Per sopravvivere all’ignoranza ci vuole metodo. Scientifico.

Introduzione

Non ci chiediamo per quale utile scopo gli uccelli cantino: lo trovano piacevole, perché sono stati creati per cantare. Similmente, non dovremmo chiederci perché la mente umana si preoccupi di comprendere i segreti dell'universo; la diversità dei fenomeni naturali è così grande, e i tesori nascosti nel cielo così ricchi, proprio perché non venga mai a mancarle fresco nutrimento. (Keplero, Mysterium Cosmographicum, 1596)

Sorvolando sulla vena creazionista, erano altri tempi, Keplero per spiegare quanto la scienza sia parte della natura umana, la paragona ad un’attività artistica quale il canto, forse inutile in senso pratico ma innata. Ci facciamo domande sul mondo perché è parte della nostra natura, non possiamo farne a meno. Ed è la curiosità che muove ogni scienziato, di insaziabile appetito e che ad ogni risposta ottenuta vede aprirsi altre domande.

Non so come potrò apparire al mondo, ma a me sembra di essere stato soltanto un bambino che, giocando sulla riva, si sia divertito a trovare ogni tanto una pietra più liscia o una conchiglia più bella del solito, intanto, il grande oceano della verità si spalanca ancora completamente inesplorato di fronte a me. (Isaac Newton)

Nonostante i successi raggiunti, le straordinarie scoperte, Newton, da vecchio, si descrisse con quella frase vedendosi ancora come uno che guardava il mondo con curiosità, interrogava la natura, trovava cose meravigliose e le ordinava, le interpretava, cercava di capirle e di spiegarle, ben sapendo che non sarebbe mai riuscito a rispondere a tutte le domande. Nessuno può riuscirci.

E allora perché in molti, troppi, esseri potenzialmente dotati di poteri razionali, si scatena il processo contrario, quello del dubbio, della negazione?

Uno degli aspetti paradossali sono i campi di azione in cui questi si cimentano in grottesche imitazioni di dibattito, laddove dibattito non c’è, se non in affermazioni talmente ridicole da scatenare l’ilarità generale della peggior specie. Per esempio, nonostante una buona parte dell’umanità abbia accettato senza battere ciglio teorie scientifiche molto più complesse e spesso controintuitive quali quelle della Relatività Generale e Speciale, o le conclusioni apparentemente assurde della Meccanica Quantistica, sono bersagli preferiti il campo biologico, soprattutto quello darwiniano, quello medico, climatologico e persino paleoantropologico e paleontologico.

Per motivi del tutto diversi da quel che ci si potrebbe attendere, sono persino disposto a prendere sul serio alcune voci di complottismo sul clima, che hanno ragioni sociologiche non trascurabili, ma tollero molto male tutto il resto. Le voci negazioniste hanno forme molteplici, le forme della bugia, dell’imbroglio, della malafede e del complottismo. Senza ardire a proclamarne la verità assoluta, di contro, la voce scientifica, è una, chiarissima. La voce dei fatti incontrovertibili, delle evidenze sperimentali, dei risultati matematici della modellizzazione, dei confronti tra posizioni, fino al consenso scientifico.

E, contrariamente a quanto ci si possa attendere, spalancate le porte a legioni di imbecilli, come ebbe a dire Umberto Eco, queste voci urlate dell’ignoranza, non diminuiscono e si amplificano grazie proprio alla cassa di risonanza dei social, arroccate sulle loro posizioni sbagliate.

Frequento sui social molte pagine dedicate alla divulgazione scientifica. E su certe tematiche, tra l’altro molto meno ostiche, come scrivevo poc’anzi, della meccanica quantistica o della matematica dei sistemi complessi, è un fiorire continuo e ripetuto di commenti che ripetono a pappagallo, negazioni e critiche sterili, che saltano di palo in frasca senza criterio e che, se messi all’angolo, cambiano sapientemente argomento dimostrandosi campioni di conoscenza delle leggi sulla stupidità. Persone prive di qualsiasi base cognitiva minima che tentano di aprire dibattiti auto-elevandosi al livello di chi ne sa molto di più, più di persone che ovviamente, prima di aprire un social qualsiasi hanno aperto libri, e parecchi. A volte mi chiedo per quale motivo queste persone frequentino pagine di divulgazione scientifica: masochismo forse? Non credo, la maggior parte sono animati solo da un idiota bastiancontrarismo incurabile.

Ma se masochismo c’è, è il mio, che mi ostino a tentare di spiegare, di commentare costruttivamente, di aggiungere elementi all’argomento, di fornire indicazioni a volte di approfondimento altre volte di semplificazione, di indicare libri o siti in appoggio. E finisco quasi sempre a scontrarmi con terrapiattisti de noantri, negazionisti, neoluddisti, complottisti e ancora altri -isti di ogni tipo e provenienza.


L’argomento più gettonato è la negazione stessa della scienza, quella con la S, e le sue teorie. Lasciamo stare il frequentissimo «è solo una teoria…» espresso da persone che si sentono filosofi della scienza autorizzati a dir la loro; persone che non immaginano nemmeno lontanamente -come potrebbero?- che quegli stessi filosofi (della scienza, gli altri non sono, nella pratica per lo meno, nemmeno presi in considerazione[1]) sono tuttora guardati con un certo sospetto dagli addetti ai lavori e qualche volta tacitati con qualcosa di simile allo «zitto e calcola!» o, peggio ancora, con battute del tipo «La filosofia della scienza è utile agli scienziati più o meno quanto l’ornitologia lo è agli uccelli».


Oppure, in risposta ad un breve excursus storico del progresso scientifico, di qualsiasi argomento, i novelli precursori criticano con affermazioni tipo questa: «La scienza dell’Ottocento si sbagliava su questo, a metà Novecento si scopre che si sbagliava su quello, prima o poi verrà fuori che anche quel che si afferma qui è sbagliato…».

Senza tirare in ballo, per ora, il solito Karl Popper, è ovvio che qualunque affermazione (e già sul termine affermazione potremmo fare nottata a discuterne) può essere errata ma non si tratta di questo. Non è così che vanno le cose nel mondo scientifico. Il punto fondamentale è: non ha affatto senso pensare che tutto ciò che sappiamo oggi è da buttare perché domani salterà fuori qualcosa di nuovo. Anche se plausibile che il progresso scientifico e tecnologico non si accompagnino automaticamente a un avanzamento sociale, il progresso scientifico esiste, e ne faccio un solo esempio tra i tantissimi che lo dimostra: l'allungamento della vita media dall'Ottocento ad oggi[2].

La scienza, ripeto un concetto fondamentale, non può dirci con certezza cosa è vero ma ha un metodo sicuro per dirci cosa è falso.

Questione di metodo

Il metodo scientifico, da Galileo in poi, è piuttosto semplice e lineare: si fanno ipotesi sui motivi che sono alla base di una certa osservazione; queste sono seguite da esperimenti per verificarle e, cosa importante, gli esperimenti sono ripetibili praticamente da chiunque; si accettano, momentaneamente, le ipotesi che sono coerenti con i risultati degli esperimenti, perché potrebbero essere vere, e si scartano quelle che non sono in accordo con i risultati sperimentali, perché sono sicuramente false. Procedendo in questo modo il margine di incertezza si assottiglia rendendo via via più valida la teoria scientifica alla base di tutto ciò.

