Non tutte le estinzioni vengono per nuocere...eccetto l'ultima

Premessa

L'etimologia della parola crisi deriva dal verbo greco krino = separare; originatosi nel mondo agricolo, con riferimento al momento in cui si divide la granella del frumento dalle scorie. In senso più lato, indica anche discernere, giudicare, valutare. Nell'uso comune ha assunto un'accezione negativa in quanto vuole significare il peggioramento di una situazione. In realtà possiamo cogliere anche una sfumatura positiva nel termine, in quanto un momento di crisi, cioè di riflessione, di valutazione, di discernimento, può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento, per una rinascita, per cogliere nuove opportunità e, anche se non è del tutto corretto, pare che la lingua cinese, con i suoi ideogrammi, ne abbia qualcuno che rappresenta sia “crisi” che “opportunità”. Dopo tutto, quali che siano state le cause delle profonde trasformazioni critiche, quel che è giunto fino a noi non lo ha fatto nonostante bensì attraverso queste ristrutturazioni, a volte precedute da demolizioni e ricostruzioni quasi totali, e l’evoluzione stessa procede spesso riciclando quel che ha a disposizione.

Le crisi nella storia della Terra.

Il nostro pianeta è stato attraversato da tantissime crisi nel corso della sua lunghissima storia, durata qualcosa come 4,6 miliardi di anni[1]. Alcune delle quali sembravano darlo per spacciato. La prima, appena 50 milioni di anni dopo l’origine della Terra, portò alla formazione della Luna, dovuta ad un impatto gigantesco con un corpo minore del sistema solare (planetoide) chiamato Theia; ed è grazie al nostro satellite che la durata del giorno ha raggiunto il valore attuale, che l’asse di rotazione mantiene più o meno l’inclinazione di circa 23° rispetto alla verticale al piano orbitale, che, insieme ad altre particolarità, regola i cicli stagionali, che esistono le maree lunari (quelle del Sole sono estremamente più deboli) che regolano le correnti oceaniche, che gli organismi viventi hanno determinati ritmi biologici, e tantissimi altri aspetti che, mancando anche uno solo di questi, potrebbero portare ad alterazioni tali dell’equilibrio del sistema, da rendere impossibile la vita così come la conosciamo. Con un salto in avanti di un miliardo di anni, un’altra grande crisi che sembrava dovesse essere catastrofica diede invece alla vita un’opportunità in più, fu la comparsa di ossigeno libero in atmosfera, grazie allo sviluppo delle prime forme di vita in grado di effettuare la fotosintesi: il Grande Evento Ossidativo ne fu diretta conseguenza e portò alla prima grande estinzione di massa, quella di quasi tutti gli organismi, allora c’erano solo procarioti, in grado di vivere in assenza di ossigeno. Non a caso si parla di questa crisi anche come “catastrofe dell’ossigeno”. Per citarne un’altra, anche il periodo in cui la Terra sembrava una gigantesca biglia ricoperta da ghiaccio è impressionante, la più grande glaciazione mai avvenuta, durata ben 300 milioni di anni, sempre come risultato indiretto della comparsa di ossigeno libero in atmosfera.

Ma le crisi planetarie che colpiscono di più l’immaginazione sono senza dubbio quelle che hanno portato all’estinzione parziale, a volte quasi totale, delle forme di vita che, con i tempi dell’evoluzione, si conquistavano un posto sulla Terra. Ma anche queste, come vedremo, possono essere interpretate in termini di opportunità.

La tradizione racconta di cinque grandi eventi «catastrofici» nell’ultimo mezzo miliardo di anni della Terra, di cui abbiamo prove certe.

  1. Nell'Ordoviciano, un evento terminato circa 443 milioni di anni fa, quando nel giro di alcuni milioni di anni scomparve l’83% delle specie[2].
  2. L’estinzione del Devoniano, quando in circa venti milioni di anni, più o meno 360 milioni di anni fa, il 75% delle specie non sopravvissero.
  3. La catastrofe della fine del Permiano, col suo apice circa 250 milioni di anni fa, che in un intervallo che potrebbe andare da un milione a poche migliaia di anni, portò al pressoché totale azzeramento delle comunità marine: scomparve il 96% delle specie marine e il 70% di quelle terrestri[3].
  4. L’evento del Triassico, terminato 220 milioni di anni fa con l’eliminazione dell’80% delle specie.
  5. Infine, quello forse più noto, l’estinzione del Cretacico di 65 milioni di anni fa, che eliminò il 76% delle specie marine e continentali, e tra queste, provocò la scomparsa totale dei dinosauri non aviani.

