L’accettazione della Teoria dell'Evoluzione e qualche divagazione

clip_image002Introduzione

Un recente articolo pubblicato su Focus e quindi da questi condiviso anche via Facebook ha scatenato, evento non certo inatteso, la solita sequenza di commenti tra cui, oltre agli attesi deliri da ignoranza conclamata, anche l’altrettanto comune serie di commenti di diniego, di detrazione, di negazione, il tutto condito con ricorrenze continue del tipo è solo una teoria, segno questo evidente di assoluta mancanza di conoscenza del significato vero di “teoria scientifica”.

A distanza di oltre 150 anni dalla pubblicazione della prima edizione de “L’origine delle specie” di Charles Darwin, nonostante una buona parte dell’umanità abbia accettato senza battere ciglio teorie scientifiche molto più complesse e spesso controintuitive quali quelle della Relatività Generale e Speciale, o le conclusioni apparentemente assurde della Meccanica Quantistica, la Teoria dell’Evoluzione darwiniana con le sue estensioni ed integrazioni più recenti, resta estremamente difficile da accettare. Perché?

Ho quindi deciso di provare, come tanti prima e sicuramente meglio di me, ad analizzare questo lungo percorso e che non ha tuttora visto mettere la parola fine alle polemiche o semplicemente ai dubbi infondati che ancora oggi, come aveva ben previsto Darwin, impedisce di pensare che la storia della vita sulla Terra sia andata così, ovviamente fino a prova contraria, prova che, comunque, al di là di ogni ragionevole dubbio, non avremo mai.

Contingenza

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Darwin, come egli stesso racconta in una lettera ad un amico, amava i romanzi a lieto fine; verso la fine della sua vita aveva capito perfettamente che la ricaduta più difficile della sua teoria da accettare aveva a che fare con la natura non finalistica dell’evoluzione, e lo scrive all’amico Thomas Huxley: «Il nostro più grande problema non sta tanto nell’aver messo in discussione l’antropocentrismo o il creazionismo quanto nel fatto che la nostra mente fatica a comprendere questo tipo di spiegazioni non finalistiche, e tra cinque, sei o anche otto generazioni saranno ancora a parlarne.». Sono passate quelle generazioni e così è: tantissime persone che fanno non solo fatica ad accettare Darwin, ma che rifiutano queste idee scientifiche persino contro le evidenze della realtà. Ancora pochi decenni fa c’erano spinte conservatrici estreme che avrebbero voluto portare il creazionismo come materia d’insegnamento nelle scuole in contrapposizione paritaria al darwinismo. Ancora pochi decenni fa insegnanti di scienze naturali nelle scuole cattoliche o comunque religiose saltavano a piè pari quella parte di programma in cui si trattava di evoluzione.

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La Teoria dell’Evoluzione fornisce una spiegazione fortemente storica, piena di casualità, priva di direzione determinata e senza finalità alcuna, come meglio vedremo piena di contingenza: nessun percorso da seguire necessariamente né tanto meno uno scopo, un fine da raggiungere. Non ci sono direzioni ma solo tanti meccanismi che si integrano insieme dando origine a un processo di causa-effetto molto meccanico ma anche molto contingente e che, soprattutto, se riavvolto al contrario e fatto ripartire non porterà praticamente mai al risultato ottenuto in precedenza. Tutto ciò è difficile da spiegare autonomamente.

Sotto la potentissima spinta dell’ignoranza, che in termini quantitativi, dominando decisamente il sapere scientifico spesso porta a scoprire cose che nemmeno si immaginava potessero esistere, il sapere di non sapere insomma, la contingenza è un modo di raccontare l’evoluzione come opposto del progresso.

Ogni cosa, così come la vediamo oggi, avrebbe potuto andare diversamente. Il nostro essere qui adesso è frutto di una storia che non è stata né casuale, un lancio di dadi, dove sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa, ma non è nemmeno un destino già scritto. Potremmo definire la contingenza come una sorta di via di mezzo tra questi due estremi, in cui ci sono diversi gradi di probabilità e soprattutto ci sono regole del gioco, le leggi di Natura, la selezione, la deriva genetica, le pressioni ambientali e così via. E tutto questo porta alla conclusione che ripetendo questo film anche cento volte è molto probabile che otterremmo cento finali diversi, cento sceneggiature, per via delle innumerevoli biforcazioni che possono far deviare la storia evolutiva in una certa direzione così come in un’altra: possiamo ricostruire a posteriori gli eventi ma nel momento stesso in cui li si vive non è prevedibile nessuna delle molteplici possibilità: questa è la contingenza, il potere causale del singolo evento, col potere di deviare l’evoluzione delle specie viventi in una direzione, e così come nella storia di ognuno di noi ci sono eventi del genere, ne ritroviamo di continuo nella storia che accompagna l’evoluzione. Nulla è predeterminato, nessun fato, nulla di già detto ma con invece un futuro aperto ad eventi di probabilità.

La nostra mente, che ama, apprezza ed accetta narrazioni finalistiche, deve essere educata ad accogliere un principio fondamentale come questo.

L’uomo che uscito a portare a spasso il cane viene ucciso all’istante da una tegola precipitata dal tetto del palazzo sotto cui passava in un determinato momento della sua vita può essere narrato due modi alternativi ma che sono soltanto punti di vista diversi dello stesso tipo di spiegazione: il fato ineluttabile o la predestinazione od uno o più eventi del tutto casuali a creare scelte ma che comunque conducono a quel che tanto ci piace e che hanno fatto la fortuna di film come Sliding Doors o la serie dei vari Final destination. Se non si fosse fermato a prendere il giornale, se non avesse imprecato all’automobilista che stava per investirlo, se il suo cane non avesse voluto fermarsi intestardito ad annusare una cagnolina, se…allora sarebbe/non sarebbe successo; quando invece una catena di eventi indipendenti e del tutto casuali, nella storia della tegola ed in quella dell’uomo, del cane, del giornalaio o dell’automobilista, hanno coinciso in dipendenza della loro storia pregressa: contingenza. Così come un programmatore inserisce cicli di if…then a creare biforcazioni in un programma, in una serie di eventi appunto programmata, così non agisce invece la Natura perché non esiste programmatore alcuno. Difficile da accettare ma così stanno le cose e quanto più capiamo e studiamo della storia della vita e persino del nostro universo quanto più ci rendiamo conto che la Natura è del tutto indifferente alla nostra presenza. Un pensiero questo disarmante e inaccettabile per la nostra mente finalistica.

Reazioni e diffidenza

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Ci sono altre molteplici ragioni di rifiuto e sono state tutte analizzate da molti ricercatori, tra questi soprattutto chi si occupa di neurobiologia, coloro che studiano il modo in cui il nostro cervello tende a prediligere, come una sorta di protezione, determinati aspetti deduttivi del ragionamento piuttosto che altri: e si è scoperto che, per varie ragioni legate soprattutto al percorso evolutivo della nostra specie, la nostra mente favorisce spiegazioni degli eventi legati alla realtà percepita purché siano di tipo finalistico, che siano quindi associabili ad un qualche scopo, ancorché ignoto, un fine legato ad un ben determinato rapporto di causa-effetto.

Per esempio sappiamo che all’essere umano piacciono moltissimo le spiegazioni di tipo animistico: cade un fulmine, ed anziché pensare ad un fenomeno naturale ed attivare una serie di ricerche che porti a capire che l’evento ha a che fare con una differenza di potenziale elettrico, pensiamo immediatamente al fatto che ci è andata bene nel non esser stati colpiti e che forse era una sorta di segnale che enti immateriali, divinità o cose del genere, ci hanno inviato. Questi tipi di spiegazione molto apprezzati portano quasi inevitabilmente al cospirazionismo ed al complottismo perché quando la nostra mente si infila in un ragionamento di questo tipo, da cui è molto difficile uscire, ovvero che dietro ogni evento ci sia qualcosa, un disegno, un grande vecchio o il soprannaturale, scatta un meccanismo che i neuroscienziati chiamano bias di conferma e che porta a selezionare tutto ciò che si vede in modo che l’opinione sia continuamente confermata e rafforzata: il complottismo è questo. Tutta la narrazione è costruita sempre a posteriori, partendo da un’idea preconcetta, un pregiudizio, e viene artificialmente realizzata per arrivare a dimostrare l’idea di partenza.

