti del passato, non si tenesse in debita considerazione quanto questi possano aiutarci almeno a capire ciò che ci attende, purtroppo molto difficilmente a prevedere, come vedremo; e poco prima affrontavo la definizione di natura, di naturale, di biodiversità in relazione al suo non poter fare a meno di inserire al suo interno la nostra stessa specie, che iniziando molto presto, fin dagli albori della sua presenza sulla Terra, ha lasciato impronte evidenti della sua presenza e del suo passaggio. Non sappiamo se queste categorie siano davvero così esclusive o inclusive, ma certamente non possono non comprendere che l’aspetto della Terra così com’è, è per lo più giunto fino a noi non nonostante, ma attraverso le nostre stesse trasformazioni.

Ci sono moltissimi esempi che si possono fare allo scopo di dimostrare quanto profonda possa essere l’impronta dell’umanità e la letteratura in proposito è molto vasta; grazie ai moderni studi rivolti al passato, di paleoecologia, paleoantropologia, paleobotanica, paleogeografia, archeologia e ovviamente paleontologia e geologia. Studi che dimostrano come raramente, nella storia del rapporto tra genere umano e il pianeta, si siano verificati eventi rivoluzionari con passaggi epocali e radicali da uno stato al successivo, trattandosi invece di un progredire relativamente lento, nel tempo e nello spazio, di processi di costruzione di nicchie ecologiche via via più diffuse sulla Terra.

Ma tutto questo non è finora mai accaduto in esclusiva, in quest’ultimo scorcio di tempo, un battito di ciglia di fronte alla profondità del tempo geologico. Che siano gli ultimi due secoli e mezzo, da quando l’ingegnere inglese James Watt, nel 1765, potenziò e migliorò il motore a vapore (ne parlammo qui) o, come qualcun altro sostiene non senza evidenze, fin da almeno 8-10 millenni fa, in pieno Olocene, quando l’espansione demografica, avvenuta grazie soprattutto alla riduzione dell’incidenza catastrofica prodotta dalle oscillazioni climatiche e da crisi di sovrasfruttamento, portò il genere umano praticamente ovunque nel mondo, dando inizio a pratiche in cui la natura non era più subita ma spesso gestita e modificata. Fin da allora, perturbazione e propagazione, le chiavi del successo. Perché è stato certamente un successo, finora.

E’ dalla storia del nostro passato che dobbiamo attingere a piene mani, senza emettere inutili giudizi sulle colpe passate, spesso allora incoscienti, ma è importante conoscerle per riconoscerle e per comprendere la responsabilità morale che abbiamo oggi sul futuro. Uno dei fondatori della moderna ecologia, Peter Vitousek, ebbe a dire «Humanity’s dominance of earth means that we cannot escape responsability for managing the planet»[1].

Devastazione o disegno?

Un famoso geologo, Michael Williams, ha detto una volta: «La deforestazione è stata l’espressione principale del processo di trasformazione antropica della Terra». E questa attività parte da lontano, fin dalla preistoria e forse anche prima. Senza andare troppo in là nel tempo c’è una mezza dozzina di autori classici come Omero, Teofrasto, Cicerone, Strabone o Plinio, che citano la deforestazione, con diverse accezioni e scopi altrettanto variegati. Platone, delle foreste dell’Attica, scrive che «in confronto a quello che erano state una volta ciò che ne rimane oggi è come il corpo scheletrito di un uomo malato» e Lucrezio condanna l’attività degli agricoltori che «sospinge giorno dopo giorno i boschi sempre più in alto lungo i fianchi delle montagne».

«Come cade una quercia o un pioppo o un pino alto, che i falegnami sui monti troncano con le scuri affilante per farne chiglia di nave». Omero, Iliade.

Oggi gli scienziati hanno a disposizione dati paleobotanici, stratigrafici, sedimentari, archeologici, e altro ancora, conservati in specifici database a disposizione di chiunque voglia farne uso, che consentono di ricostruire l’andamento dei processi di scomparsa e/o ritorno delle aree forestali, con o senza cambiamento di specie arborea per motivi magari climatici, e soprattutto distinguendo tra azioni naturali o disboscamenti derivanti da precisi piani e scopi antropogenici.

Durante la rigogliosa Età del Bronzo come pensate riuscissero ad estrarre il rame dai minerali che lo contengono, a lavorarlo? Ovviamente fondendo la materia prima in forni alimentati a legname, dove bruciavano tutto il bruciabile. C’è una famosa area archeologica in Giordania che è stato un vero e proprio polo metallurgico per quasi 9.000 anni: dal Neolitico fino alle epoche Romana e Bizantina. Sono state ritrovate qualcosa come 250.000 tonnellate di scorie dalla produzione metallurgica, in soli 12 chilometri quadrati: ci vogliono vari milioni di tonnellate di legname per produrre una tale quantità di scorie.

Nuovo Mondo. Da Panama al Brasile, con la foresta amazzonica simbolo mondiale dei danni da deforestazione, ci sono le prove scientifiche che l’attività dei cacciatori-raccoglitori, sovrapponendosi agli effetti delle variazioni climatiche, ha avuto effetti profondi sulla struttura delle foreste tropicali di bassa altitudine, molto prima dell’invasione europea. Le tracce nei sedimenti, essenzialmente pollini arborei, aumento del carbone d’origine vegetale, grani di amido e fitoliti del mais, indicano chiaramente la maturazione di un’economia agricola basata sulla tecnica del “taglia-e-brucia”. 7.000 anni fa. E quando arrivarono i conquistadores, gli stessi indicatori mostrano un’inversione di tendenza, tornarono gli alberi. In queste aree le popolazioni native subirono una terribile decimazione a causa dei massacri, delle malattie e delle deportazioni. E le foreste in molti casi si infittirono. Insomma, la foresta, vergine, non lo era affatto. Così come, dall’altra parte del mondo, non erano affatto vergini i territori scoperti dagli europei, l’Australia, la Nuova Guinea, la Tasmania, la Nuova Zelanda, già abbondantemente rimodellate a tratti, dalle popolazioni aborigene anche loro dedite al controllo del fuoco ed al suo impiego per modificare a loro vantaggio il territorio.

