Per quasi tutti noi il passato si ferma un paio di generazioni fa: quanti di noi conoscono il nome di tutti i loro bisnonni? Eppure se abbiamo certe caratteristiche lo dobbiamo a loro. E le genealogie si moltiplicano: due genitori, quattro nonni, otto bisnonni e così via. E ognuno di loro aveva a sua volta otto bisnonni…Venti generazioni fa, più o meno due secoli e mezzo, fa 220 antenati: un milione circa. E nel DNA di ognuno di noi c’è un milionesimo del loro DNA. Pochissimo, dal punto di vista strettamente genetico, ma molto da altri punti di vista. Siamo elementi di una continuità genealogica che proviene dalle profondità del tempo e si estenderà nel futuro, se non saremo così stupidi da compromettere la nostra stessa sopravvivenza.
Alla fine del 2022 la popolazione mondiale ha superato la soglia degli 8 miliardi di individui, il 7% vivente dei circa 114 miliardi di tutti gli esseri umani che hanno mai abitato il nostro pianeta. Dai 4 milioni di circa 10.000 anni fa, all’inizio della rivoluzione agricola, l’umanità è salita gradualmente a circa 800 milioni al momento della prima rivoluzione industriale, avvenuta solo due secoli fa. In confronto all'arco temporale della storia umana, che abbraccia più di due milioni di anni, l'incremento del numero di persone sulla Terra si è verificato principalmente negli ultimi due secoli, risultando in una concentrazione senza precedenti.
Nulla
di tutto ciò accadde. Restando
ancora all'India la sua popolazione è raddoppiata rispetto al 1968, ha di
recente superato la Cina, ma è anche il paese che ha più che triplicato la
propria produzione di grano e riso e la sua economia è cresciuta di cinquanta
volte.
Ancora,
nel 1990, meno della metà della popolazione della Terra aveva accesso a sistemi
di distribuzione idrici centralizzati; oggi questi sistemi raggiungono il 60
percento della popolazione, un successo enorme se si tiene conto che nel
frattempo siamo passati da 5,3 a quasi 8 miliardi di persone.
Attenzione, ciò non significa che sia partita una
inesorabile marcia verso il progresso e il benessere per tutti né voglio
sostenere con questo che la malnutrizione non sia un problema serio o
drammatico in alcune zone del mondo.
E
anche se non possiamo liquidare Ehrlich dandogli del catastrofista la
sua previsione era sbagliata.
Non
aveva tenuto conto della forza
dell'innovazione, comprese le
varie rivoluzioni agricole che hanno consentito di produrre una quantità di
cibo per ettaro maggiore, un aumento di resa con la selezione artificiale di
nuove varietà.
Ancora
attenzione però. Abbiamo appena
sfondato il muro degli 8 miliardi di terrestri, entro la fine del secolo ce ne
saranno 10. Tutti da nutrire.
Un
incremento in percentuale di popolazione non significa produrre cibo in più con
un aumento dello stesso valore: molto di più, con parametri diversi per l'uso
del suolo da destinare a terreni agricoli, risorse idriche, dinamiche di
mercato, ridistribuzioni.
E
tutto questo perché man mano che il benessere si diffonde, che la gente diventa
più ricca, assume più calorie e in particolare assume più carne e più
latticini, che a loro volta richiedono la coltivazione di maggiori quantità di
cibo da destinare alla zootecnia. In altre parole, il tasso di crescita del cibo
necessario per sfamare una popolazione in crescita è molto più alto che non
quello della popolazione stessa. Ricorda un po' Malthus, un altro che, in buona
fede, aveva dipinto a tinte fosche il futuro dell'umanità, pur se guidato dalle
più nobili intenzioni, ma pur sempre "vittoriane".
Ugarit, in poco più di un anno
soltanto, fu distrutta da popolazioni provenienti dal nord dei Balcani che, a
causa dei cambiamenti climatici, avevano visto collassare il regime
agropastorale da cui dipendevano. La scia di distruzione che questi «popoli del mare»[1]
lasciarono dietro di sé fu vastissima: cominciò in Anatolia, attraversò il
Levante e arrivò in Egitto. Queste popolazioni caricarono vettovaglie e
famiglie e si mossero in cerca di alternative per la loro sopravvivenza, senza
intenzione di tornare indietro. Erano migranti, oggi diremmo forse migranti
climatici.
