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30 agosto 2025

La gestione fallimentare del cambiamento climatico - Terza parte (politiche nazionali)

[Serie di tre post. Prima e seconda parte]

Da tempo sto cercando di studiare ed analizzare il cambiamento climatico non più da un punto di vista scientifico – di prove sulle cause ce n’è a sufficienza – ma da quello più politico e sociale. In questa serie di tre articoli ho provato a mettere nero su bianco idee e considerazioni, e soprattutto riflessioni. La cui conclusione, in coda a quest’ultima parte, è laconicamente piuttosto rassegnata.

Nella prima e nella seconda parte sono state esaminati due aspetti legati al fatto indiscusso che, a livello internazionale e politico, la maggior parte dei paesi al mondo è lontana dalla cosiddetta decarbonizzazione: la cooperazione internazionale vacilla e non sembra si abbiano gli strumenti tecnologici per contrastare il fenomeno con successo a discapito delle attuali conoscenza e tecnologia che già offrono la maggioranza delle risposte al da farsi per iniziare un serio e condiviso processo di mitigazione.  Le difficoltà di gestione non sono solo il risultato di mancati accordi internazionali e scarsa volontà politica, ma rispondono anche a effettive difficoltà nel concettualizzare il problema climatico, applicare ad esso ciò che deriva da democrazia e responsabilità, contrastarlo.  Prima ancora di dimostrare volontà condivisa sembra ormai tracciata una duplice natura del fallimento, politica e internazionale da un lato, e domestica, quest’ultima declinata in dozzine di modi tante sono le diverse realtà locali e culturali.

In quest’ultima parte verranno infine esaminati argomenti validi più sul piano domestico e locale. Rivediamo ancora una volta le premesse, che potranno essere saltate da parte di chi abbia già letto i post precedenti, andando direttamente al capitolo “Il fallimento domestico: una premessa”, o a quello “Esercizi di veto”.

L’uso massiccio di combustibili fossili, necessario per sostenere la crescita dei processi industriali a partire da circa due secoli fa, ha riversato in atmosfera quantitativi di gas serra tali da modificare profondamente il clima della Terra; consumo del suolo e deforestazione hanno dato il colpo di grazia con quegli stessi processi industriali che, laddove presenti, hanno consentito e – anche se non ovunque – sostenuto la crescita demografica oggi registrata. Il risultato è un cambiamento climatico con un marcato riscaldamento senza precedenti, a coinvolgere i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta. Ne ho scritto su queste pagine numerose volte e da numerosi punti di vista. 

Il cambiamento climatico, così come definito dal punto 2 dell’Art. 1 della costituzione della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) è innanzi tutto un fenomeno ecologico; causato dall’innalzamento della temperatura media dell’atmosfera terrestre, o meglio, della sua parte a diretto contatto con la superficie, la troposfera. Tale aumento è già mediamente superiore ad un grado centigrado più alto di quanto non fosse a cavallo tra XVIII e XIX secolo, inizio dell’era industriale, e nel corso di quest’anno si sono sfiorati i 2 °C. Le premesse ecologiche del cambiamento climatico sono un’aumentata concentrazione di gas serra nell’atmosfera e una diminuita capacità da parte dei sistemi naturali di assorbirli. La causa dell’aumento è l’uso massiccio di combustibili fossili allo scopo di fornire l’energia necessaria ai processi industriali che, dal 1800 in poi, hanno permesso più alti livelli di consumi e di benessere alla crescente popolazione mondiale. Nell’arco di un paio di secoli, l’uso intenso di combustibili fossili quali fonti di energia ha alzato la qualità di vita di miliardi di persone, alterando però sistemi naturali che erano stati largamente stabili per migliaia di anni, un cambiamento talmente rapido da meritarsi, per qualcuno, una distinzione in termini di cronologia geologica: l’Antropocene. Le implicazioni ecologiche del cambiamento climatico potrebbero andare da modificazioni di ecosistemi relativamente blande e sparse a massicce catastrofi di portata planetaria, compresa un’estinzione di massa, la sesta, ampiamente documentata. Il cambiamento del clima è un problema senza precedenti, che coinvolge i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta e pone minacce multiple, probabilistiche, dirette ed indirette, spesso invisibili e senza limiti spaziali o temporali.

E, come se poi servisse, di recente un nuovo studio conferma che il 99 percento degli studi climatici, sottoposti al processo di peer review, confermano l’origine antropogenica del cambiamento climatico.

L’incertezza principale sugli scenari si lega all’incertezza dell’efficacia delle politiche di mitigazione. O agiamo tutti insieme, a livello globale, o gli sforzi individuali saranno trascurabili. Per quanto lodevole nessuna iniziativa locale o personale fa la differenza. È come trovarsi su una barca che sta imbarcando acqua: l’azione di un singolo che svuota l’acqua con un secchio non serve granché, ma se nessuno inizia affonderanno tutti. Solo uno sforzo collettivo può evitare i danni peggiori del riscaldamento globale.

Anticipando e riassumendo eventuali conclusioni la possibilità che si possa governare il cambiamento climatico, appare sempre più utopica. Una flebile speranza deriva dal riconoscere che moltissimo si è fatto quando si presentò il problema della riduzione dei danni allo strato dell’ozono, e parecchio, anche se non tutto, quando si dovette procedere con urgenza alla limitazione dei danni provocati dalle piogge acide.

Sono esempi virtuosi e importanti che, stabilito che esistono rischi notevoli per la popolazione umana, soprattutto quella già provata da difficoltà aventi altre origini, ci fanno ben sperare, unitamente al ruolo che potranno avere nuove tecnologie.

Tuttavia, di fronte allo stato di fatto delle iniziative globali e delle loro auspicate ricadute sui governi locali, soprattutto quelli dei paesi ricchi, al cospetto dei continui conflitti armati che anziché diminuire aumentano di anno in anno (ad oggi se ne contano 56!), permangono sentimenti di disillusione e sgomento, che certamente non aiutano e inducono, come ho avuto modo di scrivere recentemente, ad una sorta di catastrofismo climatico da un lato, e all’inazione dall’altro. Atteggiamenti entrambi pericolosi e da contrastare.

Il fallimento domestico: una premessa

Il cambiamento climatico è dunque un problema globale le cui conseguenze, dirette o indirette, possono ricadere su ciascun paese al mondo. E ciò riduce l’efficacia delle politiche nazionali, perché ogni paese, pur potendo limitare le emissioni dei propri abitanti con iniziative di vario tipo, anche legislative, programmi educativi e altro, può fare poco o nulla per limitare le emissioni delle popolazioni di altri paesi, ognuno dei quali è politicamente sovrano. Ma la soluzione del cambiamento climatico non può prescindere dalla cooperazione di tutti i paesi del mondo, in particolare di tutti i grandi e medi emettitori, il cui numero cresce al pari del loro sviluppo e, di contro, sono molti i paesi sovrani la cui politica interna è stata, ed è, disfunzionale rispetto al controllo e alla gestione del cambiamento climatico e dei suoi effetti sull’ambiente e sulla salute dei loro stessi territori. Gli Stati Uniti ad esempio, storicamente il maggior emettitore di gas serra con consumi pro capite anche più di dieci volte quelli di un paese in via di sviluppo, ha ostacolato la governance globale del clima per circa trent’anni, ed è tornata a farlo con la recente amministrazione Trump.