Certo l’uomo, lì come altrove, non ha fatto tutto da solo: c’è sempre un elemento «naturale» oltre che «culturale», soprattutto climatico, che consente di riconoscere una sostanziale azione congiunta tra quest’ultimo e gli esseri umani.

La polemica tra i sostenitori della «devastazione» contrapposti a quelli che parlano di «disegno» non si esaurirà mai, è antica, così come antica è l’azione che l’umanità esercita nei confronti dell’ambiente. Ma c’è qualcuno che rifiuta l’assunto tradizionale «trasformazione=degradazione» interrogandosi, ad esempio, sul reale funzionamento degli ecosistemi del bacino del Mediterraneo, a cui tanto deve la storia dell’umanità, «disegnati» dall’uomo nel Neolitico e costruiti nei secoli e nei millenni di perfezionamento dell’agricoltura e delle sue tecniche. Oggi che va così di moda il termine sostenibilità ci si dovrebbe chiedere se quanto realizzato finora non lo sia davvero, sostenibile, visto che per secoli ha egregiamente funzionato. E addirittura, anche se il verdetto per la gestione della cosiddetta biodiversità è decisamente negativo, con la distruzione sistematica e un’ecatombe floro-faunistica, i sostenitori del «paesaggio disegnato» non negano la scomparsa di tutte o quasi tutte le specie originarie ma affermano che ciò che ne seguì non fu il vuoto, ma l’introduzione di una comunità di altre specie, domestiche o selvagge, importate o trasportate involontariamente.

E, sembra un paradosso, ma non lo è, l'ecologia delle comunità riconosce che il «disturbo», sia esso antropico meno, non è necessariamente un fattore negativo per la biodiversità. Numerosi studi in proposito dimostrano che il massimo livello di biodiversità non si registra generalmente in assenza di perturbazioni bensì in corrispondenza di valori intermedi di disturbo. L’estrema variabilità della strategia produttiva agro-silvo-pastorale, che nel Mediterraneo ha la sua massima espressione, sostanzialmente ottenuta con pratiche di moderato disturbo ambientale, hanno consentito di mantenere elevati valori di biodiversità. Sembra incredibile.

A questo punto chiedersi in quanto tempo è avvenuto tutto ciò è obbligatorio: in un tempo sufficientemente lungo da permettere ai filosofi e ai poeti di raccontarci di qualcosa di così lontano nel tempo da renderlo irreale. Non così velocemente da non consentirci di adattarci o, meglio ancora, dar tempo alla componente biologica di adattarsi.

Tutta questa lunga e, solo in apparenza fuori tema, premessa, per arrivare al punto: abbiamo memoria di tutto ciò? Sappiamo o sapremo farne buon uso? E se ne abbiamo memoria, di che tipo è?

Recentemente scrivevo: «è il sapere come sono andate le cose in passato che rende evidente che la nuova normalità climatica è conseguenza diretta delle nostre attività». Per estensione, la nuova visione ecologica.

La memoria corta dell’uomo moderno


Nel 2013, in un autorevole testo di divulgazione scientifica, si scriveva: «La temperatura media globale è aumentata di 0,6 °C nel corso del XX secolo. I dieci anni più caldi del secolo che ci siamo lasciati appena alle spalle sono tutti nella sua parte finale e le loro temperature sono state le più elevate dell’ultimo millennio».

A distanza di un altro decennio anche questi ulteriori dieci anni appena trascorsi sono stati segnati da record di temperature medie via via crescenti e, per ora, il vincitore è questo 2023.

E i prossimi dieci anni faranno di tutto per battere quest’ultimo
.

La globalizzazione e l’iper-connessione, pressoché impossibili da evitare, stanno portando l’umanità a perdere memoria: l’orizzonte temporale dell’uomo contemporaneo diventa sempre più piccolo, uno spazio emotivo che si fa sempre più contingente, valido ora e qui e basta. Sempre nuove emozioni regolate dai media nascono nel giro di pochi giorni, ore e minuti, per poi lasciare spazio all’oblio rispetto a ciò che fino a un istante fa sembrava tanto preoccuparci. Le informazioni si affollano e si ingorgano, costringendoci a sviluppare una notevole capacità di dimenticare per poterne gestire, divorandole, continuamente di nuove. E per ogni quantitativo di informazioni c’è una parte, coscientemente gestita da chi ne ha interesse, opportunamente mescolata, che consiste di disinformazioni. Dimenticare è più necessario che ricordare, per far posto a continue nuove immaginazioni di massa che consentano a miliardi di individui di vivere consumando dentro ecosistemi artificiali, senza pensare al proprio destino. Le dimensioni economico finanziarie della nicchia auto costruita dall’uomo sono forse irrinunciabili, ma avvolgenti e soffocanti.

I demografi ormai non parlano più di popolazioni ma di «metapopolazione», per descrivere questo insieme di popolazioni locali riunite in una generica rete genetico-demografica. E per quanto assurdo possa sembrare eravamo una metapopolazione persino quando, alla fine del Paleolitico, una decina di millenni fa, sulla Terra c’erano più o meno 5 milioni di individui! 




Sì, perché è stato grazie alle migrazioni, allo scambio, all’apporto genetico e culturale, che i piccoli, piccolissimi gruppi di esploratori, a volte meno di 100 persone, hanno evitato l’estinzione.