Ovvio che qualsiasi teoria può essere col tempo abbandonata in favore di una teoria che spieghi meglio un maggior numero di fenomeni. Un paio di esempi: la teoria della gravitazione di Newton è risultato essere un caso particolare di quella della Relatività Generale di Einstein; la genetica ha una spiegazione migliore della trasmissione dei caratteri ereditari che non quella che fornì Lamarck. E così via.

Ed è questo il modo per correggere, un passo alla volta, errori e manchevolezze e si procede sempre verso una maggior comprensione del mondo e dei suoi fenomeni.

Ma nessuna nuova scoperta potrà rendere vera una teoria che si è dimostrata falsa.

Nessuna persona sana di mente tornerà a credere che sia il Sole a ruotare intorno alla Terra nonostante le ricerche in astronomia procedano sempre verso un maggior grado di conoscenza.

Ancora un esempio. Per quanto la ricerca in un determinato settore possa portare dati via via più recenti e diversi, è innegabile l’origine africana dell’umanità: lo provano i dati di cui disponiamo, e di diverso tipo: fossili, archeologici e genetici, e diversificare le fonti contribuisce a ridurre al minimo il rischio di sbagliarsi, tanto più grande quanto più ci si affida ad una sola fonte di informazioni.

 

E per tornare ai social, riporto le parole aneddotiche di un noto genetista italiano, Guido Barbujani, che in appendice ad un suo libro, scrive:

«Vorrei spiegare perché non partecipo alle discussioni sui social. Negli anni Ottanta, una catena americana di fast food, la A&W, decise di fare concorrenza all'hamburger più famoso della McDonald's: il quarter-pounder, ovvero quello con un quarto di libbra di carne (un po’ più di un etto; in Italia si chiama DeLuxe). Avrebbero offerto, per lo stesso prezzo, il third-pound, cioè un panino che conteneva 1/3 di libbra di carne. Fu un fiasco. Un'indagine di mercato scoprì che per la maggioranza degli intervistati siccome 3 è meno di 4, 1/3 è meno di 1/4. Ecco perché non partecipo alle discussioni sui social.»

Popper, ancora lui

A questo punto è doveroso richiamare il solito Popper, che abbiamo incontrato diverse volte e che ha contribuito alla filosofia della scienza in molti modi. Uno dei più importanti e conosciuti è la sua visione della scienza, incentrata su una coppia di idee semplici, chiare e straordinarie.

Innanzi tutto distinguere la Scienza, con la S, dalla pseudoscienza (non necessariamente priva di significato ma comunque non scienza[3]) per mezzo del falsificazionismo, il nome che il filosofo diede alla propria soluzione: un’ipotesi è scientifica se e solo se ha il potenziale di essere confutata da qualche possibile osservazione. Per essere scientifica, un'ipotesi deve correre un rischio, deve mettersi in gioco. Se una teoria non si assume alcun rischio perché è compatibile con ogni possibile osservazione, allora non è scientifica. E fin qui tutto bene. Ma Popper usava l'idea della falsificazione anche in modo più ambizioso. Sosteneva che tutte le verifiche nella scienza hanno la forma di tentativi di confutare delle teorie mediante l'osservazione. Cosa cruciale è che non è mai possibile confermare o dimostrare una teoria mostrando che si accorda con le osservazioni. La conferma è un mito per Popper. L'unica cosa che un test osservazionale può fare è mostrare che una teoria è falsa. Alcuni degli scienziati che considerano Popper un eroe non realizzano che egli credeva che non è mai possibile confermare una teoria nemmeno in parte, indipendentemente da quante osservazioni la teoria ci aiuta a prevedere con successo.

Se il risultato di un qualsiasi esperimento conferma la previsione, l’ipotesi fatta a proposito di una certa teoria, l’unica affermazione possibile è dire di non aver ancora falsificato la teoria. Per Popper, non possiamo concludere che la teoria è vera, né che è probabilmente vera e neppure che è più probabile che sia vera di quanto fosse prima del test. La teoria potrebbe essere vera, ma non possiamo dire più di questo: potrebbero passare anni senza riuscire a falsificare una teoria ma per Popper ciò significherebbe che è semplicemente sopravvissuta ai tentativi di falsificazione. Ciò non significa ovviamente che gli scienziati debbano trascorrere quasi tutto il loro tempo a tentare di falsificare una teoria, ma solo che dovremmo sempre mantenere un atteggiamento di cautela.

Un vero e proprio estremista quindi.

Purtroppo, la cattiva interpretazione, strumentale, del pensiero di Popper, apre le porte ai negazionisti di ogni epoca.

Popper distingueva inoltre le società essenzialmente in due categorie: «società aperta», ovvero una società nella quale è possibile l’esercizio della critica, e «società chiusa», dove questo non è possibile. Esercizio della critica che deve consentire alcune idee e ne soppiantino altre con queste ultime, che dovranno scomparire perché razionalmente si è dimostrato la loro inapplicabilità, la loro irrazionalità, la loro inutilità. Far scomparire le idee con l’esercizio della critica e non far scomparire gli uomini che le sostengono, sia chiaro, e sempre per dirla con Popper «Il metodo critico o razionale consiste nel far morire al nostro posto le nostre ipotesi»: una sorta di parafrasi di Winston Churchill che, quando il suo partito perse le elezioni per la prima volta, disse alla moglie che era contento perché si era battuto tutta la vita per consentire ad altri di imporre democraticamente altre idee alle sue.

L’atteggiamento riportato da Popper è la base stessa del metodo scientifico, della scienza moderna, che ancora una volta si dimostra non solo essere il più efficace metodo per accrescere la nostra conoscenza ma anche un contenitore di valori che personalmente vorrei continuamente vedere applicati anche in altre aree della vita civile. Se c’è un settore dove prevalgono sempre onestà e moralità è quello della ricerca scientifica proprio perché, è sempre Popper a dirlo, la scienza non è un insieme di predicati verificabili ma è al massimo un insieme di teorie complesse che possono essere, al più, falsificate globalmente. Ogni scienziato sa che ogni teoria ha come limite di validità il momento in cui il confronto con la realtà dovesse fornire elementi per ritenerla non più valida, ed è la teoria stessa che offre gli strumenti di verifica, di falsificabilità. Più onesto di chi, innocente, offre ai propri accusatori gli strumenti atti a cercare di dimostrarne la colpevolezza, chi altri? Ciò ricorda molto da vicino il grande Charles Darwin che dedicò un intero capitolo de “L’origine delle specie” a tentativi di confutazione e relative risposte, anticipando quanto avrebbero potuto fare i suoi critici ed oppositori.

Il fatto che le teorie scientifiche sono, anzi, devono essere criticabili, espresse con chiarezza ed indicanti in anticipo quali fatti potrebbero «falsificarle» è una lezione per la democrazia, per la politica, perché la politica democratica non è, contrariamente a quanto si pensi, il governo del popolo (alla faccia dell’etimologia), o della maggioranza, ma deve semplicemente essere la possibilità di eliminare idee sbagliate od un cattivo governo senza spargimenti di sangue, senza eliminare le persone che le sostengono.