Esercizi di veto

Nei paesi democratici, dov’è presente un più alto grado di divisione politica, come logico attendersi e soprattutto a livello legislativo, un sistema dei veti crea pesi e contrappesi al potere legislativo ed esecutivo, allo scopo di prevenire cambiamenti radicali, destabilizzanti, proteggendo gli interessi delle minoranze e difendendo in definitiva, lo status quo: politiche e valori considerati fondamentali anche durante periodi di impopolarità. In breve, il sistema dei veti impedisce a un sistema democratico di divenire troppo fluido e flessibile.

Le democrazie più importanti del mondo, divise al loro interno da forze politiche contrapposte, trovano quindi grandi difficoltà nel produrre legislazione domestica che si discosti significativamente dallo stato di fatto. Quando si parla di cambiamento climatico ciò è ancora più evidente, affiancato da una evidente incapacità nell’affrontare efficacemente anche molte altre pressanti questioni sistemiche e globali, come le migrazioni, la gestione delle diseguaglianze, il terrorismo, il debito pubblico e l’instabilità finanziaria. Tutte caratteristiche di questo periodo storico recente, ottimamente definito col termine Antropocene,

Gli attori di ciò che appare come una disfunzione sono appunto quelli capaci di prevenire deviazioni attraverso l’esercizio di veti in fase di legislazione.  Tali attori possono essere specificati dalle costituzioni (ad esempio il presidente, il congresso e le varie corti negli Stati Uniti, ma anche il nostro presidente della repubblica o la corte costituzionale), possono emergere dal sistema politico (come i partiti membri di una coalizione di governo in molti paesi europei) o dalla società civile (settori industriali potenti, o sindacati o altri gruppi d’interesse).

La presenza di molti attori su più livelli, con forti differenze ideologiche e coesione interna, rende difficili i grandi cambiamenti e limita la produzione di leggi innovative.

Questo è desiderabile quando lo sia anche lo status quo, ma nel momento in cui queste condizioni non si presentano ciò che si richiede è invece proprio fluidità e flessibilità legislativa. È questo il caso del cambiamento climatico così come delle altre questioni menzionate sopra: si richiedono risposte politiche veloci, decise e innovative su cui gli attori in questione dovrebbero rinunciare ad esercitare i loro veti. Su queste pagine ho fatto presente, ad esempio, che l’Italia è, ad esempio, un paese perfettamente adattato…a un clima che non c’è più.

I veti frenano o rallentano quindi l’innovazione legislativa in ogni sistema politico, e laddove esistano numerosi attori che possano esercitarli la democrazia vede aumentato il rischio di vulnerabilità, inteso come rischio di conservatorismo eccessivo o evidente protezionismo. Si spiega ad esempio come un paese potente, ricco e tecnologicamente avanzato come gli Stati Uniti, possa essere sorprendentemente lento e inefficace nel gestire problematiche fondamentali di politica distributiva, equità razziale, immigrazione, bilanciamento fra libertà e sicurezza e, ovviamente il cambiamento climatico (o per lo meno la politica energetica). La costituzione degli Stati Uniti separa e distribuisce poteri all’interno del governo federale, delega diritti e funzioni agli stati e include una carta dei diritti che in alcuni campi fornisce esercizio di veto ai cittadini stessi. In aggiunta, nei decenni si sono stratificate pratiche che inibiscono ulteriormente l’azione come la necessità di maggioranze molto larghe per certe tipologie di deliberazioni. Intorno a tutto ciò fiorisce una intensissima attività di lobby da parte di numerosi attori dell’economia e della società, che esercitano i loro veti indirettamente attraverso i propri referenti politici.  E in alcuni casi, si è visto come le aberrazioni del sistema di veto, abbiano portato alla nascita, su mandato presidenziale o di determinati gruppi di potere, di una vera e propria politica di negazione (come accaduto di recente nel caso del rapporto del Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti).

Gli Stati Uniti sono un esempio estremo ma non sono l’unico. Nella maggior parte delle democrazie europee i veti sono esercitati dai partiti membri della coalizione di governo o dell’opposizione e in alcuni casi, come in Italia, Spagna e Grecia, i partiti hanno legami storici, diretti e forti con industria, sindacati o altri gruppi d’interesse. In questi paesi è difficile raggiungere consenso politico anche su questioni molto meno complesse del cambiamento climatico: sembra in effetti che per ogni possibile svolta legislativa ci sia sempre una corrispondente opzione immobilista, congeniale ad almeno un qualche attore cruciale, spesso paradossalmente all’interno di una coalizione di governo, o frammentata in correnti dello stesso partito, nel nome del pluralismo. 

A volte l’immobilismo risponde a ragionevoli calcoli sui costi di transizione da status quo a nuove politiche e/o riflette l’incertezza riguardo sia i dettagli del processo di transizione che i suoi risultati ultimi. Gli attori che esercitano veti danno voce a queste considerazioni. In alcune circostanze, gli attori possono sostenere tendenze immobiliste irrazionali presenti nelle istituzioni e nella società e sfruttate da gruppi di interesse (si pensi alla miriade di polemiche durante la recente pandemia). Queste includono la razionalizzazione per evitare dissonanze cognitive, il ricorso a stereotipi tipo «ha funzionato finora», la focalizzazione sui costi già sostenuti, la paura del rimpianto per i cambiamenti e il desiderio di mantenere il controllo non riconoscendo il cambiamento. Tali atteggiamenti difendono lo status quo e sono evidenti nei principali paesi democratici, spesso tra i maggiori emettitori di gas serra.

Considerando i meccanismi di veto, l'inefficacia di molte democrazie appare preoccupante. I veti dovrebbero bilanciare la legislazione, ma spesso bloccano il cambiamento per proteggere interessi consolidati, distorcendo il sistema e favorendo disuguaglianze d'accesso e influenza, mentre la qualità normativa risulta compromessa da procedure complesse e pressioni corporative.

Infine, il tutto può infine essere aggravato dai movimenti popolari più o meno organizzati: nostalgici di un passato mitologico quando i politici venivano dalla gente, con le opinioni dei cittadini integrate alle dinamiche di governo e, per finire, movimenti che contestano non solo le proprie istituzioni nazionali ma anche quelle sovranazionali, come l’Unione Europea o gli attori globali della finanza internazionale. Qualunque sia il loro futuro politico, queste reazioni popolari a veti locali e globali divenuti troppo ingombranti ricordano ai governanti che una democrazia è operata da e per i governati e che il potere esercitato dai governanti, per potersi dire legittimo, deve portare benefici ai governati.