Questa perdita della memoria è paradossalmente antitetica rispetto alla profondità della storia umana e alle sue complesse traiettorie. L’oblio che governa la maggior parte della vita delle società attuali appare tragicomico rispetto alla grandiosa capacità che l’uomo contemporaneo ha sviluppato di leggere e interpretare gli archivi storici costruiti negli ultimi 5.000 anni, e quelli ben più profondi costituiti nel tempo dall'uomo preistorico, dalle flore e dalle faune, dai vulcani e dal clima, e ora depositati negli strati geologici ed archeologici e nei sedimenti dei laghi e degli oceani.

A cosa dovrebbe servire ricostruire il passato remoto dell’umanità e dei suoi innumerevoli modi di stare e agire negli ecosistemi della terra? Sarebbe tragico se tutto ciò venisse letto con pregiudizio, per sostenere falsi miti ambientalisti dell’Eden perduto o del valore intrinseco dell’immutabilità ecologica costruiti a priori. Sarebbe criminale se venisse utilizzato per creare giustificazioni e fatalismi, strumentali a gruppi interessati solo alla produzione ed al profitto senza scrupoli.

Ma non facciamoci troppe illusioni: non può servirci neppure a predire con esattezza deterministica cosa ne sarà di noi e degli ecosistemi del pianeta. Dispiace doverlo dire così brutalmente ma, contrariamente al ritornello di molte introduzioni all’analisi eco-antropologica, il fatto che ci troviamo, fin dalla nostra origine, immersi in un cantiere bio-culturale continuamente aperto, e saltiamo da una transizione all’altra limita molto la possibilità di farci un’idea precisa nel nostro futuro studiando il nostro passato. Possiamo amplificare il dettaglio conoscitivo di formazioni geologiche, strati sedimentari, orizzonti archeologici, ma non avremo mai la possibilità di immettere tutto ciò in un algoritmo che automaticamente sia in grado di estrapolare il nostro futuro. E il perché sta tutto in questa considerazione:

«Tutti i sistemi semplici sono semplici allo stesso modo; ogni sistema complesso è complesso a modo suo». E se la sola atmosfera è un sistema complesso al limite dell’indecifrabilità immaginate quanto possa esserlo l’insieme di atmosfera, idrosfera, litosfera, idrosfera, biosfera…e antroposfera![2]

Non esiste un’antitesi uomo-natura

Pur essendo a conoscenza dei fatti che ci riguardano non dovremo perdere di vista che stiamo eseguendo un esperimento planetario, e ne siamo al tempo stesso le cavie. Conoscere, anche con precisione, come sono cambiati i numeri della popolazione globale negli ultimi 10.000 o 100.000 anni, non ci serve a capire automaticamente quanti saremo tra 100 anni. Per quanto ne possiamo sapere su antiche popolazioni e sul loro stile di vita ciò non ci darà automaticamente la ricetta della sostenibilità.

Allora perché ricordare? Ragionare sul passato della Terra e sul nostro può servire soprattutto a prendere coscienza della storia naturale delle nostre dimensioni ecologiche, a comprendere senza pregiudizi che siamo sempre stati parte della Natura, e al tempo stesso a capire che la manipolazione degli ecosistemi è una caratteristica antropologica profonda, che ci accompagna dalle origini. Che sia devastato o disegnato questo nostro ambiente, non possiamo dubitare che il ruolo ecologico che l’uomo ha assunto nell’Olocene, con il Neolitico l’Età del Bronzo, è assolutamente conseguente alla storia remota della nostra specie e che l’impronta ecologica ha cessato di essere marginale o meramente locale ben prima della rivoluzione industriale. Riconoscere questo ha una straordinaria importanza per orientare in modo corretto la ricerca delle soluzioni possibili al problema della sostenibilità, perché possibile vuol dire innanzitutto coerente con la nostra storia naturale di costruttori di nicchia.

Da questo processo preistorico abbiamo imparato che contrapporre l’azione dell’uomo rispetto ai processi naturali non è giustificato dalla lettura del passato. Oggi che abbiamo davanti agli occhi un’impronta ecologica che non sembra più avere limiti l’idea che l’azione dell’uomo sia sempre integrata con quella degli altri componenti naturali, e che addirittura non sia necessariamente negativa, può sembrare assurda, visto che da sempre lo si è collocato a priori fuori e in antitesi rispetto alle dinamiche naturali.


Questa antitesi natura-uomo domina la letteratura di divulgazione sulle tematiche ambientali e i libri di testo di ecologia. La definizione di impatto antropico sugli ecosistemi è una metafora potente e abusata di questa idea che pervade anche molta letteratura scientifica specialistica. Ma considerarci fuori dalla natura è sbagliato e pericoloso. Sbagliato perché la nostra, anche nell’Olocene, è storia naturale di una specie culturale. L’ostinazione a leggere le trasformazioni ambientali sempre in modo antitetico, l’uomo o i processi naturali, ha generato confusione e prodotto errori.


In un recente post, abbiamo visto come gli incendi, che rappresentano uno dei più importanti fattori ecologici che controllano la struttura e il funzionamento degli ecosistemi terrestri, sono da almeno 50.000 anni sotto il controllo strettamente integrato del clima e dell’uomo. Ancora, la scomparsa delle grandi faune del Pleistocene è dovuta a una stretta complicità tra uomo e clima. Non è possibile leggere la storia delle modificazioni dei paesaggi degli ultimi 10.000 anni se non in termini di stretta integrazione e di continue retroazioni tra «cultura» e «natura». L’aumento della capacità di controllo sugli ecosistemi che l’uomo ha sviluppato nel corso del Pleistocene e dell’Olocene ha determinato, secondo la visione dualistica, il passaggio da una fase nature controlled a una human dominated. Ma questo dominio non solo non ha mai messo al riparo la cultura dalla natura, ma siamo già dentro un’epoca in cui paradossalmente il dominio umano sugli ecosistemi della Terra sta determinando nuovi e più elevati livelli di vulnerabilità dei sistemi socioeconomici rispetto alla variazione dei fattori naturali, come il clima. La velocità del cambiamento che abbiamo innescato è tale da farcene perdere il controllo che credevamo di aver raggiunto.

