Uomo-Natura «» L'antitesi inesistente

In un paio di post pubblicati di recente (qui e qui) scrivevo di due aspetti abbastanza paradossali che stanno caratterizzando l’approccio al cambiamento climatico in atto. Da una parte mettevo in evidenza come, nonostante gli insegnamenti del passato, non si tenesse in debita considerazione quanto questi possano aiutarci almeno a capire ciò che ci attende, purtroppo molto difficilmente a prevedere, come vedremo; e poco prima affrontavo la definizione di natura, di naturale, di biodiversità in relazione al suo non poter fare a meno di inserire al suo interno la nostra stessa specie, che iniziando molto presto, fin dagli albori della sua presenza sulla Terra, ha lasciato impronte evidenti della sua presenza e del suo passaggio. Non sappiamo se queste categorie siano davvero così esclusive o inclusive, ma certamente non possono non comprendere che l’aspetto della Terra così com’è, è per lo più giunto fino a noi non nonostante, ma attraverso le nostre stesse trasformazioni.

Ci sono moltissimi esempi che si possono fare allo scopo di dimostrare quanto profonda possa essere l’impronta dell’umanità e la letteratura in proposito è molto vasta; grazie ai moderni studi rivolti al passato, di paleoecologia, paleoantropologia, paleobotanica, paleogeografia, archeologia e ovviamente paleontologia e geologia. Studi che dimostrano come raramente, nella storia del rapporto tra genere umano e il pianeta, si siano verificati eventi rivoluzionari con passaggi epocali e radicali da uno stato al successivo, trattandosi invece di un progredire relativamente lento, nel tempo e nello spazio, di processi di costruzione di nicchie ecologiche via via più diffuse sulla Terra.

Ma tutto questo non è finora mai accaduto in esclusiva, in quest’ultimo scorcio di tempo, un battito di ciglia di fronte alla profondità del tempo geologico. Che siano gli ultimi due secoli e mezzo, da quando l’ingegnere inglese James Watt, nel 1765, potenziò e migliorò il motore a vapore (ne parlammo qui) o, come qualcun altro sostiene non senza evidenze, fin da almeno 8-10 millenni fa, in pieno Olocene, quando l’espansione demografica, avvenuta grazie soprattutto alla riduzione dell’incidenza catastrofica prodotta dalle oscillazioni climatiche e da crisi di sovrasfruttamento, portò il genere umano praticamente ovunque nel mondo, dando inizio a pratiche in cui la natura non era più subita ma spesso gestita e modificata. Fin da allora, perturbazione e propagazione, le chiavi del successo. Perché è stato certamente un successo, finora.

E’ dalla storia del nostro passato che dobbiamo attingere a piene mani, senza emettere inutili giudizi sulle colpe passate, spesso allora incoscienti, ma è importante conoscerle per riconoscerle e per comprendere la responsabilità morale che abbiamo oggi sul futuro. Uno dei fondatori della moderna ecologia, Peter Vitousek, ebbe a dire «Humanity’s dominance of earth means that we cannot escape responsability for managing the planet»[1].

Devastazione o disegno?

Un famoso geologo, Michael Williams, ha detto una volta: «La deforestazione è stata l’espressione principale del processo di trasformazione antropica della Terra». E questa attività parte da lontano, fin dalla preistoria e forse anche prima. Senza andare troppo in là nel tempo c’è una mezza dozzina di autori classici come Omero, Teofrasto, Cicerone, Strabone o Plinio, che citano la deforestazione, con diverse accezioni e scopi altrettanto variegati. Platone, delle foreste dell’Attica, scrive che «in confronto a quello che erano state una volta ciò che ne rimane oggi è come il corpo scheletrito di un uomo malato» e Lucrezio condanna l’attività degli agricoltori che «sospinge giorno dopo giorno i boschi sempre più in alto lungo i fianchi delle montagne».

«Come cade una quercia o un pioppo o un pino alto, che i falegnami sui monti troncano con le scuri affilante per farne chiglia di nave». Omero, Iliade.