La comunità politica

Come abbiamo visto nella prima parte molti paesi democratici sono grandi emettitori di gas serra. In questi paesi i benefici connessi alle emissioni domestiche ricadono soprattutto sui loro abitanti, mentre gli effetti negativi di tali emissioni ricadono, e ricadranno, innanzi tutto e perlopiù su chi da quelle democrazie non è governato: chi vive oltre i loro confini, le generazioni future (senza distinzione di nazionalità), nonché l’ambiente in senso lato. Se le democrazie volessero curarsi di umanità o ambiente (comunque non scindibili) distanti nello spazio e nel tempo, esse dovrebbero estendere la loro responsabilità politica molto oltre i confini tracciati dalle preferenze elettorali dei propri governati. Nella maggioranza dei casi ciò provocherebbe sicuramente dissenso e impopolarità, in quanto, per occuparsi delle generazioni future, di coloro che vivono oltre confine e della natura, i governi democratici dovrebbero in molti casi rinunciare ad apportare benefici ai propri governati, ovvero a chi li mette al potere con il proprio voto, per apportarli invece a chi non ha mai votato perché vive in un altro paese, non è umano o ancora non esiste. O peggio, dovranno essere chiesti ai propri governati dei sacrifici: quanti di noi sono davvero disposti a pagare il green premium? Il sovrapprezzo che occorrerà, volenti o nolenti, pagare per ottenere energia che non rilasci gas climalteranti?

E già a questo punto sorge il problema affrontato nella seconda parte. Come assegnare un valore al futuro. E non solo.

Indipendentemente dalla natura umana che raramente ha sacrificato qualcosa oggi in funzione di benefici futuri molto poco tangibili, e talora in dubbio, questa è una difficoltà molto profonda a livello non solo pratico ma anche di principio. Democrazia è l’idea che i governi debbano agire nell’interesse dei governati piuttosto che in quello dei governanti e per raggiungere tale obiettivo, la strategia democratica è quella di far governare i governati stessi, direttamente o attraverso i loro rappresentanti. La teoria e le pratica democratica si basano sul presupposto che i governati e i governanti siano agenti – in grado cioè di agire - abili e competenti nell’iniziare e condurre azione politica, comunemente detti cittadini. Sono i cittadini e i loro interessi e benessere che contano politicamente in una democrazia: la cittadinanza democratica presuppone capacità di partecipare al processo democratico, la quale a sua volta presuppone che la politica agisca in nome e per conto della cittadinanza stessa. Giulio Andreotti esortava i giovani ad occuparsi di politica perché, diceva, «comunque la politica si occuperà di voi».

La centralità di tale presupposto non deve sorprendere considerando che i principi, le norme e le istituzioni democratiche si sono effettivamente evolute per governare relazioni tra agenti umani che vivevano in prossimità spaziale e temporale l’uno con l’altro e le cui decisioni e azioni politiche avevano impatti relativamente diretti l’uno sull’altro. Gli impatti climatici peggiori, conseguenza di azioni e decisioni prese democraticamente da cittadini con potere d’azione, si abbatteranno invece anche e soprattutto su una vastissima platea di persone impossibilitate ad agire, che include le categorie suddette: tutti coloro i quali siano distanti nello spazio e nel tempo e la natura, nella sua parte non umana. Questi ultimi non possono prendere parte all’attività di governo: non possono discutere, non possono votare, non possono legiferare, non possono protestare; ma subiscono l’impatto degli effetti delle emissioni prodotte da una serie di stati democraticamente governati, di cui non fanno parte e non sono rappresentati (se non in modo molto indiretto, ad esempio attraverso qualche organizzazione non-governativa). In un sistema in cui essere governati corrisponde con il prendere parte all’attività di governo, chi o cosa è escluso da tale attività non è governato, ma dominato

Il presupposto che la cittadinanza democratica partecipi al processo democratico spiega come sia stato possibile, non solo storicamente ma in alcune realtà ancora oggi, che la democrazia sia stata compatibile con l’esclusione dall’attività di governo, anche come semplici votanti, di schiavi, o persone senza possedimenti, delle donne e di membri di altri gruppi etnici o religiosi, nonostante queste impattassero prepotentemente le loro vite, interessi e benessere. Non avevano potere d’azione nel pieno senso della parola ed erano pertanto democraticamente dominati. Col cambiamento climatico la situazione si ripropone su scala molto più vasta: in questo modo la democrazia implica il dominio esercitato da pochi presenti e locali su un vasto universo di persone che si estende oltre i confini dello spazio, del tempo e dell’universalità genetica del genere umano. Laddove i grandi imperi del passato colonizzavano ampie aree del pianeta, l’impero democratico del presente, cambiando il clima, ne colonizza il futuro

In democrazia contano i cittadini, che sono quelli che vogliono che le istituzioni democratiche servano i loro interessi, piuttosto di quelli che vivono oltre i confini dello spazio, del tempo e della troppo spesso considerata tale, purtroppo, diversità genetica. Come potranno la teoria e la pratica democratica rapportarsi al cambiamento climatico?

Responsabilità

La difficoltà principale posta dalla gestione del cambiamento climatico è l’attribuzione di responsabilità. Questo vale per gli stati come per le aziende e gli individui. Il cambiamento climatico causerà danni a cose e persone, eppure nessun agente è singolarmente responsabile per questo. Una ragione per cui è difficile attribuire responsabilità per il cambiamento climatico è la complessità dei meccanismi causali coinvolti. Il cambiamento climatico danneggerà cose e ucciderà persone ma aumentare la concentrazione atmosferica di gas serra non causa automaticamente la morte di nessuno. Vasti sistemi ecologici e sociali (fisici, chimici, biologici, politici, economici) mediano fra l’aumento di concentrazione di gas serra e le morti, rendendo le ricostruzioni e le attribuzioni causali estremamente difficili se non praticamente impossibili. Ciò è vero delle morti come di altri danni – a proprietà, specie, ecosistemi e via dicendo.

Ogni agente è parte della causa del cambiamento climatico perché ogni agente vi contribuisce con le sue emissioni. Ma essere parte della causa non significa esser causa di alcuna specifica parte dei suoi effetti, o di nessuno dei suoi tanti effetti. Le emissioni prodotte da ognuno di noi si aggregheranno a quelle di miliardi di altre persone, e si disperderanno viaggiando nello spazio e nel tempo, nelle dinamiche e nei feedback di vari sistemi fisici e chimici su varie scale e non causeranno mai uno specifico evento meteorologico estremo, una specifica bolla di calore urbana. Questo significa che non causeranno nessuno dei danni che pur occorreranno a cose e persone a causa di specifiche inondazioni, uragani o temperature insostenibili in città. In altre parole non ci sono conseguenze dannose delle mie emissioni - né, ovviamente, di quelle di nessun altro. E questo ragionamento emerge in tutta la sua drammaticità perché si applica tanto agli individui quanto alle aziende e agli stati.

Un’altra ragione è la frammentazione delle cause. Tutti concorrono al vasto problema dell’innalzamento delle temperature per mezzo di un’azione collettiva, a vari livelli: individui, governi, aziende e organizzazioni internazionali. Perfino un cadavere, putrefacendosi sotto terra, emette biossido di carbonio. Questa frammentazione è globale ed è ulteriormente complicata dall’essere anche intergenerazionale: ogni generazione emette una certa quantità di gas serra nell’atmosfera, contribuendo così a un problema di azione collettiva intertemporale che è probabilmente ancora più ostico di quello intra-generazionale, in quanto non ci sono schemi di incentivi che tengano fra attori che non interagiscono fra loro (e se le generazioni non si sovrappongono il problema è chiaramente più grave).

