Considerazioni sull'evoluzione umana


Introduzione
Lo so, sto un po’ in fissa con questa cosa, ma continuo a trovare documentazione aggiornata che insiste nel riportare quest’immagine, persino in un libro di testo per la scuola media edito soltanto un paio d’anni fa! Insomma, va bene che si fa fatica ad accettare quanto la moderna paleoantropologia, la genetica molecolare e/o l’archeologia ci raccontano da meno di dieci anni, va bene capire la fatica di riscrivere quanto fino a poco fa si considerava accettabile, ma è proprio questo uno dei ruoli della scienza: rivedersi. Per quanto riguarda la fissa suddetta qui, ma soprattutto qui, potrete trovare altri post sull’argomento.

Schema di classificazione delle catarrine esistenti (in inglese ape e monkey indicano rispettivamente primati di grandi dimensioni, come i gorilla o gli scimpanzè, e le piccole scimmie) - Science, 2010

L'immagine dell'evoluzione umana rappresentata in quel modo lineare, progressivo, in cui c'è un nostro presunto antenato molto simile a una scimmia che si trasforma gradualmente e lentamente in un essere umano, è solo una ricostruzione semplicistica che vede sempre come culmine all'estrema destra di questa carrellata di nostri parenti un Homo sapiens, tra l’altro sempre un maschio bianco; un’icona considerata all'apice della storia umana. Si fa fatica ad accettare che sia sbagliata perché quella sbagliata è un'immagine che ci gratifica, affascina, colpisce e consola. La grande iconografia della speranza umana che quella è la storia, la giusta conclusione del percorso che, necessariamente, doveva condurre fino a noi. E soprattutto è un modello semplicissimo, persino i bambini lo capiscono: poche idee chiare e dirette…ma sbagliate!

Rappresentazione alternativa alla precedente

Più tentativi, più successo
Sbagliate perché quello che sappiamo oggi dell'evoluzione è quanto rappresentato nell’immagine seguente, parte di un articolo di Terry Harrison pubblicato sul numero 327 di “Science” nel febbraio del 2010. L’immagine rappresenta schematicamente le relazioni tra ominoidi (ominidi o scimmie) in prospettiva temporale, a partire dalle primissime scimmie primitive, agli inizi del Miocene, passando dalla biforcazione avvenuta circa 6 milioni di anni fa, data della comparsa dell’antenato comune tra i  generi che hanno portato fino ad Homo sapiens e gli altri rappresentanti degli ominidi, ovvero scimpanzè, oranghi, bonobi e forse anche i gibboni. Le barre grigie continue rappresentano l'intervallo di tempo noto di ciascun genere, sottili linee scure sono relazioni dedotte tra i generi e sottili linee tratteggiate con un punto interrogativo denotano relazioni incerte.

Dentro quella fascetta degli ominini comparsa meno di due milioni di anni fa c’è tutta la storia evolutiva che ha portato fino ad Homo sapiens, ma ci sono anche gli altri Homo, e poco prima, in termini geologici, c’erano ad esempio gli australopitechi come la famosissima Lucy, nella ricostruzione qui a fianco.






Schema relazionale tra Hominoidea in prospettiva temporale - Science, 2010

Schema evolutivo e relazioni delle forme preumane (arancione) ed umane (azzurro) - Pievani, 2019

Un cespuglio intricato 
Si osservi invece il cespuglio di forme dell’immagine precedente: un modello che ne evidenzia la loro ramificazione e che rappresenta le relazioni, le parentele tra queste. In basso a destra gli appunti in proposito presenti su uno dei quaderni di Charles Darwin: la straordinaria intuizione!