L’antitesi è anche pericolosa perché la sensazione o la pretesa di essere altro e fuori dalla natura è sempre stato l’alibi per sentirsi privilegiati ed esercitare il dominio ecologico autorizzato o, di contro, la premessa per la nascita di utopie e ambientalismi assolutamente improduttivi. Quello che serve ora non è sentirsi colpevoli ma responsabili, e la consapevolezza di starci dentro è esattamente ciò che serve a sviluppare una maggiore responsabilità ambientale. La colpa ecologica è molto antica ma sarebbe ridicolo esprimere una condanna sul passato. Quanto potevano i cacciatori-raccoglitori che annientarono le macrofaune in America, o i proto-agricoltori che già praticavano il taglia-e-brucia in Eurasia 11 millenni fa, essere consapevoli delle conseguenze ecologiche a lungo termine delle proprie azioni?

Oggi però non abbiamo attenuanti: la consapevolezza è piena. Migliaia di sensori installati e volutamente messi in orbita nello spazio extraterrestre ci informano in diretta sulle trasformazioni che la nostra azione produce. I modelli matematici dei climatologi non lasciano adito a dubbi sulle conseguenze della deforestazione delle emissioni dei gas serra. Le tecniche dei demo-ecologi ci permettono di valutare le probabilità di estinzione delle popolazioni naturali.

Ricordiamo ancora le parole di Vitousek, citate all’inizio: «Humanity’s dominance of earth means that we cannot escape responsability for managing the planet».

Capire che le colpe dell’uomo sono sempre state legate a doppio filo alle cause naturali serve anche a comprendere che il nostro destino, così come la nostra storia,  non sono indipendenti  da quello del resto del pianeta, e a toglierci ogni illusione sulla possibilità, o presunta capacità, di tirarci fuori all’ultimo momento da questa storia se le cose dovessero mettersi veramente male.

Se dovessimo fare un processo al comportamento dell'umanità imputato e giudice sarebbero la stessa persona, ma colpevole e vittima non si possono separare, se non, per paradosso, nei casi di suicidio.

Nota bibliografica: liberamente ispirato al Cap. VII de “L’impronta originale” di Guido Chelazzi. Einaudi, 2013



[1] Il dominio dell’umanità sulla terra significa che non possiamo sottrarci alla responsabilità di gestire il pianeta. 

[2] Mi si perdoni l’aver inserito l’antroposfera come un altro da sé della biosfera. 


Non tutte le estinzioni vengono per nuocere...eccetto l'ultima

Premessa

L'etimologia della parola crisi deriva dal verbo greco krino = separare; originatosi nel mondo agricolo, con riferimento al momento in cui si divide la granella del frumento dalle scorie. In senso più lato, indica anche discernere, giudicare, valutare. Nell'uso comune ha assunto un'accezione negativa in quanto vuole significare il peggioramento di una situazione. In realtà possiamo cogliere anche una sfumatura positiva nel termine, in quanto un momento di crisi, cioè di riflessione, di valutazione, di discernimento, può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento, per una rinascita, per cogliere nuove opportunità e, anche se non è del tutto corretto, pare che la lingua cinese, con i suoi ideogrammi, ne abbia qualcuno che rappresenta sia “crisi” che “opportunità”. Dopo tutto, quali che siano state le cause delle profonde trasformazioni critiche, quel che è giunto fino a noi non lo ha fatto nonostante bensì attraverso queste ristrutturazioni, a volte precedute da demolizioni e ricostruzioni quasi totali, e l’evoluzione stessa procede spesso riciclando quel che ha a disposizione.

Le crisi nella storia della Terra.

Il nostro pianeta è stato attraversato da tantissime crisi nel corso della sua lunghissima storia, durata qualcosa come 4,6 miliardi di anni[1]. Alcune delle quali sembravano darlo per spacciato. La prima, appena 50 milioni di anni dopo l’origine della Terra, portò alla formazione della Luna, dovuta ad un impatto gigantesco con un corpo minore del sistema solare (planetoide) chiamato Theia; ed è grazie al nostro satellite che la durata del giorno ha raggiunto il valore attuale, che l’asse di rotazione mantiene più o meno l’inclinazione di circa 23° rispetto alla verticale al piano orbitale, che, insieme ad altre particolarità, regola i cicli stagionali, che esistono le maree lunari (quelle del Sole sono estremamente più deboli) che regolano le correnti oceaniche, che gli organismi viventi hanno determinati ritmi biologici, e tantissimi altri aspetti che, mancando anche uno solo di questi, potrebbero portare ad alterazioni tali dell’equilibrio del sistema, da rendere impossibile la vita così come la conosciamo. Con un salto in avanti di un miliardo di anni, un’altra grande crisi che sembrava dovesse essere catastrofica diede invece alla vita un’opportunità in più, fu la comparsa di ossigeno libero in atmosfera, grazie allo sviluppo delle prime forme di vita in grado di effettuare la fotosintesi: il Grande Evento Ossidativo ne fu diretta conseguenza e portò alla prima grande estinzione di massa, quella di quasi tutti gli organismi, allora c’erano solo procarioti, in grado di vivere in assenza di ossigeno. Non a caso si parla di questa crisi anche come “catastrofe dell’ossigeno”. Per citarne un’altra, anche il periodo in cui la Terra sembrava una gigantesca biglia ricoperta da ghiaccio è impressionante, la più grande glaciazione mai avvenuta, durata ben 300 milioni di anni, sempre come risultato indiretto della comparsa di ossigeno libero in atmosfera.