E invece nell’evoluzione non esistono romanzi a lieto fine, non c’è nulla di già scritto e di predeterminato, parafrasando il poeta spagnolo Antonio Machado l'evoluzione ci insegna che il «non esiste il sentiero, il sentiero si fa camminando», il percorso lo si definisce nell’andare. La nostra mente tendenzialmente teleologica, a cui piacciono le spiegazioni che abbiano uno scopo, istintivamente rifiuta l’idea stessa che questo possa mancare.

Giù dal piedistallo

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L’obiezione più nota al darwinismo è ovviamente quella di stampo religioso: il creazionismo, il disegno intelligente e cose del genere. Anche qui, come nel caso precedente gli aspetti legati alla casualità del processo, accettare una visione in cui non si è la fine, o il fine, di un percorso predisposto fin dall’inizio non è confortante: e se l’essere umano può al limite prenderlo in considerazione per il mondo animale o quello vegetale, tende a rifiutarlo integralmente per se stesso anteponendo a qualsiasi altra argomentazioni antropocentriche e speciali.

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L’aura di perfezione e di unicità che affascina e piace anche a livello inconscio, e quindi spesso agente a nostra insaputa, viene a mancare. Homo sapiens diventa soltanto un ramoscello come tanti altri nel grande albero della biodiversità e perde quello statuto speciale che si è attribuito unilateralmente nei secoli; e la perdita di unicità arriva a traumatizzare il pensiero umano quando ci si accorge che la nostra specie avrebbe potuto benissimo non esserci, perché veniamo da una serie di biforcazioni storiche spesso dovute ad eventi contingenti, quali le grandi catastrofi o le estinzioni di massa, i cambiamenti ambientali o le mutazioni genetiche casuali sottoposte al vaglio cieco ed asettico della Selezione Naturale, nonché alle estinzioni di altre specie che hanno lasciato spazio all’evoluzione dei nostri antenati. Il ridimensionamento radicale della centralità della presenza umana nella Natura incute timore e non fa presa se non al momento in cui si riesce a vedere il tutto da una qualsiasi posizione non privilegiata e ci si rende conto che non c’è nulla di negativo in tutto ciò, che non deve sconfortarci ma al contrario è una grandissima occasione per farci capire che siamo parte di un sistema più grande e siamo accumunati a qualsiasi altro organismo vivente a far parte della grande storia che da miliardi di anni si svolge sulla Terra: è un messaggio di umiltà che deve spingerci a non pensare di poter dominare questo pianeta perché non ne siamo i padroni, ricordandoci anche la nostra vulnerabilità.

La recente pandemia da questo punto di vista è servita a richiamare alla nostra attenzione tutto ciò: la biodiversità dei virus ed il modo in cui evolvono reagendo di volta in volta ai cambiamenti ambientali (ed anche un organismo in cui circolino le proteine di un vaccino è un ambiente diverso ed ostile per i virus) ci ha ricordato come anche un vivente darwiniano semplicissimo, un filamento di RNA in una capsula proteica, può essere molto pericoloso fino a mettere in scacco l’umanità distruggendo la vita sociale ed economica per anni: l’evoluzione insegna quindi che non ci si deve dare troppe arie ma capire che siamo parte integrante di un sistema complesso e meraviglioso, e la nostra presenza non necessaria è qualcosa di meraviglioso, unico, inaspettato: anche ripetendo cento volte la storia passata con i dati di partenza uguali a quanto sappiamo fossero allora, non ci saremmo stati rendendoci dei privilegiati perché la Natura ci ha permesso di emergere nonostante la storia di qualsiasi organismo vivente, noi compresi, sia una storia costellata da imperfezione.

Purché funzioni

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L’imperfezione è parte del generale del meccanismo dell'evoluzione e noi stessi siamo imperfetti perché parte di un processo che privilegia la funzionalità, l’adattamento, e non il migliore in assoluto. Non c’è un progettista che possa ideare qualcosa di perfetto per svolgere un determinato compito e l’evoluzione procede invece come un bricoleur che, con ciò che ha a disposizione cerca di realizzare qualcosa di funzionale, spesso riciclando elementi nati per fare una cosa a riadattarli per fargliene fare altre.

L’immagine che viene data molto spesso della Natura, soprattutto umana ancora una volta, e che continua ad avere grande successo è che sia un sistema perfetto in equilibrio armonico, saggio, addirittura a volte buono, commettendo un grandissimo errore: qualcosa di naturale non è necessariamente buono né tanto meno cattivo e men che mai perfetto visto come un sistema in equilibrio armonico. E proprio studiando la Natura che invece ci si accorge che è cambiamento, trasformazione, disequilibrio continui. Un sistema naturale in equilibrio è un sistema morto: non succede più nulla, mentre invece in un sistema imperfetto, rivedibile, in disequilibrio c’è possibilità di cambiamento, di evoluzione. La stessa morte fa parte del processo, senza di essa non avremmo cambiamento. Il processo evolutivo fa di necessità virtù senza mai ripartire da zero con un meccanismo di funzionamento artigianale e non ingegneristico, non ci sono progetti in cui da zero si arriva ad un risultato quale potrebbe essere una macchina o un intero edificio.

L’evoluzione non parte mai da zero ma dal materiale che c’è già a disposizione e che viene dal passato, portandosi quindi dietro tutti i suoi limiti ed i suoi vincoli, ma con quel materiale si può costruire qualcosa di nuovo o diverso a volte cambiando funzione ad una struttura evolutasi nel passato per certe ragioni e riutilizzandola per altre (exaptation, preadattamento). In questo modo il risultato finale non sarà mai perfetto, ma una sorta di compromesso tra il materiale a disposizione e le nuove funzioni, qualcosa destinato a svolgere nel migliore dei modi compiti particolari: purché funzioni insomma.

Un esempio che ci riguarda da vicino è il bipedismo, la camminata su due piedi in posizione eretta. La nostra colonna vertebrale, eredità di specie non bipedi, è del tutto inadatta per come è tuttora conformata, ad una camminata bipede: da qui un adattamento molto costoso estremamente imperfetto con tutti i problemi biomeccanici che ne conseguono, dal mal di schiena in poi. Ma ciò ci ha contemporaneamente permesso di liberare le mani, di esporre una parte minore del corpo all’azione dei raggi del sole, di guardare più lontano di altre specie e così via.

E si potrebbero fare centinaia di esempi di strutture adattate a svolgere un determinato ruolo e che lo fanno nel migliore dei modi possibili, ma che sarebbero state certamente riviste o reingegnerizzate completamente alla luce del lavoro attento di un progettista degno di questo nome: è proprio l’imperfezione, l’errore, il riadattamento che provano che non c’è nessun progetto né tanto meno un progettista dietro l’evoluzione.

Imperfetto ma funzionale, imperfetto ma rifunzionalizzato per fare altro. Come lo stesso Darwin scriveva dove c’è imperfezione c’è diversità e dove c’è diversità ci sono le possibilità per dei cambiamenti, per la trasformazione, per l’evoluzione.

Sesso ed evoluzione

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Uno dei fattori selettivi che operano generando evoluzione è indubbiamente la selezione ambientale, quella dovuta ai cambiamenti che occorrono continuamente ed ovunque sul nostro pianeta nel corso della sua intera storia. Ma altrettanto vale come motore che genera variabilità anche maggiore è quanto dovuto alla riproduzione sessuale ed alla conseguente selezione sessuale: perché è diventata predominante nelle specie animali nonostante sia dispendiosa e abbastanza faticosa, e nonostante non fosse affatto scontato che la riproduzione sessuata fosse preferibile a quella asessuata?

Quello del sesso è un ottimo esempio di imperfezione, di compromesso, perché si dà per scontato che la riproduzione sessuata “maschi-femmine” sia la normalità, il meglio che si possa avere; in realtà non è affatto così perché il sesso è un insieme di adattamenti di comportamenti molto costoso e molto pericoloso, perché richiede tempo e molto spesso esposizione ai predatori rendendo la spiegazione dell’evoluzione della selezione sessuale piuttosto complessa ed in buona parte ancora da capire. Concedendosi una piccola provocazione se dovessimo ad esempio scegliere quale sia la migliore tra sessuata ed asessuata come dar torto ai batteri, che si riproducono asessuatamente, e che sono sulla Terra[1] da tre miliardi e mezzo di anni? E che dire di organismi piuttosto complessi quali alcuni pesci che si riproducono per via sessuata ma che a seconda delle condizioni ambientali cambiano sesso? O il fenomeno della partenogenesi che consente, anche ad organismi complessi, ancora una volta pesci, di riprodursi senza bisogno del maschio?

