Estinzioni, spirito del tempo, immaginario e certezze

In passato ho già trattato di estinzioni di massa, e non molto tempo fa ho anche avuto modo di leggere e recensire il bel libro di Elizabeth Kolbert. 

Vorrei però riprendere alcuni concetti, in relazione soprattutto a quanto ad oggi è ampiamente riconosciuto e legato al tema della cosiddetta sesta estinzione, - proprio come il titolo del libro della Kolbert – relazionandoli con quanto fa parte di temi più sociologici che scientifici. In un post successivo invece, altre considerazioni.

Sappiamo che in un’estinzione di massa il fine cesello della selezione naturale diventa una sorta di scure che elimina di colpo non tanto singole specie, ma interi gruppi di organismi, e fare confronti sarebbe come comparare i morti a causa di una guerra con quelli dovuti a incidenti naturali o malattie. Una comparazione inutile e insensata.

Il tasso di scomparsa delle specie si può misurare, soprattutto per il passato, grazie ai registri fossili: è chiamato tasso di estinzione di fondo, e i paleontologi ci raccontano, ad esempio, che gli anfibi nel Cenozoico, gli ultimi 60 milioni di anni circa, scompaiono, di fondo, al ritmo di una rana o di una salamandra ogni secolo: 0,01 specie/anno (una specie ogni secolo). Al verificarsi di un’estinzione di massa gli equilibri tra evoluzione e cambiamenti ambientali vengono stravolti e accade che nel giro di tempi (geologicamente) brevissimi scompaia il 70 o persino l’80 percento delle specie animali e vegetali, falcidiando non solo singole specie ma interi gruppi di queste. Le modifiche ambientali accelerano così tanto che la biosfera non riesce a stare al passo. D'altra parte invece, calcolare il tasso di speciazione, ovvero di comparsa di nuove specie, è piuttosto arduo perché dipende da una varietà di fattori ambientali e biologici.

Fotogramma dal film "Fantasia"

Quando ero da poco laureato in geologia (1982) e con una scarsa simpatia per la paleontologia, a pochi anni di distanza dal lavoro degli Alvarez - padre e figlio - del 1980, sull’impatto meteoritico che comportò l’estinzione della fine del Mesozoico circa 65 milioni di anni fa, su questa ecatombe se ne diceva di tutto e di più (l’estinzione più famosa e di moda, che eliminò il 76% delle specie marine e continentali, e tra queste, provocò la scomparsa totale dei dinosauri non aviani). Furono tirate fuori persino vecchie idee evolutivamente insostenibili, tipo quella che vedeva i dinosauri grossi, pigri e stupidi, farsi fregare dai furbi, vivaci, a sangue caldo, e persino intelligenti mammiferi. Ricordo perfettamente che il grandissimo Prof. Bruno Accordi, mi parlò, autografandomi il suo libro “Storia della geologia” (del 1984!), di senescenza (sic) delle specie.

Ma trovare qualcosa che li avesse sterminati, così come appariva evidente dalle prove paleontologiche, era difficile. Nessun’altra ipotesi - raffreddamento globale, epidemie virulente, genocidio da parte dei mammiferi che mangiavano le loro uova, allergie mortali (sic) alle piante appena evolutesi – era migliore di quell’apocalittica caduta del meteorite.

A dire il vero di ipotesi extraterrestre ce n’era un’altra: radiazione cosmica letale partita da una supernova esplosa chissà dove, che aveva raggiunto la Terra proprio nel momento in cui i poli magnetici si stavano invertendo, esponendola ai terribili raggi gamma.

Insomma, le idee sulle estinzioni sembrano essere in un certo modo influenzate alle fonti di angoscia esistenziale in voga al momento. Cosa c’è di meglio del passato geologico per proiettare le nostre paure più nascoste? Attenzione però: questo non significa che le ipotesi fatte sulle estinzioni di massa non siano scientifiche, ma il terrore per nuovi tipi di apocalisse alimenta la nostra immaginazione su possibile scenari di cataclismi del passato. Per i più curiosi, andate a vedere come Walt Disney, nel suo “Fantasia”, del 1940, immaginò le cause dell’estinzione dei dinosauri: è istruttivo.