Ma le crisi planetarie che colpiscono di più l’immaginazione sono senza dubbio quelle che hanno portato all’estinzione parziale, a volte quasi totale, delle forme di vita che, con i tempi dell’evoluzione, si conquistavano un posto sulla Terra. Ma anche queste, come vedremo, possono essere interpretate in termini di opportunità.

La tradizione racconta di cinque grandi eventi «catastrofici» nell’ultimo mezzo miliardo di anni della Terra, di cui abbiamo prove certe.

  1. Nell'Ordoviciano, un evento terminato circa 443 milioni di anni fa, quando nel giro di alcuni milioni di anni scomparve l’83% delle specie[2].
  2. L’estinzione del Devoniano, quando in circa venti milioni di anni, più o meno 360 milioni di anni fa, il 75% delle specie non sopravvissero.
  3. La catastrofe della fine del Permiano, col suo apice circa 250 milioni di anni fa, che in un intervallo che potrebbe andare da un milione a poche migliaia di anni, portò al pressoché totale azzeramento delle comunità marine: scomparve il 96% delle specie marine e il 70% di quelle terrestri[3].
  4. L’evento del Triassico, terminato 220 milioni di anni fa con l’eliminazione dell’80% delle specie.
  5. Infine, quello forse più noto, l’estinzione del Cretacico di 65 milioni di anni fa, che eliminò il 76% delle specie marine e continentali, e tra queste, provocò la scomparsa totale dei dinosauri non aviani.

Ci sono due di queste che possono essere prese ad esempio di cosa può innescarne gli eventi: l’evento del Permiano e quello del Triassico. Eventi che tornano utili anche per caratterizzare due scuole di pensiero.

Ne abbiamo parlato recentemente. La Terra non ha sempre avuto l’aspetto attuale: la geometria della crosta terrestre è molto cambiata nel tempo da quando, fra 300 e 200 milioni di anni fa, esisteva una sola enorme massa continentale, la Pangea, a quando iniziarono a separarsi i due supercontinente della Laurasia e del Gondwana, che poi andarono ulteriormente a frazionarsi per assumere il familiare aspetto attuale. E come sappiamo questa morfologia influenza pesantemente la circolazione marina e atmosferica e, secondo una teoria piuttosto accreditata, furono proprio i rapporti tra masse continentali estremamente semplificate e superfici oceaniche, a causare tutte le crisi del Paleozoico, le prime tre, fino a culminare in quella del Permiano. Le catastrofi furono determinate da una sorta di asfissia oceanica[4]. L’esistenza di un’unica enorme massa oceanica avrebbe azzerato le correnti profonde, facendo sì che enormi quantità di carbonio prodotte nel mare dal fitoplancton venissero bloccate negli abissi di questo immenso oceano. Il biossido di carbonio atmosferico sarebbe diminuito, determinando un raffreddamento della Terra, con conseguente formazione di calotte ghiacciate che, a loro volta avrebbero aumentato l’albedo in un classico feedback tra ghiacci e ulteriore raffreddamento, fino al raggiungimento di un picco glaciale, in conseguenza del quale la circolazione oceanica si sarebbe rimessa improvvisamente in moto.

Di conseguenza l’improvviso affioramento del biossido di carbonio e dell’acido solfidrico dai sedimenti profondi, avrebbe avvelenato le acque superficiali con devastazione diretta, e conseguente riduzione drammatica della produzione primaria e, a catena, il crollo delle comunità bentoniche marine, come testimoniato anche dal segno profondo nelle serie paleontologiche e stratigrafiche di quel periodo.

Ed ecco la prima delle due scuole di pensiero. E’ una teoria, ma in linea con quello che già Hutton e Lyell, e quindi Darwin, pensavano: i fattori che hanno dato forma alla Terra e a tutte le sue componenti hanno agito nel tempo con sostanziale continuità e sono ancora oggi in azione (uniformismo-attualismo).

La versione attuale del pensiero opposto, il catastrofismo, di cui Cuvier fu fondatore, è rappresentato dall’evento esterno, dall’impatto extraterrestre, la caduta di un asteroide, che a sua volta scatena una catena di eventi che più o meno rapidamente portano alla scomparsa della maggioranza delle forme di vita esistenti al momento[5]. O, senza arrivare a tanto, potrebbe persino essere una catastrofica eruzione vulcanica ad imporre condizioni climatiche tali da mettere a repentaglio interi ecosistemi.

La visione ecologica delle crisi

Una comunità biotica è l'insieme di tutti gli organismi che popolano una determinata area geografica in un determinato momento e, per estensione, potremmo quindi considerare la Terra come un'unica gigantesca comunità biotica.

Le specie della comunità sono legate tra loro da una moltitudine di rapporti, dalla predazione alla competizione, ai rapporti mutualistici, e si scambiano materiali ed energia. Inoltre, le comunità interagiscono con le componenti non biologiche dell'ambiente -suolo, atmosfera, acqua- generando un sistema che integra componenti biologiche e non, strutturalmente e funzionalmente coeso, quello che comunemente viene chiamato ecosistema (termine coniato dal biologo inglese Arthur Tansley e dai fratelli Eugene P. e Howard T. Odum all’inizio del XX secolo).

Questo tipo di teorie del XX secolo vedono la loro espressione estrema nella Teoria di Gaia, formulata intorno al 1970 dal chimico inglese James  Lovelock e dalla microbiologa Lynn Margulis. Secondo questa teoria, come accennato in precedenza, il pianeta sarebbe un unico globale ecosistema, e cioè un sistema integrato dove le innumerevoli componenti biotiche, le singole specie, dai batteri ai grandi mammiferi, e quelle abiotiche, suolo, atmosfera, acque interne e oceaniche, ma anche il clima, sarebbero legate tra loro da processi cibernetici di regolazione che sostanzialmente ne produrrebbero il continuo adattamento alle oscillazioni endogene ed a quelle di origine esterna, determinando una generale stabilità dinamica della Terra. In pratica qualunque organismo vivente oltre ad essere influenzato dall’ambiente lo modifica attivamente, e il ruolo fondamentale per la sopravvivenza dell’intero sistema è attribuibile al lavoro chimico svolto dai batteri[6]. Per gran parte della storia della Terra, ovvero per miliardi di anni, i batteri sono stati gli unici viventi regolatori delle caratteristiche chimico-fisiche del pianeta e ancora oggi è sulla loro attività che poggiano le basi di tutti gli ecosistemi. Ed è alla loro evoluzione che le forme di vita attuali devono la loro esistenza.