Purtroppo la maggioranza irrazionale appare per ora troppa ed imbattibile, e come dice l’adagio, è inutile cercare di discutere con un idiota, per farlo dovresti abbassarti al suo livello e saresti battuto per inesperienza…

Conclusione

Esempio di metodo scientifico nella vita quotidiana: sorprendente! - Web  Leaders Srl

L'universo è un libro aperto, che racconta una storia che chiunque può leggere, con la preparazione adatta. Non ci sono insegnamenti segreti, non ci sono autorità intoccabili: tutti possiamo imparare la lingua della natura e decifrarne i messaggi. Ogni tanto può anche succedere di avere ragione per il motivo sbagliato ed è per questo che ci vuole un metodo affidabile, che funzioni indipendentemente dallo scienziato di turno.

La scienza, in definitiva, è questo: un metodo, un insieme di pratiche affidabili per costruire una mappa veritiera della realtà, una guida per selezionare tra tutte le storie possibili sul mondo, quelle che meglio si avvicinano a raccontare come stanno davvero le cose.

Senza nulla togliere al potere e all'importanza della riflessione, pensare non basta. Certo, col pensiero si possono fare cose meravigliose, inventare storie, mondi, cercare regolarità, ordinare i fatti, produrre astrazioni. Col solo pensiero sono state composte sinfonie, scritti racconti memorabili come l'Odissea, decidere tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, o meglio ancora tra ciò che è logico e ciò che non lo è. Col solo pensiero si dimostrano i teoremi. Ma se vogliamo capire come è fatto davvero il mondo, in base a quali meccanismi funziona, usando esclusivamente il pensiero non si arriva molto lontano. Occorre trovare un modo per decidere se quello che si è pensato ha a che fare con la realtà oppure no. Una delle cose più frustranti, ma al tempo stesso più eccitanti, per uno scienziato è rendersi conto che per ogni fenomeno naturale possono coesistere diverse interpretazioni alternative, anche perfettamente logiche e razionali, ma che sicuramente molte di esse, se non tutte, sono sbagliate.

Ed è per questo che a un certo, più o meno quattro secoli fa, la scienza si è separata dalla filosofia mantenendo un'origine comune: il tentativo di capire il mondo.

Questa è la potenza del metodo sperimentale, la sua novità assoluta. Quando esistano spiegazioni diverse è la Natura, che direttamente, attraverso l'esperienza empirica, l'esperimento, decide qual è quella giusta. Un antesignano della figura di scienziato, il filosofo Ruggero bacone, diceva, tre secoli prima di galileo: «Argomentando, possiamo giungere a una conclusione ed essere spinti ad ammetterla: ma questo non ci rende certi, né elimina il dubbio, così che la mente possa acquietarsi nell'intuizione della verità, a meno che essa non trovi tale certezza per mezzo dell'esperienza.»

È un po’ più complicato di quanto appare. Per chiedere alla natura di fare da arbitro, e soprattutto per sperare di avere una risposta sensata, occorrono esperienza e bravura. Va posta la domanda nel modo giusto. Vanno eliminate tutte le complicazioni non necessarie, va minimizzato il rischio che la domanda venga fraintesa. Il fenomeno va isolato da tutti gli altri che potrebbero interferire, ed occorre avere il controllo assoluto di tutti i suoi aspetti che si possano controllare, e contemporaneamente avere un'idea il più possibile accurata degli aspetti non controllabili. Va misurato con precisione quantitativamente tutto il misurabile. Occorre essere analitici e non analogici. Occorre rigore e ricontrollare il tutto milioni di volte. L'ipotesi preferita, la spiegazione logica e razionale che si è elaborata mentalmente e che si voglia mettere alla prova, deve essere formulata in maniera tale che qualsiasi esperimento possa dimostrar la falsa, nel caso essa lo sia. E dopo tutto ciò, ottenuta una risposta da un esperimento, quella risposta va interpretata nel modo corretto. È difficile, la scienza è difficile, ma è rigorosa. Rigore, precisione, metodo, controllo, senso critico, capacità di non ingannare se stessi e gli altri, ricerca spietata dell'errore. Sono solo alcuni dei requisiti richiesti per sperare di strappare qualche risposta alla natura.

È una strada senza scorciatoie ma una volta intrapresa, si arriva molto lontano.

E, per questo, fluctuat nec mergitur, non mollo, e continuerò incaponito, a cercare di contrastare le voci del dissenso ignorante, anche se il risultato fosse ricondurre sulla via della ragione, uno solo delle dozzine di inutili idioti che si incontrano quotidianamente.

Perché occorre fidarsi della scienza e del suo metodo, come già ebbi modo di scrivere.


[1] Lungi da me negare il ruolo fondamentale che la filosofia, nel corso della storia dell’umanità, ha avuto nel progresso culturale. Prima che un certo William Whewell inventasse il termine “scienziato”, nel 1834, persone come Galilei, Linneo, Lamarck, Curier, Newton, persino Darwin all’inizio, erano chiamati “filosofi”, naturali ma pur sempre filosofi.
[2] In entrambe le immagini proposte c’è un trucco, abilmente nascosto, ma c’è. Sono paradossi apparenti e possono essere prese ad esempio dell’ostinazione con cui si cerca di negare l’evidenza. Le spiegazioni dei triangoli qui, e qui quella del puzzle.
[3] Due esempi di pseudoscienza a lui cari: la psicologia di Freud e la visione marxista della società e della storia. Scienza purissima per Popper era d’altro canto il lavoro di Einstein.

E come disse l'emiro, torneremo alle caverne (*)

Cambiamento climatico e global warming: c'è ancora chi sostiene che non tutto il male viene per nuocere? Direi che dopo lo scarso risultato (oserei dire un fiasco, nonostante le entusiastiche dichiarazioni, capolavoro di bizantinismo) ottenuto col documento di accordo dell'ultima COP, una trattazione del genere potrebbe anche diventare interessante.

Introduzione

Le voci negazioniste hanno forme molteplici, le forme della bugia, dell’imbroglio, della malafede e del complottismo. Senza ardire a proclamarne la verità assoluta per non incomodare lo spirito di Popper, di contro la voce scientifica, è una, chiarissima. La voce dei fatti incontrovertibili, delle evidenze sperimentali, dei risultati matematici della modellizzazione, dei confronti tra posizioni fino al consenso scientifico. Fortunatamente le prime sembrano avviarsi infine ad essere sempre più flebili e arroccate sulle loro posizioni sbagliate tanto quanto e tanto per iniziare, quanto quelle degli astrologi che credono che ancora oggi tra gennaio e febbraio la Terra sia in Acquario[1].

Proprio grazie al convincimento che è in atto un cambiamento climatico, in questo post, arriverò al paradosso della negazione o peggio, dell’accettazione che tutto sommato non è così grave, indirizziamo i nostri sforzi altrove, i problemi sono altri! Dopotutto, di paradossi ne ho già trattato.