Charles Lyell e Charles Darwin

I grandissimi Charles, Lyell e Darwin, vissuti in piena epoca vittoriana, non chiamavano in causa, e anzi aborrivano, ipotesi di catastrofi geologiche – soprattutto bibliche - non solo per convinzione scientifica, ma anche perché parte dello spirito del tempo, ottimista riguardo alla capacità di progresso scientifico e tecnologico a migliorare le condizioni dell’umanità. Uniformitarismo era il motto del primo e natura non facit saltus del secondo. Se Armageddon fosse stato proiettato allora sarebbe stato un fiasco.

Ma nel 1980 si usciva da poco dalla Guerra Fredda e da decenni di terrore per il cosiddetto olocausto nucleare e fu allora che emerse l’ipotesi di impatto meteoritico: causa di un polveroso sudario di roccia disintegrata e lanciata nella stratosfera, bloccando la fotosintesi e portando alla fame gli abitanti del pianeta. A ricordare molto da vicino quel che l’astronomo Carl Sagan e il chimico dell’atmosfera Paul Crutzen (colui che nel 2002 coniò il termine Antropocene) chiamarono inverno nucleare negli anni Settanta. E l’eruzione del Sant’Elena dello stesso anno ci mise un bel carico.

Ma passano gli anni e con questi cambiano le paure. Nel 1990 fu identificato il cratere dell’impatto catastrofico, Chicxulub, nella penisola dello Yucatan. Il muro di Berlino era caduto l’anno precedente, l’olocausto nucleare non faceva più paura come prima, e allora pian piano si faceva strada una presa di coscienza importante che individuava nelle malefatte sull’ambiente uno scenario di declino dell’umanità. Piogge acide, emissioni solforose provocate da decenni di combustione del carbone, le cui conseguenze erano visibili a tutti, come provato dalla devastazione provocata da questi agenti nelle foreste di mezza Europa. 

Pinatubo, 1991

Ed ecco che una nuova scuola di pensiero si fa strada a spiegare l’estinzione del Cretaceo: gli organismi protetti da guscio delle acque profonde se la cavano meglio di quelli dei bassi fondali, quel che ci si aspetta da un oceano inacidito per colpa dell’acido solforico. E guarda caso nello Yucatan, nelle rocce del cratere, c’erano spessi strati di anidrite, una roccia ricchissima in solfato di zolfo che, se vaporizzato dall’impatto nell’atmosfera avrebbe creato piogge acide corrosive. Nel 1991 un’altra straordinaria coincidenza: nelle Filippine, il vulcano Pinatubo, fa un botto dieci volte più potente del Sant’Elena e immette in atmosfera tanto di quel solfato che la crescita inesorabile e continua delle temperature medie del pianeta si ferma per due anni. Gli immensi volumi di zolfo lanciati dal cratere nello Yucatan avrebbero potuto provocare un raffreddamento ancora maggiore. Quindi fu lo zolfo il fattore cruciale, non la polvere. O no?

Ma i paleontologi non erano d’accordo, tanto per cambiare. Le piogge acide dovrebbero alterare soprattutto gli ecosistemi di acqua dolce. Come spiegare che gli anfibi sensibili ai cambiamenti del chimismo dell’acqua ebbero tassi di sopravvivenza prossimi al 90 percento, molto più alti di quelli che vivevano sulla terraferma, dove solo il 12 percento resistette?

E così i paleontologi più seri iniziarono a pensare che il fallimento di uno qualsiasi dei meccanismi di sterminio proposti per rendere conto dei dettagli dipendesse dal fatto che l’asteroide non fosse stato l’unico agente, un assassino solitario, ma che avesse dato una sorta di colpo di grazia alla biosfera già indebolita da altre ferite mortali.

E da questo punto di vista uno degli agenti letali più citato è il vulcanismo, in particolare le eruzioni che produssero un accumulo di basalti spesso 2 km ed estesi per 500.000 kmq, e rintracciabile nell’India odierna: i cosiddetti Trappi del Deccan. Dopo tutto fenomeni effusivi di questo tipo sono rintracciabili anche per altre estinzioni.