La riproduzione sessuata compare sulla Terra più o meno 500 milioni di anni fa con l’evoluzione degli organismi animali e, in attesa di fare maggiore chiarezza, ci sono tuttora varie ipotesi sul come e perché si sia evoluta (nelle piante ci sono altri modi di riprodursi anche se riconducibili sia a quelli per via sessuata che asessuata con presenza diffusa di ermafroditismo). Restando in campo animale l’opinione più diffusa è che il sesso si sia diffuso ed abbia comunque avuto successo perché rappresenta uno stratagemma estremamente efficace nel produrre diversità, aggiungendo cioè un elemento di diversificazione dovuto al mescolamento ed alla ricombinazione del DNA paterno con quello materno: in questo modo i figli saranno sempre tutti un po’ diversi tra loro perché ognuno di loro è frutto di una diversa ricombinazione: persino due gemelli omozigoti che hanno DNA identico oggi sappiamo dall’epigenetica che hanno diversi marcatori, oltre che ovviamente esperienze individuali diverse e non sono quindi due cloni esatti, come accade invece a seguito della divisione asessuata di un batterio. E comunque ciascuno dei figli è diverso da entrambi i genitori, è unico, avendo ereditato i caratteri da questi ma essendo tra questi stati mescolati tra loro.

Sesso e protezione

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La recente pandemia può servire ad illustrare gli effetti, vantaggiosi dal punto di vista evolutivo, di questo rimescolamento. Si sono registrati contagi diversificati in famiglie dove il padre veniva colpito dal virus con effetti anche gravi e la madre invece restava immune al contagio con conseguenze sui figli altrettanto variabili: quattro figli tutti infettati di cui però uno con sintomi gravi e gli altri tre no, o del tutto immuni. Dove sta il vantaggio evolutivo? Grazie al sesso accade che un parassita, un patogeno, un virus od un batterio possono colpire un’intera discendenza ma essendo questi tutti diversi tra loro probabilmente qualcuno sarà resistente e potrà sopravvivere ed a sua volta riprodursi.

Se invece si adottasse la riproduzione sessuata o la partenogenesi come in alcuni pesci essendo i discendenti identici, un parassita li eliminerà tutti.

Il sesso quindi appare già qui un vantaggio perché è un efficace sistema di difesa della sopravvivenza della specie contro gli agenti patogeni, ricordando che la maggior parte dei problemi di adattamento e sopravvivenza provengono non tanto dalle condizioni esterne, dall’ambiente in cui si vive, ma da quelle interne, dal complesso ecosistema presente all’interno di ogni organismo che vede presenti forme viventi diverse spesso in simbiosi e cooperanti ma altrettanto spesso nocive o letali.

Questo è il punto di partenza anche se, considerando che l’evoluzione sperimenta molte vie diverse, spesso ripetendole nel tempo e nello spazio, da specie a specie, dopo questo primo avvio è successo di tutto: si sono diversificati i comportamenti sessuali, i sessi si sono diversificati fino ad avere dimorfismo sessuale, c’era omosessualità, feticismo, ermafroditismo e cambio di sesso ed altro ancora, ma soprattutto innescando Selezione Sessuale che andava ad aggiungere un altro elemento di competizione alle già presenti forme di competizione per le risorse, per la sopravvivenza, per l’adattamento all’ambiente, e questa è la ben nota Selezione Naturale; ma oggi sappiamo molto bene si può competere direttamente per la riproduzione. E lo sapeva già anche Charles Darwin a cui ne va attribuita certamente la paternità, e che dedicò all’argomento un esauriente paragrafo nel quarto capitolo del suo libro.

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Sono soggetti a Selezione Sessuale, per citare due semplici esempi, due maschi che si scontrano, che si scornano, e che quindi stanno misurando la loro forza competitiva rispetto alle femmine delle quali si occuperanno in un determinato gruppo; o un uccello dal piumaggio sgargiante che fa delle danze cercando di sedurre le femmine per farsi scegliere da queste.

Quella della Selezione Sessuale fu una scoperta molto contestata per lunghissimo tempo, l’attribuire ad esempio alle femmine una sorta di capacità di giudizio e potere selettivo nell’evidente scelta da queste operate nei confronti dei maschi era inconcepibile ai tempi di Darwin nella sua Gran Bretagna vittoriana. Ma oggi sappiamo che è un meccanismo importantissimo nell'evoluzione nonostante grandi palchi di corna o piumaggi sgargianti, canti armoniosi o bramiti possenti possano essere dispendiosi e pericolosi: le femmine oggi sappiamo che svolgono un ruolo selettivamente attivo nel decidere quale maschio potrà accoppiarsi e quale quindi potrà trasmettere alle generazioni future i propri caratteri ereditari. Non mancano altresì esempi complementari, maschi che dopo l’accoppiamento impediscono che la femmina scelta, o meglio il più delle volte da cui sono stati scelti, possa ricevere il seme di altri maschi, fino a trovare esempi in Natura di meccanismi di alterazione fisica o biochimica dell’apparato genitale femminile, in modo che non possa essere più utilizzato.

Evoluzione culturale

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Ovviamente nella specie umana non si deve peccare di riduzionismo e pensare che gli esseri umani facciano esattamente come gli animali: siamo una specie profondamente culturale e quindi i nostri comportamenti sono modulati dall'evoluzione culturale, ma possiamo dire che a livello della Selezione Sessuale recentemente abbiamo scoperto che la scelta femminile è fondamentale e quindi questa si basa sul fatto anche nel caso della specie umana, come nella stragrande maggioranza degli animali, è la femmina che sceglie alla fine con chi riprodursi e questa prevalenza è stata soltanto parzialmente impedita dagli aspetti culturali delle società tipicamente patriarcali. L’evoluzione culturale può portare al definirsi di modelli comportamentali o canoni estetici: la prevalenza del taglio degli occhi obliquo delle popolazioni asiatiche è stato certamente il risultato di processi di Selezione Sessuale che preferivano quel tipo di occhio ad altri.

Il comportamento del maschio, o le sue caratteristiche morfologiche, sono è vero determinanti per spingere la femmina a sceglierne uno preferendolo ad un altro: questi sono indice di qualità a garantire che se quei caratteri ne hanno consentito la sopravvivenza anche la sua discendenza ne beneficerà.

Ma questo è vero fino a un certo punto. Oggi si è scoperto che talvolta la scelta femminile è dettata da una sorta di moda, e la moda è parte della cultura: si è scoperto ad esempio che persino tra le femmine di alcune specie di uccelli si può dare preferenza ad un determinato tipo di melodia cantato dai possibili partner come fenomeno transitorio e perfino rispetto ad altre anche più elaborate ed armoniose. E’ una scelta priva di motivazioni genetiche ma giustificata da elementi culturali, e se questo vale per gli animali a maggior ragione lo è per gli esseri umani che fanno da sempre della dimensione culturale una questione fondamentale modulando i comportamenti umani in base al conformismo sociale, alle mode ed alle tradizioni di gruppo i cui individui sono alla continua ricerca di distinzione tra un noi arbitrario e gli altri.

Sociobiologia?

Occorre fare molta attenzione quando si entra in ambiti sociali e culturali. In passato è stato addirittura detto che i grandi artisti del passato hanno realizzato opere meravigliose per sedurre le femmine e si è cercato di giustificare tutto ciò con la Selezione Sessuale. Argomentazioni sbagliate e pericolose. Innanzi tutto anche le femmine possono essere grandi artiste e fare cose meravigliose e per quanto possano esserci retaggi evolutivi la nostra è essenzialmente una specie culturale e, per quanto possa sembrare anomalo, la specie umana ha avuto cambiamenti biologici dovuti alla cultura: questa ci ha insegnato a generare e controllare il fuoco e da qui abbiamo imparato a mangiare cibi cotti, cosa che col tempo ha selezionato determinati enzimi al posto di altri, oppure siamo, salvo pochissime eccezioni, tolleranti al lattosio anche in età adulta quando nessun altro mammifero consuma latte dopo lo svezzamento. Nell’evoluzione umana è accaduto spesso che la cultura abbia preceduto la biologia e ancora una volta non va dimenticato che comunque tutto questo, indubbiamente vantaggioso, è frutto di percorsi estremamente complessi e multifattoriali, con variabili indeterminate di difficile quantificazione che, se ignorate e sottovalutate portano facilmente, e la storia ce lo rammenta in più occasioni, a deliri di onnipotenza da parte di persone o ideologie che vorrebbero ripensare l’uomo, inquadrarlo in totalitarismi di vario genere partendo da errate considerazioni di natura biologica ma che con la scienza e tanto meno con la Selezione Naturale non hanno niente a che fare: si pensi ai danni portati dalle varie teorie eugenetiche o il grandissimo danno, soprattutto d’immagine e deleterio per la comprensione della sua teoria, che ebbero Darwin ed il darwinismo in genere quando si fece strada l’espressione darwinismo sociale da parte di Herbert Spencer. Qualsiasi tentativo di massificare l’uomo è destinato al fallimento e soprattutto a far soffrire una moltitudine di persone, perché basato su pregiudizi individuali sul concetto di uomo mentre l’evoluzione insegna che non c’è un individuo uguale ad un altro.