Con cambiamento climatico intendo quanto ribadito nel documento UNFCC, Art. 1, punto 2, cambiamento con forzante antropogenica, distinguendolo dalla naturale variabilità climatica che ha segnato da sempre la storia della Terra, di cui ad esempio ho trattato qui.

Le certezze hanno origini antiche

Fin dai primi decenni dell’Ottocento c’erano scienziati interessati a capire i meccanismi del riscaldamento dell’atmosfera, ben consci che questa da un lato è a contatto con lo spazio esterno, gelido, e dall’altro con la superficie calda della Terra; e per capire i meccanismi delle dinamiche atmosferiche occorreva innanzi tutto capire come il calore venga assorbito e trasportato in due direzioni: dal Sole verso la Terra e dalla superficie terrestre verso lo spazio esterno.

Questa comprensione risultava inoltre necessaria per capire come fosse stato possibile che nel passato geologicamente anche recentissimo le ben note aree temperate europee ed americane avessero vissuto lunghissimi periodi glaciali, di decine di migliaia di anni ciascuno, ricoperte da migliaia di metri di ghiaccio e le cui prove andavano accumulandosi proprio in quel periodo[2]. La paura di un possibile ritorno di quei periodi era figlia di quei tempi, visto che il ricordo della piccola era glaciale, che aveva interessato l’Europa dalla metà del XIV secolo fino alla metà del XIX, nella memoria storica, era, freschissimo!



Si andava quindi alla ricerca delle prove che potessero giustificare un simile cambiamento climatico.
 

Entro le prime decadi del XIX secolo, Jean-Baptiste Fourier, notissimo, e il meno noto Claude Pouillet, erano giunti a comprendere a sufficienza i meccanismi della termodinamica dell’atmosfera, su basi analitiche, ed i relativi processi di irraggiamento, nel 1822 il primo e nel 1838 il secondo. Fourier arriverà a sviluppare strumenti matematici potentissimi, lo sviluppo in serie per le funzioni periodiche, e la trasformata che porta il suo nome, per normalizzare le funzioni non periodiche: strumenti che nascono proprio per rispondere ad una questione termodinamica relativa al clima terrestre, proprio come Newton, in lite con Leibnitz, inventò il calcolo infinitesimale per supportare la sua visione del mondo[3].

Pouillet va oltre: riprendendo l’opera di Fourier scopre che la temperatura superficiale della Terra è influenzata dal diverso grado di assorbimento che l’atmosfera ha nei confronti delle due fonti di calore, ovvero quello che viene essenzialmente dal Sole e quello che arriva invece dalla superficie stessa; allo scopo di comprendere i motivi di questa differenza si spinge a fare delle ipotesi sul ruolo che hanno il biossido di carbonio o il vapore acqueo.

 


Nel 1856 Eunice Newton Foote, la cui storia merita di essere conosciuta, degna figlia di un omonimo del grande Isaac, a seguito di esperimenti mirati[4], scopre che il biossido di carbonio provoca un riscaldamento maggiore dell’aria e scrive: «Un’atmosfera carica di gas acido carbonico[5] darebbe alla nostra Terra una temperatura elevata; e se, come alcuni suppongono, in un periodo della sua storia l'aria fosse stata mescolata con esso in una proporzione maggiore di quella attuale, ne sarebbe derivata una temperatura necessariamente più alta».

Verso la fine del XIX secolo, John Tyndall e Svante Arrhenius, rispettivamente nel 1861 e nel 1896, vanno oltre ed iniziano a misurare gli effetti concreti di alcuni componenti dell’atmosfera, componenti che Tyndall chiama radiativamente attivi e che da soli bastano a giustificare i cambiamenti climatici del passato della Terra. Rifà i calcoli centinaia di volte ma deve arrendersi di fronte all’evidenza: anche piccolissime quantità di biossido di carbonio hanno un fortissimo potere riscaldante.

Arrhenius, che era svedese e temeva particolarmente gli effetti di un periodo glaciale sul suo paese, già naturalmente esposto a climi freddi, riesce a calcolare gli effetti proporzionali tra presenza di biossido di carbonio e tasso di riscaldamento e si sofferma in particolare sugli aumenti della concentrazione di CO2 derivante dalle attività umane, sia come emissione diretta insieme ad altri cosiddetti “gas serra” (come vapore acqueo o metano) capendo che persino attività quali la deforestazione hanno l’effetto di incrementare il tasso di biossido di carbonio e ovviamente deducendone un aumento crescente delle temperature medie.

 




Guarda il lato positivo…

Ma quello che colpisce di più è ciò che emerge in Arrhenius a seguito delle sue ricerche: una visione tutto sommato positiva del futuro dell’umanità a seguito del riscaldamento dell’atmosfera. Se l’obiettivo è evitare un ritorno a periodi glaciali allora ben venga non tanto il ruolo naturale del CO2 in atmosfera ma soprattutto il ruolo dell’umanità nell’emetterne notevoli quantità addizionali, causare quindi un innalzamento globale delle temperature. Scrive:

«Spesso sentiamo lamentarci che il carbone immagazzinato nella terra è sprecato dalla generazione presente senza alcun pensiero per il futuro, e siamo terrorizzati dalla terribile distruzione di vite e proprietà che ha seguito le eruzioni vulcaniche dei nostri giorni. Possiamo trovare una sorta di consolazione nella considerazione che qui, come in ogni altro caso, c'è del bene mescolato al male. Per l'influenza della crescente percentuale di acido carbonico nell'atmosfera, possiamo sperare di godere di epoche con climi più equi e migliori, specialmente per quanto riguarda le regioni più fredde della Terra, epoche in cui la terra produrrà raccolti molto più abbondanti che nel presente, a beneficio di una rapida propagazione dell'umanità»

E ancora:

«Benché il mare, assorbendo l'acido carbonico, agisca come regolatore di grandi capacità, incorporando fino a 5/6 dell'acido carbonico prodotto dobbiamo riconoscere che la piccola percentuale di acido carbonico in atmosfera potrebbe, con l'avanzamento dell'industria, cambiare notevolmente nel corso di pochi secoli

Questa visione, molto comune e piuttosto diffusa fino ai primi decenni del XX secolo è, ribadiamolo, figlia del suo tempo, del timore del ritorno delle grandi glaciazioni.

In maniera non dissimile nel 1938 Guy Callendar calcola molto accuratamente gli effetti del riscaldamento. Con delle proiezioni fino al 2200 (!) l’ingegnere ed inventore inglese stima le emissioni umane di biossido di carbonio pari a circa 5 miliardi di tonnellate l’anno (Gt); siamo in realtà quasi a 40! Calcola per l’anno 2000 335 parti per milione (ppm) di CO2 e per il 2100 fino a 400 ppm; siamo a 420 (anno 2023), in anticipo di quasi un secolo. E, considerando inequivocabile il rapporto causa-effetto della concentrazione di CO2 sul riscaldamento, scrive:

«Si può supporre che la produzione artificiale di questo gas incrementerà considerevolmente nei prossimi secoli. E’ probabile che si dimostrerà benefico per l'umanità in molti modi, oltre che per la produzione di calore elettricità. Ma in ogni caso, grazie all'incremento delle temperature, il ritorno dei mortali ghiacciai dovrebbe essere ritardato indefinitamente.» 