Oggi gli scienziati hanno a disposizione dati paleobotanici, stratigrafici, sedimentari, archeologici, e altro ancora, conservati in specifici database a disposizione di chiunque voglia farne uso, che consentono di ricostruire l’andamento dei processi di scomparsa e/o ritorno delle aree forestali, con o senza cambiamento di specie arborea per motivi magari climatici, e soprattutto distinguendo tra azioni naturali o disboscamenti derivanti da precisi piani e scopi antropogenici.

Durante la rigogliosa Età del Bronzo come pensate riuscissero ad estrarre il rame dai minerali che lo contengono, a lavorarlo? Ovviamente fondendo la materia prima in forni alimentati a legname, dove bruciavano tutto il bruciabile. C’è una famosa area archeologica in Giordania che è stato un vero e proprio polo metallurgico per quasi 9.000 anni: dal Neolitico fino alle epoche Romana e Bizantina. Sono state ritrovate qualcosa come 250.000 tonnellate di scorie dalla produzione metallurgica, in soli 12 chilometri quadrati: ci vogliono vari milioni di tonnellate di legname per produrre una tale quantità di scorie.

Nuovo Mondo. Da Panama al Brasile, con la foresta amazzonica simbolo mondiale dei danni da deforestazione, ci sono le prove scientifiche che l’attività dei cacciatori-raccoglitori, sovrapponendosi agli effetti delle variazioni climatiche, ha avuto effetti profondi sulla struttura delle foreste tropicali di bassa altitudine, molto prima dell’invasione europea. Le tracce nei sedimenti, essenzialmente pollini arborei, aumento del carbone d’origine vegetale, grani di amido e fitoliti del mais, indicano chiaramente la maturazione di un’economia agricola basata sulla tecnica del “taglia-e-brucia”. 7.000 anni fa. E quando arrivarono i conquistadores, gli stessi indicatori mostrano un’inversione di tendenza, tornarono gli alberi. In queste aree le popolazioni native subirono una terribile decimazione a causa dei massacri, delle malattie e delle deportazioni. E le foreste in molti casi si infittirono. Insomma, la foresta, vergine, non lo era affatto. Così come, dall’altra parte del mondo, non erano affatto vergini i territori scoperti dagli europei, l’Australia, la Nuova Guinea, la Tasmania, la Nuova Zelanda, già abbondantemente rimodellate a tratti, dalle popolazioni aborigene anche loro dedite al controllo del fuoco ed al suo impiego per modificare a loro vantaggio il territorio.

Certo l’uomo, lì come altrove, non ha fatto tutto da solo: c’è sempre un elemento «naturale» oltre che «culturale», soprattutto climatico, che consente di riconoscere una sostanziale azione congiunta tra quest’ultimo e gli esseri umani.

La polemica tra i sostenitori della «devastazione» contrapposti a quelli che parlano di «disegno» non si esaurirà mai, è antica, così come antica è l’azione che l’umanità esercita nei confronti dell’ambiente. Ma c’è qualcuno che rifiuta l’assunto tradizionale «trasformazione=degradazione» interrogandosi, ad esempio, sul reale funzionamento degli ecosistemi del bacino del Mediterraneo, a cui tanto deve la storia dell’umanità, «disegnati» dall’uomo nel Neolitico e costruiti nei secoli e nei millenni di perfezionamento dell’agricoltura e delle sue tecniche. Oggi che va così di moda il termine sostenibilità ci si dovrebbe chiedere se quanto realizzato finora non lo sia davvero, sostenibile, visto che per secoli ha egregiamente funzionato. E addirittura, anche se il verdetto per la gestione della cosiddetta biodiversità è decisamente negativo, con la distruzione sistematica e un’ecatombe floro-faunistica, i sostenitori del «paesaggio disegnato» non negano la scomparsa di tutte o quasi tutte le specie originarie ma affermano che ciò che ne seguì non fu il vuoto, ma l’introduzione di una comunità di altre specie, domestiche o selvagge, importate o trasportate involontariamente.