La Regina Rossa

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Ciò premesso è ovvio che la nostra è anche e soprattutto una specie sociale, e siamo quindi costretti a darci delle regole di compensazione, di giustizia, di cooperazione e convivenza, ma senza mai dimenticare le diversità individuali, il carburante con cui si muove il motore dell’evoluzione: mai fermi, come nel paradosso della Regina Rossa contenuto nel libro di Lewis Carrol “Attraverso lo specchio”, che è costretta a correre se vuole restare ferma in un ambiente in continuo spostamento ed a correre il doppio se vuole spostarsi. Così la Selezione Naturale deve operare continuamente ed essere alimentata senza interruzioni da variazioni se si vuole garantire la sopravvivenza in un determinato ambiente, una continua corsa agli armamenti come scriveva Richard Dawkins in cui, semplificando molto, un organismo attacca e l’altro seleziona nuove difese, provocando nel primo la selezione di ulteriori strumenti d’attacco e così via.

Evoluzione che comporta cambiamento dunque, ma qual è il tasso auspicabile, sempre che esista? Possiamo provare a controllarlo?

Sicuramente entrambi gli estremi della scala del cambiamento sono molto pericolosi. Da una parte una eccessiva lentezza nell’evoluzione è deleteria perché la tendenza a specializzarsi troppo in un determinato ambiente rende tutto molto statico, e alla prima variazione ambientale si è subito in difficoltà: molte estinzioni sono avvenute per questo motivo, occorse a danno di specie che erano troppo specializzate.

Ma può succedere anche il contrario, a specie flessibili e generaliste, e quella umana è in cima alla classifica avendo occupato ed essendosi adattata praticamente a qualsiasi tipo di ambiente, che nel caso in cui l’ambiente cambi in modo radicale ed improvviso, in modo talmente travolgente che non si riesce a stargli dietro. Il cambiamento climatico come minimo accelerato, se non del tutto provocato, dalle attività umane, è un esempio di quest’ultimo tipo e per quanto ci si potrà adattare ciò avverrà col sacrificio e la perdita di un numero incalcolabile di specie animali e vegetali, con cambiamenti radicali di paesaggi ed habitat, ed ovviamente con la morte di centinaia di milioni di esseri umani, se non miliardi.
Ed ecco che torna la metafora della Regina Rossa. Succede in Natura normalmente come nel precedente esempio di un ospite e di un suo parassita, oppure nelle piante che coevolvono di pari passo con i loro insetti impollinatori o viceversa. E quanto sta accadendo adesso tra noi e il ceppo di virus SARS-CoV-2.

Ma noi siamo allo stesso tempo una Regina Rossa che continuamente modifica l’ambiente in cui vive spesso stravolgendolo ed a velocità tali che basta una generazione per avere cambiamenti radicali. E se l’ambiente cambia così velocemente quale sarà il prezzo che dovranno pagare i nostri figli per guadagnarsi l’adattamento ad esso? Costi altissimi in termini di migranti ambientali, di revisione delle politiche agricole e industriali, di cooperazione ed altro ancora. L’evoluzione, questa teoria scientifica così contestata ed incompresa spesso per pregiudizio, aiuta anche a comprendere meccanismi sociali come questo che ci riguarda così da vicino, e soprattutto ci aiuta ad accettare il concetto che il nostro rapporto con l’ambiente è sempre stato di cambiamento continuo, di spostamenti e variazioni culturali o fisiche, di migrazioni e di integrazioni. Le barriere culturali, sociali e materiali, i confini, che abbiamo realizzato soprattutto a causa di quel bias che, come detto in precedenza, ci porta a distinguere gli altri dal noi, con dinamiche di gruppo iniziate come famiglie, tribù ed evolutesi in stati sovrani, non potranno aver ragione di cambiamenti ambientali radicali.

Narrazioni

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L’uomo è un animale narrante. E l’evoluzione lo dimostra chiaramente. Siamo diventati migranti quando abbiamo imparato a raccontare storie, a descrivere ciò che si era visto o trovato da parte di chi si era spinto al di là dei propri orizzonti ed era tornato indietro a raccontarlo. Da saprofagi e raccoglitori a cacciatori di specie di grossa taglia soltanto dopo che si è stati in grado di raccontare ad altri cosa fare o quali ruoli attribuirsi per un’azione di gruppo.

La scienza è, allo stesso modo, narrazione. I fisici che al CERN studiano le collisioni tra particelle elementari lo fanno per ricostruire la storia dell’Universo; i geologi raccontano la storia della Terra e gli evoluzionisti il passato della vita e privi di macchina del tempo devono mettere insieme migliaia di indizi e ricostruire storie plausibili a creare modelli che saranno sicuramente oggetto di controversia, che saranno discussi, smontati e rifatti da capo alla luce di nuove evidenze. E anche agli scienziati, con le loro menti altrettanto teleologiche, può accadere di fissarsi su narrazioni sbagliate.

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C’è un esempio molto utile che evidenzia molto bene quanto si è accennato in precedenza: come l’evoluzione sia associata spesso al progresso, a qualcosa di finalistico. Basta cercare online “evoluzione umana” e nella categoria immagini ne trovate a migliaia. L’iconografia dello scimmione curvo, peloso, ingobbito e poco intelligente, che diventa un po’ più bipede, la testa sopra il collo si fa enorme, perde qualche chilo di pelo e alla fine diventa sempre un bel maschio, bianco e magari biondo, alto, aitante, un perfetto Homo Sapiens senza adipe.

Insomma chi viene dopo è migliore di chi c’era prima, chi viene dopo è più adatto, più intelligente, più scaltro. Lo stesso linguaggio, ancora una volta, lo stabilisce a priori definendo primordiale una forma antica e moderna una attuale[2].

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E nell’evoluzione tutto ciò non è vero. Quell’immagine dell’evoluzione umana è ideologica, talmente radicata che sbagliarono persino un francobollo commemorativo associando quella progressione all’immagine di Darwin per non aver capito cosa lo scienziato intendesse con gradualismo[3], con la speranza che Homo sapiens sia l’apice di quella linea che porta al successo, e ciò vale per qualsiasi linea evolutiva in senso darwiniano. Anche l’eterna diatriba degli anelli mancanti è frutto di una narrazione sbagliata, fatta col senno di poi. Non esistono anelli mancanti, già il pensare che possano esistere implica che l’evoluzione sia fatta di anelli di una catena che si succedono l’un l’altro, ma non è andata così: l’evoluzione non è fatta per anelli, ma per rami, ed ogni ramo è una storia di sperimentazioni, specie diverse che vivono insieme con qualcuna che si estingue ed altre che sopravvivono ai cambiamenti ambientali. Una storia di possibilità e non un’unica marcia progressiva.

E nonostante quell’immagine falsa sia stata smentita in tutti i modi dai dati scientifici persiste ostinatamente perché è estremamente potente, anche perché difesa dagli scienziati fino ad appena una decina di anni fa.

Le storie possono dunque essere anche deleterie. Tutte le storie di progresso, quelle in cui si ragiona con il senno di poi sapendo già in partenza come la storia finirà, sono infatti la base di ogni ideologia totalitarista che usa la storia per addomesticare il presente, per giustificarlo: usano la storia per cercare di dimostrare che la presenza del regime totalitarista sia l’unica conclusione necessaria, ineluttabile, il veleno del senno di poi appunto. Un finalismo ed una causalità precostituiti. Ma questa cosa è deleteria anche per chi, sapendo già come è andata a finire la storia, la ricostruisce appositamente per avere quel finale: e anche questo è un errore legato alla natura della nostra mente, la conoscenza del presente viene usata per ricostruire il prima, e quindi, in termini evoluzionistici, si ricostruisce per esempio la storia evolutiva delle ali come se queste fossero state evolute apposta per volare. Sbagliato. Le strutture che hanno portato alle ali erano all’inizio altre cose usate per altre funzioni e che sono state riciclate più volte.