La paura del raffreddamento globale torna ancora, e riecheggia fino gli anni ’70 del XX secolo, quando c’era una certa tendenza, nel mondo accademico, a prevedere un forte raffreddamento della temperatura media nonostante, fin dal 1958, le ricerche (vedi il più recente post) di Charles D. Keeling (nella foto a sinistra, lo abbiamo già incontrato, qui), chimico e pioniere della nascente climatologia, avesse raccolto dati che dimostravano che la quantità di CO2 in atmosfera varia notevolmente nel tempo e da luogo a luogo[6] con cicli periodici di varia natura, influenzandone direttamente gli assorbimenti di calore e con una netta tendenza ad aumentare nel tempo.
 
E ancora nel 1975, Wallace Smith Broecker, (a destra) da molti considerato il padre della terminologia global warming[7], apparsa allora per la prima volta in una rivista scientifica, pubblica un articolo in cui mette nero su bianco che «entro un decennio, l’attuale tendenza al raffreddamento, lascerà il posto ad un pronunciato riscaldamento indotto dal biossido di carbonio (…) Una volta che ciò accadrà l’aumento esponenziale del biossido di carbonio atmosferico tenderà a diventare un fattore significativo e all’inizio del prossimo secolo avrà portato la temperatura planetaria media oltre i limiti sperimentati negli ultimi mille anni.»[8]




Meglio caldo che freddo?

Ma torniamo a quella visione benevola, quella di Arrhenius che appunto da buon svedese, era oltremodo preoccupato da un ritorno di climi freddi, anzi freddissimi. Visione condivisa da molti suoi contemporanei. 

È paradossale, e di paradossi tratteremo adesso, ma i negazionisti, in malafede, ricordano a volte e da vicino talune posizioni di quei primi ricercatori, che già a cavallo tra XIX e XX secolo, avevano provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il rapporto diretto di causa-effetto tra concentrazione di gas serra, in particolare biossido di carbonio, e aumento delle temperature. Un punto di vista per nulla preoccupato e anzi benevolo, perché si sosteneva che tutto sommato un aumento delle temperature medie avrebbe evitato il ritorno ad un periodo glaciale come nei millenni passati. Meglio caldo che freddo insomma.

Con riferimento alle popolazioni che vivono in quella fascia del pianeta che ricade nella cosiddetta “zona temperata boreale”, o poco più a nord, (più o meno la fascia verde nell’immagine), questo ragionamento potrebbe anche andar bene. E a ben vedere è quella fascia del pianeta che ha assistito per prima alla nascita dell’agricoltura e delle prime civiltà, spandendosi in seguito a macchia d’olio ed impiegando per farlo qualche millennio, restando sempre più o meno alle stesse latitudini, dai territori della Mezzaluna Fertile fino agli estremi occidentali dell’Europa e a quelli orientali del continente asiatico, come ci racconta Jared Diamond nel suo bel libro “Armi, acciaio e malattie”. Tuttavia, quando si tratta di civiltà umane, non ci si può accontentare delle sole cause climatiche per giustificare determinate evoluzioni. L’esempio dell’ascesa e del declino dei vichinghi in Groenlandia tra X e XIII secolo è uno dei tanti; quando il clima si fece più freddo la cosa non diede particolarmente fastidio alle popolazioni indigene degli inuit, che provenivano da nord. Questi traevano sussistenza da una cultura basata su caccia e pesca, ed erano usi a vestire di pelliccia; i vichinghi erano agricoltori e pastori, non abbandonarono mai la tradizione di vestire di stoffe, inadatte al clima artico. Un altro esempio di imprevedibilità dovuta all’adattamento umano ci viene da un recente studio del CNR. 

Secondo i ricercatori, le comunità archeologiche della Mezzaluna Fertile erano molto più versatili di quanto si potesse immaginare; la variabilità climatica, che porta a un aumento dello stress o al miglioramento delle condizioni ambientali di fondo, sembra solo modulare le dinamiche culturali e di sussistenza esistenti, che tuttavia non sono direttamente attribuibili al cambiamento climatico stesso. Le variazioni climatiche giocano un ruolo limitato nel governare le dinamiche delle comunità complesse, che dimostrano capacità di adattamento e di reazione ai cambiamenti e con grandi abilità di resistere a condizioni apparentemente avverse. In altre parole, le variazioni climatiche agirebbero solo come spinta per accelerare processi culturali già in atto.

Alla via così…

E allora facciamo finta che non esistano eventuali (e certissime) turbative che il cambiamento climatico può indurre pressoché ovunque in termini di fenomeni estremi, causa diretta o indiretta del riscaldamento[9]; così facendo quella ristretta fascia di territorio potrebbe addirittura trarre beneficio dal riscaldamento, con buona pace dell’industria turistica dello sci ovviamente (…)[10]. Pensate su quanti milioni di ettari per nuove coltivazioni cerealicole potrebbero contare i russi dopo lo scioglimento del permafrost, e chi se ne frega (…) se centinaia di centri abitati dovranno essere ricostruiti chissà dove dopo il crollo delle fondamenta basate su terreni che si suppongono sempre gelati: accade già oggi. Anzi, il gas serra dieci volte più assorbente del CO2, il metano contenuto nei terreni gelati, verrebbe liberato in atmosfera con retroazione positiva (…) a riscaldare ulteriormente l’atmosfera di quelle zone. Ma tutto quel grano, a chi lo venderanno visto che gran parte della fascia compresa tra i due tropici sarà stata pressoché desertificata e spopolata (…)?
Il ricco Occidente ne uscirà tutto sommato ancora una volta vittorioso: dopo tutto abbiamo i mezzi e la tecnologia necessari per adattarci al cambiamento climatico e un riscaldamento è meglio di un raffreddamento; meno territorio sottoposto ai rigori di inverni sempre più rigidi. Quindi se il riscaldamento globale significa più terre da coltivare perché sottratte al ghiaccio o comunque a climi estremi, maggiori risorse, meno problemi di salute perché col caldo non ci si ammala come col freddo, ci si lava di più e si è meno soggetti ad epidemie[11], allora la cosa può anche giustificare certe posizioni negazioniste (…). E poi vuoi mettere quanta benzina e gasolio risparmiati in Yakutia d’inverno che oggi sono impiegati per tenere accesi i motori delle auto e dei camion 24 su 24 che altrimenti congelerebbero all’istante (…)?

Non facciamo dunque nulla perché tanto non c'è nessuna emergenza e al massimo andremo a star meglio (…). 

L’Italia, o la Grecia e persino la Spagna o il sud della Francia, meriterebbero un discorso a parte. Innanzi tutto la linea di costa dovrà essere spostata sempre più verso l’interno a causa dell’innalzamento del livello medio del Mediterraneo: crescita non compensata dall’aumentato tasso di evaporazione che renderà il mare sempre meno pescoso tra acidificazione e aumento della salinità complessiva. Non basta? 

Potremmo comunque adattarci? Ma sì, tutto sommato non abbiamo la potenza economica degli Emirati Arabi Uniti per trasformare Roma in una novella Abu Dhabi ma sicuramente il Grande Raccordo Anulare sopravviverebbe alla trasformazione della capitale in una città in stile marocchino. E nel frattempo il turismo rivierasco romagnolo si sarà spostato sui fiordi norvegesi (…).

