Smascherare la negazione del cambiamento climatico - 2 (il rapporto DoE)


I negazionisti climatici, come un disco rotto, ripetono fino alla nausea sempre gli stessi, spesso vecchissimi, argomenti. Con questo mio nuovo post magari potrò offrire loro la possibilità di aggiornarsi nel tipo e nel numero di fesserie disponibili, rendendo così, a chi vorrà farlo, più divertente l'opera di confutazione.
Ho quindi selezionato, adattato e tradotto una parte minima ancorché essenziale dalle circa 80 pagine del documento di risposta che Carbon Brief ha fatto realizzare ad un più che nutrito gruppo di scienziati, che hanno fatto una doverosa revisione paritaria della montagna di fesserie, spesso false e comunque come minimo sempre ingannevoli, contenute nelle affermazioni del rapporto redatto dal Dipartimento per l'Energia USA (DoE). Qualche dettaglio sul rapporto del DoE, sul suo scopo e sul documento di risposta in questo mio post precedente.

Anche se l’onere della prova dovrebbe spettare a chi cerca di negare i risultati scientifici, qualunque essi siano, in un mio recente post ho cercato di realizzare una sorta di manualetto tascabile che metta in grado di rispondere, punto per punto e con un minimo di argomenti, ai tentativi di smentita, di gran moda, in tema di cambiamento climatico; ciò perché a fronte di un consenso scientifico che nasce dal lavoro corale di centinaia di scienziati si vedono spesso, direi continuamente, contrapposti i soliti argomenti. Parafrasando un altro mio post, anch’esso contenente argomentazioni negazioniste confutate punto per punto, negare è facile, come distruggere; capire, come costruire, è difficile.

A partire quindi da alcune considerazioni espresse sulla recente pubblicazione da parte del Department of Energy (DoE) (qui e qui) in questo post cercherò di fornire ulteriori informazioni selezionandole dal documento di risposta a quello DoE, qui disponibile, dettagliato ed interattivo. Verranno quindi riportati alcuni degli argomenti che i negazionisti del cambiamento climatico usano allo scopo di dimostrare le loro tesi; soprattutto se organizzati e strutturati come una vera e propria agenzia di propaganda (qui i dettagli), come il gruppo del DoE in questo caso. Si tratta solo di una breve selezione, rimandando al documento originale. 

In corsivo nel seguito la sintesi delle considerazioni degli autori del rapporto del DoE.

Non ho riportato nessun esempio dalla sezione Impatti sugli ecosistemi e sulla società, dove gli autori DoE cercano di dimostrare i benefici economici del riscaldamento climatico, prendendo esempi soprattutto (dire quasi del tutto) da casi relativi alla Francia (…). Indipendentemente dalle risposte avute e dalle analisi econometriche gli aspetti che legano l’economia al clima sono estremamente labili e molto privi di struttura. La storia insegna che gli economisti molto spesso hanno completamente ignorato i fattori ambientali come influenzanti ciò che amano definire come equilibrio naturale del mercato: si lasci fare al mercato e tutto si aggiusta. Nulla di più falso. Anche dalla sezione Fertilizzazione con CO2 e perdita di nutrienti non ho estratto esempi.

Alcune delle affermazioni del rapporto DoE sono state considerate, dagli autori della revisione, di tipo FALSO o dal contenuto INGANNEVOLE, e così sarà utilizzata l'equivalente etichetta prima di ogni loro dichiarazione (in corsivo). 

Iniziamo la disamina. Per semplicità di lettura e selezione degli argomenti farò uso di un indice dei contenuti.


Il ruolo del Sole

INGANNEVOLE

L'IPCC ha minimizzato il ruolo del Sole nel cambiamento climatico, ma esistono ricostruzioni plausibili dell'irradianza solare che suggeriscono che abbia contribuito al recente riscaldamento.

Si tratta di un'affermazione vaga e potenzialmente fuorviante. L'AR6 (sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC, la sintesi più autorevole, completa e condivisa della letteratura scientifica sul clima) ha adottato i valori di forzante radiativo solare raccomandati dal CMIP6, mentre l'AR5 ha utilizzato quelli del CMIP5. In entrambi i casi, le ricostruzioni TSI (Total Solar Irradiance, irradianza solare totale) selezionate erano le più avanzate e ampiamente analizzate disponibili al momento della pubblicazione. L'idea che esistano ricostruzioni plausibili dell'irradianza solare che implichino un contributo solare al recente riscaldamento è fuorviante, poiché lascia vaga l'entità del contributo stesso (si veda qui). Le ricostruzioni dell'irradianza scientificamente più solide indicano che tale contributo è stato relativamente modesto negli ultimi decenni. Le pubblicazioni utilizzate includono aggiustamenti manuali arbitrari e persino dati fabbricati, con alcuni valori apparentemente copiati da un altro indice solare. Altre sono state ritirate e sostituite da versioni aggiornate.