Il rischio più grosso quindi, per
le società ricche non è il cambiamento diretto delle proprie condizioni materiali,
ma è la risposta indiretta ad impatti che si
manifestano altrove. Il cambiamento climatico trasforma la realtà dei
soggetti più vulnerabili che reagiscono di conseguenza, anche su periodi molto
lunghi, a danno dei primi.
Mancanza di accesso al cibo, povertà, carestie, non sono dovute alla crescita demografica incontrollata delle famiglie povere che producono troppe bocche da sfamare, come scriveva Thomas Malthus in un’ottica vittoriana ed aristocratica, anche se in buona fede e sinceramente preoccupato per la sorte dei poveri nel Regno Unito. Ricordiamo per inciso l'ispirazione che Darwin trasse dalle sue opere.
E il problema non è nemmeno la sovrappopolazione ma la distribuzione dei diritti di accesso alle risorse come riportato all’inizio. La pandemia di Covid-19 ci ha dimostrato che, in un mondo interconnesso, nessuno è al sicuro finché tutti non lo sono.
Se è chiaro che l’agricoltura è la protagonista assoluta del nostro rapporto col clima, abbiamo già qualcosa come due miliardi di persone che da questa dipendono in condizioni estremamente vulnerabili: un miliardo di persone, poco meno del 20 percento, impiegato stabilmente come forza lavoro mondiale in campo agricolo e un altro miliardo nell’agricoltura di sussistenza. Abbiamo 65 milioni di rifugiati a livello mondiale, ogni giorno 28.000 persone, in fuga da violenze, conflitti e persecuzioni, abbandonano le loro case. Qualcosa come 26 milioni di persone ogni anno, dal 2008, sono state vittime di disastri naturali, soprattutto legati all’acqua, che ne hanno provocato lo sfollamento. E gli impatti subiti dai più vulnerabili si riflettono sulla vita di tutti, da sempre.
Energia idroelettrica e dighe per il controllo dell’acqua, spesso integrate in un’unica infrastruttura, hanno costituito la piattaforma per lo sviluppo e per la modernizzazione di Europa e Stati Uniti per almeno un secolo, attraversando la storia del Novecento. La percezione che ora si ha di questo modello è radicalmente diversa tra paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, o che lo erano fino a non molto tempo fa come Cina ed India tuttora in corsa per continui primati economici.
Quando nacque la “Convenzione
Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici” (UNFCCC),
nel 1992, si era già al punto in cui tutto ciò che doveva essere costruito era
già realizzato, che esistevano alternative energetiche plausibili se non
possibili, si era insomma in un momento, spinti anche dai movimenti
ambientalisti, antidighe, al punto che si iniziò persino a smantellarne
qualcuna nel nome del ripristino delle condizioni naturali, emblematica è l’epopea della diga sul fiume Elwha, nello stato di Washington. Insomma, i paesi più
ricchi, grazie alle alternative esistenti, iniziarono a potersi permettere di
seguire percorsi diversi. Un punto di vista dal quale i paesi emergenti o più
poveri, dissentono completamente.
Le nazioni che ancora devono impegnarsi nel tipo di trasformazione che possa garantire loro la sicurezza idrica, madre di tutte le altre, perché dovrebbero scegliere un percorso diverso da quello seguito dal mondo ricco? Perché dovrebbero seguire le indicazioni di quest’ultimo senza un’evidenza storica di successo, senza ricevere sussidi, persino quando promessi, senza protezione dai rischi imprevisti di un percorso impegnativo? Come minimo le nazioni ricche dovrebbero sostenere i costi dell’innovazione.
Se non si aumenta la resilienza
di tutti molte più persone si avventureranno verso le coste dei paesi ricchi,
incoraggiati da immagini di una vita migliore e più sicura. Il pastore del
Sahel conduce le greggi come mille anni fa ma adesso ha uno smartphone.
E’ moralmente indifendibile il non aver onorato le promesse fatte, ma oltre che persino peggiore è stata e sarà una pessima scelta strategica e politica.
[1] Così
chiamati dagli archeologi del XIX secolo
Nota bibliografica. Liberamente ispirato dal cap. VII di “Siccità. Un paese alla frontiera del clima”. Di Giulio Boccaletti, 2023.
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