 

Pronti all’accoglienza?

E’ di queste ore la notizia che un miliardo e mezzo di persone sono pronte a migrare dal sud del mondo verso il nord del mondo, e questo siamo noi: l’Occidente di cui scrivevo. Anzi, entro la fine del secolo il cambiamento climatico potrebbe portare, tra siccità da un lato e paradossalmente inondazioni dall’altro, qualcosa come tre miliardi e mezzo di persone a migrare o cercare di farlo. Un quinto della superficie terrestre potrà subire un incremento significativo di gravi inondazioni della durata di settimane, costringendo gli abitanti a spostarsi; e in opposizione all’abbondanza d’acqua centinaia di milioni di persone che dipendono dall’acqua dei ghiacciai resteranno letteralmente a bocca asciutta.

 

Quindi, se tutto sommato il nord del mondo potrebbe adattarsi ad un cambiamento climatico così come già fecero le popolazioni europee durante la piccola era glaciale, con una bella sfoltita[12] dovuta a carestie, epidemie, malattie e chi più ne ha più ne metta, va ancora bene.

Ma è pronto il nord del mondo a riconoscere ed accettare le conseguenze di un cambiamento climatico di tale portata? Centinaia di milioni se non miliardi di esseri umani destinati a morire e miliardi di altri esseri umani in migrazione continua dal sud del mondo che diventerà sempre più arido e invivibile, verso il nord del mondo, ovvero noi.

L’atteggiamento che paesi come gli Stati Uniti e la pressoché totale compagine europea hanno nei confronti dei flussi migratori non promettono né premettono nulla di positivo; e proprio in questi giorni le richieste di essere accoglienti vengono respinte al mittente inequivocabilmente.

Siete disposti ad accettare uno scenario del genere? Se sì, accomodatevi perché il futuro è già qui.

Dimenticavo, l’Europa si scalda al doppio della velocità con cui lo fa il resto del mondo (…)

Bibliografia:

Gianluca Lentini. La Groenlandia non era tutta verde
Jared Diamond. Armi acciaio e malattie
Ian Stewart. Le 17 equazioni che hanno cambiato il mondo
Wolfgang Behringer. Storia culturale del clima


[1] E ci fanno persino calcoli!
[2] Già a metà Ottocento lo svizzero Louis Agassiz ne aveva fornito prove.
[3] Vedi qui.
[4] Un paio di tubi di vetro per contenere aria o suoi miscugli, una pompa per fare il vuoto, un giardino assolato od ombreggiato, un paio di termometri. E tanto ingegno.
[5] Acido carbonico era il nome dato allora al biossido di carbonio, CO2, (noto anche come anidride carbonica, definizione comunque non in linea con la nomenclatura chimica ufficiale).
[6] Si veda anche un mio precedente post.
[7] Essere così definito non gli fu mai cosa gradita. Personalmente non amo questa terminologia, quel warm potrebbe anche ricordare qualcosa di gradevole, un caminetto acceso, scene romantiche.
[8] Su questo blog ho scritto numerosi post in relazione alle evidenze del cambiamento climatico in atto: oltre a quanto indicato nella nota 4 ad esempio qui, e qui.
[9] Si pensi agli affetti de El Niño. Ne ho scritto qui.
[10] (…) indica ironia e paradosso.
[11] Il già citato Behringer lo racconta chiaramente: dato che col freddo ci si veste di più e l’igiene tende a scarseggiare, pulci e pidocchi stanno invece benissimo. I tedeschi il pidocchio del corpo umano lo chiamano Kleiderlaus, pidocchio dei vestiti.
[12] Nella tabella il grande collasso demografico a cavallo del XIV ha le sue origini dirette nelle epidemie e nella catastrofica carestia di quel periodo. Entrambi causati in parte anche dalle pessime condizioni climatiche.

(*) Il riferimento ironico è a quanto dichiarato dall'emiro Sultan Al Jaber, leader degli Emirati Arabi Uniti, paese ospitante la COP28.

Sul filo del rasoio

Abbiamo visto nel post precedente come nella modellizzazione un ruolo importante è svolto dalla semplicità. I modelli sono quasi sempre versioni semplificate di un sistema del mondo reale da cui possiamo togliere deliberatamente alcune parti non essenziali per capire. La semplificazione nei modelli è uno dei ruoli della semplicità nella scienza. Ma ce n’è un altro.

Ci sono numerosi esponenti di una scuola di pensiero che afferma che se dobbiamo scegliere tra teorie antagoniste, quelle semplici siano preferibili a quelle complesse. Parafrasando ancora una volta Tolstoj «Tutte le teorie semplici sono semplici allo stesso modo; ogni teoria complessa è complessa a modo suo». Ma cosa distingue una teoria complessa da una semplice? Un’onda sinusoidale è complicata perché la curva cambia direzione molto spesso, o è semplice perché segue una regola periodica?

Chiunque abbia un minimo di dimestichezza col metodo scientifico, con la scienza in genere avrà sicuramente sentito nominare il cosiddetto “rasoio di Occam”, chiamato in causa anche dal sottoscritto in altra occasione. Il modo più immediato per esprimere questa non monastica regola recita così: non postulare enti oltre la necessità. Ove possibile, dobbiamo eliminare la complessità eccessiva, dobbiamo essere parsimoniosi, e il rasoio di Occam a volte viene chiamato anche principio di parsimonia.

Il monaco Guglielmo di Occam (o meglio Ockham, dove nacque, in Inghilterra) era un teologo inglese vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo. Anche se non c’è chiarezza sembra che debba essere associato strettamente al principio. Ed è comunque in buona compagnia: Isaac Newton, nei suoi Principi (1687), presentò regole esplicite per fare scienza e la “Regola aurea”: «degli eventi naturali non si devono ammettere cause più numerose di quelle che sono vere e sono sufficienti a spiegare i fenomeni». Anche se il dibattito su cosa davvero intendesse Newton con causa “vera” è tutt’ora in corso.

Le spiegazioni filosofiche della conoscenza spesso assegnano un ruolo centrale alla semplicità.

Un famosissimo filosofo, Quine, da alcuni chiamato “il filosofo del filosofo”, considerava la totalità del nostro sistema di credenza una costruzione umana, che viene a contatto con l’esperienza solo marginalmente e, per mantenere questo “margine” del nostro sistema di credenze compatibile con l’esperienza della dobbiamo semplificare. Qualsiasi altro aggiustamento che facciamo al sistema «ha come obiettivo la semplicità delle leggi».

Ammettiamolo, ci sono famosissime leggi fisiche, illustrate dalla loro espressione matematica che sono ad un tempo eleganti e, per lo meno esteticamente, semplicissime. In che cosa consiste, di preciso, la semplicità che dovremmo cercare? Come qualcuno ha scritto devono essere anche…belle?

