Le crisi nella storia della
Terra.
Ma le crisi planetarie che colpiscono di più l’immaginazione sono senza dubbio quelle che hanno portato all’estinzione parziale, a volte quasi totale, delle forme di vita che, con i tempi dell’evoluzione, si conquistavano un posto sulla Terra. Ma anche queste, come vedremo, possono essere interpretate in termini di opportunità.
La tradizione racconta di cinque
grandi eventi «catastrofici» nell’ultimo mezzo miliardo di anni della Terra, di
cui abbiamo prove certe.
- Nell'Ordoviciano, un evento terminato circa 443
milioni di anni fa, quando nel giro di alcuni milioni di anni scomparve l’83%
delle specie[2].
- L’estinzione del Devoniano, quando in circa venti milioni di anni, più o meno 360 milioni di anni fa, il 75% delle specie non sopravvissero.
- La catastrofe della fine del Permiano, col suo apice circa 250 milioni di anni fa, che in un intervallo che potrebbe andare da un
milione a poche migliaia di anni, portò al pressoché totale azzeramento delle
comunità marine: scomparve il 96% delle specie marine e il 70% di quelle
terrestri[3].
- L’evento del Triassico, terminato 220 milioni di anni fa con l’eliminazione dell’80% delle specie.
- Infine, quello forse più noto, l’estinzione del Cretacico di 65 milioni di anni fa, che eliminò il 76% delle specie marine e continentali, e tra queste, provocò la scomparsa totale dei dinosauri non aviani.
Ci sono due di queste che possono essere prese ad esempio di cosa può innescarne gli eventi: l’evento del Permiano e quello del Triassico. Eventi che tornano utili anche per caratterizzare due scuole di pensiero.
Ed ecco la prima delle due scuole
di pensiero. E’ una teoria, ma in linea con quello che già Hutton e Lyell, e quindi
Darwin, pensavano: i fattori che hanno dato forma alla Terra e a tutte le sue
componenti hanno agito nel tempo con sostanziale continuità e sono ancora oggi
in azione (uniformismo-attualismo).
La versione attuale del pensiero opposto, il catastrofismo, di cui Cuvier fu fondatore, è rappresentato dall’evento esterno, dall’impatto extraterrestre, la caduta di un asteroide, che a sua volta scatena una catena di eventi che più o meno rapidamente portano alla scomparsa della maggioranza delle forme di vita esistenti al momento[5]. O, senza arrivare a tanto, potrebbe persino essere una catastrofica eruzione vulcanica ad imporre condizioni climatiche tali da mettere a repentaglio interi ecosistemi.
La visione ecologica delle
crisi
Le specie della comunità sono
legate tra loro da una moltitudine di rapporti, dalla predazione alla
competizione, ai rapporti mutualistici, e si scambiano materiali ed energia.
Inoltre, le comunità interagiscono con le componenti non biologiche
dell'ambiente -suolo, atmosfera, acqua- generando un sistema che integra
componenti biologiche e non, strutturalmente e funzionalmente coeso, quello che
comunemente viene chiamato ecosistema (termine coniato dal biologo inglese Arthur Tansley e dai fratelli
Eugene P. e Howard T. Odum all’inizio del XX secolo).
Tornando alle singole comunità
biotiche, due ecologi della prima metà del XX secolo le hanno definite e studiate,
soprattutto quelle delle terre emerse, arrivando a concepire due modelli
diversi e per certi aspetti alternativi. Da una parte, Henry Gleason sottolineava
il carattere individualistico dell’appartenenza delle
diverse specie di una certa comunità in un modello dove le popolazioni di
ciascuna specie si sistemano ovunque esistano le condizioni climatiche e
trofiche adatte alla loro persistenza. Questa interpretazione della comunità
vede quindi un raggruppamento occasionale di popolazioni che si trovano lì
ciascuna per le proprie esigenze biologiche e per le proprie caratteristiche
adattative, una posizione estremamente egoistica che estende i concetti
del famoso biologo inglese Richard Dawkins e della sua teoria del “gene egoista”. Le
popolazioni sono insomma viste come un gruppo di persone in attesa del treno che si ritrovano insieme solo per la comune esigenza di viaggiare da un
posto all'altro in quel determinato giorno, ciascuno per lep proprie esigenze. Frederic Clements,
d’altra parte, sottolineava invece il carattere integrato della comunità, dove
le singole popolazioni, di solito, non lavorano da solisti ma interagiscono
stabilmente con le altre, che lo sappiano o meno. Usando la stessa metafora in
questo caso possiamo figurarci un gruppo di amici che noleggiano un veicolo per andare a farsi una gita collettiva da qualche parte. Questa visione
della comunità, e quindi il sistema integrato di popolazioni, generato e
mantenuto dalle interazioni biotiche che le legano, la trasforma in una sorta
di superorganismo che ha un suo sviluppo dall'inizio alla fine della sua
esistenza, né più né meno come il percorso ontogenetico di un organismo tra
fecondazione e morte.