Un terzo motivo per cui è difficile ripartire responsabilità è dato dalla sistematicità e complessità delle forze che causano il cambiamento climatico. La manipolazione del ciclo del carbonio è intrinseca all’economia globale attuale così come guidare una macchina o consumare energia lo sono per ognuno. La Cina estrae direttamente, o addirittura importa carbone dall’Australia, che viene utilizzato per energizzare la produzione di automobili, computer e altri prodotti che vengono poi esportati verso i ricchi mercati europei e statunitensi. Ci si reca al lavoro con auto cinesi, si accende un computer prodotto in Cina, magari per scrivere un post sul cambiamento climatico come questo. Altri fanno la loro versione delle stesse cose con un unico risultato atmosferico: l’emissione di tonnellate di gas serra. Chi è responsabile qui? Australia, Cina, Stati Uniti, Europa, le multinazionali coinvolte, l’Organizzazione Mondiale del Commercio che presiede gli scambi globali di beni e servizi, le reti finanziarie che sponsorizzano tali scambi attraverso i loro investimenti, io, voi che leggete, tutti gli altri, o nessuno? La risposta non è per nulla ovvia e la questione non è soltanto teorica. L’attuale premier indiano Narendra Modi, in carica dal 2014, ha ripetutamente dichiarato che, se le fabbriche in Cina e India sono così numerose e inquinanti, è per rispondere alla domanda di prodotti di consumo dei paesi ricchi, ovvero dei loro cittadini/consumatori. Non ha affatto torto, come non l’avrebbe nessun attore implicato nell’aumento delle temperature globali: è sempre possibile scaricare le responsabilità su altri attori, perché la questione è sistemica, e il sistema è globalmente interconnesso a vari livelli di potere d’azione e organizzazione sociale. 

Inoltre, il sistema è dinamico. Al mutare e riconfigurarsi dell’economia globale l’Australia potrebbe essere rimpiazzata quale fornitore d’energia, la Cina quale luogo di manifattura e gli Stati Uniti e l’Europa (e i loro cittadini) quali consumatori dei prodotti finiti. Climaticamente parlando, tuttavia, questo non fa alcuna differenza. Al di sotto della frammentazione e della complessità causale del cambiamento climatico scorre infatti un unico torrente condiviso di combustibili fossili. Fintanto che l’economia globale sarà energizzata da combustibili fossili, le temperature continueranno ad alzarsi a prescindere da quali attori occupino quali ruoli. E nonostante ci siano esempi virtuosi ancorché teorici, la strada per la decarbonizzazione è lunga e piena di ostacoli.

Infine, sempre in ragione della dilatazione spaziotemporale e della complessità dei meccanismi causali coinvolti, sia prima che dopo che qualcuno muoia o qualcosa venga danneggiato sarà impossibile dire chi o cosa sarà o è stato vittima diretta del cambiamento climatico. Prima, perché non ne conosceremo l’identità in anticipo: guardando avanti vedremo solo probabilità di danni distribuite su insiemi statistici di cose e persone. Dopo, perché non saremo mai sicuri che il colpevole sia il cambiamento climatico e non qualcos’altro, perché il cambiamento climatico danneggia e uccide solo per mano di altri eventi, come inondazioni, uragani, siccità, fame, malattie respiratorie, epidemie e conflitti armati, e uccide anche, molto più lentamente, a causa del progressivo mutamento ambientale che sta causando l’ultima, in corso, estinzione di massa, ancor più intangibile se non ai sensi degli esperti.

In sintesi, contribuendo al cambiamento climatico nessuno in particolare danneggia niente e nessuno in particolare. L’applicazione del principio del danno, un criterio tipico della teoria politica occidentale moderna come di molti sistemi legali contemporanei quando si tratti di attribuire responsabilità, è disabilitata dalla natura del problema e questo significa che assegnare responsabilità morali come legali per il problema risulterà più difficile, anche se non impossibile.

Spesso i nostri giudizi morali sono legati al principio del danno; eppure, molte persone, anche nelle nostre società sono moralmente disgustate da atti che apparentemente non causano alcun danno a nessuno, come rapporti sessuali consensuali fra individui dello stesso sesso o lacerare una bandiera. Fortunatamente ci sono anche considerazioni di reciprocità ed equità, lealtà al gruppo d’appartenenza, autorità e rispetto, purezza e addirittura santità.

Peccato che il cambiamento climatico non pare sollecitare queste altre considerazioni più di quanto solleciti quelle connesse al principio del danno e la cosa è aggravata dal fatto che queste emozioni morali dovrebbero richiamarci all’azione, cosa che spesso non accade, o si esercita una sorta di indignazione differenziale. Sembra paradossale ma nonostante tutte le società umane abbiano regole morali su cibo e sesso, nessuna ha regole riguardo la dinamica atmosferica. Ci indigniamo per un sacco di cose, per ogni violazione di protocollo eccetto quello di Kyoto. E anche qualora si critichi o si definisca il cambiamento climatico come cosa cattiva, non ci fa sentire nauseati o infuriati o disonorati, salvo rare eccezioni che vengono spesso perculate o denigrate ferocemente (un esempio per tutti, l’attivismo di Greta Thunberg o quello di Last Generation). Ecco perché non c’è impulso a condannare o combattere il cambiamento climatico. 

Quando si tratta di cambiamento climatico la stragrande maggioranza delle persone semplicemente non ha lo stesso trasporto viscerale che ha riguardo questioni come l’aborto, i diritti civili o degli animali, le lotte sindacali e il terrorismo. Il cambiamento climatico non solletica la nostra psicologia morale, né lo fa il destino degli spaziotemporalmente distanti e delle entità e sistemi naturali che ne subiscono e subiranno le conseguenze peggiori. Unito alle difficoltà nell’applicare il principio del danno, questo fa sì che nessuno si senta moralmente responsabile per il cambiamento climatico e che nessuno sia ritenuto moralmente (e legalmente) responsabile per esso – il che a sua volta incoraggia disinteresse generale e inazione.

Conclusioni generali

In questa serie di tre post si è cercato di illustrare come le difficoltà riscontrate nella gestione del cambiamento climatico siano la diretta conseguenza di inazione a livello globale, di mancati accordi e scarsa volontà politica da un lato, ma anche a effettive difficoltà nel far proprio il problema, concettualizzarlo, applicare a esso nozioni normative fondanti della teoria politica moderna quali democrazia e responsabilità e soprattutto la difficoltà nel contrastarlo a cause di alcune configurazioni strutturali dei nostri sistemi politici attuali.

Qualsiasi cosa accada in futuro dentro e tra gli stati, le aziende, le organizzazioni sovranazionali e quegli individui che hanno tra le mani il futuro del pianeta, è ormai chiaro che nell’Antropocene ci toccherà convivere con il cambiamento climatico e continuare a dar senso alle nostre vite in un mondo sempre più diverso da quello in cui l’umanità ha sinora recitato il suo spettacolo.