In primo luogo, in una teoria si possono usare più o meno entità e comunque potrebbe non avere importanza che queste siano in numero ridotto piuttosto che invece avere meno generi di cose: in una teoria della gravitazione semplificata aggiungere alla propria descrizione più pianeti, avendone già inseriti, potrebbe non avere importanza, dovendo fare il più possibile prima di aggiungere qualcos'altro. Terzo, potremmo preferire le organizzazioni causali meno complesse a quelle più complesse. Questo può entrare in conflitto con altri generi di semplicità; si potrebbe riuscire a raccontare una storia con un piccolo numero di fattori causali, ma solo se sono organizzati in modo molto elaborato. Infine, una teoria più semplice potrebbe essere più compatta da scrivere, anche se ciò dipenderà dal linguaggio scelto, ed è difficile considerarla una questione importante, se non come guida ad altri generi di semplicità.

La semplicità è stata valorizzata per molte ragioni. Forse, a parità di altre condizioni, e questa è già una semplificazione, dovremmo preferire le teorie più semplici perché è più plausibile che siano vere? O è possibile valorizzare la semplicità per altre ragioni, per esempio perché le teorie semplici sono più facili da utilizzare?

C'è una certa dose di artificiosità nel modo in cui questo problema viene presentato di solito. Spesso si dice che quando più teorie soddisfano i dati si dovrebbe scegliere la più semplice: ma è davvero così? La formulazione della teoria della gravitazione newtoniana è sicuramente più semplice di quella einsteniana ma non soddisfa né la spiegazione della misteriosa azione a distanza, né le velocità relativistiche e infine bastano tre corpi anziché due per ritrovarsi già con un bel problema.

Ma nelle situazioni che coinvolgono le evidenze non ci sono soltanto posizioni in cui i dati escludono una teoria o si accordano a questa: una teoria, lo abbiamo visto quando scrissi sul consenso scientifico, può ottenere da un dato qualsiasi quantità di supporto, esprimibile in gradi. Spesso non serve proprio scegliere tra le teorie. Si possono tenere d'occhio le diverse possibilità, mantenendo diversi gradi di fiducia in esse, comprese teorie semplici e alcune più complicate.

Ma a parte tutto ciò perché preferire la semplicità? Qualcuno afferma che conviene attenersi ad essa per evitare complicazioni inutili. Ma questa non è una gran giustificazione anche se la preferenza per la semplicità sulla base della mera convenienza sarebbe una preferenza innocua. È possibile anche semplificare deliberatamente costruendo dei modelli ma questi non hanno nulla a che fare col “rasoio di Occam”: pur sapendo che un modello semplice non è in qualche modo anche accurato, possiamo comunque usarlo per capire alcuni aspetti di un sistema che rappresenta.

Preferire le teorie semplici perché è più plausibile che ci conducano alla verità? Se è così, perché? Perché il mondo dovrebbe essere semplice? Fino al XVII secolo le versione della preferenza per la semplicità si basavano spesso sull’assunto che se dio ha creato il mondo, possiamo aspettarci la semplicità perché è più adatta o più giusta. Ed è un pensiero ancora largamente diffuso, associato all’opinione, altrettanto diffusa, che la Natura (quella con la N), ci viene detto, non fa cose invano, non complica. Ma una volta che le divinità vengono escluse dal quadro, o che si introduca un po’ di caso, ne basta poco, questo assunto diventa del tutto infondato.

Torniamo a quella bellezza a cui abbiamo accennato. Einstein diceva che «il mistero più grande è la nostra capacità di conoscere l’universo, di afferrarne la misteriosa semplicità e bellezza». Semplicità e bellezza ancora una volta. Le teorie semplici che funzionano bene hanno un aspetto piacevole: ottenere molto da poco è piacevole. Ma il fatto che sarebbe bene che una teoria semplice funzionasse bene non significa che tale teoria funzionerà bene, ed a questo proposito ricordiamo le parole contrastanti di un fisico cinese, naturalizzato statunitense, Tai Tsun Wu: «Una teoria, in fisica, deve essere bella per poter ottenere più verità. La teoria della relatività generale di Einstein è così bella, così bella che l'ho trovata difficilissima da capire

A volte si è sostenuto pure che la storia della scienza favorisce una preferenza per la semplicità, ma di evidenze in tal senso non ce ne sono. Per esempio, pare che Michael Faraday, pioniere sperimentale dell'elettricità e del magnetismo nel XIX secolo, dubitasse della teoria degli elementi chimici di Dalton, con le sue decine di elementi (nelle versioni tarde), perché gli sembrava troppo complessa in confronto ad altre posizioni del tempo che avevano molte meno entità di base. Non fu una scelta molto buona e la teoria di Dalton fu un grosso passo in avanti.

In chimica, la semplicità dell'immagine del mondo ha avuto alti e bassi. Nelle teorie più antiche, c'erano spesso quattro o cinque elementi, mentre con Dalton e Mendeleev nel XIX secolo ce n'erano decine, che crebbero fino a diventare più di cento. In seguito, includendo la fisica, fu possibile spiegare tutti quegli elementi nei termini di tre particelle subatomiche: gli elettroni, i protoni e i neutroni. Quelle particelle vennero poi suddivise e se ne aggiunsero molte altre, raggiungendo oggi circa la trentina. La semplicità va e viene. Come andrà a finire?


Per prima cosa, ci sono alcuni casi speciali, cioè alcune aree della scienza, in cui una particolare semplicità è preferibile nelle ipotesi, per via del modo in cui pensiamo che funzioni quella parte del mondo. Nell'evoluzione biologica, per esempio, le mutazioni sono eventi piuttosto rari, ancor più rari le mutazioni vantaggiose. La maggior parte delle mutazioni o non fa nulla o è negativa per l'organismo. Quindi le ipotesi evoluzionistiche che richiedono numeri più piccoli di mutazioni vantaggiose sono generalmente preferibili a quelle che ne richiedono molte. Sono ipotesi più semplici perché richiedono che accadano meno eventi poco plausibili.

Uno dei più famosi filosofi della scienza, Karl Popper, ha contribuito alla filosofia della scienza in molti modi, ma uno dei più importanti e conosciuti è la sua visione della scienza, incentrata su una coppia di idee semplici, chiare e straordinarie. Innanzi tutto distinguere la Scienza, con la S, dalla pseudoscienza (non necessariamente priva di significato ma comunque non scienza[1]) per mezzo del falsificazionismo, il nome che il filosofo diede alla propria soluzione: un’ipotesi è scientifica se e solo se ha il potenziale di essere confutata da qualche possibile osservazione. Per essere scientifica, un'ipotesi deve correre un rischio, deve mettersi in gioco. Se una teoria non si assume alcun rischio perché è compatibile con ogni possibile osservazione, allora non è scientifica. E fin qui tutto bene. Ma Popper usava l'idea della falsificazione anche in modo più ambizioso. Sosteneva che tutte le verifiche nella scienza hanno la forma di tentativi di confutare delle teorie mediante l'osservazione. Cosa cruciale è che non è mai possibile confermare o dimostrare una teoria mostrando che si accorda con le osservazioni. La conferma è un mito. L'unica cosa che un test osservazionale può fare è mostrare che una teoria è falsa. Alcuni degli scienziati che considerano Popper un eroe non realizzano che egli credeva che non è mai possibile confermare una teoria nemmeno in parte, indipendentemente da quante osservazioni la teoria ci aiuta a prevedere con successo. Non sembra proprio di essere in tema di semplicità. Prendiamo la teoria proposta da qualcuno e deduciamo da essa una previsione osservazionale. Se le cose avvengono come da previsione, allora dobbiamo dire di non aver ancora falsificato la teoria. Per Popper, non possiamo concludere che la teoria è vera, né che è probabilmente vera e neppure che è più probabile che sia vera di quanto fosse prima del test. La teoria potrebbe essere vera, ma non possiamo dire più di questo: potrebbero passare anni senza riuscire a falsificare una teoria ma per Popper ciò significherebbe che è semplicemente sopravvissuta ai tentativi di falsificazione. Ciò non significa ovviamente che gli scienziati debbano trascorrere quasi tutto il loro tempo a tentare di falsificare una teoria, ma solo che dovremmo sempre mantenere un atteggiamento di cautela. E’ comunque la cattiva interpretazione, strumentale, del pensiero di Popper, che apre le porte ai negazionisti di ogni epoca.