Lo stesso Darwin ha avuto problemi con la sua narrazione dell’evoluzione e lo sapeva. La stessa parola evoluzione ricorda immediatamente un passare da un evento al successivo ed implica più o meno direttamente un percorso progressivo quando questo progresso non c’è, nemmeno nelle intenzioni, non ci sono un miglioramento, una tendenza alla perfezione. Un migliore adattamento non necessariamente implica necessariamente un miglioramento in senso qualitativo né tanto meno quantitativo: un cervello più grosso è davvero sempre meglio? Non sembrerebbe visto che i Neanderthal avevano un cervello più grosso dei Sapiens, eppure non è servito loro a sopravvivere come specie. L’adattamento è sempre qualcosa relativo al qui e ad ora. Anche l’uso del termine selezione dava fastidio a Darwin, ma non aveva nulla di meglio offerto dal vocabolario. Selezione implica o potrebbe implicare che esista un qualcosa o un qualcuno che faccia da selettore con un vaglio predeterminato, come farebbe un allevatore che seleziona artificiosamente e volontariamente le varietà animali o vegetali. In Natura non esiste nulla di tutto ciò: è un meccanismo governato da leggi naturali, non c’è intenzione. Purtroppo il linguaggio umano è finalistico e quindi Darwin in una delle note dell’edizione del 1872 lo fa presente e per giustificare il suo usare termini oggetto di incomprensione si rifà, con ironia, alle altre scienze ricordando che i fisici usavano il termine gravità da almeno un secolo ma nessuno sa cosa esattamente ciò significhi, e i chimici parlano di affinità elettive anche se nessuno ha mai visto un acido corteggiare una base! Basta capirsi e stabilire convenzionalmente ciò di cui si sta parlando. Quindi si smetta di far polemica ogni qual volta si dice che la tal specie si è evoluta come se ciò fosse stato atto della volontà specifica, e scusatemi per il gioco di parole.

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Se ci si mette dal punto di vista del passato invece, dimenticandosi che c’è un presente, si scopre che lungo il percorso storico ci sono state innumerevoli biforcazioni e tanti passati alternativi che avrebbero condotto ad altrettanti presenti alternativi e non quindi ad un unico presente possibile. La visione evoluzionista per selezione dove nulla è predeterminato. E questo è un altro degli elementi di fastidio, di irritazione, che provoca la negazione, spesso aprioristica e pregiudiziale, della validità della Teoria dell’Evoluzione. Nulla è predeterminato e quindi ritorna ancora una volta l’antica questione del libero arbitrio o quella della mente ultra-universale onnisciente in grado di conoscere la posizione e lo stato del moto di ogni singola particella dell’Universo, e quindi determinarne e conoscerne il futuro. Spiegazione piuttosto laboriosa e che richiede assunti dogmatici difficili da razionalizzare; senza tenere conto che la fisica ha ampiamente dimostrato che non è possibile conoscere contemporaneamente posizione e quantità di moto di una particella e la Meccanica Quantistica dimostra che in Natura esistono processi intrinsecamente casuali e imprevedibili, indeterminabili, che nemmeno una conoscenza divina può governare. C’è un elemento di contingenza intrinseca nella storia dell’Universo: riavvolgendo il nastro e riproiettando gli eventi non avremmo mai lo stesso Universo o tanto meno avremmo il nostro Sistema Solare, con le condizioni adatte alla presenza di un pianeta come la Terra su cui si sviluppasse la vita come la conosciamo e che, come già visto, anche fosse sarebbe stata diversa da come la conosciamo.

L’ossessione dell’anello mancante

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Sappiamo oggi che molto spesso, ciò che rimane nelle menti di coloro i quali pensano di aver capito tutto di evoluzione e darwinismo, è soltanto frutto delle caricature che, fin dal 1859, altri hanno fatto del lavoro di Darwin. Si è iniziato a parlare di anello mancante a cominciare da William Hopkins, matematico e geologo ed uno dei primi autori di revisioni critiche al lavoro di Darwin, già nel 1860, quando questi scrive: « (…) dovremmo trovare, fra le forme organiche esistenti, o in quelle che sono esistite in periodi storici, indicazioni di queste graduali transizioni fra una forma e la successiva. Ma allora, dove sono gli anelli mancanti nella catena degli esseri intellettuali e morali? Che ne è stato degli aspiranti alla dignità umana il cui sviluppo si arrestò infelicemente a punti intermedi fra uomini e scimmie?»

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Da qui la continua pretesa di fornire, da parte dei sostenitori della teoria l’onere della prova della validità del processo di evoluzione darwiniano, sottoforma di ritrovamenti fossili continui e progressivi, pretesa che era allora, ma lo è ancora oggi, radicata nell’idea di un concetto di evoluzione lineare, progressiva, possibilmente finalistica e migliorativa come s’è visto. Oggi sappiamo che non esistono forme di transizione intermedie e che mai si sarebbero potuto trovare fossili a loro testimonianza, non tanto o non solo per la precarietà e l’unicità delle condizioni necessarie alla formazione ed alla permanenza nei milioni di anni, di forme fossili, quanto perché l’evoluzione non procede lungo una scala progressiva di perfezione crescente, già cara agli antichi, ma per variazioni su temi preesistenti a formare linee evolutive, rami di un cespuglio intricato che, ripercorsi a ritroso nel tempo, portano a forme antenate comuni alle specie successive.

L’idea di anello mancante si adatta perfettamente all’ideologia preconcetta che esista una catena, una struttura lineare, e la pretesa di averne a rendere giustizia alla continuità evolutiva, per la storia dell’evoluzione umana, nasceva dalla medesima presunzione di trovarsi in cima ad una traiettoria di progresso. Insomma, se l’anello è mancante è proprio perché non ne esistono, perché stupirsene?

Mutazioni

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Tornando con i piedi sulla Terra, più che per terra, noi non siamo onniscienti e siamo ineluttabilmente sballottati dalla contingenza del caso che dobbiamo accettare come un dato di fatto.

Prendendo ad esempio le mutazioni genetiche, carburante dell’evoluzione come già detto, diciamo che sono casuali, totalmente imprevedibili e dovute ad errori di copiatura di parti del codice genetico, del DNA. Ma questo è vero fino ad un certo punto perché sappiamo che ad esempio gli inquinanti ambientali causano mutazioni e quindi queste possono avere delle cause deterministiche che le generano; potremmo anche pensare di poter andare a vedere a livello molecolare cosa accade nel DNA e scoprire che ogni mutazione aveva le sue cause. Ma questo non ha affatto importanza per la spiegazione evoluzionistica, che è il risultato macroscopico delle mutazioni. E’ un po’ come dire che ai fini dell’ottenimento di un cubo di ferro non ha nessuna importanza sapere o comprendere le innumerevoli interazioni tra ogni atomo di ferro ed i suoi elettroni. Per un medico è importante conoscere le cause delle mutazioni da inquinanti ma per un evoluzionista no: l’importante è che ci siano, che avvengano spontaneamente e continuamente.

Strategia e casualità

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Come può esserci un risvolto strategico da azioni nate dalla casualità? E’ questo un argomento spesso portato a prova della fallacia della teoria darwiniana. Come spiegare ad esempio le analogie evolutive se le mutazioni sono casuali? Accade molto spesso che organismi che hanno seguito percorsi evolutivi molto diversi, che occupano ambienti del tutto differenti, mostrano di aver evoluto ad esempio organi con funzionalità adattative piuttosto simili tra loro, o strategie adattative analoghe, come ad esempio le ali negli uccelli e negli insetti o i sistemi di visione.

Questo è un meccanismo contro-casuale che bilancia la casualità ma non è necessariamente deterministico. Le mutazioni genetiche continuano a prodursi generando instabilità, variabilità e imprevedibilità, e sottopongono di conseguenza nuovi elementi al vaglio cieco della Selezione Naturale che le filtra, le controlla, le associa a condizioni preesistenti o precedenti ed alla fine il risultato è del tutto imprevedibile.

A volte però capita che si mostrino evidenti alcuni percorsi evolutivi, vengono definiti pattern, che sono schemi ripetuti. Per capire come ciò possa accadere facciamo un piccolo esempio.