Il problema del cambiamento climatico, almeno nel breve termine, appare sempre più irrisolvibile. L’umanità dovrà configurare necessariamente nuove visioni del nostro posto nei meccanismi, pressoché insondabili del tutto, di questo pianeta. Una parte dell’umanità, minoritaria in termini numerici, potrà mitigarne gli effetti e adattarsi, a scapito di un numero incalcolabile di vittime che subiranno danni più o meno gravi, i cui costi, volenti o nolenti, ricadranno in parte sulla prima. Il cambiamento climatico agirà come catalizzatore di una riconfigurazione massiccia, di una revisione e un abbandono dei nostri sogni di supremazia. E in questa supremazia vanno comunque inclusi anche i tentativi, piuttosto goffi ed inefficaci,  di riconfigurazione del clima da parte dell’umanità.

Ciò ovviamente non significa che il fenomeno ecologico e le sue implicazioni sociali non vadano gestiti e affrontati su base programmatica – tutt’altro: ma significa che quella programmazione dovrà riflettere anche e soprattutto il nostro senso di cosa veramente conti. Un problema ambientale, apparentemente distante e intrattabile, diviene allora l’occasione per guardarci dentro e chiederci, all’alba del terzo millennio, a cosa vogliamo tendere come individui e come collettività.

Il cambiamento climatico e la vita nell’Antropocene più generalmente ci forzeranno a riconsiderare noi stessi. Ora che abbiamo la capacità tecnica di indirizzare l’evoluzione biologica e geologica del pianeta dobbiamo chiederci verso cosa vogliamo indirizzarla. In gioco è la possibilità di negoziare il mondo con grazia e dignità, generando e godendo di sistemi di significato e di valori che ci rendano fieri e sicuri di come viviamo. Il cambiamento climatico, come una storia d’amore finita male, ci regala l’opportunità di riconsiderare chi siamo diventati e chi vogliamo essere d’ora in avanti.

E tutto ciò nonostante la storica sentenza della Corte Mondiale di cui s’è scritto nella prima parte.

_________________________
Riferimento bibliografico:
grazie alle lezioni del Prof. Marcello di Paola, Dipartimento di Scienze Politiche. LUISS Roma.



  

29 agosto 2025

La gestione fallimentare del cambiamento climatico - Seconda parte (valore del futuro)

[Serie di tre post. Prima e terza parte]

Nella
prima parte sono state esaminate alcune delle ragioni, a livello internazionale e politico, che vedono la maggior parte dei paesi al mondo lontana dalla cosiddetta decarbonizzazione: la cooperazione internazionale vacilla e non sembra si abbiano gli strumenti tecnologici per contrastare il fenomeno con successo a discapito delle attuali conoscenza e tecnologia che già offrono la maggioranza delle risposte al da farsi per iniziare un serio e condiviso processo di mitigazione.  Le difficoltà di gestione non sono solo il risultato di mancati accordi internazionali e scarsa volontà politica, ma rispondono anche a effettive difficoltà nel concettualizzare il problema climatico, applicare ad esso ciò che deriva da democrazia e responsabilità, contrastarlo.  Prima ancora di dimostrare volontà condivisa sembra ormai tracciata una duplice natura del fallimento, politica e internazionale da un lato, domestica e locale dall’altro, quest’ultima declinata in dozzine di modi tante sono le diverse realtà geografiche, politiche e culturali.

In questa seconda parte verrà affrontato un argomento spesso poco trattato, costantemente presente sul piano domestico e locale; ma prima, rivediamo le premesse che sono alla base delle considerazioni fatte in questo e nel precedente post. Chi avesse già letto la prima parte potrà iniziare direttamente dal capitolo iniziale "Il fallimento domestico: una premessa".

L’uso massiccio di combustibili fossili, necessario per sostenere la crescita dei processi industriali a partire da circa due secoli fa, ha riversato in atmosfera quantitativi di gas serra tali da modificare profondamente il clima della Terra; consumo del suolo e deforestazione hanno dato il colpo di grazia con quegli stessi processi industriali che, laddove presenti, hanno consentito e – anche se non ovunque – sostenuto la crescita demografica oggi registrata. Il risultato è un cambiamento climatico con un marcato riscaldamento senza precedenti, a coinvolgere i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta. Ne ho scritto su queste pagine numerose volte e da numerosi punti di vista. 

Il cambiamento climatico, così come definito dal punto 2 dell’Art. 1 della costituzione della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) è innanzi tutto un fenomeno ecologico; causato dall’innalzamento della temperatura media dell’atmosfera terrestre, o meglio, della sua parte a diretto contatto con la superficie, la troposfera. Tale aumento è già mediamente superiore ad un grado centigrado più alto di quanto non fosse a cavallo tra XVIII e XIX secolo, inizio dell’era industriale, e nel corso di quest’anno si sono sfiorati i 2 °C. Le premesse ecologiche del cambiamento climatico sono un’aumentata concentrazione di gas serra nell’atmosfera e una diminuita capacità da parte dei sistemi naturali di assorbirli. La causa dell’aumento è l’uso massiccio di combustibili fossili allo scopo di fornire l’energia necessaria ai processi industriali che, dal 1800 in poi, hanno permesso più alti livelli di consumi e di benessere alla crescente popolazione mondiale. Nell’arco di un paio di secoli, l’uso intenso di combustibili fossili quali fonti di energia ha alzato la qualità di vita di miliardi di persone, alterando però sistemi naturali che erano stati largamente stabili per migliaia di anni, un cambiamento talmente rapido da meritarsi, per qualcuno, una distinzione in termini di cronologia geologica: l’Antropocene. Le implicazioni ecologiche del cambiamento climatico potrebbero andare da modificazioni di ecosistemi relativamente blande e sparse a massicce catastrofi di portata planetaria, compresa un’estinzione di massa, la sesta, ampiamente documentata. Il cambiamento del clima è un problema senza precedenti, che coinvolge i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta e pone minacce multiple, probabilistiche, dirette ed indirette, spesso invisibili e senza limiti spaziali o temporali.

E, come se servisse poi, di recente un nuovo studio conferma che il 99 percento degli studi climatici, sottoposti al processo di peer review, confermano l’origine antropogenica del cambiamento climatico.

L’incertezza principale sugli scenari si lega all’incertezza dell’efficacia delle politiche di mitigazione. O agiamo tutti insieme, a livello globale, o gli sforzi individuali saranno trascurabili. Per quanto lodevole nessuna iniziativa locale o personale fa la differenza. È come trovarsi su una barca che sta imbarcando acqua: l’azione di un singolo che svuota l’acqua con un secchio non serve granché, ma se nessuno inizia affonderanno tutti. Solo uno sforzo collettivo può evitare i danni peggiori del riscaldamento globale.

Anticipando e riassumendo eventuali conclusioni la possibilità che si possa governare il cambiamento climatico, appare sempre più utopica. Una flebile speranza deriva dal riconoscere che moltissimo si è fatto quando si presentò il problema della riduzione dei danni allo strato dell’ozono, e parecchio, anche se non tutto, quando si dovette procedere con urgenza alla limitazione dei danni provocati dalle piogge acide. Sono esempi virtuosi e importanti che, stabilito che esistono rischi notevoli per la popolazione umana, soprattutto quella già provata da difficoltà aventi altre origini, ci fanno ben sperare, unitamente al ruolo che potranno avere nuove tecnologie.