Una storia lunga e complessa e andando dentro quelle fascette colorate, che rappresentano generi, ci sono quindi complessi di specie diverse, potete apprezzarne la quantità. Moltissime sono dei vicoli ciechi che ci hanno preceduto. Ominini: già, siamo diventati una sottofamiglia di questo cespuglio di forme che si sono diversificate molto recentemente, sempre in termini geologici. E quanti punti interrogativi, perché non abbiamo informazioni sufficienti, perché non riusciamo a ricostruire molti rapporti di parentela in ciò che viene prima di Homo sapiens. Ma è certo che siamo parte di un cespuglio ramificato con oltre venti specie diverse: non siamo mai stati soli, la nostra è una storia plurale.

Adesso consideriamo quest’altra rappresentazione, col tempo che passa in verticale e qualche dettaglio in più. La linea ondulata nera rappresenta un limite evolutivo tra primati preumani ed umani: da quel momento in poi si assiste ad una continua e progressiva crescita delle dimensioni del cervello man mano che procede l’evoluzione delle varie specie.

Pievani, 2019

In base alle ultime ricerche siamo comparsi in Africa 200.000 anni fa, forse 300.000, una specie giovane che ha appena iniziato la propria storia evolutiva. Ma ecco la scoperta più sconvolgente di questi ultimi anni, talmente sorprendente che molti scienziati faticano ancora a interiorizzarla, inaspettata com’è.

Se avessimo potuto viaggiare sulla Terra, tra Africa e Asia, 50.000 anni fa, un battito di ciglia rispetto al tempo geologico profondo, il tempo necessario a formare uno strato sottile di roccia sedimentaria, avremmo incontrato non una ma ben cinque specie umane. Se la storia dell’evoluzione umana degli ultimi due milioni di anni fosse rapportata a 24 ore noi saremmo apparsi da un paio d’ore! Ma non da soli. La Terra era già abitata da più forme umane, diverse tra loro, specie cugine, ma con storie ambientali molto diverse a creare una sorta di biodiversità umana.

Nel cespuglio lussureggiante degli ominini si scopre inoltre che specie ritenute sequenziali hanno in realtà avuto lunghissimi periodi di evoluzione parallela, in altre parole di convivenza sullo stesso pianeta e magari negli stessi territori, per centinaia di migliaia di anni.

Le nozioni monolitiche di “uomo primitivo” e di “ambiente ancestrale” perdono di significato: non vi è traccia né di una specie unica né di un ambiente ancestrale omogeneo.

Inconcepibile? Diamo per scontato di essere gli unici umani del pianeta, ci sentiamo molto orgogliosi guardando un gorilla allo zoo negli occhi, accettiamo il fatto che possa essere un nostro cugino stretto ma un retropensiero ci ricorda immediatamente che no! siamo diversi, noi umani, loro un’altra cosa. La solitudine della nostra storia è un’illusione da un punto di vista evoluzionistico, e nell’ultimo tratto del nostro percorso ne siamo stati la causa, perché il primo evento di estinzione della biodiversità umana, e non solo, è stato provocato da Homo sapiens che, in qualche modo, non necessariamente violento, ma soprattutto per lenta sostituzione come avvenuto con i Neandertal, si è liberato dei parenti, estinguendoli, in un arco di tempo che probabilmente va dai 30.000 ai 12.000 anni fa: vicinissimi dunque alla soglia della storia che si studia a scuola, vicinissimi alla comparsa delle prime civiltà, ancora più vicine alla cosiddetta rivoluzione neolitica, con la comparsa dell’agricoltura e della domesticazione di specie animali.  Gli ultimi Neandertal si estinguevano poche migliaia di anni fa.

Direttrici della prima ondata migratoria delle specie umane fuori dall’Africa
(Istituto Geografico De Agostini)

Out of Africa!
Ma facciamo un passo indietro e passiamo dal tempo allo spazio.

A partire da circa 2 milioni di anni fa le specie preumane africane iniziano a produrre un comportamento anomalo mai visto prima e che probabilmente è proprio ciò che ci ha reso umani: migrare, spostare il nostro areale di distribuzione, a differenza dalle scimmie antropomorfe abituate a nascere in un posto ed a restarci. La mobilità è una caratteristica fondamentale delle specie umane, quale miglior prova l’attuale mondo iperglobalizzato? La mappa precedente, realizzata con la collaborazione del prestigioso Istituto Geografico De Agostini di Novara, illustra la prima grande diaspora dell’umanità, la cosiddetta Out of Africa 1, iniziata circa due milioni di anni fa.