Fondamentalmente, inoltre, in tutti questi modelli ad alta variabilità, le tendenze TSI a lungo termine non sono state derivate da vincoli osservativi, ma sono state imposte come ipotesi. Le revisioni moderne dei modelli hanno significativamente ridotto queste tendenze presunte per allinearle alle evidenze osservative. Pertanto, trattare queste ricostruzioni obsolete, superate o metodologicamente errate come alternative ugualmente probabili ai moderni modelli TSI convalidati è scientificamente ingiustificato. Crea una falsa equivalenza che travisa lo stato attuale della ricerca sull'irradiazione solare. Tuttavia, nel rapporto DoE, persistono gli stessi problemi metodologici. Molte delle ricostruzioni aggiunte sono versioni obsolete o ridondanti di modelli precedenti o di autori che hanno successivamente ritrattato le loro conclusioni identificandovi difetti sostanziali nella metodologia di regressione e nel trattamento dell'incertezza. Comunque, una volta eliminate le serie TSI obsolete, superate e poco plausibili, il risultato è che il contributo solare al riscaldamento globale è significativamente inferiore a quello antropogenico.

Prove a sostegno
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Componenti del forzante radiativo e la loro storia

INGANNEVOLE

L'IPCC ritiene trascurabile la variazione della forza radiativa causata dal Sole, in base alla sua preferenza per le ricostruzioni dei dati che implicano una variazione solare minima rispetto all'epoca preindustriale.

La selezione delle ricostruzioni TSI da utilizzare nel CMIP6 e nell'IPCC AR6 si è basata sulla robustezza scientifica e sulle prestazioni dei modelli, piuttosto che sull'entità della variabilità TSI che implicano. Le due ricostruzioni adottate sono state scelte perché rappresentano i modelli TSI più avanzati e attualmente disponibili. Entrambi sono stati ampiamente validati e dimostrano un'eccellente concordanza con le misurazioni satellitari dirette di TSI, rendendoli le scelte più affidabili per la modellazione climatica fino ad oggi.

FALSO

Alcuni ricercatori avrebbero scoperto che le dichiarazioni di consenso dell'IPCC sul forzante solare sono state formulate prematuramente attraverso la soppressione di opinioni scientifiche dissenzienti.

Questa è l'ennesima affermazione vaga contenuta nel rapporto del DoE. Non è chiaro a cosa si riferiscano con consenso: si riferisce alle ricostruzioni a lungo termine o riguarda solo il divario tra dati osservati e modelli di cui si parla in un determinato paragrafo? In ogni caso, sembra un'affermazione generale che, in quanto tale, deve essere etichettata come falsa. L'affermazione secondo cui le opinioni scientifiche dissenzienti vengano soppresse è infondata. Il consenso scientifico si sviluppa attraverso una valutazione rigorosa, non attraverso la censura. Quando vengono individuati problemi metodologici significativi, come gli aggiustamenti arbitrari e i dati fabbricati nella ricostruzione TSI di è scientificamente appropriato ignorare tali modelli come implausibili. Non si tratta di soppressione delle voci dissenzienti, ma di applicazione di standard di solidità metodologica.

Ignorare le ricostruzioni obsolete o metodologicamente imperfette è un segno distintivo dell'integrità scientifica, non della soppressione. L'uso continuato di modelli screditati mina un solido discorso scientifico e travisa lo stato della conoscenza.

Prove a sostegno
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Raffreddamento stratosferico

INGANNEVOLE

Un elemento importante dell'impronta generale prevista del cambiamento climatico antropogenico è il riscaldamento della troposfera e il raffreddamento della stratosfera. Quest'ultima caratteristica è anche influenzata dall'esaurimento dell'ozono e dal suo recupero. L'AR6 ha riconosciuto che un raffreddamento era stato osservato, ma solo fino al 2000. Da allora, la stratosfera ha mostrato un certo riscaldamento, contrariamente alle proiezioni dei modelli.