Tuttavia, di fronte allo stato di fatto delle iniziative globali e delle loro auspicate ricadute sui governi locali, soprattutto quelli dei paesi ricchi, al cospetto dei continui conflitti armati che anziché diminuire aumentano di anno in anno (ad oggi se ne contano 56!), permangono sentimenti di disillusione e sgomento, che certamente non aiutano e inducono, come ho avuto modo di scrivere recentemente, ad una sorta di catastrofismo climatico da un lato, e all’inazione dall’altro. Atteggiamenti entrambi pericolosi e da contrastare.

Il fallimento domestico: una premessa
Il cambiamento climatico è dunque un problema globale le cui conseguenze, dirette o indirette, possono ricadere su ciascun paese al mondo. E ciò riduce l’efficacia delle politiche nazionali, perché ogni paese, pur potendo limitare le emissioni dei propri abitanti con iniziative di vario tipo, anche legislative, programmi educativi e altro, può fare poco o nulla per limitare le emissioni delle popolazioni di altri paesi, ognuno dei quali è politicamente sovrano. Ma la soluzione del cambiamento climatico non può prescindere dalla cooperazione di tutti i paesi del mondo, in particolare di tutti i grandi e medi emettitori, il cui numero cresce al pari del loro sviluppo e, di contro, sono molti i paesi sovrani la cui politica interna è stata, ed è, disfunzionale rispetto al controllo e alla gestione del cambiamento climatico e dei suoi effetti sull’ambiente e sulla salute dei loro stessi territori. Gli Stati Uniti ad esempio, storicamente il maggior emettitore di gas serra con consumi pro capite anche più di dieci volte quelli di un paese in via di sviluppo, ha ostacolato la governance globale del clima per circa trent’anni, ed è tornata a farlo con la recente amministrazione Trump.
 
L’aspetto economico: quanto vale il futuro?
L’economia del clima e del suo cambiamento rimanda dunque i politici alla filosofia: quanto vale il benessere delle persone future in confronto al nostro? E come stabilire un tasso di sconto che sia eticamente ma anche economicamente (e psicologicamente e politicamente) giustificabile per il presente?

 
Gli economisti (e la gente comune) sanno che il mercato non sempre funziona.  In effetti, secondo molti economisti i problemi quali quello dell’inquinamento, o del cambiamento climatico, sono un chiaro esempio di fallimento del mercato: i danni collaterali di questi fenomeni costituiscono un costo nascosto che non viene riflesso nel prezzo di un dato bene o servizio.
Tutti accettiamo di pagare un costo ragionevole per i beni e i servizi dei quali riteniamo di poter beneficiare quando acquistiamo un oggetto, ma i costi esterni esulano dai benefici. Spesso, poi, questi costi vengono imposti a persone che non hanno potuto scegliere i beni e i servizi, e neppure beneficiano del loro uso.
A livello economico poi, è quasi sempre mancato capire come dare un valore monetario alla natura, e quale sarebbe stata la perdita se non lo si fosse fatto. In qualche modo, di rinvio in rinvio si affermò, tra i negazionisti o gli scettici, un modo di procedere quanto meno curioso: «se non si fa nulla, non ci sarà nulla da pagare». Attribuendo quindi alla natura un valore pari a zero.

I costi vengono sostenuti principalmente nel presente, mentre i benefici si manifestano solo in futuro; per questo motivo, è opportuno attualizzare i benefici al fine di renderli confrontabili con i costi. Questo principio riflette il fatto che una somma di denaro disponibile in futuro ha un valore diverso rispetto a una somma equivalente disponibile oggi, ed è quindi necessario scontarla nelle decisioni che riguardano il futuro.
L'entità dello sconto è determinata sia dall'inflazione che dal valore attribuito alle prospettive future. La tematica del tasso di sconto ha assunto una rilevanza centrale nell'ambito delle valutazioni dei costi e benefici delle misure contro il riscaldamento globale, poiché applicando tassi di sconto elevati è stato possibile attenuare i rischi associati al lungo termine.
 
Per evitare il malcontento dei cittadini di fronte a decisioni impopolari, i politici spesso chiedono agli economisti di convalidare tali scelte come necessarie o utili. Tuttavia, sul tema climatico, gli economisti non offrono certezze e rimandano il dibattito ai filosofi.
 
Il tasso di sconto
All’inizio degli anni duemila Nicholas Stern, un noto economista inglese, contrappose le proprie idee a William Nordhaus, un altrettanto noto economista, americano. Stern, già capo economista della Banca Mondiale, sostenne, in un suo libro, che i costi delle politiche di contrasto al cambiamento climatico sarebbero stati di poco più che l’1% del PIL mondiale annuo, mentre i costi dell’inazione sarebbero stati pari al 5% del PIL mondiale annuo, con possibilità di arrivare fino al 20% in alcuni scenari. Nel 2007 il PIL mondiale era di circa 55 migliaia di miliardi di dollari (oggi è circa 110 migliaia di miliardi, o trilioni): dunque con una spesa di 550 miliardi di dollari l’anno si sarebbero potute evitare perdite future di somme fra i 2,5 e gli 11 trilioni annui. La proposta di Stern era di finanziare tale spesa attraverso una tassa di applicazione immediata, pari a 311 dollari per ogni tonnellata di biossido di carbonio (CO2) emesso. Nel 2007 le emissioni di questo gas serra ammontavano a circa 30 Gton/anno, oggi siamo ad oltre 40.

 
Nordhaus, professore di economia a Yale e storico consigliere d’alto profilo per diverse amministrazioni americane, era in netto disaccordo sia con le conclusioni che con assunti e metodologia, e criticò Stern in modo elaborato e puntuale.

Il punto di disaccordo principale tra Stern e Nordhaus era la scelta del tasso di sconto sul futuro, quel che abbiamo accennato prima.
 