E, sembra un paradosso, ma non lo è, l'ecologia delle comunità riconosce che il «disturbo», sia esso antropico meno, non è necessariamente un fattore negativo per la biodiversità. Numerosi studi in proposito dimostrano che il massimo livello di biodiversità non si registra generalmente in assenza di perturbazioni bensì in corrispondenza di valori intermedi di disturbo. L’estrema variabilità della strategia produttiva agro-silvo-pastorale, che nel Mediterraneo ha la sua massima espressione, sostanzialmente ottenuta con pratiche di moderato disturbo ambientale, hanno consentito di mantenere elevati valori di biodiversità. Sembra incredibile.

A questo punto chiedersi in quanto tempo è avvenuto tutto ciò è obbligatorio: in un tempo sufficientemente lungo da permettere ai filosofi e ai poeti di raccontarci di qualcosa di così lontano nel tempo da renderlo irreale. Non così velocemente da non consentirci di adattarci o, meglio ancora, dar tempo alla componente biologica di adattarsi.

Tutta questa lunga e, solo in apparenza fuori tema, premessa, per arrivare al punto: abbiamo memoria di tutto ciò? Sappiamo o sapremo farne buon uso? E se ne abbiamo memoria, di che tipo è?

Recentemente scrivevo: «è il sapere come sono andate le cose in passato che rende evidente che la nuova normalità climatica è conseguenza diretta delle nostre attività». Per estensione, la nuova visione ecologica.

La memoria corta dell’uomo moderno


Nel 2013, in un autorevole testo di divulgazione scientifica, si scriveva: «La temperatura media globale è aumentata di 0,6 °C nel corso del XX secolo. I dieci anni più caldi del secolo che ci siamo lasciati appena alle spalle sono tutti nella sua parte finale e le loro temperature sono state le più elevate dell’ultimo millennio».

A distanza di un altro decennio anche questi ulteriori dieci anni appena trascorsi sono stati segnati da record di temperature medie via via crescenti e, per ora, il vincitore è questo 2023.

E i prossimi dieci anni faranno di tutto per battere quest’ultimo
.

La globalizzazione e l’iper-connessione, pressoché impossibili da evitare, stanno portando l’umanità a perdere memoria: l’orizzonte temporale dell’uomo contemporaneo diventa sempre più piccolo, uno spazio emotivo che si fa sempre più contingente, valido ora e qui e basta. Sempre nuove emozioni regolate dai media nascono nel giro di pochi giorni, ore e minuti, per poi lasciare spazio all’oblio rispetto a ciò che fino a un istante fa sembrava tanto preoccuparci. Le informazioni si affollano e si ingorgano, costringendoci a sviluppare una notevole capacità di dimenticare per poterne gestire, divorandole, continuamente di nuove. E per ogni quantitativo di informazioni c’è una parte, coscientemente gestita da chi ne ha interesse, opportunamente mescolata, che consiste di disinformazioni. Dimenticare è più necessario che ricordare, per far posto a continue nuove immaginazioni di massa che consentano a miliardi di individui di vivere consumando dentro ecosistemi artificiali, senza pensare al proprio destino. Le dimensioni economico finanziarie della nicchia auto costruita dall’uomo sono forse irrinunciabili, ma avvolgenti e soffocanti.

I demografi ormai non parlano più di popolazioni ma di «metapopolazione», per descrivere questo insieme di popolazioni locali riunite in una generica rete genetico-demografica. E per quanto assurdo possa sembrare eravamo una metapopolazione persino quando, alla fine del Paleolitico, una decina di millenni fa, sulla Terra c’erano più o meno 5 milioni di individui! 




Sì, perché è stato grazie alle migrazioni, allo scambio, all’apporto genetico e culturale, che i piccoli, piccolissimi gruppi di esploratori, a volte meno di 100 persone, hanno evitato l’estinzione.

Questa perdita della memoria è paradossalmente antitetica rispetto alla profondità della storia umana e alle sue complesse traiettorie. L’oblio che governa la maggior parte della vita delle società attuali appare tragicomico rispetto alla grandiosa capacità che l’uomo contemporaneo ha sviluppato di leggere e interpretare gli archivi storici costruiti negli ultimi 5.000 anni, e quelli ben più profondi costituiti nel tempo dall'uomo preistorico, dalle flore e dalle faune, dai vulcani e dal clima, e ora depositati negli strati geologici ed archeologici e nei sedimenti dei laghi e degli oceani.