Nella mappa è possibile osservare come siano stati ricostruiti anche i profili delle linee di costa nei periodi glaciali, coincidenti con abbassamenti anche notevoli del livello medio dei mari protrattisi per lunghi periodi: Africa ed Asia erano agganciate in un unico grande continente, e quest’ultima, laddove ora c’è il mare dello stretto di Bering, era collegata alle Americhe attraverso la Beringia, da cui prende il nome, un istmo di terra emersa. Era quindi possibile muoversi senza incontrare ostacoli dal sud Africa al sud America.

L’instabilità ecologica e i cambiamenti climatici sono stati le cause principali che hanno spinto i nostri antenati a spostarsi, unitamente alle enormi capacità di adattamento ad ambienti diversi con grandissima flessibilità, una plasticità adattativa che, se da una parte ha fatto la nostra fortuna, dall’altra potrebbe ribaltarsi a nostro sfavore visto che, come ha detto qualcuno, siamo diventati una specie cosmopolita invasiva: abbiamo occupato tutti gli ecosistemi possibili, persino quelli più estremi e meno ospitali.

Impossibile? Ipotizziamo un avanzamento di appena 10 chilometri ogni secolo: in 10.000 anni, anche se la densità demografica di stimata era di un individuo ogni 10 chilometri quadrati, gli appartenenti ad una determinata specie avrebbero potuto coprire una distanza di 1.000 chilometri. Con questi valori è semplice constatare che, nei 200.000 trascorsi dalla comparsa delle prime forme di Homo sapiens in Africa centrale, ai primi ritrovamenti di ominini in Asia orientale si può ipotizzare uno spostamento potenziale di 20.000 chilometri. Senza considerare che erano presenti altre forme umane migrate in precedenza.

La prima grande migrazione iniziava due milioni di anni fa e si è ripetuta almeno altre due volte.

Direttrici della seconda ondata migratoria delle specie umane fuori dall’Africa
(
Istituto Geografico De Agostini)

La cosiddetta Out of Africa 2 è iniziata circa 800.000 anni fa: di nuovo altre forme umane lasciano l’Africa, tra l’altro sempre dalla stessa zona, e questo dato è affascinante: tutte le grandi migrazioni umane che hanno prodotto anche la diversità attuale umana partono tutte dal Corno d’Africa. Come lo sappiamo? Ce lo dicono in modo estremamente preciso le molecole del DNA mettendoci in grado di collocare il punto e la data precise di inizio di queste migrazioni.

Ogni volta rappresentanti di specie Homo diverse, anche in piccolissimi gruppi di qualche decina di individui, sono partiti dalle vallate tra Eritrea, Etiopia, Kenya e Tanzania e da lì, seguendo corridoi naturali, ad esempio quello del Nilo od altri, sono arrivati in Medio Oriente, punto di smistamento fondamentale verso rotte dirette al nord, verso l’Europa, o verso est. Oppure con percorsi di migrazione che, seguendo la costa meridionale della penisola araba, doppiando il continente indiano a sud, hanno raggiunto quello che allora era un unico lunghissimo territorio che dalla Malesia, passando per l’Indonesia arriva a quello che oggi è Papua-Nuova Guinea, e isola dopo isola, o su strisce di territorio emerso, hanno raggiunto l’Australia forse già 80.000 anni fa.

Questa è l’ondata migratoria che ha visto uscire dall’Africa forme umane antecedenti a quanto in seguito, esclusivamente sul continente europeo, sarebbe stato indicato come Homo neandertalensis, un’esclusiva del vecchio continente, qui presenti fin da 300.000 anni fa.