Il tasso di sconto determina il valore attuale di benefici futuri: più è alto, meno valgono oggi. La sua importanza cresce guardando a lungo termine, perché l'effetto si accumula; ad esempio, 10 dollari tra un anno valgono 9 oggi, tra due anni valgono 8,1.  
Nel caso del cambiamento climatico, come sappiamo, i tempi sono estremamente lunghi: le nostre emissioni resteranno nell’atmosfera per periodi di tempo che definire secolari è poco, causando cambiamenti planetari per un tempo dello stesso ordine di grandezza, forse millenni. La maggior parte dei modelli climatici indica che il 90% degli effetti peggiori del cambiamento climatico avrà luogo dopo il 2200 ed alcuni sono già scolpiti nella pietra, anche qualora si smettesse di emettere gas serra. Con un tasso di sconto sul futuro abbastanza alto, i tempi previsti porteranno qualsiasi economista a sconsigliare politiche di contrasto anche moderatamente onerose.
Stern propose un tasso di sconto relativamente basso, dell’1,4%, secondo cui 1000 dollari fra 100 anni valgono circa 250 dollari oggi. Nordhaus propose un tasso di sconto del 5%, in linea con la pratica della maggior parte degli economisti, secondo cui 1000 dollari fra cento anni valgono circa 4 dollari oggi. Chiaramente, molti dei sacrifici giustificati da Stern risultavano essere economicamente insensati per Nordhaus, il quale consigliava infatti una tassa sulle emissioni molto più blanda e a salire nel tempo: da $27 a tonnellata a partire dal 2005 a $90 nel 2050, fino a $200 dal 2100 in poi. Questo avrebbe ridotto le emissioni del 25% nel 2050 e del 45% nel 2100, risultando in un aumento medio delle temperature globali, in riferimento ai livelli del 1900, di 2,6 °C nel 2100 e di 3,4 nel 2200. In mancanza di tali misure cautelative Nordhaus stimava perdite annuali pari al 3% del PIL mondiale, che sarebbero potute crescere fino all’8% annuale nel 2200. 

Stabilire un certo tasso di sconto sul futuro significa assegnare un certo grado di importanza al benessere delle generazioni future.
 
Contrapposizioni
Una prima corrente di pensiero, rappresentata da Nordhaus, sostiene che il tasso di sconto sul futuro vada estrapolato dai tassi d’interesse prevalenti sui mercati nel presente (tipicamente, appunto, il 5%). Il ragionamento che conduce a questa tesi non è il risultato di computi economici ma è piuttosto figlio di un presupposto etico di stampo democratico: che il lavoro dei governi debba essere ispirato da valori che siano quelli espressi dai governati, in cabina elettorale come sui mercati. Ovvero la ben nota libertà di mercato, estensione diretta della democrazia, o per lo meno, di un certo tipo di democrazia. Una seconda corrente di pensiero, rappresentata da Stern, sostiene invece che il tasso di sconto debba essere stabilito sulla base del valore morale di chi vivrà nel futuro. In sostanza, Nordhaus vuole chiedere alle persone oggi (agli attori sui mercati) che valore assegnino al benessere delle generazioni future, laddove Stern vuole invece che tale questione venga posta nei termini non di cosa la gente preferisca ma di cosa è giusto o sbagliato. Il risultato sono i due tassi di sconto molto diversi.
 
Secondo Nordhaus il futuro vale meno perché così dicono le persone; secondo Stern non vale (così tanto) meno, perché si parla sempre e comunque del benessere di persone.
Stern attribuisce un peso elevato ai danni futuri del cambiamento climatico, sostenendo investimenti immediati. Nordhaus, invece, considera meno rilevanti i costi lontani nel tempo e preferisce posticipare gli interventi. Di conseguenza, i due propongono strategie economiche opposte: azione rapida per Stern, approccio più graduale per Nordhaus.

Questa diatriba sul tasso di sconto è il corollario di uno scontro più generale fra due visioni completamente diverse della natura e del ruolo sociale dell’analisi economica - ovvero se essa sia e debba essere descrittiva o prescrittiva.
 
Questo conflitto nasce da due visioni opposte sul ruolo dei governi democratici verso le generazioni future. Per Nordhaus e molti economisti statunitensi, l'economia registra le preferenze espresse sui mercati e le trasmette ai politici, che così adottano politiche conformi ai desideri della popolazione. Le decisioni autonome dei cittadini costituiscono la base della democrazia; l'economista si limita a formalizzarle e i governanti, informati dall'economista, sono tenuti a rispettarle e tradurle in politiche economiche. Ne consegue che l'attenzione dedicata alle generazioni future da parte dei governanti dovrebbe corrispondere a quella attribuita dai cittadini stessi. Come se nel frattempo nulla accadesse…
 
Secondo la visione di Stern, invece, i governanti cui gli economisti forniscono strumenti sono guardiani non solo del presente ma anche del futuro di un paese – ed è del tutto possibile che questo futuro vada protetto proprio dalle preferenze poco informate e distorte del presente. Di fronte a un tema complesso e senza precedenti come il cambiamento climatico, è lecito dubitare che la maggior parte delle persone sia ben informata quando esprime le proprie preferenze.
 
Numerosi studi economici mostrano che le persone tendono a sottovalutare il futuro e a ignorare ciò che non è immediatamente evidente, come il destino delle generazioni future o gli effetti di una catastrofe climatica. Queste generazioni sono escluse sia dal dibattito democratico sia dalle logiche di mercato da cui si ricava il tasso di sconto che potrebbe influire sulle loro vite.
 
Secondo Stern l’analisi economica deve portare alla ribalta le questioni etiche e sociali che caratterizzano i fenomeni o processi cui essa si applica, e puntare esplicitamente a fornire strumenti per migliorare il mondo. Secondo Nordhaus questa commistione di fatti e valori è invece il passo cruciale verso un’amministrazione controllata dell’economia, e dunque delle scelte delle persone, verso la negazione del liberismo economico: quel che qualcuno definirebbe paternalismo di stampo monarchico o socialista. Ma anche l’importanza che Nordhaus dà alle preferenze dei governati è a sua volta non un fatto economico ma un giudizio di valore. 
Stabilendo un tasso di sconto dell’1,4%, Stern introduce un punto etico semplice e importante: il benessere e le vite delle generazioni a venire non valgono meno di quelle delle presenti solo perché avranno luogo nel futuro. E quindi tutte le politiche che implichino un sistematico svantaggio per le generazioni future, crescente quanto più distanti esse saranno non sono eticamente giustificabili.

Anche se l’argomento etico di Nordhaus è democratico – stando alla maggioranza delle preferenze – questo è tuttavia alterato, come già notato, da preferenze non informate e miopi, dalla mancata rappresentanza delle generazioni future sui mercati, e da una visione specifica e non ovvia di quale sia il mandato dei governi democratici quando si parla di generazioni future, e non ultimo dal negazionismo in ambito climatico. La storia è piena di casi in cui la maggioranza democratica ha sottoscritto politiche moralmente abominevoli, come la pulizia etnica e la schiavitù. Ma a difesa del suo tasso di sconto Nordhaus ha però anche altri argomenti etici. 
In primo luogo l’urgenza dei bisogni ha grande importanza morale e la condizione dei più poveri del mondo è di grande urgenza, pertanto, è eticamente giustificato trattenere fondi per i bisogni del presente a scapito di quelli del futuro. Ma di quale urgenza si tratta? Urgenza come bisogno primario oppure urgenza come immediatezza temporale?
 
Nel caso in questione, non si stanno confrontando bisogni acuti dei più poveri di oggi con bisogni meno acuti delle generazioni future: il cambiamento climatico potrebbe in futuro generare bisogni altrettanto acuti di quelli che la povertà estrema genera oggi (anzi di più, perché esso aggraverebbe e aumenterebbe la povertà stessa in vari modi). Il futuro inoltre non è definito in termini cronologici, e saranno molte di più le persone che potrebbero trovarsi in situazioni di acuto bisogno nel futuro di quante non se ne trovino ora nel presente. Dunque il senso di urgenza che potrebbe giustificare il dare precedenza al presente non può essere quello di acutezza. E fin qui possiamo parlare di utilitarismo.
 