Indubbiamente la Teoria di Gaia è affascinante, sia per le sue forti implicazioni filosofiche, sia perché una seria politica di conservazione ambientale non può che partire da una visione globale del sistema Terra, ma che le cose stiano così o questa visione sia eccessivamente inclusiva una cosa è certa: le integrazioni tra le diverse componenti del pianeta esistono e non possono non essere considerate. 




Tornando alle singole comunità biotiche, due ecologi della prima metà del XX secolo le hanno definite e studiate, soprattutto quelle delle terre emerse, arrivando a concepire due modelli diversi e per certi aspetti alternativi. Da una parte, Henry Gleason sottolineava il carattere individualistico dell’appartenenza delle diverse specie di una certa comunità in un modello dove le popolazioni di ciascuna specie si sistemano ovunque esistano le condizioni climatiche e trofiche adatte alla loro persistenza. Questa interpretazione della comunità vede quindi un raggruppamento occasionale di popolazioni che si trovano lì ciascuna per le proprie esigenze biologiche e per le proprie caratteristiche adattative, una posizione estremamente egoistica che estende i concetti del famoso biologo inglese Richard Dawkins e della sua teoria del “gene egoista”. Le popolazioni sono insomma viste come un gruppo di persone in attesa del treno che si ritrovano insieme solo per la comune esigenza di viaggiare da un posto all'altro in quel determinato giorno, ciascuno per lep proprie esigenze. Frederic Clements, d’altra parte, sottolineava invece il carattere integrato della comunità, dove le singole popolazioni, di solito, non lavorano da solisti ma interagiscono stabilmente con le altre, che lo sappiano o meno. Usando la stessa metafora in questo caso possiamo figurarci un gruppo di amici che noleggiano un veicolo per andare a farsi una gita collettiva da qualche parte. Questa visione della comunità, e quindi il sistema integrato di popolazioni, generato e mantenuto dalle interazioni biotiche che le legano, la trasforma in una sorta di superorganismo che ha un suo sviluppo dall'inizio alla fine della sua esistenza, né più né meno come il percorso ontogenetico di un organismo tra fecondazione e morte. 

Hanno entrambi ragione. Lo studio delle comunità dei più diversi ecosistemi, dalle savane africane alla tundra, dai fondali oceanici alle foreste tropicali, dimostra che ciascuna comunità si colloca in un qualche punto tra l'estrema occasionalità e l'insieme integrato; alcune comunità sono associazioni fortemente chiuse e coese, mentre altre sono costituite da soggetti molto più opportunisti. La comunità coesa è generalmente resiliente, cioè robusta rispetto alle variazioni esterne come quelle climatiche, ma è molto sensibile alle variazioni di struttura interna; se una popolazione del gruppo viene eliminata o comunque messa in difficoltà dal punto di vista demografico, come risultato si può produrre una disgregazione dell'intero sistema. Le comunità alla Gleason invece sono meno sensibili a questo tipo di perturbazioni demografiche interne, ma rispondono singolarmente alle variazioni ambientali, tanto che le modificazioni della loro struttura possono essere utilizzate come indici biotici del cambiamento climatico e dello stress ambientale antropogenico. I due ecologi erano comunque d'accordo sul fatto che le comunità non si mantengono mai inalterate nel tempo. Le specie che le compongono e la loro abbondanza, le relazioni biotiche, i flussi di energia e di materiali interni alla comunità e i trasferimenti tra la comunità e l'ambiente abiotico e viceversa, sono tutte caratteristiche che si modificano nel tempo. 

E’ questo un concetto centrale nella moderna ecologia: la successione. Ancora con due punti di vista diversi, e probabilmente entrambi validi e sovrapponibili, secondo Gleason le successioni costituiscono la risposta della comunità alla variazione delle condizioni al contorno, geologiche e climatiche: cambiano le condizioni, cambia il profilo complessivo dell’associazione. Secondo Clements invece, le successioni sono prevalentemente prodotte dalla dinamica delle interazioni tra le diverse componenti biotiche dell'ecosistema, sono cioè processi autogeni. Questi modelli, che hanno fatto la storia dell'ecologia del XX secolo, e che hanno implicazioni pratiche di enorme attualità per la conservazione e gestione dei sistemi naturali, hanno un campo di applicazione locale o regionale e si riferiscono a orizzonti temporali che vanno dai giorni alle decine o centinaia di anni.

Ma le stesse idee generali possono essere traslate a livello globale su scale temporali dell'ordine di grandezza delle grandi ere geologiche, ovvero milioni di anni. In base a questi modelli lo studio delle grandi catastrofi biotiche può essere affrontato non soltanto in termini statistici ma con i modelli dell'ecologia delle comunità e delle successioni aggiungendovi il fattore evoluzione, ovvero il cambiamento delle specie nel tempo o la loro sostituzione. Indipendentemente dalla natura del fattore di innesco, il crollo della produzione primaria è sempre il fattore che determina il tracollo del sistema.