E’ questo un concetto centrale
nella moderna ecologia: la successione. Ancora
con due punti di vista diversi, e probabilmente entrambi validi e sovrapponibili,
secondo Gleason le successioni costituiscono la risposta della comunità alla
variazione delle condizioni al contorno, geologiche e climatiche: cambiano le
condizioni, cambia il profilo complessivo dell’associazione. Secondo Clements invece,
le successioni sono prevalentemente prodotte dalla dinamica delle interazioni
tra le diverse componenti biotiche dell'ecosistema, sono cioè processi autogeni.
Questi modelli, che hanno fatto la storia dell'ecologia del XX secolo, e che
hanno implicazioni pratiche di enorme attualità per la conservazione e gestione
dei sistemi naturali, hanno un campo di applicazione locale o regionale e si
riferiscono a orizzonti temporali che vanno dai giorni alle decine o centinaia
di anni.
Ma le stesse idee generali possono essere traslate a livello globale su scale temporali dell'ordine di grandezza delle grandi ere geologiche, ovvero milioni di anni. In base a questi modelli lo studio delle grandi catastrofi biotiche può essere affrontato non soltanto in termini statistici ma con i modelli dell'ecologia delle comunità e delle successioni aggiungendovi il fattore evoluzione, ovvero il cambiamento delle specie nel tempo o la loro sostituzione. Indipendentemente dalla natura del fattore di innesco, il crollo della produzione primaria è sempre il fattore che determina il tracollo del sistema.
- un sottoinsieme delle specie precedenti la crisi scompaiono rapidamente e selettivamente
- alcune specie sembrano scomparire perché occultate in zone rifugio
- in seguito, dopo la crisi, le specie che erano apparentemente scomparse si espandono e si accompagnano alla comparsa di nuove
Sta di fatto che di tanto in tanto il sistema va fuori dall'equilibrio. L'idea generale che si ricava dalle centinaia di studi, sempre più incisivi e circostanziati su questi argomenti, è che ci sia sempre in ballo un insieme mescolato di concause, che a un certo punto produce una rapida, profonda transizione ecologica da uno stato al successivo, un prima e un dopo nettamente separati. E’ come se saltassero i meccanismi di regolazione per accumulo di tensione, e l'equilibrio metastabile venisse a crollare anche a seguito di un singolo evento puntiforme che funziona da innesco. La famosa goccia che fa traboccare il vaso.
Il costruttore-distruttore.
L’esempio che viene dal fuoco.
Anche se non l'ha inventato,
l'uomo può farsi vanto di essere l'unico animale ad aver preso una certa
confidenza con il fuoco e ad aver imparato presto a trarne vantaggi. Il
rapporto tra uomo e fuoco è antichissimo. La sua domesticazione, provata con
certezza dal ritrovamento di materiali la cui combustione è sicuramente
artificiale, risale ad almeno 700.000 anni fa, ma le scoperte che attestano
l’uso deliberato e controllato del fuoco sono di poco meno di 200.000 anni fa.
E da allora l’uomo ha iniziato ad
utilizzare il fuoco come strumento di controllo dell’ambiente circostante. Già
i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico Superiore erano in grado di
modificare il regime degli incendi naturali a loro piacimento, favorendone o
limitandone la diffusione, producendo uno scenario ecologico molto diverso da
quello di partenza. Così come ancora oggi fanno molti popoli aborigeni
dell’Australia o della Tasmania, l’abile uso del fuoco consentiva di abbattere
alberi, rinnovare vegetazione senescente, creare zone aperte e produttive dove
si concentrava la selvaggina, oltre ovviamente ad arrostire od affumicare il
cibo, stanare animali o scacciarli.