Ci sono due di queste che possono essere prese ad esempio di cosa può innescarne gli eventi: l’evento del Permiano e quello del Triassico. Eventi che tornano utili anche per caratterizzare due scuole di pensiero.

Ne abbiamo parlato recentemente. La Terra non ha sempre avuto l’aspetto attuale: la geometria della crosta terrestre è molto cambiata nel tempo da quando, fra 300 e 200 milioni di anni fa, esisteva una sola enorme massa continentale, la Pangea, a quando iniziarono a separarsi i due supercontinente della Laurasia e del Gondwana, che poi andarono ulteriormente a frazionarsi per assumere il familiare aspetto attuale. E come sappiamo questa morfologia influenza pesantemente la circolazione marina e atmosferica e, secondo una teoria piuttosto accreditata, furono proprio i rapporti tra masse continentali estremamente semplificate e superfici oceaniche, a causare tutte le crisi del Paleozoico, le prime tre, fino a culminare in quella del Permiano. Le catastrofi furono determinate da una sorta di asfissia oceanica[4]. L’esistenza di un’unica enorme massa oceanica avrebbe azzerato le correnti profonde, facendo sì che enormi quantità di carbonio prodotte nel mare dal fitoplancton venissero bloccate negli abissi di questo immenso oceano. Il biossido di carbonio atmosferico sarebbe diminuito, determinando un raffreddamento della Terra, con conseguente formazione di calotte ghiacciate che, a loro volta avrebbero aumentato l’albedo in un classico feedback tra ghiacci e ulteriore raffreddamento, fino al raggiungimento di un picco glaciale, in conseguenza del quale la circolazione oceanica si sarebbe rimessa improvvisamente in moto.

Di conseguenza l’improvviso affioramento del biossido di carbonio e dell’acido solfidrico dai sedimenti profondi, avrebbe avvelenato le acque superficiali con devastazione diretta, e conseguente riduzione drammatica della produzione primaria e, a catena, il crollo delle comunità bentoniche marine, come testimoniato anche dal segno profondo nelle serie paleontologiche e stratigrafiche di quel periodo.

Ed ecco la prima delle due scuole di pensiero. E’ una teoria, ma in linea con quello che già Hutton e Lyell, e quindi Darwin, pensavano: i fattori che hanno dato forma alla Terra e a tutte le sue componenti hanno agito nel tempo con sostanziale continuità e sono ancora oggi in azione (uniformismo-attualismo).

La versione attuale del pensiero opposto, il catastrofismo, di cui Cuvier fu fondatore, è rappresentato dall’evento esterno, dall’impatto extraterrestre, la caduta di un asteroide, che a sua volta scatena una catena di eventi che più o meno rapidamente portano alla scomparsa della maggioranza delle forme di vita esistenti al momento[5]. O, senza arrivare a tanto, potrebbe persino essere una catastrofica eruzione vulcanica ad imporre condizioni climatiche tali da mettere a repentaglio interi ecosistemi.

La visione ecologica delle crisi

Una comunità biotica è l'insieme di tutti gli organismi che popolano una determinata area geografica in un determinato momento e, per estensione, potremmo quindi considerare la Terra come un'unica gigantesca comunità biotica.

Le specie della comunità sono legate tra loro da una moltitudine di rapporti, dalla predazione alla competizione, ai rapporti mutualistici, e si scambiano materiali ed energia. Inoltre, le comunità interagiscono con le componenti non biologiche dell'ambiente -suolo, atmosfera, acqua- generando un sistema che integra componenti biologiche e non, strutturalmente e funzionalmente coeso, quello che comunemente viene chiamato ecosistema (termine coniato dal biologo inglese Arthur Tansley e dai fratelli Eugene P. e Howard T. Odum all’inizio del XX secolo).