Ogni volta che si verifica un evento di estinzione di massa la comunità passa per una sorta di "collo di bottiglia" e si determina una variazione a tre stadi della struttura della comunità:

  • un sottoinsieme delle specie precedenti la crisi scompaiono rapidamente e selettivamente
  • alcune specie sembrano scomparire perché occultate in zone rifugio
  • in seguito, dopo la crisi, le specie che erano apparentemente scomparse si espandono e si accompagnano alla comparsa di nuove

Secondo questa impostazione, le grandi estinzioni di massa, che come abbiamo visto si sono verificate almeno cinque volte nell'ultimo mezzo miliardo di anni, sono i fenomeni maggiori di un'incessante rimodellamento delle comunità del pianeta, una mega successione globale generata sia dall'interazione di processi interni di natura biotica sia da dinamiche esterne: le grandi variazioni climatiche, le situazioni estreme dovute all’impatto di un asteroide o il permanere di episodi di vulcanismo estesi nel tempo e nello spazio come quelli relativi alle LIP di cui abbiamo già trattato, in grado di alterare pesantemente e per tempi lunghissimi il clima complessivo della Terra.

Sta di fatto che di tanto in tanto il sistema va fuori dall'equilibrio. L'idea generale che si ricava dalle centinaia di studi, sempre più incisivi e circostanziati su questi argomenti, è che ci sia sempre in ballo un insieme mescolato di concause, che a un certo punto produce una rapida, profonda transizione ecologica da uno stato al successivo, un prima e un dopo nettamente separati. E’ come se saltassero i meccanismi di regolazione per accumulo di tensione, e l'equilibrio metastabile venisse a crollare anche a seguito di un singolo evento puntiforme che funziona da innesco. La famosa goccia che fa traboccare il vaso. 

Il costruttore-distruttore. L’esempio che viene dal fuoco.

L’uomo ha sicuramente inventato molte cose, ma non il fuoco. Gli incendi dilagano sul pianeta almeno da 400 milioni di anni e sono stati molto frequenti tutte le volte che l'atmosfera si arricchiva di ossigeno e c'era abbastanza carburante da bruciare. Il fuoco ha un lungo intricato rapporto con la vita. Per vivere deve alimentarsi di biomassa vegetale, ma per farlo ha bisogno di ossigeno che è un gas prodotto dalla vita: cianobatteri, alghe, piante. E prima che l'uomo inventasse il modo di controllarlo i fattori di ignizione erano molteplici, fulmini ed eruzioni vulcaniche innanzi tutto. Ma il fuoco a sua volta modifica la vita, a tutti i livelli della complessità biologica, dagli organismi agli ecosistemi. I botanici hanno descritto una quantità di adattamenti che permettono a varie specie di piante di resistere agli incendi, addirittura ci sono piante i cui semi vengono rilasciati solo se l'involucro che li contiene è investito dalle fiamme e altre i cui semi germinano solo se vengono riscaldati dall'incendio o se vengono a contatto con sostanze volatili rilasciate dalla combustione; ancora, molte specie di erbe pur se completamente bruciate restano integre nella loro capacità di germogliare una volta passato il fuoco.

Alcune piante hanno caratteristiche strutturali che favoriscono la diffusione delle fiamme; altre contengono sostanze altamente infiammabili che fanno sì che intorno alla pianta si crei una sorta di terra bruciata dove solo i propri semi possono ricrescere. Queste relazioni tra fuoco e piante hanno avuto una enorme importanza evolutiva per la vegetazione del pianeta e per lo sviluppo dei suoi ecosistemi. Il successo planetario delle piante Angiosperme, le piante i cui semi si originano all'interno di un involucro protettivo, dipende dal sodalizio che queste piante stabilirono con il fuoco. Avendo un miglior sistema di circolazione dell'acqua nelle loro foglie ne ha fatto aumentare l'efficienza della loro fotosintesi, rendendole molto più rapide nella crescita e nell’accumulo di biomassa, e ciò le ha rese meno vulnerabili al fuoco rispetto alle Gimnosperme grazie alla loro maggiore diffusione. Incendi più frequenti, favoriti dall'accumulo di biomassa combustibile hanno quindi prodotto la diffusione delle Angiosperme che a loro volta hanno favorito la frequenza degli incendi. La distribuzione dei grandi biomi terrestri, dai deserti alla tundra, dalle praterie alle savane e alle foreste, è fondamentalmente determinata da pochi principali fattori climatici come la temperatura e le precipitazioni oltre che dall'altitudine, ma la loro distribuzione fine dipende fortemente anche dal fuoco. Il regime degli incendi dipende, nel tempo e nello spazio, dal clima. La quantità di materiale combustibile è infatti legata alla produttività della comunità vegetazionale, che a sua volta dipende dalle precipitazioni e dalla temperatura, mentre la combustibilità del materiale varia molto in relazione al suo contenuto in acqua. Anche la frequenza dei fulmini, uno dei principali fattori di ignizione, dipende dal clima e dalle stagioni. Ma anche con il clima il fuoco stabilisce un rapporto non propriamente passivo. La frequenza degli incendi può generare variazioni climatiche rapide o a lungo termine, su scala regionale o globale, che a loro volta producono una intensificazione della frequenza degli incendi. Su tempi lunghi un feedback positivo tra fuoco e clima è dato dal fatto che gli incendi rilasciano grandi quantità di biossido di carbonio attraverso la combustione del materiale vegetale e questo determina un incremento della concentrazione di questo gas, che a sua volta fa aumentare la fotosintesi globale, cioè la produzione di vegetazione sul pianeta e quindi di materiale combustibile. Ogni anno gli di qualsiasi natura rilasciano nell'atmosfera circa quattro miliardi di tonnellate di CO2.

Anche se non l'ha inventato, l'uomo può farsi vanto di essere l'unico animale ad aver preso una certa confidenza con il fuoco e ad aver imparato presto a trarne vantaggi. Il rapporto tra uomo e fuoco è antichissimo. La sua domesticazione, provata con certezza dal ritrovamento di materiali la cui combustione è sicuramente artificiale, risale ad almeno 700.000 anni fa, ma le scoperte che attestano l’uso deliberato e controllato del fuoco sono di poco meno di 200.000 anni fa.