Il percorso geografico e quello evolutivo che ha portato gli esseri umani dal Corno d’Africa al Mediterraneo, e quindi all’Europa e al Medio Oriente, è ciò che ci ha reso umani. Spostarsi da ambienti inospitali, muoversi attraverso tracciati diversi causati dalle diverse condizioni climatiche della zona del Sahara, che ha avuto diversi cicli, con lunghi periodi di fertilità seguiti a periodi altrettanto lunghi di aridità, attirando o respingendo le popolazioni umane: tutto ciò che ha provocato ondate migratorie ci ha reso umani. Fino alla cosiddetta Out of Africa 3, che sembra aver interessato soltanto Homo sapiens.

E tutto questo mi rende impossibile non pensare alle famiglie che oggi lasciano i propri paesi di origine, mettono a rischio la vita dei loro stessi figli, per imbarcarsi in un viaggio della speranza in cerca di migliori condizioni di vita.

Direttrici della terza ondata migratoria delle specie umane fuori dall’Africa
(Istituto Geografico De Agostini)

Dappertutto
E questa terza grande ondata fuori dall’Africa riguarda proprio noi, Homo sapiens, a differenza delle precedenti che riguardarono specie diverse. Anche Homo sapiens arriva dapprima in Medio Oriente e poi lungo la costa meridionale del Mediterraneo, affiancato da un’irruzione in Europa oltre che da percorsi migratori verso nordest e sudest.

Anche Homo sapiens è una specie immigrata. La specie autoctona europea erano i Neandertal, già presenti e comparsi proprio in questo continente oltre 300.000 anni fa.

Una scoperta recente, sempre grazie alla genetica molecolare, ha evidenziato che i geni connessi allo schiarimento della pelle in Homo sapiens hanno circa 16-18.000 anni. Considerando che l’arrivo di Homo sapiens in Europa è iniziato circa 40.000 anni fa, è evidente che i primi immigrati di colore in Europa siamo proprio noi, magari con gli occhi azzurri, predecessore dell’Uomo di Cheddar, come nella ricostruzione qui a fianco di un Sapiens, ma con la pelle scura.

Successivamente ci sono state diverse altre ondate migratorie, alcune che sembrano esser fallite a causa di stravolgimenti climatici che, in qualche modo, hanno come sbarrato la strada ai gruppi che migravano, altre spintesi in avanti anche per decine di migliaia di chilometri dal luogo di origine.

Tra queste forse la più importante è quella di circa 75.000 anni fa, più invasiva delle precedenti.

La migrazione finale? - Pievani, 2019

Ricostruzione morfometrica esatta delle sembianze di un Neandertal
a confronto con una bambina Sapiens

Incontri ravvicinati di tipo primitivo
E non è tutto. L’immagine precedente, un Neandertal e una bambina Sapiens, ci racconta qualcosa che è accaduto veramente. Le due specie, strettamente imparentate l'una con l'altra, sono vissute negli stessi territori a lungo, e quindi davvero non siamo stati soli in Medio Oriente, in Europa, e  principalmente in Italia, in Francia e in Spagna, così come nelle vallate prealpine abbiamo zone di sovrapposizione di popolamento nello stesso periodo di più specie umane, e in particolare di queste due specie umane. Ci distingueva soltanto lo 0,1% del DNA. Ed eravamo talmente vicini dal punto di vista biologico da essere interfecondi, potendo generare individui a loro volta fecondi, e i risultati delle ibridazioni tra Sapiens e Neandertal sono evidenziati dalla presenza nel nostro di DNA di materiale genetico dei nostri cugini. I dettagli genetici di questi scambi sono ancora oggetto di studio e ci sono molti dubbi sui meccanismi di trasmissione e di diluizione delle componenti delle due specie, ma è certo che i due gruppi possano aver avuto rapporti più che amichevoli. Per chi volesse approfondire qui potete trovare il materiale adatto.