A cosa dovrebbe servire ricostruire il passato remoto dell’umanità e dei suoi innumerevoli modi di stare e agire negli ecosistemi della terra? Sarebbe tragico se tutto ciò venisse letto con pregiudizio, per sostenere falsi miti ambientalisti dell’Eden perduto o del valore intrinseco dell’immutabilità ecologica costruiti a priori. Sarebbe criminale se venisse utilizzato per creare giustificazioni e fatalismi, strumentali a gruppi interessati solo alla produzione ed al profitto senza scrupoli.

Ma non facciamoci troppe illusioni: non può servirci neppure a predire con esattezza deterministica cosa ne sarà di noi e degli ecosistemi del pianeta. Dispiace doverlo dire così brutalmente ma, contrariamente al ritornello di molte introduzioni all’analisi eco-antropologica, il fatto che ci troviamo, fin dalla nostra origine, immersi in un cantiere bio-culturale continuamente aperto, e saltiamo da una transizione all’altra limita molto la possibilità di farci un’idea precisa nel nostro futuro studiando il nostro passato. Possiamo amplificare il dettaglio conoscitivo di formazioni geologiche, strati sedimentari, orizzonti archeologici, ma non avremo mai la possibilità di immettere tutto ciò in un algoritmo che automaticamente sia in grado di estrapolare il nostro futuro. E il perché sta tutto in questa considerazione:

«Tutti i sistemi semplici sono semplici allo stesso modo; ogni sistema complesso è complesso a modo suo». E se la sola atmosfera è un sistema complesso al limite dell’indecifrabilità immaginate quanto possa esserlo l’insieme di atmosfera, idrosfera, litosfera, idrosfera, biosfera…e antroposfera![2]

Non esiste un’antitesi uomo-natura

Pur essendo a conoscenza dei fatti che ci riguardano non dovremo perdere di vista che stiamo eseguendo un esperimento planetario, e ne siamo al tempo stesso le cavie. Conoscere, anche con precisione, come sono cambiati i numeri della popolazione globale negli ultimi 10.000 o 100.000 anni, non ci serve a capire automaticamente quanti saremo tra 100 anni. Per quanto ne possiamo sapere su antiche popolazioni e sul loro stile di vita ciò non ci darà automaticamente la ricetta della sostenibilità.

Allora perché ricordare? Ragionare sul passato della Terra e sul nostro può servire soprattutto a prendere coscienza della storia naturale delle nostre dimensioni ecologiche, a comprendere senza pregiudizi che siamo sempre stati parte della Natura, e al tempo stesso a capire che la manipolazione degli ecosistemi è una caratteristica antropologica profonda, che ci accompagna dalle origini. Che sia devastato o disegnato questo nostro ambiente, non possiamo dubitare che il ruolo ecologico che l’uomo ha assunto nell’Olocene, con il Neolitico l’Età del Bronzo, è assolutamente conseguente alla storia remota della nostra specie e che l’impronta ecologica ha cessato di essere marginale o meramente locale ben prima della rivoluzione industriale. Riconoscere questo ha una straordinaria importanza per orientare in modo corretto la ricerca delle soluzioni possibili al problema della sostenibilità, perché possibile vuol dire innanzitutto coerente con la nostra storia naturale di costruttori di nicchia.

Da questo processo preistorico abbiamo imparato che contrapporre l’azione dell’uomo rispetto ai processi naturali non è giustificato dalla lettura del passato. Oggi che abbiamo davanti agli occhi un’impronta ecologica che non sembra più avere limiti l’idea che l’azione dell’uomo sia sempre integrata con quella degli altri componenti naturali, e che addirittura non sia necessariamente negativa, può sembrare assurda, visto che da sempre lo si è collocato a priori fuori e in antitesi rispetto alle dinamiche naturali.


