[Serie di tre post. Prima e seconda parte]
Da tempo sto cercando di
studiare ed analizzare il cambiamento climatico non più da un punto di vista
scientifico – di prove sulle cause ce n’è a sufficienza – ma da quello più
politico e sociale. In questa serie di tre articoli ho provato a mettere nero
su bianco idee e considerazioni, e soprattutto riflessioni. La cui conclusione,
in coda a quest’ultima parte, è laconicamente piuttosto rassegnata.
Nella prima e nella seconda parte sono
state esaminati due aspetti legati al fatto indiscusso che, a livello
internazionale e politico, la maggior
parte dei paesi al mondo è lontana dalla cosiddetta decarbonizzazione: la cooperazione internazionale vacilla e non sembra
si abbiano gli strumenti tecnologici per contrastare il fenomeno con successo a
discapito delle attuali conoscenza e tecnologia che già offrono la maggioranza
delle risposte al da farsi per iniziare un serio e condiviso processo di mitigazione. Le
difficoltà di gestione non sono solo il risultato di mancati accordi
internazionali e scarsa volontà politica, ma rispondono anche a effettive
difficoltà nel concettualizzare il problema climatico, applicare ad esso ciò
che deriva da democrazia e responsabilità, contrastarlo. Prima
ancora di dimostrare volontà condivisa sembra ormai tracciata una duplice
natura del fallimento, politica e internazionale da un lato, e domestica,
quest’ultima declinata in dozzine di modi tante sono le diverse realtà locali e
culturali.
In quest’ultima parte verranno infine
esaminati argomenti validi più sul piano domestico e locale. Rivediamo ancora
una volta le premesse, che potranno essere saltate da parte di chi abbia già
letto i post precedenti, andando direttamente al capitolo “Il fallimento
domestico: una premessa”, o a quello “Esercizi di veto”.
L’uso
massiccio di combustibili fossili, necessario per sostenere la crescita dei
processi industriali a partire da circa due secoli fa, ha riversato in
atmosfera quantitativi di gas serra tali da modificare profondamente il clima
della Terra; consumo del suolo e deforestazione hanno dato il colpo di grazia
con quegli stessi processi industriali che, laddove presenti, hanno consentito
e – anche se non ovunque – sostenuto la crescita demografica oggi registrata.
Il risultato è un cambiamento climatico con un marcato riscaldamento senza
precedenti, a coinvolgere i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta.
Ne ho scritto su queste pagine numerose volte e da numerosi punti di
vista.
Il cambiamento climatico, così come
definito dal punto 2 dell’Art. 1 della
costituzione della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate
Change) è innanzi tutto un fenomeno
ecologico; causato dall’innalzamento della
temperatura media dell’atmosfera terrestre, o meglio, della sua parte a diretto
contatto con la superficie, la troposfera. Tale aumento è già mediamente
superiore ad un grado centigrado più alto di quanto non fosse a cavallo tra
XVIII e XIX secolo, inizio dell’era industriale, e nel corso di quest’anno si
sono sfiorati i 2 °C. Le
premesse ecologiche del cambiamento climatico sono un’aumentata concentrazione
di gas serra
nell’atmosfera e una diminuita capacità da parte dei sistemi naturali di
assorbirli. La causa dell’aumento è l’uso massiccio di combustibili fossili
allo scopo di fornire l’energia necessaria ai processi industriali che, dal
1800 in poi, hanno permesso più alti livelli di consumi e di benessere alla
crescente popolazione mondiale. Nell’arco di un paio di secoli, l’uso intenso
di combustibili fossili quali fonti di energia ha alzato la qualità di vita di
miliardi di persone, alterando però sistemi naturali che erano stati largamente
stabili per migliaia di anni, un cambiamento talmente rapido da meritarsi, per
qualcuno, una distinzione in termini di cronologia geologica: l’Antropocene. Le
implicazioni ecologiche del cambiamento climatico potrebbero andare da
modificazioni di ecosistemi relativamente blande e sparse a massicce catastrofi
di portata planetaria, compresa un’estinzione di massa, la sesta,
ampiamente documentata. Il cambiamento del clima è un problema senza
precedenti, che coinvolge i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta e
pone minacce multiple, probabilistiche, dirette ed indirette, spesso invisibili
e senza limiti spaziali o temporali.