In quel periodo i Neandertal avevano già iniziato quanto è noto come sviluppo dell’intelligenza simbolica, processo interrotto dalla loro estinzione avvenuta circa 28-29.000 anni fa. L’ultima comunità Neandertal sopravvisse attorno alla Rocca di Gibilterra con una dozzina di famiglie che, in maniera progressiva e non drammatica furono lentamente sostituiti dai Sapiens che hanno portato ad una marginalizzazione di quest’altra forma umana, che infatti scompare progressivamente dal Medio Oriente all’inizio, poi dall’Anatolia verso i Balcani, Italia, Francia e infine Spagna, come se fosse schiacciata verso occidente dalle continue ondate di ingresso di Homo sapiens in Europa.

Dall’altra parte del mondo, sull’isola di Flores in Indonesia, fino a soltanto 12.000 anni fa, ha vissuto un’altra spece umana, Homo floresiensis (nell’immagine a sinistra una femmina a confronto con una Sapiens), una specie pigmea a causa del cosiddetto nanismo insulare: erano infatti alti circa un metro ma con un cervello ben sviluppato. Un’altra forma umana arrivata fino alle soglie della storia; se questa specie avesse resistito qualche altro millennio avrebbe visto i primi campi coltivati, le prime città.

Siamo soli da pochissimo tempo. E a questo proposito c’è una domanda che non avrebbe avuto senso porre anche solo un paio di decenni fa, quando si dava per scontato che dopo l’estinzione delle altre forme umane, i Sapiens fossero gli unici rimasti grazie ai migliori adattamenti espressi.

Perché invece siamo soli se fino alle soglie della storia c’erano almeno quattro, se non cinque, forme umane diverse?

E’ una domanda a cui è tuttora difficile rispondere ma è ovvio che noi siamo soltanto uno dei modi di essere umani, un’altra prova dei meccanismi dell’evoluzione per selezione naturale che ci dice che, se potessimo riavvolgere il nastro all’indietro e ripartire da capo, per ogni linea evolutiva di qualsiasi organismo vivente, potremmo avere infinite possibilità di futuri diversi.

L’origine delle attuali popolazioni

Cervelloni

Avere un grande cervello, con la parte dedicata ai lobi frontali ben sviluppata, sicuramente ha aiutato. Ma anche questo è un effetto collaterale dell’evoluzione, non è il prodotto delle pressioni selettive.

Un’eccezionalità genetica, assente in tutte le altre forme imparentate, provoca un rallentamento mai visto prima del periodo di crescita e in particolare del periodo infantile e adolescenziale  (neotenia); in pratica, restiamo bambini molto più a lungo di qualsiasi altra specie a noi prossima. Persino nei confronti dei Neandertal: è stato dimostrato che un appartenente a questa specie diventava adulto due anni e mezzo prima dei Sapiens. Nella nostra specie il mantenimento dei tratti infantili permane molto più a lungo e la nostra è l’unica specie in cui il cervello continua a crescere anche dopo il parto per almeno altri due anni.

Dal punto di vista evoluzionistico queste caratteristiche rappresentano costi di adattamento molto elevati: un grande cervello che da solo consuma oltre il 20% dell’energia dell’organismo, molto esigente dal punto di vista metabolico, ma soprattutto cuccioli fragili per più anni rappresentano un investimento parentale consistente, e quindi questa innovazione ha avuto come necessità di altri bilanciamenti nell'organizzazione sociale. La necessità di tenersi nel gruppo cuccioli fragilissimi per molti più anni ci ha evidentemente regalato qualcos’altro: l’espansione del periodo di apprendimento, di gioco, di imitazione, alimentando la plasticità umana, con un cervello letteralmente plasmato biologicamente dalle esperienze successive alla nascita, grazie anche allo sviluppo del cervello successivamente al parto che, fra i suoi effetti collaterali ha prodotto un aumento delle capacità craniche. Per motivi meccanici, legati alle dimensioni del canale del parto delle donne Sapiens, nasciamo con un cervello che continua ad espandersi successivamente, soprattutto nell’area della corteccia prefrontale: un effetto collaterale di un processo di sviluppo. Quindi questa specie che rimane bambina così a lungo diventa una specie capace di avere una vita sociale molto elaborata e in piccoli gruppi.