Per decine di migliaia di anni precedenti l’estinzione, le colate laviche rilasciarono enormi quantità di biossido di carbonio, creando un mondo che era già in pericolo di vita; quando arrivò la mazzata dell’asteroide che, come non bastasse, vaporizzò uno spesso strato di calcare iniettando ulteriore gas serra, passato l’effetto immediato di clima gelido dovuto alla coltre di cenere che in atmosfera schermava la radiazione solare (avete mai sentito parlare dell’anno senza estate? Ecco, quello fu una sciocchezza in confronto), il clima si sarebbe trasformato in una sorta di serra asfissiante.

Il carismatico asteroide condivide il palcoscenico con i molto meno affascinanti gas serra.

Per chi volesse approfondire consiglio il libro dell’amico Aldo Piombino “Il meteorite e il vulcano”.

Ciò nonostante, il filone del catastrofismo legalizzato è ancora ricco, e numerosi sono gli studi alla ricerca di prove di crateri da impatto che avrebbero causato estinzioni. Peccato, o per fortuna, che in 30 anni non sia giunto nessun risultato che lo provi.

Ed a causa di certe scuole di pensiero si perde di vista un aspetto essenziale: la storia geologica della Terra insegna che molto spesso le cose possono andare terribilmente storte per ragioni completamente interne al sistema terrestre. 

Abbiamo visto in passato che ci sono le prove di ben cinque estinzioni di massa nella storia tutto sommato recente, sempre geologicamente parlando, della Terra. Rivediamole rapidamente.

  1. Dopo l’esplosione della vita nel Cambriano, ci fu una sfoltita nel tardo Ordoviciano, circa 440 milioni di anni fa (Ma).
  2. Nel Devoniano, circa 365 Ma, una coppia di estinzioni molto vicine nel tempo, quando la vita macroscopica si era trasferita sulla terraferma.
  3. A fine Permiano, 250 Ma, la madre di tutte le estinzioni di massa, che pose fine all’era Paleozoica, cosa già nota a metà del XIX secolo.
  4. Dopo soli 50 milioni di anni dalla precedente, l’evento del tardo Triassico (200 Ma).
  5. Quella vista nei paragrafi precedente, circa 65 Ma, tra Cretaceo e inizio del Terziario (K/T) e che fu, a seconda di cosa si misura, specie, generi o famiglie, la quarta o la quinta in graduatoria.

Tutte hanno numerosi punti in comune e sorprendenti somiglianze, indipendentemente da vittime e circostanze che ovviamente differiscono tra loro.

  • Tutte sono caratterizzate da tassi di estinzione di diversi ordini di grandezza superiori a quello di equilibrio.
  • Tutte portarono a bruschi cambiamenti climatici, incluso l’evento di fine Cretaceo.
  • Tutte sono collegate ad un rapido riscaldamento, ad eccezione dell’evento Devoniano che vide raffreddare i mari tropicali.
  • Tutte portarono a gravi alterazioni del ciclo del carbonio e del suo contenuto in atmosfera, sia a causa di fenomeni vulcanici effusivi estremamente intensi (Permiano, Triassico, Cretaceo) e/o attraverso uno squilibrio tra carbonio sequestrato dalla biosfera e carbonio rilasciato da idrocarburi immagazzinati (Permiano, Triassico, Cretaceo).
  • Tutte comportarono un rapido cambiamento nella chimica degli oceani, compresa la loro acidificazione, che devastò gli organismi che secernono calcite (Permiano, Triassico, Cretaceo) e/o anossia diffusa, con creazione di zone prive di vita (zone morte), con asfissia di quasi tutti, tranne i batteri legati allo zolfo (Ordoviciano, Devoniano, Permiano).
  • Tutte furono seguite da un periodo di tempo – da centinaia di migliaia a milioni di anni – in cui i microbi prosperavano mentre il resto della biosfera lottava per rimettersi in piedi.
  • E, non ultimo, citando ancora una volta l'amico Aldo Piombino, dati recenti indicano che ogni volta è possibile individuare un collegamento tra l'estinzione di massa e la messa in posto di una Large Igneous Province (LIP), come nei già citati Trappi del Deccan.