E, come se poi servisse, di recente
un nuovo studio conferma che
il 99 percento degli studi climatici, sottoposti al processo di peer review, confermano
l’origine antropogenica del cambiamento climatico.
L’incertezza principale sugli
scenari si lega all’incertezza dell’efficacia delle politiche di mitigazione. O
agiamo tutti insieme, a livello globale, o gli sforzi individuali saranno
trascurabili. Per quanto lodevole nessuna iniziativa locale o personale fa la
differenza. È come trovarsi su una barca che sta imbarcando acqua: l’azione di
un singolo che svuota l’acqua con un secchio non serve granché, ma se nessuno
inizia affonderanno tutti. Solo uno sforzo collettivo può evitare i danni
peggiori del riscaldamento globale.
Anticipando e riassumendo eventuali conclusioni la
possibilità che si possa governare il cambiamento climatico, appare
sempre più utopica. Una flebile speranza deriva dal riconoscere che
moltissimo si è fatto quando si presentò il problema della riduzione dei danni
allo strato dell’ozono, e parecchio, anche se non tutto, quando si dovette
procedere con urgenza alla limitazione dei danni provocati dalle piogge acide.
Sono esempi virtuosi e importanti che, stabilito che
esistono rischi notevoli per la popolazione umana, soprattutto quella già
provata da difficoltà aventi altre origini, ci fanno ben sperare, unitamente
al ruolo che potranno avere nuove tecnologie.
Tuttavia, di fronte allo stato di fatto delle
iniziative globali e delle loro auspicate ricadute sui governi locali,
soprattutto quelli dei paesi ricchi, al cospetto dei continui conflitti armati
che anziché diminuire aumentano di anno in anno (ad oggi se ne contano 56!), permangono
sentimenti di disillusione e sgomento, che certamente non aiutano e inducono,
come ho avuto modo di scrivere recentemente, ad una sorta di catastrofismo climatico da
un lato, e all’inazione dall’altro. Atteggiamenti entrambi pericolosi e da contrastare.
Il fallimento domestico: una premessa
Il cambiamento climatico è dunque un problema globale le cui conseguenze,
dirette o indirette, possono ricadere su ciascun paese al mondo. E ciò riduce
l’efficacia delle politiche nazionali, perché ogni paese, pur potendo limitare
le emissioni dei propri abitanti con iniziative di vario tipo, anche
legislative, programmi educativi e altro, può fare poco o nulla per limitare le
emissioni delle popolazioni di altri paesi, ognuno dei quali è politicamente
sovrano. Ma la soluzione del cambiamento climatico non può prescindere dalla
cooperazione di tutti i paesi del mondo, in particolare di tutti i grandi e
medi emettitori, il cui numero cresce al pari del loro sviluppo e, di contro,
sono molti i paesi sovrani la cui politica interna è stata, ed è, disfunzionale
rispetto al controllo e alla gestione del cambiamento climatico e dei suoi
effetti sull’ambiente e sulla salute dei loro stessi territori. Gli Stati Uniti
ad esempio, storicamente il maggior emettitore di gas serra con consumi pro
capite anche più di dieci volte quelli di un paese in via di sviluppo, ha
ostacolato la governance globale del clima per circa trent’anni, ed è
tornata a farlo con la recente amministrazione Trump.