Immaginate di aver realizzato un programma per computer estremamente semplice che ad ogni iterazione generi un numero casuale. E’ sufficiente introdurre nel programma una piccola regola che faccia sì che quando esca un numero seguito da quello immediatamente successivo blocchi questa coppia, e non la faccia più cambiare: iterazione dopo iterazione nella serie dei numeri generati casualmente inizieranno ad apparire sequenze ordinate di numeri: partendo dal caos del caso assoluto si arriva all’ordine grazie ad una piccola regola selettiva. Concetto in biologia più difficile da capire e per questo faremo un altro esempio.

Gli organi di visione, dai semplici fotorecettori già presenti in alcuni batteri, all’occhio di un pesce, di un uccello o di un mammifero, servono ad orientarsi nello spazio ed a vedere gli oggetti sia statici che in movimento. Per farlo occorre imparare ad orientarsi nello spazio distinguendo per cominciare alto e basso: l’alto potrebbe essere determinato dalla posizione del Sole che significa luce, calore, mentre il basso potrebbe voler significare ombra, freddo. La regola alto-basso introduce quella variazione nella selezione grazie alla quale inizieranno a formarsi degli schemi non casuali o comunque meno casuali. Ecco spiegato per esempio come mai organi come gli occhi si sono evoluti più di 30 volte in parallelo in animali completamente diversi: le mutazioni sono casuali però quelle mutazioni che favoriscono questa funzione danno un vantaggio selettivo e si sono quindi sviluppati da linee evolutive diverse ma guidate dalle stesse esigenze. E’ la convergenza adattativa, convergere verso lo stesso adattamento partendo da animali non imparentati da non confondere con la convergenza evolutiva che è un processo analogo ma causato da spinte ambientali simili.

Un altro esempio eclatante è lo sviluppo dei sistemi di ecolocazione che permette, grazie a strutture meravigliosamente complesse, di orientarsi nello spazio lanciando onde sonore ed analizzando le onde di ritorno dopo che hanno colpito un oggetto, un ostacolo. I pipistrelli? Esatto. Questi sistemi, impropriamente detti sonar, non si sono evoluti soltanto nei pipistrelli ma anche nei delfini, che evolutivamente sono lontanissimi dai pipistrelli ed anche in alcuni uccelli, ancor più lontani. Tutti animali che necessitavano di orientamento in scarsità di luce e che sono riusciti, grazie a questa continua alimentazione di mutazioni casuali, a sviluppare una struttura estremamente complessa, con cambiamenti nella struttura delle orecchie ed a livello cerebrale complicatissimi. Per quanto si faccia fatica a capire processi come questo, cercando il finalismo, chiamando in causa un disegno intelligente, l’evoluzione associata alla incommensurabile, per la scala della vita umana, quantità di tempo trascorso e di mutazioni avvenute, è in grado di spiegare tutto ciò e nonostante la maggior parte delle mutazioni siano innocue o comunque scartate dal processo di selezione.

Ci sono analogie a questo fenomeno persino nell’evoluzione del linguaggio e delle lingue che spesso, filtrato dalla indispensabile componente culturale, somiglia a quella biologica. Indipendentemente dalla lingua parlata si è scoperto che l’incidenza delle parole più usate a parità di significato è molto simile in tutte le lingue. E anche se i linguisti non hanno ancora capito se le attuali lingue abbiano tutte un origine comune, una protolingua uguale per tutti, o se, come si pensa in maggioranza, si siano evolute indipendentemente più volte generando i ceppi linguistici oggi noti. La struttura dell’apparato di fonazione umano è infatti uno strumento che mette in grado di parlare praticamente qualsiasi lingua: un neonato impara la lingua del contesto in cui vive indipendentemente dall’appartenenza ad una popolazione o l’altra.

Quanto DNA serve?

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Allineando le specie viventi su una sorta di scala di complessità e rapportandole al loro quantitativo di DNA troveremmo delle sorprese. Una delle cose che più colpisce è che non c’è nessuna relazione. Una cipolla ha un quantitativo di DNA che è cinque volte il nostro, uno scimpanzè ha in comune con l’uomo il 99 percento di codice genetico, ovvero non condivide con noi 30 milioni di basi su 30 miliardi, eppure in quel singolo punto percentuale c’è tutta la differenza tra noi e loro. Se restiamo nell’ambito del DNA umano si scopre che dal punto di vista strutturale, ingegneristico, c’è qualcosa che non va, che ha poco senso. I geni che sono espressione di un qualche carattere, semplificando, sono soltanto 22 mila e sono meno del 2 percento di tutta la sequenza; già questo sembra avere poco senso ma ne ha ancora meno quel gigantesco contenuto di DNA della cipolla, tutta quella ridondanza costosa in termini di mantenimento e produzione. Potremmo spiegarlo, sempre semplificando, che molto spesso nelle piante accade che una nuova specie nasca per ibridazione di due specie precedenti e quindi molte piante hanno un genoma gigantesco.

Ciò riporta ancora al tema della mancanza di rapporto tra complessità e funzionalità, in termini di adattamento, ovvero quella narrazione distorta e sbagliata che vuole che evoluzione significhi miglioramento durante il cambiamento. Tutta la complessità genomica della cipolla non la rende certo più complessa di un essere umano e nemmeno di un insetto o, di contro, ricordiamo come l’estrema semplicità di un virus possa comportare conseguenze devastanti, quel che un virus è riuscito a fare all’umanità, un semplicissimo filamento di DNA racchiuso in una capsula proteica: virus che vivono sulla Terra da un miliardo e mezzo di anni, la cui vita è ridotta a fare solo ed esclusivamente copie di se stesso sfruttando altri organismi. Indubbiamente non c’è nulla di più semplice tra gli organismi, eppure ha messo in scacco un animale complesso come Homo sapiens.

Tornando al ruolo del DNA oggi sappiamo che ci sono alcune parti, e che rappresentano la maggioranza del codice genetico, una volta chiamato junk DNA (DNA spazzatura) ma che oggi è stato più propriamente ribattezzato come DNA non codificante e che non verrà codificato in proteine, ma che contribuisce a svolgere tantissimi ruoli importanti, da ruoli di trascrizione e trasporto a quelli di regolazione, di attivazione, agendo come veri e propri interruttori che coordinano le sequenze temporali e spaziali delle parti di codice diverse e diversamente localizzate nei cromosomi, quali quelle per esempio che coordinano lo sviluppo di un embrione a partire da una cellula uovo fecondata. Si pensi ad esempio a quanti passaggi occorrono per passare da uovo ad organismo completo sviluppato lungo piani simmetrici e spaziale predeterminati, o a quel che occorre in termini di coordinamento dell’espressione dei vari geni che codificano proteine, cioè materia organica, per stabilire l’ordine di colorazione del mantello di una zebra, o, come accade negli insetti o nei crostacei, per avere antenne sulla testa anziché zampe. E la cosa meravigliosa in tutto questo, altra prova a favore di un’evoluzione che procede per biforcazioni progressive e che letta a ritroso porta ad antenati comuni che a loro volta hanno avuto antenati comuni e ancora, e ancora…è che gli strumenti, gli attrezzi se volete, per attivare o spegnere determinate sequenze geniche sono pressoché universali, sono presenti nella stessa quantità e nella stessa forma nella quasi totalità di tutti gli esseri viventi. Una rete interconnessa di geni: alcuni che agiscono come muratori che costruiscono ognuno il suo pezzetto di muro, altri che fanno da architetti regolando i muratori, altri ancora che, come un capo progetto, coordinano la rete di tutti gli altri, e così via.

C’è tanto ancora da capire e da scoprire sul DNA. La terapia genica di tante malattie diventa difficile se non impossibile da elaborare perché queste dipendono non da un singolo gene, ma sono dovute ad una rete genetica che rende l’individuazione dei geni coinvolti in malattie degenerative, e la loro possibile sostituzione, molto difficile e ancora lontana nel tempo. Nell’organismo più piccolo che si è riusciti a ricreare in laboratorio c’è un terzo dei geni codificanti di cui non si sa assolutamente nulla di cosa facciano e inoltre di tutte le sequenze di regolazione sparse nel DNA non codificante si sa ancora pochissimo. Un genetista ha detto, usando la metafora del DNA come linguaggio, che di questo conosciamo l’alfabeto, un po’ la grammatica ma la sintassi e la semantica ci sfuggono ancora completamente.