Questo tipo di teorie del XX secolo vedono la loro espressione estrema nella Teoria di Gaia, formulata intorno al 1970 dal chimico inglese James  Lovelock e dalla microbiologa Lynn Margulis. Secondo questa teoria, come accennato in precedenza, il pianeta sarebbe un unico globale ecosistema, e cioè un sistema integrato dove le innumerevoli componenti biotiche, le singole specie, dai batteri ai grandi mammiferi, e quelle abiotiche, suolo, atmosfera, acque interne e oceaniche, ma anche il clima, sarebbero legate tra loro da processi cibernetici di regolazione che sostanzialmente ne produrrebbero il continuo adattamento alle oscillazioni endogene ed a quelle di origine esterna, determinando una generale stabilità dinamica della Terra. In pratica qualunque organismo vivente oltre ad essere influenzato dall’ambiente lo modifica attivamente, e il ruolo fondamentale per la sopravvivenza dell’intero sistema è attribuibile al lavoro chimico svolto dai batteri[6]. Per gran parte della storia della Terra, ovvero per miliardi di anni, i batteri sono stati gli unici viventi regolatori delle caratteristiche chimico-fisiche del pianeta e ancora oggi è sulla loro attività che poggiano le basi di tutti gli ecosistemi. Ed è alla loro evoluzione che le forme di vita attuali devono la loro esistenza.

Indubbiamente la Teoria di Gaia è affascinante, sia per le sue forti implicazioni filosofiche, sia perché una seria politica di conservazione ambientale non può che partire da una visione globale del sistema Terra, ma che le cose stiano così o questa visione sia eccessivamente inclusiva una cosa è certa: le integrazioni tra le diverse componenti del pianeta esistono e non possono non essere considerate. 




Tornando alle singole comunità biotiche, due ecologi della prima metà del XX secolo le hanno definite e studiate, soprattutto quelle delle terre emerse, arrivando a concepire due modelli diversi e per certi aspetti alternativi. Da una parte, Henry Gleason sottolineava il carattere individualistico dell’appartenenza delle diverse specie di una certa comunità in un modello dove le popolazioni di ciascuna specie si sistemano ovunque esistano le condizioni climatiche e trofiche adatte alla loro persistenza. Questa interpretazione della comunità vede quindi un raggruppamento occasionale di popolazioni che si trovano lì ciascuna per le proprie esigenze biologiche e per le proprie caratteristiche adattative, una posizione estremamente egoistica che estende i concetti del famoso biologo inglese Richard Dawkins e della sua teoria del “gene egoista”. Le popolazioni sono insomma viste come un gruppo di persone in attesa del treno che si ritrovano insieme solo per la comune esigenza di viaggiare da un posto all'altro in quel determinato giorno, ciascuno per lep proprie esigenze. Frederic Clements, d’altra parte, sottolineava invece il carattere integrato della comunità, dove le singole popolazioni, di solito, non lavorano da solisti ma interagiscono stabilmente con le altre, che lo sappiano o meno. Usando la stessa metafora in questo caso possiamo figurarci un gruppo di amici che noleggiano un veicolo per andare a farsi una gita collettiva da qualche parte. Questa visione della comunità, e quindi il sistema integrato di popolazioni, generato e mantenuto dalle interazioni biotiche che le legano, la trasforma in una sorta di superorganismo che ha un suo sviluppo dall'inizio alla fine della sua esistenza, né più né meno come il percorso ontogenetico di un organismo tra fecondazione e morte. 

Hanno entrambi ragione. Lo studio delle comunità dei più diversi ecosistemi, dalle savane africane alla tundra, dai fondali oceanici alle foreste tropicali, dimostra che ciascuna comunità si colloca in un qualche punto tra l'estrema occasionalità e l'insieme integrato; alcune comunità sono associazioni fortemente chiuse e coese, mentre altre sono costituite da soggetti molto più opportunisti. La comunità coesa è generalmente resiliente, cioè robusta rispetto alle variazioni esterne come quelle climatiche, ma è molto sensibile alle variazioni di struttura interna; se una popolazione del gruppo viene eliminata o comunque messa in difficoltà dal punto di vista demografico, come risultato si può produrre una disgregazione dell'intero sistema. Le comunità alla Gleason invece sono meno sensibili a questo tipo di perturbazioni demografiche interne, ma rispondono singolarmente alle variazioni ambientali, tanto che le modificazioni della loro struttura possono essere utilizzate come indici biotici del cambiamento climatico e dello stress ambientale antropogenico. I due ecologi erano comunque d'accordo sul fatto che le comunità non si mantengono mai inalterate nel tempo. Le specie che le compongono e la loro abbondanza, le relazioni biotiche, i flussi di energia e di materiali interni alla comunità e i trasferimenti tra la comunità e l'ambiente abiotico e viceversa, sono tutte caratteristiche che si modificano nel tempo. 