Esercizi di veto
Le democrazie più importanti del mondo, divise al loro
interno da forze politiche contrapposte, trovano quindi grandi difficoltà nel
produrre legislazione domestica che si discosti significativamente dallo stato
di fatto. Quando si parla di cambiamento climatico ciò è ancora più evidente,
affiancato da una evidente incapacità nell’affrontare efficacemente anche molte
altre pressanti questioni sistemiche e globali, come le migrazioni, la gestione
delle diseguaglianze, il terrorismo, il debito pubblico e l’instabilità
finanziaria. Tutte caratteristiche di questo periodo storico recente,
ottimamente definito col termine Antropocene,
Gli attori di ciò che appare come una disfunzione sono appunto quelli capaci di
prevenire deviazioni attraverso l’esercizio di veti in fase di
legislazione. Tali attori possono essere specificati dalle costituzioni
(ad esempio il presidente, il congresso e le varie corti negli Stati Uniti, ma
anche il nostro presidente della repubblica o la corte costituzionale), possono
emergere dal sistema politico (come i partiti membri di una coalizione di
governo in molti paesi europei) o dalla società civile (settori industriali
potenti, o sindacati o altri gruppi d’interesse).
La presenza di molti attori su più livelli, con forti
differenze ideologiche e coesione interna, rende difficili i grandi cambiamenti
e limita la produzione di leggi innovative.
Questo è desiderabile quando lo sia anche lo status quo, ma nel momento in cui queste condizioni non si presentano ciò che si richiede è invece proprio fluidità e flessibilità legislativa. È questo il caso del cambiamento climatico così come delle altre questioni menzionate sopra: si richiedono risposte politiche veloci, decise e innovative su cui gli attori in questione dovrebbero rinunciare ad esercitare i loro veti. Su queste pagine ho fatto presente, ad esempio, che l’Italia è, ad esempio, un paese perfettamente adattato…a un clima che non c’è più.
I veti frenano o rallentano quindi l’innovazione legislativa in ogni sistema politico, e laddove esistano numerosi attori che possano esercitarli la democrazia vede aumentato il rischio di vulnerabilità, inteso come rischio di conservatorismo eccessivo o evidente protezionismo. Si spiega ad esempio come un paese potente, ricco e tecnologicamente avanzato come gli Stati Uniti, possa essere sorprendentemente lento e inefficace nel gestire problematiche fondamentali di politica distributiva, equità razziale, immigrazione, bilanciamento fra libertà e sicurezza e, ovviamente il cambiamento climatico (o per lo meno la politica energetica). La costituzione degli Stati Uniti separa e distribuisce poteri all’interno del governo federale, delega diritti e funzioni agli stati e include una carta dei diritti che in alcuni campi fornisce esercizio di veto ai cittadini stessi. In aggiunta, nei decenni si sono stratificate pratiche che inibiscono ulteriormente l’azione come la necessità di maggioranze molto larghe per certe tipologie di deliberazioni. Intorno a tutto ciò fiorisce una intensissima attività di lobby da parte di numerosi attori dell’economia e della società, che esercitano i loro veti indirettamente attraverso i propri referenti politici. E in alcuni casi, si è visto come le aberrazioni del sistema di veto, abbiano portato alla nascita, su mandato presidenziale o di determinati gruppi di potere, di una vera e propria politica di negazione (come accaduto di recente nel caso del rapporto del Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti).
Gli Stati Uniti sono un esempio estremo ma non sono
l’unico. Nella maggior parte delle
democrazie europee i veti sono esercitati dai partiti membri della coalizione
di governo o dell’opposizione e in alcuni casi, come in Italia, Spagna e
Grecia, i partiti hanno legami storici, diretti e forti con industria,
sindacati o altri gruppi d’interesse. In questi paesi è difficile raggiungere
consenso politico anche su questioni molto meno complesse del cambiamento
climatico: sembra in effetti che per ogni
possibile svolta legislativa ci sia sempre una corrispondente opzione
immobilista, congeniale ad almeno un qualche
attore cruciale, spesso paradossalmente all’interno di una coalizione di
governo, o frammentata in correnti dello stesso partito, nel nome del
pluralismo.