Inoltre di questo cosiddetto junk DNA c’è una parte cospicua che appare veramente come spazzatura, una parte dei cromosomi umani per esempio, è fatta quasi esclusivamente di sequenze ripetute migliaia o milioni di volte: è ridondanza, serve forse a porre dei distanziatori tra i geni, hanno ruolo strutturale ma certamente non ha funzioni specifiche tranne, in qualche caso, che quello di agire come vere e proprie copie di backup da recuperare in caso di alterazione del dato originale: questa scoperta, che ha del fantascientifico, ha messo in evidenza un aspetto del genoma straordinario, ovvero che si possono accumulare mutazioni che non hanno nessun effetto né positivo né negativo ma se si ha a disposizione una copia di backup che funziona meglio dell'originale la si può sostituire. Il DNA ha inventato ben prima di noi quello che normalmente facciamo al computer realizzando una copia di backup dalla quale estrarre una versione precedente di qualcosa perché l’originale è andato perduto o perché la vecchia versione è migliore di quella corrente.

E anche il DNA ci ricorda, con il suo apparire come una sorta di accrocco imperfetto, come Rita Levi Montalcini nel suo linguaggio ottocentesco definiva il cervello, che è frutto di accumulo nel corso del tempo di materiale vario, a volte riutilizzando strutture già esistenti per nuove funzioni espresse dai geni, ma non è certamente un’opera ingegneristica in cui qualcuno o qualcosa ha indicato le regole precise da seguire, gli schemi, gli scopi. C’è tanta roba in più della serie non si sa mai, potrebbe tornare comoda, come un ripostiglio pieno di cianfrusaglie mai o forse una volta utilizzate da cui però non si butta nulla perché, non si sa mai, potrebbero servire. Così come il ruolo dei geni di backup anche la scoperta di geni che si sono formati per una sorta di fusione di coppie o pezzi di coppie di geni precedenti e che da soli non avevano alcuna funzione è altrettanto sorprendente: dalla spazzatura si sono ripresi due pezzetti da soli inutili e una volta messi insieme si è ottenuta una nuova funzione. Un esempio clamoroso è dato dalle funzioni di sviluppo della placenta che si sono evolute grazie allo sfruttamento di un gene che faceva parte di un virus patogeno: qualcosa di dannoso che è stato inoculato ha fornito un pezzo fondamentale per lo sviluppo di una funzione vitale.

Un’ultima cosa: abbiamo visto come il senno di poi avveleni il ragionamento e induca a farlo in termini finalistici, ideologici. Diffidate sempre di chi usa la Natura nei propri discorsi, quando si sente affermare “è nella Natura delle cose”, “è naturale” o “è sempre stato così” il più delle volte è ancora una volta un uso ideologico del passato per giustificare un presente utilitaristico, e tanto meno, come già David Hume ci ha insegnato, mai usare la Natura come autorità morale! Ed ecco che tornando al DNA tutti coloro i quali giustificano qualcosa perché scritto nel DNA sono doppiamente da condannare. In primo luogo perché nel DNA non c’è scritto proprio niente: il DNA è una catena di basi nucleotidiche, adenina, timina, citosina e guanina, tenute insieme da legami chimici a idrogeno e, non ultimo, perché ancora una volta tentano di giustificare una posizione ideologica come fosse un destino inevitabile quando invece è un costrutto umano. La guerra non è scritta nel DNA degli uomini come fosse un evento ineluttabile e naturale, la guerra è un costrutto umano.[4]

Il pollosauro

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Ci sono poi i geni dismessi, quelli che non sono più utilizzati da tempo. Nel DNA degli uccelli ci sono dei geni atavici che sono implicati nello sviluppo dei denti, elementi presenti nei dinosauri aviani loro antenati od in specie ancestrali di uccelli; oppure ci sono geni che sono coinvolti nello sviluppo della coda ossea. Se ci fosse qualcuno capace di partire da un pollo, modificarne il genoma inserendo o attivando questi geni, potrei ottenere un pollosauro, un pollo con i denti e con la coda, un po’ pollo e un po’ dinosauro! Scherzi a parte (…) non sono infrequenti casi di persone che nascono con una strana appendice alla base della colonna vertebrale come forma vestigiale di una coda. Nelle prime fasi dello sviluppo questi geni, che normalmente sono spenti o dismessi, può capitare che invece si attivino e contribuiscano allo sviluppo di organi normalmente non presenti, sviluppando ciò che è chiamato atavismo.

Il cervello

Anche quest’organo non sfugge al principio dell’imperfezione che è la costante dell’evoluzione. Come già detto Rita Levi Montalcini definiva il cervello un accrocco, qualcosa di raffazzonato, messo insieme alla meglio, e che nasce da tante parti preesistenti che probabilmente un tempo facevano altro. Il genetista francese François Jacob, collega e collaboratore del famosissimo Jacques Monod, si spinse oltre affermando che è come mettere insieme il motore di una Ferrari in una Fiat 500 sperando che tutto funzioni al meglio, cosa che ovviamente non accade in questa macchina improbabile e tanto meno nel cervello.

Ma la tolleranza all’imperfezione consente contemporaneamente di avere a disposizione quegli strumenti e quelle possibilità evolutive che soltanto un cervello può dare e che complessivamente riassumiamo in evoluzione culturale. Il cervello umano inoltre si sviluppa per due terzi dopo la nascita, impiegando un tempo lunghissimo rispetto ad esempio al nostro parente più prossimo, uno scimpanzè, che arriva alla nascita con un cervello praticamente già quasi del tutto formato e che completa in pochi mesi. Il lento processo di sviluppo del nostro cervello è costoso, pericoloso, richiede cure parentali uniche nella nostra specie, ma al tempo stesso fornisce tutto ciò che ci rende unici e con il cervello che ha una plasticità unica: nessuna parte del nostro cervello si è evoluta per fare quello che fa oggi, ovvero oggi noi utilizziamo parti del nostro cervello che in passato servivano a tutt’altro. Leggiamo e scriviamo usando parti del cervello che in origine svolgevano funzioni di senso e di moto; la dislessia si è scoperto recentemente che non deve essere più trattata e pensata come una patologia perché è semplicemente lo stadio evolutivo normale umano in quanto leggere e scrivere non sono competenze per le quali si è sviluppato il nostro cervello ma questi ha imparato ad utilizzare alcune strutture già esistenti per farlo, e quindi non va considerata una patologia ma una variabilità popolazionale.

Pur col timore d’esprimere una posizione antropocentrica, tanto invisa alla scienza e al sottoscritto, va osservato che comunque stiano le cose quest’accrocco di parti riciclate è paragonabile per complessità, in soli 1300 cm3 circa, alla trama stessa della materia, visibile e non, del nostro Universo, con una densità di interconnessioni neuronali (sinapsi) che ne fa a tutti gli effetti la struttura più complessa conosciuta. Talmente complessa che alcuni neuroscienziati sono piuttosto scettici che l’uomo possa un giorno svelare i misteri del proprio cervello, avendo a disposizione soltanto…il proprio cervello!

Serendipità mancata

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L’analisi dell’evoluzione del cervello ci mostra anche come questa proceda in maniera estremamente lenta rispetto al progresso tecnologico e per quanto la Regina Rossa acceleri il ritmo della sua corsa rimane sempre un po’ indietro. Tutto questo ha creato e sta tuttora creando, una sorta di ricerca di identità di gruppo anche all’interno di comunità enormi quali quelle che possono essere rappresentate dai social media: quel che l’uomo ha sempre cercato insomma, una cerchia di persone ristretta affinché ci si possa sentire in quella sorta di noi protettivo, nonostante dall’Illuminismo in poi si sia cercato di spingere l’uomo ad uscire ed allontanarsi sempre di più. Pur con una tecnologia che consente, anche solo virtualmente, di esplorare il mondo e la sua immensa varietà, quel che accade è che si cerca di ricreare continuamente una nicchia, una tribù. E tutto questo è pericoloso perché consente di realizzare algoritmi che sfruttano commercialmente, incanalandone gusti e tendenze, le abitudini e la ricerca di autoconferma che queste comunità virtuali esprimono, algoritmi che continuano a proporre scelte culturali, sociali e commerciali limitrofe al proprio ambiente. Si è passati dal web dove con pochi click si poteva essere in qualsiasi parte del mondo ad un confinamento che impedisce di esprimere potenzialità di ricerca anche apparentemente casuale: uno strumento che nelle mani di persone predisposte consente di scoprire anche quanto non si stava cercando o, di più, quanto non si sapeva nemmeno di star cercando e che invece è per la maggior parte nelle mani di persone che sono convinte di sapere tutto e autoalimentano circuiti di conferma. La serendipità negata.