Tutto ciò ad ulteriore testimonianza che la teoria dell’evoluzione, mantenendo ben saldi i principi darwiniani, è molto più pluralista e flessibile, con la selezione naturale che interagisce con molti altri fattori tra i quali quelli dello sviluppo che sono essenziali. Oggi la teoria dell'evoluzione è qualcosa di molto complesso ed altrettanto interessante che non l’idea, ormai semplicistica, che le pressioni selettive siano soltanto una sorta di problem solving atto al mutare delle condizioni ambientali.

La sintesi neodarwinista estesa - Pievani, 2019


Prede
Phillip Tobias (nella foto a fianco), un eminente antropologo, dimostrò che i segni di trauma riscontrati sul cranio di un fossile di cucciolo di australopiteco vissuto circa 2,8 milioni di anni fa (il Bambino di Taung) non erano, come si diceva fino a pochi anni fa,  segni di riti di cannibalismo, attribuendo chissà quale valore mistico ed esoterico al ritrovamento, ma i traumi riportati a seguito dell’esser stato cacciato da un’aquila. Segni conformi a quanto si può ritrovare ancora oggi in cuccioli di scimpanzè predati da rapaci.

Sappiamo quindi oggi, con ragionevole certezza, che per gran parte della nostra storia non siamo stati predatori ma prede; molti degli adattamenti sociali che abbiamo sono adattamenti da prede e non da predatori, adattamenti difensivi, cambiando quindi la prospettiva sull’evoluzione.

E con ciò si smontano anche alcuni dogmi, dovuti a narcisismo e pregiudizi, presenti sui testi fino a non molto tempo fa (direi ancora oggi). Tra i tanti “il nostro cervello è diventato grande perché eravamo grandi cacciatori e ci nutrivamo di carne fresca in abbondanza”. Ma la realtà era ben diversa. Siamo diventati grandi cacciatori in tempi molto recenti, lunghi abbastanza comunque da consentirci di sterminare tutte le macrofaune esistenti man mano che la migrazione ci portava a colonizzare la quasi totalità degli ambienti. Abbiamo infatti passato più del 90 percento della nostra storia di specie come necrofagi e saprofagi, come spazzini della savana, contendendoci le prede con avvoltoi e iene; dopo tutto è un comportamento molto adattativo perché la grande fatica della cattura la si lascia ai predatori professionisti, cioè i grandi felini, andando poi a sottrarre quel che resta, pezzetti di carne già ben frollata, essenziale per nutrire il cervello che, come predetto, assorbe da solo il 22 percento dell’energia del metabolismo umano, e da associare a quanto di vegetale fosse disponibile direttamente con la raccolta. Quindi niente lancia in resta e caccia al mammut se non in tempi più recenti ma una dieta onnivora con cui Homo sapiens se l’è cavata egregiamente.

Per tornare al narcisismo che ci ha visto e ci vorrebbe ancora come i dominatori del mondo da sempre voglio ricordare le parole di una grande biologo, Stephen Jay Gould: «Pensiamo che il problema fosse alzarsi la mattina e chiedersi cosa mangiare; in realtà il problema essenziale era arrivare a fine giornata senza esser stati mangiati».

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Riferimenti bibliografici
Guido Barbujani, Come eravamo. Storie dalla grande storia dell’uomo. 2022
Guido Barbujani, Andrea Brunelli. Il giro del mondo in sei milioni di anni. 2018
Telmo Pievani. Homo sapiens ed altre catastrofi. 2002
Telmo Pievani. Ripensare l’evoluzione umana. 2019
Guido Chelazzi. L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica. 2013


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