Resta quello di immediatezza temporale, ma la rilevanza etica dell’immediatezza temporale è proprio ciò che va dimostrato e un argomento non può essere identico alla tesi che supporta. Affidarsi a criteri di immediatezza temporale è solo un modo per decidere chi aiutare, non una giustificazione etica di quella decisione.
L’ottimismo guida e giustifica il secondo argomento a disposizione di Nordhaus: l’assunto ottimista che il futuro sarà migliore del presente e, tutto sommato, la storia potrebbe dimostrare che è così. In tal caso sarebbe eticamente sbagliato dirottare fondi dal presente verso i nostri discendenti più avvantaggiati: i benefici conferibili al presente sarebbero infatti marginalmente superiori a quelli conferibili al futuro, proprio in quanto chi abiterà il futuro sarà già comparativamente più avvantaggiato di chi abita il presente. Ovviamente questo argomento funziona solo qualora risulti empiricamente vero che il futuro sarà migliore del presente, e questo però non è un presupposto che il cambiamento climatico ci autorizzi a intrattenere con piena certezza. È quantomeno verosimile che il cambiamento climatico possa rendere il futuro peggiore del presente sottraendo le condizioni necessarie ai progressi tecnologici, economici e sociali necessari a che l’assunto ottimista si realizzi: ad esempio concorrendo ad acuire la scarsità globale di cibo e acqua, frenando grandi economie nazionali e regionali, o impegnando paesi in costose ricostruzioni a seguito di eventi meteorologici estremi.
Una posizione etica democratica alla Nordhaus, pur con tutti i suoi innegabili meriti, cozza contro considerazioni eticamente più generali - quelle di Stern - senza avere a propria disposizione argomenti abbastanza solidi per contrastarle. La conclusione è che il tasso di sconto sul futuro non vada semplicemente estrapolato dai tassi di interesse riscontrabili sui mercati come vorrebbe Nordhaus
Ciò non significa però che il tasso di sconto sul futuro vada necessariamente stabilito all’1,4% come fa Stern. Un tasso di sconto tanto basso ha l’effetto strutturale di rendere i nostri calcoli estremamente sensibili a variazioni anche piccolissime nelle probabilità assegnate a eventi catastrofici nel futuro distante. Inoltre resta il problema, unicamente pratico ma comunque notevolissimo, che gli investimenti per il futuro che Stern propone sono assolutamente fuori mercato, proprio perché il mercato lavora a tassi di interesse del 5% e non si muove per meno. Per fare ciò che Stern suggerisce di fare non ci sarebbero verosimilmente investitori privati. Ciò non significa che non sia giusto farlo, ma che bisognerà trovare il modo di farlo senza sfociare in forme di centralizzazione dell’economia a loro volta eticamente ingiustificabili.
Le posizioni di Nordhaus vanno allora viste come una serie di critiche e raccomandazioni di cui tener conto, piuttosto che come una vera e propria alternativa a quelle di Stern. Con tutta probabilità, il tasso di sconto sul futuro eticamente ma anche economicamente giustificabile (assumendo la configurazione di efficaci schemi di incentivi) si trova da qualche parte fra l’1,4% e il 5%  -  più vicino all’ 1,4% che non al 5%.
 
Conclusioni
E torniamo alle domande iniziali. L’economia del clima e del suo cambiamento rimanda dunque i politici alla filosofia: quanto vale il benessere delle persone future in confronto al nostro? E come stabilire un tasso di sconto che sia eticamente ma anche economicamente (e psicologicamente e politicamente) giustificabile per il presente?
 
Sono passati quasi vent’anni dalla contrapposizione tra Stern e Nordhaus, e il dibattito è tuttora in corso. Vent’anni sono tanti, quasi quanto l’IPCC ritiene adeguato per esprimere cicli climatici; nel frattempo si è continuato a bruciare combustibili fossili come se non ci fosse un domani, le emissioni globali sono aumentate, talora accelerando. Che il tasso di sconto sia l’1,4%, il 5%, o qualcosa tra i due estremi, quanto denaro è stato investito nel futuro?
 
Anche tenendo conto dei carbon credits praticamente zero. E quanto speso è servito a compensare nuove emissioni e non ad abbattere il tenore di gas serra in atmosfera. Un po’ come le rinnovabili, cresciute sì decisamente, ma quasi sempre a fronte di nuove richieste energetiche, e non, salvo rare eccezioni, al posto di impianti a combustibile fossile.
 
Come se non ci fosse il domani intorno a cui verte la polemica sul tasso di sconto.
 
Tutto ciò riflette quanto scrivevo tempo fa. Il cambiamento climatico inasprirà il conflitto tra le due grandi metafore politiche più in voga, i due sogni. Quello liberale ispirato dagli ideali illuministi (che hanno comunque saputo ottimamente convivere con schiavismo e sfruttamento) o quello autoritario, sempre più diffuso, che accomuna uno spettro quanto mai eterogeneo di soggetti, dal momento che il suo carattere distintivo è la retorica del noi e gli altri. Quella fazione dei delusi, di chi è rimasto travolto, degli sradicati, di quelli che hanno già perso qualcosa e di chi teme di perderlo (specialmente nel mondo del benessere). Persone che non appartengono agli strati dell’élite e diffidano delle élite e dei processi politici, della democrazia, dei media. Si considerano vittime di un complotto, si sentono umiliate. Riescono a fare chiarezza sul mondo solo a partire da una distinzione netta tra sé e certi altri gruppi. Si sentono minacciate e reagiscono di conseguenza: per questo hanno bisogno innanzitutto di un nemico. Gli sviluppi dei prossimi decenni e il clima di instabilità politica che li accompagnerà spingeranno sempre più persone nel campo del sogno autoritario. Il cambiamento climatico e l’automatizzazione renderanno ancora più penalizzanti le pressioni che gravano sulle nostre società, spingendole al cambiamento; dubito inoltre che la spinta possa essere gentile. Al tempo stesso lo scenario politico non offre opzioni risolutive, né gli elettori sembrano disposti ad appoggiare il nuovo. Al contrario, aspirano alla conservazione dello statu quo. Il conflitto tra il sogno liberale e il contro-sogno autoritario è destinato a farsi sempre più intenso, più radicale, più violento. I valori dell’uguaglianza e della libertà intesi come prerogative innate di tutti gli esseri umani verranno sempre più duramente contestati e messi in dubbio.
 
La posta in gioco? L’umanità.
 
Ricordando un antico proverbio Navaho che recita che «noi non ereditiamo la terra dai nostri padri ma la prendiamo in prestito dai nostri figli» ribadisco che siamo la prima generazione nella storia del genere umano ad avere un’idea piuttosto precisa dell’eredità che toccherà in sorte ai nostri posteri.

Mi rammarico nel metterlo nero su bianco, pur confidando nel progresso scientifico e tecnologico, la vedo dura, pressoché impossibile.

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Riferimento bibliografico:
grazie alle lezioni del Prof. Marcello di Paola, Dipartimento di Scienze Politiche. LUISS Roma.