E’ questo un concetto centrale nella moderna ecologia: la successione. Ancora con due punti di vista diversi, e probabilmente entrambi validi e sovrapponibili, secondo Gleason le successioni costituiscono la risposta della comunità alla variazione delle condizioni al contorno, geologiche e climatiche: cambiano le condizioni, cambia il profilo complessivo dell’associazione. Secondo Clements invece, le successioni sono prevalentemente prodotte dalla dinamica delle interazioni tra le diverse componenti biotiche dell'ecosistema, sono cioè processi autogeni. Questi modelli, che hanno fatto la storia dell'ecologia del XX secolo, e che hanno implicazioni pratiche di enorme attualità per la conservazione e gestione dei sistemi naturali, hanno un campo di applicazione locale o regionale e si riferiscono a orizzonti temporali che vanno dai giorni alle decine o centinaia di anni.

Ma le stesse idee generali possono essere traslate a livello globale su scale temporali dell'ordine di grandezza delle grandi ere geologiche, ovvero milioni di anni. In base a questi modelli lo studio delle grandi catastrofi biotiche può essere affrontato non soltanto in termini statistici ma con i modelli dell'ecologia delle comunità e delle successioni aggiungendovi il fattore evoluzione, ovvero il cambiamento delle specie nel tempo o la loro sostituzione. Indipendentemente dalla natura del fattore di innesco, il crollo della produzione primaria è sempre il fattore che determina il tracollo del sistema.

Ogni volta che si verifica un evento di estinzione di massa la comunità passa per una sorta di "collo di bottiglia" e si determina una variazione a tre stadi della struttura della comunità:

  • un sottoinsieme delle specie precedenti la crisi scompaiono rapidamente e selettivamente
  • alcune specie sembrano scomparire perché occultate in zone rifugio
  • in seguito, dopo la crisi, le specie che erano apparentemente scomparse si espandono e si accompagnano alla comparsa di nuove

Secondo questa impostazione, le grandi estinzioni di massa, che come abbiamo visto si sono verificate almeno cinque volte nell'ultimo mezzo miliardo di anni, sono i fenomeni maggiori di un'incessante rimodellamento delle comunità del pianeta, una mega successione globale generata sia dall'interazione di processi interni di natura biotica sia da dinamiche esterne: le grandi variazioni climatiche, le situazioni estreme dovute all’impatto di un asteroide o il permanere di episodi di vulcanismo estesi nel tempo e nello spazio come quelli relativi alle LIP di cui abbiamo già trattato, in grado di alterare pesantemente e per tempi lunghissimi il clima complessivo della Terra.

Sta di fatto che di tanto in tanto il sistema va fuori dall'equilibrio. L'idea generale che si ricava dalle centinaia di studi, sempre più incisivi e circostanziati su questi argomenti, è che ci sia sempre in ballo un insieme mescolato di concause, che a un certo punto produce una rapida, profonda transizione ecologica da uno stato al successivo, un prima e un dopo nettamente separati. E’ come se saltassero i meccanismi di regolazione per accumulo di tensione, e l'equilibrio metastabile venisse a crollare anche a seguito di un singolo evento puntiforme che funziona da innesco. La famosa goccia che fa traboccare il vaso. 

Il costruttore-distruttore. L’esempio che viene dal fuoco.

L’uomo ha sicuramente inventato molte cose, ma non il fuoco. Gli incendi dilagano sul pianeta almeno da 400 milioni di anni e sono stati molto frequenti tutte le volte che l'atmosfera si arricchiva di ossigeno e c'era abbastanza carburante da bruciare. Il fuoco ha un lungo intricato rapporto con la vita. Per vivere deve alimentarsi di biomassa vegetale, ma per farlo ha bisogno di ossigeno che è un gas prodotto dalla vita: cianobatteri, alghe, piante. E prima che l'uomo inventasse il modo di controllarlo i fattori di ignizione erano molteplici, fulmini ed eruzioni vulcaniche innanzi tutto. Ma il fuoco a sua volta modifica la vita, a tutti i livelli della complessità biologica, dagli organismi agli ecosistemi. I botanici hanno descritto una quantità di adattamenti che permettono a varie specie di piante di resistere agli incendi, addirittura ci sono piante i cui semi vengono rilasciati solo se l'involucro che li contiene è investito dalle fiamme e altre i cui semi germinano solo se vengono riscaldati dall'incendio o se vengono a contatto con sostanze volatili rilasciate dalla combustione; ancora, molte specie di erbe pur se completamente bruciate restano integre nella loro capacità di germogliare una volta passato il fuoco.