A volte l’immobilismo risponde a ragionevoli calcoli sui costi di transizione da status quo a nuove politiche e/o riflette l’incertezza riguardo sia i dettagli del processo di transizione che i suoi risultati ultimi. Gli attori che esercitano veti danno voce a queste considerazioni. In alcune circostanze, gli attori possono sostenere tendenze immobiliste irrazionali presenti nelle istituzioni e nella società e sfruttate da gruppi di interesse (si pensi alla miriade di polemiche durante la recente pandemia). Queste includono la razionalizzazione per evitare dissonanze cognitive, il ricorso a stereotipi tipo «ha funzionato finora», la focalizzazione sui costi già sostenuti, la paura del rimpianto per i cambiamenti e il desiderio di mantenere il controllo non riconoscendo il cambiamento. Tali atteggiamenti difendono lo status quo e sono evidenti nei principali paesi democratici, spesso tra i maggiori emettitori di gas serra.
Considerando i meccanismi di veto, l'inefficacia di molte democrazie appare preoccupante. I veti dovrebbero bilanciare la legislazione, ma spesso bloccano il cambiamento per proteggere interessi consolidati, distorcendo il sistema e favorendo disuguaglianze d'accesso e influenza, mentre la qualità normativa risulta compromessa da procedure complesse e pressioni corporative.
Infine, il tutto può infine essere aggravato dai movimenti popolari più o meno
organizzati: nostalgici di un passato mitologico quando i politici venivano
dalla gente, con le opinioni dei cittadini integrate alle dinamiche di
governo e, per finire, movimenti che contestano non solo le proprie istituzioni
nazionali ma anche quelle sovranazionali, come l’Unione Europea o gli attori
globali della finanza internazionale. Qualunque sia il loro futuro politico,
queste reazioni popolari a veti locali e globali divenuti troppo ingombranti
ricordano ai governanti che una democrazia è operata da e per i governati e che
il potere esercitato dai governanti, per potersi dire legittimo, deve portare
benefici ai governati.
La comunità politica
E già a questo punto sorge il problema affrontato nella seconda parte. Come assegnare un valore al futuro. E non solo.
Indipendentemente dalla natura umana che raramente ha sacrificato qualcosa oggi in funzione di benefici futuri molto poco tangibili, e talora in dubbio, questa è una difficoltà molto profonda a livello non solo pratico ma anche di principio. Democrazia è l’idea che i governi debbano agire nell’interesse dei governati piuttosto che in quello dei governanti e per raggiungere tale obiettivo, la strategia democratica è quella di far governare i governati stessi, direttamente o attraverso i loro rappresentanti. La teoria e le pratica democratica si basano sul presupposto che i governati e i governanti siano agenti – in grado cioè di agire - abili e competenti nell’iniziare e condurre azione politica, comunemente detti cittadini. Sono i cittadini e i loro interessi e benessere che contano politicamente in una democrazia: la cittadinanza democratica presuppone capacità di partecipare al processo democratico, la quale a sua volta presuppone che la politica agisca in nome e per conto della cittadinanza stessa. Giulio Andreotti esortava i giovani ad occuparsi di politica perché, diceva, «comunque la politica si occuperà di voi».
La centralità di tale presupposto non deve sorprendere considerando che i principi, le norme e le istituzioni democratiche si sono effettivamente evolute per governare relazioni tra agenti umani che vivevano in prossimità spaziale e temporale l’uno con l’altro e le cui decisioni e azioni politiche avevano impatti relativamente diretti l’uno sull’altro. Gli impatti climatici peggiori, conseguenza di azioni e decisioni prese democraticamente da cittadini con potere d’azione, si abbatteranno invece anche e soprattutto su una vastissima platea di persone impossibilitate ad agire, che include le categorie suddette: tutti coloro i quali siano distanti nello spazio e nel tempo e la natura, nella sua parte non umana. Questi ultimi non possono prendere parte all’attività di governo: non possono discutere, non possono votare, non possono legiferare, non possono protestare; ma subiscono l’impatto degli effetti delle emissioni prodotte da una serie di stati democraticamente governati, di cui non fanno parte e non sono rappresentati (se non in modo molto indiretto, ad esempio attraverso qualche organizzazione non-governativa). In un sistema in cui essere governati corrisponde con il prendere parte all’attività di governo, chi o cosa è escluso da tale attività non è governato, ma dominato.