E il peso dell’impronta
antropogenica ancora una volta è andato aumentando millennio dopo millennio
fino ad arrivare alla situazione attuale, inequivocabilmente documentata e
misurata dalle osservazioni satellitari, che registra devastazioni e distruzioni
da incendi deliberatamente provocati, per migliaia di chilometri quadrati di
territorio, ogni anno, mettendo in pericolo uno strumento
preziosissimo che può aiutare a mitigare gli effetti del cambiamento climatico in atto.
Anche qui, il passaggio dal
delicatissimo equilibrio bio-abiotico delle comunità, viene messo in pericolo e
completamente destabilizzato dall’impronta umana.
L’ultima estinzione è quella
in atto
Le radiazioni evolutive che hanno fatto seguito alle catastrofi, dense di fenomeni di speciazione, hanno fatto ripartire i sistemi ecologici planetari su basi completamente nuove e non si è mai trattato semplicemente di un ritorno ai vecchi equilibri. E questa conclusione deve farci alzare ulteriormente la guardia perché indica che il rischio del punto di non ritorno è storicamente provato.
Le attività antropiche, che innescano contemporaneamente fenomeni interni ed esterni alla comunità cui apparteniamo, stanno generando, senza ombra di dubbio, quella che ormai viene chiamata sesta estinzione di massa, le cui tracce iniziali si perdono nel tempo geologico fino agli albori della comparsa dei primi Homo sapiens sul pianeta, intorno ai 200.000 anni fa, se non 300.000, secondo le ipotesi più recenti.
Il passato ci mostra che le cause sono molteplici, la discussione è tuttora aperta, valutata caso per caso; ma se c'è una cosa su cui tutti concordano è che sembra di poter escludere che prima d'ora mai si sia trattato di qualcosa messo in moto da una sola delle tantissime specie presenti sulla scena. E’ proprio quest’ultimo aspetto che individua come fenomeno unico e originale ciò che è accaduto alla fine del Pleistocene, e che prosegue ancora oggi, spingendo il sistema verso situazioni ingovernabili.
Quindi, se le grandi crisi planetarie, con le conseguenti estinzioni di massa, a volte al limite della sopravvivenza della vita stessa, per lo meno così come la conosciamo o la immaginiamo, hanno contemporaneamente innescato processi di rigenerazione dando spazio a forme completamente nuove, ci troviamo stavolta di fronte ad un bivio che potrebbe portare, più velocemente di quel che si pensi, al mettere in crisi la sopravvivenza stessa di una fetta notevole del genere umano o, negli scenari cari ai catastrofisti, ad una Terra dove la vita sopravviverà certamente, ma senza di noi, almeno per il prossimo miliardo di anni, quando l’espansione dell’atmosfera solare indurrà temperature terrestri inaccettabili per la vita.
La sesta estinzione di massa è
già in corso, ed è innaturale perché è provocata dall’impatto di una sola
specie sui fragili equilibri del pianeta: la nostra. Se esistano ancora le
condizioni per arginare il declino degli habitat e delle popolazioni, con cui
condividiamo la stessa comunità biotica, è una domanda tuttora senza risposta.
Nota bibliografica: liberamente ispirato al Cap. IV de “L’impronta originale” di Guido Chelazzi. Einaudi, 2013
[1]
Quando insegnavo, per dare un’idea ai miei studenti della enorme dimensione del
tempo geologico dicevo loro di immaginarsi a contare, un numero al secondo
partendo da zero, fino ad 1.000.000. Un giorno dura 86.400 secondi: dopo 11,6
giorni circa, avrebbero finito. E sarebbero giunti solo al primo milione.
[3] Per un
approfondimento qui.
[5] Avrete sicuramente pensato alla quinta estinzione di massa, 65 milioni di anni fa, e che portò alla scomparsa dei dinosauri non aviani. E’ ormai questo il pensiero consolidato e difficile da sradicare, forte anche di ritrovamenti recenti, ma va notato che esistono altre teorie, relative a fenomeni di vulcanismo esteso nel tempo e nello spazio (quello associato alle cosiddette Large Igneous Province, LIP), che spiegano molto bene gli eventi catastrofici di cui stiamo parlando, e che sono state associate sia a questa che ad altri eventi di estinzione di massa. Un’idea dettagliata e competente è disponibile qui, in vari post.
[6] Questa visione, lasciatemi dire forse un po’ new age, si sta affermando in campo medico con gli studi relativi al microbiota umano.
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