Alcune piante hanno caratteristiche strutturali che favoriscono la diffusione delle fiamme; altre contengono sostanze altamente infiammabili che fanno sì che intorno alla pianta si crei una sorta di terra bruciata dove solo i propri semi possono ricrescere. Queste relazioni tra fuoco e piante hanno avuto una enorme importanza evolutiva per la vegetazione del pianeta e per lo sviluppo dei suoi ecosistemi. Il successo planetario delle piante Angiosperme, le piante i cui semi si originano all'interno di un involucro protettivo, dipende dal sodalizio che queste piante stabilirono con il fuoco. Avendo un miglior sistema di circolazione dell'acqua nelle loro foglie ne ha fatto aumentare l'efficienza della loro fotosintesi, rendendole molto più rapide nella crescita e nell’accumulo di biomassa, e ciò le ha rese meno vulnerabili al fuoco rispetto alle Gimnosperme grazie alla loro maggiore diffusione. Incendi più frequenti, favoriti dall'accumulo di biomassa combustibile hanno quindi prodotto la diffusione delle Angiosperme che a loro volta hanno favorito la frequenza degli incendi. La distribuzione dei grandi biomi terrestri, dai deserti alla tundra, dalle praterie alle savane e alle foreste, è fondamentalmente determinata da pochi principali fattori climatici come la temperatura e le precipitazioni oltre che dall'altitudine, ma la loro distribuzione fine dipende fortemente anche dal fuoco. Il regime degli incendi dipende, nel tempo e nello spazio, dal clima. La quantità di materiale combustibile è infatti legata alla produttività della comunità vegetazionale, che a sua volta dipende dalle precipitazioni e dalla temperatura, mentre la combustibilità del materiale varia molto in relazione al suo contenuto in acqua. Anche la frequenza dei fulmini, uno dei principali fattori di ignizione, dipende dal clima e dalle stagioni. Ma anche con il clima il fuoco stabilisce un rapporto non propriamente passivo. La frequenza degli incendi può generare variazioni climatiche rapide o a lungo termine, su scala regionale o globale, che a loro volta producono una intensificazione della frequenza degli incendi. Su tempi lunghi un feedback positivo tra fuoco e clima è dato dal fatto che gli incendi rilasciano grandi quantità di biossido di carbonio attraverso la combustione del materiale vegetale e questo determina un incremento della concentrazione di questo gas, che a sua volta fa aumentare la fotosintesi globale, cioè la produzione di vegetazione sul pianeta e quindi di materiale combustibile. Ogni anno gli di qualsiasi natura rilasciano nell'atmosfera circa quattro miliardi di tonnellate di CO2.

Anche se non l'ha inventato, l'uomo può farsi vanto di essere l'unico animale ad aver preso una certa confidenza con il fuoco e ad aver imparato presto a trarne vantaggi. Il rapporto tra uomo e fuoco è antichissimo. La sua domesticazione, provata con certezza dal ritrovamento di materiali la cui combustione è sicuramente artificiale, risale ad almeno 700.000 anni fa, ma le scoperte che attestano l’uso deliberato e controllato del fuoco sono di poco meno di 200.000 anni fa.

E da allora l’uomo ha iniziato ad utilizzare il fuoco come strumento di controllo dell’ambiente circostante. Già i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico Superiore erano in grado di modificare il regime degli incendi naturali a loro piacimento, favorendone o limitandone la diffusione, producendo uno scenario ecologico molto diverso da quello di partenza. Così come ancora oggi fanno molti popoli aborigeni dell’Australia o della Tasmania, l’abile uso del fuoco consentiva di abbattere alberi, rinnovare vegetazione senescente, creare zone aperte e produttive dove si concentrava la selvaggina, oltre ovviamente ad arrostire od affumicare il cibo, stanare animali o scacciarli.

E il peso dell’impronta antropogenica ancora una volta è andato aumentando millennio dopo millennio fino ad arrivare alla situazione attuale, inequivocabilmente documentata e misurata dalle osservazioni satellitari, che registra devastazioni e distruzioni da incendi deliberatamente provocati, per migliaia di chilometri quadrati di territorio, ogni anno, mettendo in pericolo uno strumento preziosissimo che può aiutare a mitigare gli effetti del cambiamento climatico in atto.