Il presupposto che la cittadinanza democratica partecipi al processo
democratico spiega come sia stato possibile, non solo storicamente ma in alcune
realtà ancora oggi, che la democrazia sia stata compatibile con l’esclusione dall’attività
di governo, anche come semplici votanti, di schiavi, o persone senza possedimenti,
delle donne e di membri di altri gruppi etnici o religiosi, nonostante queste
impattassero prepotentemente le loro vite, interessi e benessere. Non avevano
potere d’azione nel pieno senso della parola ed erano pertanto democraticamente dominati. Col cambiamento climatico la situazione si ripropone
su scala molto più vasta: in questo modo la democrazia implica il dominio esercitato
da pochi presenti e locali su un vasto universo di persone che si estende oltre
i confini dello spazio, del tempo e dell’universalità genetica del genere
umano. Laddove i grandi imperi del passato
colonizzavano ampie aree del pianeta, l’impero democratico del presente,
cambiando il clima, ne colonizza il futuro.
In democrazia contano i cittadini, che sono quelli che vogliono che le
istituzioni democratiche servano i loro interessi, piuttosto di quelli che
vivono oltre i confini dello spazio, del tempo e della troppo spesso
considerata tale, purtroppo, diversità genetica. Come potranno la teoria e la
pratica democratica rapportarsi al cambiamento climatico?
Responsabilità
Ogni agente è parte della causa del cambiamento
climatico perché ogni agente vi contribuisce con le sue emissioni. Ma essere
parte della causa non significa esser causa di alcuna specifica parte dei suoi
effetti, o di nessuno dei suoi tanti effetti. Le emissioni prodotte da ognuno
di noi si aggregheranno a quelle di miliardi di altre persone, e si
disperderanno viaggiando nello spazio e nel tempo, nelle dinamiche e nei
feedback di vari sistemi fisici e chimici su varie scale e non causeranno mai
uno specifico evento meteorologico estremo, una specifica bolla di calore
urbana. Questo significa che non causeranno nessuno dei danni che pur occorreranno
a cose e persone a causa di specifiche inondazioni, uragani o temperature
insostenibili in città. In altre parole non ci sono conseguenze dannose delle
mie emissioni - né, ovviamente, di quelle di nessun altro. E questo ragionamento emerge in tutta la sua
drammaticità perché si applica tanto agli individui quanto alle aziende e agli
stati.
Un’altra ragione è la frammentazione
delle cause. Tutti concorrono al
vasto problema dell’innalzamento delle temperature per mezzo di un’azione
collettiva, a vari livelli: individui, governi, aziende e organizzazioni
internazionali. Perfino un cadavere, putrefacendosi sotto terra, emette biossido
di carbonio. Questa frammentazione è globale ed è ulteriormente complicata
dall’essere anche intergenerazionale: ogni generazione emette una certa
quantità di gas serra nell’atmosfera, contribuendo così a un problema di azione
collettiva intertemporale che è probabilmente ancora più ostico di quello
intra-generazionale, in quanto non ci sono schemi di incentivi che tengano fra
attori che non interagiscono fra loro (e se le generazioni non si sovrappongono
il problema è chiaramente più grave).