Questa antitesi natura-uomo domina la letteratura di divulgazione sulle tematiche ambientali e i libri di testo di ecologia. La definizione di impatto antropico sugli ecosistemi è una metafora potente e abusata di questa idea che pervade anche molta letteratura scientifica specialistica. Ma considerarci fuori dalla natura è sbagliato e pericoloso. Sbagliato perché la nostra, anche nell’Olocene, è storia naturale di una specie culturale. L’ostinazione a leggere le trasformazioni ambientali sempre in modo antitetico, l’uomo o i processi naturali, ha generato confusione e prodotto errori.


In un recente post, abbiamo visto come gli incendi, che rappresentano uno dei più importanti fattori ecologici che controllano la struttura e il funzionamento degli ecosistemi terrestri, sono da almeno 50.000 anni sotto il controllo strettamente integrato del clima e dell’uomo. Ancora, la scomparsa delle grandi faune del Pleistocene è dovuta a una stretta complicità tra uomo e clima. Non è possibile leggere la storia delle modificazioni dei paesaggi degli ultimi 10.000 anni se non in termini di stretta integrazione e di continue retroazioni tra «cultura» e «natura». L’aumento della capacità di controllo sugli ecosistemi che l’uomo ha sviluppato nel corso del Pleistocene e dell’Olocene ha determinato, secondo la visione dualistica, il passaggio da una fase nature controlled a una human dominated. Ma questo dominio non solo non ha mai messo al riparo la cultura dalla natura, ma siamo già dentro un’epoca in cui paradossalmente il dominio umano sugli ecosistemi della Terra sta determinando nuovi e più elevati livelli di vulnerabilità dei sistemi socioeconomici rispetto alla variazione dei fattori naturali, come il clima. La velocità del cambiamento che abbiamo innescato è tale da farcene perdere il controllo che credevamo di aver raggiunto.

L’antitesi è anche pericolosa perché la sensazione o la pretesa di essere altro e fuori dalla natura è sempre stato l’alibi per sentirsi privilegiati ed esercitare il dominio ecologico autorizzato o, di contro, la premessa per la nascita di utopie e ambientalismi assolutamente improduttivi. Quello che serve ora non è sentirsi colpevoli ma responsabili, e la consapevolezza di starci dentro è esattamente ciò che serve a sviluppare una maggiore responsabilità ambientale. La colpa ecologica è molto antica ma sarebbe ridicolo esprimere una condanna sul passato. Quanto potevano i cacciatori-raccoglitori che annientarono le macrofaune in America, o i proto-agricoltori che già praticavano il taglia-e-brucia in Eurasia 11 millenni fa, essere consapevoli delle conseguenze ecologiche a lungo termine delle proprie azioni?

Oggi però non abbiamo attenuanti: la consapevolezza è piena. Migliaia di sensori installati e volutamente messi in orbita nello spazio extraterrestre ci informano in diretta sulle trasformazioni che la nostra azione produce. I modelli matematici dei climatologi non lasciano adito a dubbi sulle conseguenze della deforestazione delle emissioni dei gas serra. Le tecniche dei demo-ecologi ci permettono di valutare le probabilità di estinzione delle popolazioni naturali.

Ricordiamo ancora le parole di Vitousek, citate all’inizio: «Humanity’s dominance of earth means that we cannot escape responsability for managing the planet».

Capire che le colpe dell’uomo sono sempre state legate a doppio filo alle cause naturali serve anche a comprendere che il nostro destino, così come la nostra storia,  non sono indipendenti  da quello del resto del pianeta, e a toglierci ogni illusione sulla possibilità, o presunta capacità, di tirarci fuori all’ultimo momento da questa storia se le cose dovessero mettersi veramente male.

Se dovessimo fare un processo al comportamento dell'umanità imputato e giudice sarebbero la stessa persona, ma colpevole e vittima non si possono separare, se non, per paradosso, nei casi di suicidio.

Nota bibliografica: liberamente ispirato al Cap. VII de “L’impronta originale” di Guido Chelazzi. Einaudi, 2013



[1] Il dominio dell’umanità sulla terra significa che non possiamo sottrarci alla responsabilità di gestire il pianeta. 

[2] Mi si perdoni l’aver inserito l’antroposfera come un altro da sé della biosfera. 


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