La sintesi di tutto ciò e il punto più importante è che nessuna delle estinzioni di massa può essere attribuita ad una singola causa. Tutte vedono rapidi cambiamenti in diversi sistemi geologici contemporaneamente, i quali hanno innescato effetti a catena in altri. L’atmosfera non è l’unica protezione sulla nostra testa. Realizzare condizioni che alterino la chimica dell’atmosfera è pericoloso: forze ingovernabili possono uscire dal nulla. Come scrissi tempo fa, la Terra non è soltanto un sasso al Sole!

Se da una parte tutto questo in parte potrebbe rassicurare perché occorre quindi una quasi concomitanza di cause diverse per destabilizzare la biosfera, d’altro canto dovremmo osservare con maggior attenzione che molti di quei fattori negativi li abbiamo già scatenati, tutti insieme: gas serra, disturbi del ciclo del carbonio, acidificazione degli oceani, anossia, ed a loro volta ne innescano altri, aumento delle temperature, innalzamento del livello medio dei mari, fusione dei ghiacci. E altro ancora.

A coloro i quali osservano che, in quest'ultimo caso, manca l'intensa attività vulcanica dovuta ad una novella LIP, faccio notare che in quanto ad emissioni di CO2 riusciamo benissimo a far da soli, senza la spinta del vulcanismo.

Questi venti di cambiamento si diffondono con una rapidità estrema, sotto i nostri occhi, a scale temporali umane, con sconvolgimenti nei cicli biogeochimici di tutti gli ecosistemi, a qualsiasi livello.

Tanto per fornire qualche dettaglio in più, nel 2008 un gruppo di ricercatori della Geological Society of London compilò un elenco di cinque distinti sistemi in cui le attività umane hanno almeno raddoppiato la velocità dei processi geologici.

  • erosione e sedimentazione, in cui gli umani superano tutti i fiumi del mondo di almeno 10 volte;
  • innalzamento del livello dei mari, rimasto vicino allo zero negli ultimi 7.000 anni e che adesso è di circa 30 centimetri al secolo, con un raddoppio previsto entro il 2100;
  • composizione chimica degli oceani. stabile per millenni ma oggi più acida di 0,1 unità di pH rispetto al secolo scorso;
  • tassi di estinzione, da 1.000 a 10.000 volte quelli di base;
  • quantità di biossido di carbonio, che col suo valore attuale di circa 420 ppm, è la più alta di qualsiasi altro periodo degli ultimi 4 milioni di anni, con le emissioni umane che superano quelle di tutti i vulcani del mondo di un fattore 100;


Tornando a noi, la nostra presenza è dovuta all’estinzione cretacea che ha creato una pausa ed ha aperto una nuova strada.

Ma non siamo il culmine trionfale di 3,5 miliardi di anni di evoluzione. La vita sperimenta di continuo, è estremamente inventiva, ma non ha nessuna nozione di progresso. L’ho ribadito diverse volte sul blog.

Se osservassimo la storia della vita sulla Terra considerando solo i microorganismi più semplici, le estinzioni sarebbero a malapena individuabili. Ancora oggi i procarioti, i batteri, costituiscono il 50 percento della biomassa della Terra, almeno. Quando le grandi forme di vita vacillano i microorganismi infinitamente adattabili, con tassi di evoluzione misurabili in mesi anziché in millenni, riaffermano il loro dominio di lunga data. 

Quindi chi sono i leader? Noi o i batteri?

Non siamo alla fine della Natura, ma alla fine della nostra presuntuosa illusione di essere qualcosa al di fuori di essa. I nostri smisurati effetti sul pianeta hanno rimesso saldamente al comando la Natura, con un nuovo insieme di regole tutte da prevedere. E il Tempo Profondo della Terra ci racconta che potrebbe esserci un lungo periodo di capricci biogeochimici prima di tornare ad un nuovo, stabile, equilibrio.


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Riferimento bibliografico:
Marcia Bjornerud "Timefulness: How Thinking Like a Geologist Can Help Save the World", 2018



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