Un terzo motivo per cui è difficile ripartire responsabilità è dato dalla sistematicità e complessità delle forze che causano il cambiamento climatico. La
manipolazione del ciclo del carbonio è intrinseca all’economia globale attuale
così come guidare una macchina o consumare energia lo sono per ognuno. La Cina
estrae direttamente, o addirittura importa carbone dall’Australia, che viene
utilizzato per energizzare la produzione di automobili, computer e altri
prodotti che vengono poi esportati verso i ricchi mercati europei e
statunitensi. Ci si reca al lavoro con auto cinesi, si accende un computer
prodotto in Cina, magari per scrivere un post sul cambiamento climatico come
questo. Altri fanno la loro versione delle stesse cose con un unico risultato
atmosferico: l’emissione di tonnellate di gas serra. Chi è responsabile qui? Australia, Cina, Stati Uniti, Europa, le multinazionali coinvolte,
l’Organizzazione Mondiale del Commercio che presiede gli scambi globali di beni
e servizi, le reti finanziarie che sponsorizzano tali scambi attraverso i loro
investimenti, io, voi che leggete, tutti gli altri, o nessuno? La risposta non è per nulla ovvia e la questione non è
soltanto teorica. L’attuale
premier indiano Narendra Modi, in carica dal 2014, ha ripetutamente
dichiarato che, se le fabbriche in Cina e India sono così numerose e inquinanti,
è per rispondere alla domanda di prodotti di consumo dei paesi ricchi, ovvero dei
loro cittadini/consumatori. Non ha affatto torto, come non l’avrebbe nessun
attore implicato nell’aumento delle temperature globali: è sempre possibile scaricare
le responsabilità su altri attori, perché la questione è sistemica, e il
sistema è globalmente interconnesso a vari livelli di potere d’azione e
organizzazione sociale.
Inoltre, il sistema è dinamico. Al mutare e riconfigurarsi dell’economia globale
l’Australia potrebbe essere rimpiazzata quale fornitore d’energia, la Cina
quale luogo di manifattura e gli Stati Uniti e l’Europa (e i loro cittadini)
quali consumatori dei prodotti finiti. Climaticamente parlando, tuttavia, questo non fa alcuna differenza. Al di sotto della frammentazione e della complessità
causale del cambiamento climatico scorre infatti un unico torrente condiviso di
combustibili fossili. Fintanto che
l’economia globale sarà energizzata da combustibili fossili, le temperature
continueranno ad alzarsi a prescindere da quali attori occupino quali ruoli. E
nonostante ci siano esempi virtuosi
ancorché teorici, la strada per la decarbonizzazione è lunga e piena di
ostacoli.
Infine, sempre in ragione della dilatazione
spaziotemporale e della complessità dei meccanismi causali coinvolti, sia prima
che dopo che qualcuno muoia o qualcosa venga danneggiato sarà impossibile dire
chi o cosa sarà o è stato vittima diretta del cambiamento climatico. Prima,
perché non ne conosceremo l’identità in anticipo: guardando avanti vedremo solo
probabilità di danni distribuite su insiemi statistici di cose e persone. Dopo,
perché non saremo mai sicuri che il colpevole sia il cambiamento climatico e
non qualcos’altro, perché il cambiamento
climatico danneggia e uccide solo per mano di altri eventi, come inondazioni,
uragani, siccità, fame, malattie respiratorie, epidemie e conflitti armati, e uccide anche, molto più lentamente, a causa del
progressivo mutamento ambientale che sta causando l’ultima, in corso, estinzione di massa, ancor più
intangibile se non ai sensi degli esperti.
In sintesi, contribuendo al cambiamento
climatico nessuno in particolare danneggia niente e nessuno in particolare. L’applicazione del principio del danno, un criterio
tipico della teoria politica occidentale moderna come di molti sistemi legali
contemporanei quando si tratti di attribuire responsabilità, è disabilitata
dalla natura del problema e questo significa che assegnare responsabilità
morali come legali per il problema risulterà più difficile, anche se non
impossibile.
Spesso i nostri giudizi morali sono legati al principio del danno; eppure, molte persone, anche nelle nostre società sono moralmente disgustate da atti che apparentemente non causano alcun danno a nessuno, come rapporti sessuali consensuali fra individui dello stesso sesso o lacerare una bandiera. Fortunatamente ci sono anche considerazioni di reciprocità ed equità, lealtà al gruppo d’appartenenza, autorità e rispetto, purezza e addirittura santità.