Anche qui, il passaggio dal delicatissimo equilibrio bio-abiotico delle comunità, viene messo in pericolo e completamente destabilizzato dall’impronta umana.

L’ultima estinzione è quella in atto

La lettura in chiave ecologica delle grandi estinzioni del passato rivela che questi eventi, oltre a eliminare la maggior parte delle specie preesistenti, hanno determinato la chiusura di una serie di contenitori ambientali per aprirne altri, nuove nicchie ecologiche, riempite dagli eredi dei pochi superstiti, dai tanti nuovi inquilini che si sono originati evolutivamente a partire dai sopravvissuti.

Le radiazioni evolutive che hanno fatto seguito alle catastrofi, dense di fenomeni di speciazione, hanno fatto ripartire i sistemi ecologici planetari su basi completamente nuove e non si è mai trattato semplicemente di un ritorno ai vecchi equilibri. E questa conclusione deve farci alzare ulteriormente la guardia perché indica che il rischio del punto di non ritorno è storicamente provato.

Le attività antropiche, che innescano contemporaneamente fenomeni interni ed esterni alla comunità cui apparteniamo, stanno generando, senza ombra di dubbio, quella che ormai viene chiamata sesta estinzione di massa, le cui tracce iniziali si perdono nel tempo geologico fino agli albori della comparsa dei primi Homo sapiens sul pianeta, intorno ai 200.000 anni fa, se non 300.000, secondo le ipotesi più recenti.

Il passato ci mostra che le cause sono molteplici, la discussione è tuttora aperta, valutata caso per caso; ma se c'è una cosa su cui tutti concordano è che sembra di poter escludere che prima d'ora mai si sia trattato di qualcosa messo in moto da una sola delle tantissime specie presenti sulla scena. E’ proprio quest’ultimo aspetto che individua come fenomeno unico e originale ciò che è accaduto alla fine del Pleistocene, e che prosegue ancora oggi, spingendo il sistema verso situazioni ingovernabili.

Quindi, se le grandi crisi planetarie, con le conseguenti estinzioni di massa, a volte al limite della sopravvivenza della vita stessa, per lo meno così come la conosciamo o la immaginiamo, hanno contemporaneamente innescato processi di rigenerazione dando spazio a forme completamente nuove, ci troviamo stavolta di fronte ad un bivio che potrebbe portare, più velocemente di quel che si pensi, al mettere in crisi la sopravvivenza stessa di una fetta notevole del genere umano o, negli scenari cari ai catastrofisti, ad una Terra dove la vita sopravviverà certamente, ma senza di noi, almeno per il prossimo miliardo di anni, quando l’espansione dell’atmosfera solare indurrà temperature terrestri inaccettabili per la vita.

La sesta estinzione di massa è già in corso, ed è innaturale perché è provocata dall’impatto di una sola specie sui fragili equilibri del pianeta: la nostra. Se esistano ancora le condizioni per arginare il declino degli habitat e delle popolazioni, con cui condividiamo la stessa comunità biotica, è una domanda tuttora senza risposta.

Nota bibliografica: liberamente ispirato al Cap. IV de “L’impronta originale” di Guido Chelazzi. Einaudi, 2013



[1] Quando insegnavo, per dare un’idea ai miei studenti della enorme dimensione del tempo geologico dicevo loro di immaginarsi a contare, un numero al secondo partendo da zero, fino ad 1.000.000. Un giorno dura 86.400 secondi: dopo 11,6 giorni circa, avrebbero finito. E sarebbero giunti solo al primo milione.

[2] Per un approfondimento e ipotesi interessanti qui.

[3] Per un approfondimento qui.

[4] Il fenomeno, anche se per motivi parzialmente diversi, è noto persino per i laghi.

[5] Avrete sicuramente pensato alla quinta estinzione di massa, 65 milioni di anni fa, e che portò alla scomparsa dei dinosauri non aviani. E’ ormai questo il pensiero consolidato e difficile da sradicare, forte anche di ritrovamenti recenti, ma va notato che esistono altre teorie, relative a fenomeni di vulcanismo esteso nel tempo e nello spazio (quello associato alle cosiddette Large Igneous Province, LIP), che spiegano molto bene gli eventi catastrofici di cui stiamo parlando, e che sono state associate sia a questa che ad altri eventi di estinzione di massa. Un’idea dettagliata e competente è disponibile qui, in vari post.

[6] Questa visione, lasciatemi dire forse un po’ new age, si sta affermando in campo medico con gli studi relativi al microbiota umano.

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