E da allora l’uomo ha iniziato ad utilizzare il fuoco come strumento di controllo dell’ambiente circostante. Già i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico Superiore erano in grado di modificare il regime degli incendi naturali a loro piacimento, favorendone o limitandone la diffusione, producendo uno scenario ecologico molto diverso da quello di partenza. Così come ancora oggi fanno molti popoli aborigeni dell’Australia o della Tasmania, l’abile uso del fuoco consentiva di abbattere alberi, rinnovare vegetazione senescente, creare zone aperte e produttive dove si concentrava la selvaggina, oltre ovviamente ad arrostire od affumicare il cibo, stanare animali o scacciarli.

E il peso dell’impronta antropogenica ancora una volta è andato aumentando millennio dopo millennio fino ad arrivare alla situazione attuale, inequivocabilmente documentata e misurata dalle osservazioni satellitari, che registra devastazioni e distruzioni da incendi deliberatamente provocati, per migliaia di chilometri quadrati di territorio, ogni anno, mettendo in pericolo uno strumento preziosissimo che può aiutare a mitigare gli effetti del cambiamento climatico in atto.

Anche qui, il passaggio dal delicatissimo equilibrio bio-abiotico delle comunità, viene messo in pericolo e completamente destabilizzato dall’impronta umana.

L’ultima estinzione è quella in atto

La lettura in chiave ecologica delle grandi estinzioni del passato rivela che questi eventi, oltre a eliminare la maggior parte delle specie preesistenti, hanno determinato la chiusura di una serie di contenitori ambientali per aprirne altri, nuove nicchie ecologiche, riempite dagli eredi dei pochi superstiti, dai tanti nuovi inquilini che si sono originati evolutivamente a partire dai sopravvissuti.

Le radiazioni evolutive che hanno fatto seguito alle catastrofi, dense di fenomeni di speciazione, hanno fatto ripartire i sistemi ecologici planetari su basi completamente nuove e non si è mai trattato semplicemente di un ritorno ai vecchi equilibri. E questa conclusione deve farci alzare ulteriormente la guardia perché indica che il rischio del punto di non ritorno è storicamente provato.

Le attività antropiche, che innescano contemporaneamente fenomeni interni ed esterni alla comunità cui apparteniamo, stanno generando, senza ombra di dubbio, quella che ormai viene chiamata sesta estinzione di massa, le cui tracce iniziali si perdono nel tempo geologico fino agli albori della comparsa dei primi Homo sapiens sul pianeta, intorno ai 200.000 anni fa, se non 300.000, secondo le ipotesi più recenti.

Il passato ci mostra che le cause sono molteplici, la discussione è tuttora aperta, valutata caso per caso; ma se c'è una cosa su cui tutti concordano è che sembra di poter escludere che prima d'ora mai si sia trattato di qualcosa messo in moto da una sola delle tantissime specie presenti sulla scena. E’ proprio quest’ultimo aspetto che individua come fenomeno unico e originale ciò che è accaduto alla fine del Pleistocene, e che prosegue ancora oggi, spingendo il sistema verso situazioni ingovernabili.

Quindi, se le grandi crisi planetarie, con le conseguenti estinzioni di massa, a volte al limite della sopravvivenza della vita stessa, per lo meno così come la conosciamo o la immaginiamo, hanno contemporaneamente innescato processi di rigenerazione dando spazio a forme completamente nuove, ci troviamo stavolta di fronte ad un bivio che potrebbe portare, più velocemente di quel che si pensi, al mettere in crisi la sopravvivenza stessa di una fetta notevole del genere umano o, negli scenari cari ai catastrofisti, ad una Terra dove la vita sopravviverà certamente, ma senza di noi, almeno per il prossimo miliardo di anni, quando l’espansione dell’atmosfera solare indurrà temperature terrestri inaccettabili per la vita.

La sesta estinzione di massa è già in corso, ed è innaturale perché è provocata dall’impatto di una sola specie sui fragili equilibri del pianeta: la nostra. Se esistano ancora le condizioni per arginare il declino degli habitat e delle popolazioni, con cui condividiamo la stessa comunità biotica, è una domanda tuttora senza risposta.

Nota bibliografica: liberamente ispirato al Cap. IV de “L’impronta originale” di Guido Chelazzi. Einaudi, 2013



[1] Quando insegnavo, per dare un’idea ai miei studenti della enorme dimensione del tempo geologico dicevo loro di immaginarsi a contare, un numero al secondo partendo da zero, fino ad 1.000.000. Un giorno dura 86.400 secondi: dopo 11,6 giorni circa, avrebbero finito. E sarebbero giunti solo al primo milione.

[2] Per un approfondimento e ipotesi interessanti qui.

[3] Per un approfondimento qui.

[4] Il fenomeno, anche se per motivi parzialmente diversi, è noto persino per i laghi.

[5] Avrete sicuramente pensato alla quinta estinzione di massa, 65 milioni di anni fa, e che portò alla scomparsa dei dinosauri non aviani. E’ ormai questo il pensiero consolidato e difficile da sradicare, forte anche di ritrovamenti recenti, ma va notato che esistono altre teorie, relative a fenomeni di vulcanismo esteso nel tempo e nello spazio (quello associato alle cosiddette Large Igneous Province, LIP), che spiegano molto bene gli eventi catastrofici di cui stiamo parlando, e che sono state associate sia a questa che ad altri eventi di estinzione di massa. Un’idea dettagliata e competente è disponibile qui, in vari post.

[6] Questa visione, lasciatemi dire forse un po’ new age, si sta affermando in campo medico con gli studi relativi al microbiota umano.