Peccato che il cambiamento climatico non pare sollecitare queste altre considerazioni più di quanto solleciti quelle connesse al principio del danno e la cosa è aggravata dal fatto che queste emozioni morali dovrebbero richiamarci all’azione, cosa che spesso non accade, o si esercita una sorta di indignazione differenziale. Sembra paradossale ma nonostante tutte le società umane abbiano regole morali su cibo e sesso, nessuna ha regole riguardo la dinamica atmosferica. Ci indigniamo per un sacco di cose, per ogni violazione di protocollo eccetto quello di Kyoto. E anche qualora si critichi o si definisca il cambiamento climatico come cosa cattiva, non ci fa sentire nauseati o infuriati o disonorati, salvo rare eccezioni che vengono spesso perculate o denigrate ferocemente (un esempio per tutti, l’attivismo di Greta Thunberg o quello di Last Generation). Ecco perché non c’è impulso a condannare o combattere il cambiamento climatico.
Quando si tratta di cambiamento climatico la stragrande maggioranza delle
persone semplicemente non ha lo stesso trasporto viscerale che ha riguardo
questioni come l’aborto, i diritti civili o degli animali, le lotte sindacali e
il terrorismo. Il cambiamento climatico non solletica la nostra psicologia
morale, né lo fa il destino degli spaziotemporalmente distanti e delle entità e
sistemi naturali che ne subiscono e subiranno le conseguenze peggiori. Unito
alle difficoltà nell’applicare il principio del danno, questo fa sì che nessuno
si senta moralmente responsabile per il cambiamento climatico e che nessuno sia
ritenuto moralmente (e legalmente) responsabile per esso – il che a sua volta
incoraggia disinteresse generale e inazione.
Conclusioni generali
Qualsiasi cosa accada in futuro
dentro e tra gli stati, le aziende, le organizzazioni sovranazionali e quegli
individui che hanno tra le mani il futuro del pianeta, è ormai chiaro che
nell’Antropocene ci toccherà convivere con il cambiamento climatico e continuare
a dar senso alle nostre vite in un mondo sempre più diverso da quello in cui
l’umanità ha sinora recitato il suo spettacolo.
Il problema del cambiamento
climatico, almeno nel breve termine, appare sempre più irrisolvibile. L’umanità dovrà configurare necessariamente nuove
visioni del nostro posto nei meccanismi, pressoché insondabili del tutto, di
questo pianeta. Una parte dell’umanità, minoritaria in termini numerici, potrà
mitigarne gli effetti e adattarsi, a scapito di un numero incalcolabile di
vittime che subiranno danni più o meno gravi, i cui costi, volenti o nolenti,
ricadranno in parte sulla prima. Il cambiamento climatico agirà come catalizzatore
di una riconfigurazione massiccia, di una revisione e un abbandono dei nostri
sogni di supremazia. E in questa supremazia vanno comunque inclusi anche i tentativi,
piuttosto goffi ed inefficaci, di
riconfigurazione del clima da parte dell’umanità.
Ciò ovviamente non significa che il
fenomeno ecologico e le sue implicazioni sociali non vadano gestiti e
affrontati su base programmatica – tutt’altro: ma significa che quella
programmazione dovrà riflettere anche e soprattutto il nostro senso di cosa
veramente conti. Un problema ambientale,
apparentemente distante e intrattabile, diviene allora l’occasione per
guardarci dentro e chiederci, all’alba del terzo millennio, a cosa vogliamo
tendere come individui e come collettività.
Il cambiamento climatico e la vita nell’Antropocene più generalmente ci
forzeranno a riconsiderare noi stessi. Ora che abbiamo la capacità tecnica di
indirizzare l’evoluzione biologica e geologica del pianeta dobbiamo chiederci
verso cosa vogliamo indirizzarla. In gioco è la possibilità di negoziare il
mondo con grazia e dignità, generando e godendo di sistemi di significato e di
valori che ci rendano fieri e sicuri di come viviamo. Il cambiamento climatico,
come una storia d’amore finita male, ci regala l’opportunità di riconsiderare
chi siamo diventati e chi vogliamo essere d’ora in avanti.
E tutto ciò nonostante la storica sentenza della Corte Mondiale di cui s’è scritto nella prima parte.
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Riferimento bibliografico:
grazie alle lezioni del Prof. Marcello di Paola, Dipartimento di Scienze
Politiche. LUISS Roma.