In conclusione, divagando, Internet è nato come un esperimento anarchico ma anche cooperativo nella Silicon Valley ed è finito col vendere pubblicità sui social network tenendo la gente possibilmente sempre più legata e bloccata, con un processo che non è stato certamente intenzionale come vorrebbero i soliti complottisti perché non era affatto prevedibile. Semplicemente qualcuno ha capito che c’è un retaggio sociale intuitivo naturale e l’ha sfruttato per avere potere, soprattutto economico, in continuo aumento, soltanto sfruttando la tendenza dell’essere umano che lo vede in continua ricerca del capire chi è come noi e chi è altro da noi. E costoro conoscono i meccanismi evolutivi e selettivi molto meglio della massa che controllano, probabilmente composta da negazionisti di vario genere, compresi i negazionisti del darwinismo, in un enorme paradossale miscuglio di sapere ed ignoranza. L’unico strumento di difesa che possiamo contrappore è sperare che contemporaneamente aumenti la sensibilità umana rispetto a certe tematiche come sembra esserci. Negli anni ’50 o ’60 nessuno parlava di inquinamento, a nessun livello, non si pensava nemmeno potesse esistere una cosa del genere. Adesso è impensabile non essere consci di quelli che sono i danni all’ambiente provocati dall’uomo. Negli anni ’70 c’erano trasmissioni televisive per ragazzi dove si portavano animali vivi in studio, persino coccodrilli, e si discuteva in video di quali fossero le parti migliori per farne borsette.

La sensibilità aumenta ma in quanto tempo procede positivamente? Quanto ci vorrà?

Conclusioni

La Teoria dell’Evoluzione, nonostante fin dal suo esordio si sia fatto di tutto per smentirla, persino ridicolizzandola, continua a reggere ed a svolgere ciò che ogni teoria scientifica deve fare: fornire modelli di spiegazione di fatti, elaborare previsioni verificabili, producendo risultati che possano essere presentati in modo obiettivo e quindi candidandosi a diventare scienza affidabile. Dovrebbe essere insegnata fin dalla scuola primaria, grazie a esempi concreti, semplici esercitazioni e modelli.

Certo ci sono problemi aperti, come in qualsiasi campo della scienza, in continuo divenire, dove sono e devono essere sempre più le domande che le risposte. Tra i grandi temi irrisolti l’origine della vita e prima ancora il passaggio da materia non vivente a vivente, pur avendo già promettenti indizi di sequenze di eventi biochimici coinvolti in questa prima grandiosa transizione. Ancora aperto poi è il tema relativo alla formazione del primo metabolismo o della prima replicazione: prima l’uno o l’altra, in una sorta di rivisitazione della domanda che ognuno si è sentito fare da bambino: è nato prima l’uovo o la gallina?

Ma la stessa evoluzione della scienza ha anche fornito conferme della validità del lavoro di Darwin: dalla genetica, anche molecolare, all’embriologia, l’anatomia comparata, neuroscienze, psicologia, medicina generale, fino ai risultati della modernissima evo-devo, abbreviazione di evolutionary developmental biology, cioè biologia evoluzionistica dello sviluppo.

Senza contare infine quanto l’evoluzione possa avvenire proprio sotto i nostri occhi, in periodi di tempo che possano essere misurabili alla scala umana: dagli esperimenti di Morgan con i moscerini della frutta, la Drosophila melanogaster, l’insetto più famoso della biologia, a quelli condotti con una specie particolare di piccoli pesci, comunemente detti guppies; o i più recenti condotti con colonie batteriche in grado di esprimere migliaia di generazioni in breve tempo e mostrare gli effetti delle mutazioni.

Tutti i tentativi fatti in oltre 150 anni di confutare l’intero impianto darwiniano sono falliti clamorosamente e senza volerlo hanno fornito gli strumenti per aggiornare la teoria mantenendola comunque coerente con il suo nucleo originale darwiniana: una solida teoria scientifica non deve mai temere il progredire della ricerca e deve anzi incoraggiarla in ogni direzione, compreso quella che tenta la sua stessa confutazione.

Coloro che invece tentano di screditarla con argomentazioni non scientifiche appartengono ad una dimensione estranea alla scienza e come tali non possono nemmeno esser prese in considerazione perché inutile e controproducente sarebbe tentare di porli allo stesso livello simulando l’esistenza di un dibattito inesistente.

Come scrive Telmo Pievani in un suo saggio sulla Teoria dell’Evoluzione[5] «La teoria dell’evoluzione, come ogni aspetto del sapere scientifico, è e sarà rivedibile e integrabile, ma è anche un patrimonio di conoscenze fattuali acquisite, una visione laica del vivente che offre alla nostra specie una penetrante consapevolezza della propria storia e della propria appartenenza alla grandiosa diversità della vita che popola il terzo pianeta del sistema solare. Questo sapere non mina affatto le fondamenta delle dignità umana ma, al contrario, ci offre la massima libertà e insieme la massima responsabilità verso il futuro che sapremo costruire.».

clip_image002[1]

Jacques Monod, nel 1970, nel suo famosissimo saggio “Il caso e la necessità”, scrive[6] la sintesi perfetta di quanto meravigliosa possa essere la consapevolezza di questa responsabilità.

«La probabilità a priori che, fra tutti gli avvenimenti possibili dell’universo, se ne verifichi uno in particolare è quasi nulla. Eppure l’universo esiste; bisogna dunque che si producano in esso certi eventi la cui probabilità (prima dell’evento) era minima. Al momento attuale non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle.
Quest’idea non solo non piace ai biologi in quanto uomini di scienza, ma urta anche contro la nostra tendenza a credere che ogni cosa reale nell’universo sia sempre stata necessaria, e da sempre. Dobbiamo tenerci sempre in guardia da questo senso così forte del destino. La scienza moderna ignora ogni immanenza. Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana, la sola specie dell’universo capace di realizzare un sistema logico di combinazione simbolica. Altro avvenimento unico che dovrebbe, proprio per questo, trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Se esso è stato veramente unico, come forse lo è stata la comparsa della vita stessa, ciò dipende dal fatto che prima di manifestarsi, le sue possibilità erano quasi nulle. L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?»


[1] Si stima esistano circa 1000 miliardi di specie di batteri di cui se ne conosce appena lo 0,001%. Nei mari della Terra ci sono qualcosa come 1024 batteri fotosintetici, in un millilitro di acqua di mare ce ne sono diverse centinaia di milioni e i nostri batteri intestinali, pesati insieme, ammonterebbero ad un paio di chilogrammi.

[2] In tema di evoluzione umana la narrazione classica, progressiva ed errata, vede per esempio i Neanderthal meno Homo rispetto ai Sapiens, un gradino più in basso. Eppure oggi è ampiamente dimostrato che le due specie hanno convissuto negli stessi territori, dal Medio-Oriente all’Europa, per decine di migliaia di anni, perfettamente adattate entrambe, e fino al punto di essersi influenzate culturalmente l’un l’altra e in molti casi ibridate con accoppiamenti tra individui di sesso diverso delle due specie. E non solo: fino a poche decine di migliaia di anni fa sulla Terra esistevano contemporaneamente cinque specie umane diverse, H. sapiens ed altre quattro che non avevano nulla di meno in termini adattativi. L’idea della marcia del progresso non funziona.

[3] “Come mai la natura non avrebbe fatto un salto da una struttura all’altra? Secondo la nostra dottrina d’elezine naturale possiamo capire chiaramente perché essa nol possa fare; perché l’elezione naturale non può agire che approfittando delle piccole variazioni successive; essa non può mai fare un salto, ma deve procedere per gradi corti e lenti.“ Charles Darwin, L’origine delle specie, prima edizione italiana, 1864. Si noti l’uso del termine elezione quando Darwin nell’originale usò da subito selection. Il termine italiano fu scelto dal traduttore poi trasformato successivamente in selezione. Un’interessante disamina qui: https://dizionaripiu.zanichelli.it/cultura-e-attualita/glossario/dallelezione-alla-selezione-naturale-parole-ed-evoluzione-linguistica-ne-lorigine-delle-specie-di-darwin/

[4] Non si confonda l’aggressività, che è un elemento naturale degli esseri viventi, con la guerra.

[5] Telmo Pievani, “La teoria dell’evoluzione”. Il Mulino, collana “Farsi un’idea” Edizione aggiornata 2017.

[6] Jacques Monod, “Il caso e necessità”. Mondadori. 1970. (il corsivo è nell’originale)

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Per motivi tuttora ignoti anziché un account Google come da impostazione, ne viene richiesto uno Blogger. In altre parole, per ora non potete sottoporre commenti, a meno che non abbiate, appunto, un account Blogger. Spiacente.