Dopo questa interessante digressione torniamo al tema principale. Popper pensava che le teorie semplici, in molti casi, potessero essere falsificate facilmente se erano false. Quindi, è bene lavorarci perché si assumono dei rischi, come piaceva a lui. Non c'è motivo di pensare che una teoria semplice sia vera, ma è più semplice dimostrare che è falsa, se lo è, e questa è una virtù.

Un esempio usato da Popper e da altri è tratto dalla matematica. Supponiamo di ottenere dei dati nella forma di coordinate (x,y). Bastano pochi dati per falsificare l'ipotesi che la relazione sottostante ai dati abbia la forma di una linea retta, meno di quanti ne servano per falsificare l'ipotesi che quella funzione sia quadratica, o sia un'altra funzione con potenze di x ancora più alte.

Pare che l'ipotesi della linea retta sia più semplice e la teoria più semplice si assume anche maggiori rischi.[2]

Le teorie in cui le ipotesi che si assumono dei rischi, quelle che “vincolano i dati” parecchio, ottengono una spinta quando le cose si rivelano essere come loro imponevano. Le ipotesi semplici vincolano i dati più delle teorie complicate.

Aggiungo sulla semplicità un'ultima cosa, che considero una motivazione più informale per la preferenza per la semplicità, che richiama un po' l'idea di Popper. Se si parte da una teoria semplice, una teoria con pochi fattori causali, allora, quando arrivano delle osservazioni che contrastano con la posizione iniziale, si può essere in grado di spiegare che cosa succede più di quanto si potrebbe fare se si stesse lavorando con una teoria molto complessa. Quindi può essere ragionevole iniziare lavorando con idee semplici anche se ci si aspetta di essere sospinti verso posizioni più complesse. La “spinta” funziona meglio o più chiaramente se si lavora in questo modo.

John Maynard Smith, un biologo evoluzionista di spicco del XX secolo, aveva un atteggiamento di questo tipo. Qualche volta difende un'immagine dell'evoluzione estremamente semplice, basata sull'assunzione che la mutazione e la selezione naturale possano trovare in generale soluzioni quasi perfette ai problemi affrontati dagli organismi. Ma questa visione della teoria dell'evoluzione non tiene conto di molti fattori, tra i quali i vincoli che derivano dalle sequenze di sviluppo di un organismo. Maynard Smith non pensava che l'evoluzione fosse così semplice, ma pensava che, per riflettere su un caso particolare, fosse bene iniziare con una struttura semplice e usarla come base per riflettere su possibilità più complicate.

Questo modo di pensare è collegato all'uso di modelli (ancora loro) deliberatamente semplificati. In quel metodo di lavoro si semplifica deliberatamente per arrivare a comprendere alcune relazioni all'opera in sistemi complicati. Qui invece usiamo la semplicità come punto di partenza. I due approcci sono molto simili; si potrebbe dire: “Assumiamo prima che il sistema sia semplice e vediamo come va”, o “So che questo sistema non è semplice, ma fingerò che lo sia, perché questo mi aiuterà a capire alcune delle sue caratteristiche”.

Abbiamo affermato che la preferenza per la semplicità potrebbe dipendere dalla maggiore probabilità che le teorie siano vere: questo non è assolutamente corretto. Oppure perché più facili da utilizzare: anche qui, ci sono parecchi dubbi in proposito. Proviamo a mescolare i due concetti: “In molte situazioni è bene iniziare a lavorare con delle teorie semplici e vedere come se la cavano, perché è più plausibile che questo alla fine ci conduca alla verità”. Qualcosa del genere potrebbe essere corretto.

Vorrei concludere con un riferimento ancora una volta alla biologia, scienza unica. Nel mondo inanimato non esistono sistemi la cui complessità sia comparabile, in qualche modo, a quella dei sistemi biologici formati da macromolecole e da cellule. Tali sistemi possiedono una enorme quantità di proprietà emergenti, perché ad ogni livello di integrazione o di interazione, emergono continuamente una gran quantità di nuovi sistemi di proprietà. E' vero che questi sistemi possono essere ridotti in componenti meno complessi, quasi sempre migliorandone la comprensione, ma i sistemi biologici sono sistemi aperti, ampiamente dotati della capacità di riproduzione, metabolismo, replicazione, adattabilità, crescita e organizzazione gerarchica; non ultimo relazione con altri sistemi biologici e non e in evoluzione nel tempo. Nel mondo inanimato non c'è nulla di simile.

Dubito che la preferenza per la semplicità possa portare da qualche parte in biologia e, lasciatemelo dire, anche in geologia.


 

Nota bibliografica: Peter Godfrey-Smith. “Teoria e realtà. Introduzione alla filosofia della scienza.


[1] Due esempi di pseudoscienza a lui cari: la psicologia di Freud e la visione marxista della società e della storia. Scienza purissima per Popper era d’altro canto il lavoro di Einstein.
[2] Approfondimento sulla maggior falsificabilità della retta.


Ecco un approfondimento su un punto che ho introdotto brevemente nel paragrafo sulla semplicità, che ha a che fare con la relazione tra semplicità e falsificazione. All'inizio, sembra chiaro che l'ipotesi secondo la quale una funzione che collega due variabili è una linea retta sia più facile da falsificare (in linea di principio) rispetto all'ipotesi che la funzione è quadratica y = ax+ bx + c o con potenze di x ancora più alte. Tre punti possono essere sufficienti per mostrare che una curva non può essere una linea retta, ma ne servono quattro per mostrare che la curva non è quadratica e così via a salire. L'ipotesi che la curva sia una linea retta sembra anche più semplice. Tuttavia, si tratta di una situazione in cui l'ipotesi dell'aspetto più semplice (linea retta) è un caso speciale dell'ipotesi più complessa (quadratica), dato che la linea retta è una curva quadratica con il parametro a maggiore o uguale a zero. Quindi, in verità, l'ipotesi che la funzione sia quadratica è un'ipotesi più ampia ma meno specifica, che permette sia le opzioni che sembrano semplici (linee rette) sia opzioni di altro genere. L'ipotesi più ampia è anche più difficile da falsificare.