La povertà del loro punto di vista è esemplificata nella sezione dedicata al raffreddamento stratosferico, di cui circa un terzo è costituito da una lunga citazione proprio da un capitolo dell'AR6 dell'IPCC, sufficiente a descrivere come sono cambiate le temperature stratosferiche, ma ignorando completamente la sezione sulle cause che si trova in altra sezione (un buon esempio di cherry picking). Non si prendono nemmeno la briga di finire l'unica citazione aggiuntiva che occupa gran parte del resto della sezione. La citazione, che proviene dal riassunto della sezione, è interrotta da un punto, dove invece il riassunto prosegue, dopo una virgola, affermando: «che è coerente con un'inversione di tendenza dall'esaurimento dell'ozono al recupero dagli effetti delle sostanze che riducono lo strato di ozono». In altre parole, non è così semplice e il rapporto DoE fa affidamento sul fatto che non si approfondisca ulteriormente, nemmeno minimamente.

Prove a sostegno
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FALSO

La combinazione di riscaldamento troposferico e raffreddamento stratosferico è comunemente citata come impronta del cambiamento climatico antropogenico. Il riscaldamento stratosferico a partire dal 2000 coincide con il continuo riscaldamento superficiale e troposferico, un andamento che non si riscontra nelle simulazioni dei modelli climatici e che non è apparentemente coerente con l'impronta digitale antropogenica.

L'affermazione del DoE non è vera. I modelli climatici possono mostrare, e mostrano effettivamente, un recupero della temperatura della stratosfera inferiore dopo il 2000 in risposta al recupero dell'ozono (e in accordo con le osservazioni satellitari). Nell'intera era satellitare (1986-2024), i modelli mostrano un raffreddamento molto ampio della stratosfera medio-alta in risposta alle variazioni di CO2 e ozono causate dall'uomo. La struttura verticale osservata della variazione della temperatura atmosferica è coerente con le previsioni dei modelli e con la teoria di base. Il rapporto del DoE cita un documento PNAS del 2023 allegato come prova dell'assenza di un'impronta umana sulla struttura verticale della temperatura atmosferica. Il documento del 2023 fornisce in realtà una solida prova a sostegno dell'identificazione positiva di questa impronta umana, derivata direttamente dai dati satellitari.

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Calo dell'albedo planetario e recente record di calore

INGANNEVOLE

Probabilmente il cambiamento più eclatante nel sistema climatico terrestre nel corso del XXI secolo è una significativa riduzione dell'albedo planetario a partire dal 2015, che ha coinciso con almeno due anni di riscaldamento globale record. Dal 2000 si hanno buone osservazioni satellitari. La riduzione dello 0,5% dell'albedo planetario dal 2015 corrisponde a un aumento di 1,7 W/m² della radiazione solare assorbita media sul pianeta mentre si stima che l'attuale forzante derivante dall'aumento della CO2 atmosferica rispetto all'epoca preindustriale sia di 2,33 W/m².

La citazione è corretta, ma presenta un confronto alquanto incompleto con la radiazione solare assorbita. Una è una forzante a lunghissimo termine, l'altra è un mix di forzante e risposta su un periodo più breve: quindi, i due numeri non sono molto confrontabili. Tuttii termini del bilancio energetico della Terra devono essere considerati e compresi insieme. E quando tutte le componenti vengono analizzate insieme, la causa del bilancio energetico della Terra può essere ricondotta al riscaldamento dei gas serra e alla risposta del sistema terrestre con un buon grado di certezza. Vengono comunque enfatizzate troppo le incertezze.

Prove a sostegno
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FALSO

L'estensione del ghiaccio marino artico è diminuita di circa il 5% dal 1980.

Il ghiaccio marino di settembre (media 1979-88 rispetto alla media 2015-24) è oggi inferiore del 34% secondo le osservazioni dell'OSISAF (Ocean and Sea Ice Satellite Application Facility) e del 35% secondo l'NSIDC (National Snow and Ice Data Center). Per l'estensione media annua del ghiaccio marino, la riduzione percentuale è del 14% secondo l'NSIDC e l'OSISAF. Il numero è più alto in estate perché è il periodo in cui si verifica la maggiore perdita di ghiaccio marino e il minimo stagionale, quindi la quantità minima da cui partire. Inoltre, le prove fornite a supporto di questa affermazione si collegano a un dato che mostra il declino del ghiaccio marino in Antartide a luglio.

Prove a sostegno
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INGANNEVOLE

Per quanto riguarda il ghiaccio marino antartico, l'IPCC AR6 conclude che «non si è verificata alcuna tendenza significativa nell'area del ghiaccio marino antartico dal 1979 al 2020 a causa di tendenze regionali opposte e di un'ampia variabilità interna».

Sebbene ciò sia vero, è fuorviante perché trascurano di menzionare che la copertura di ghiaccio marino antartico ha subito un drastico declino dal 2015 e che negli ultimi anni ha registrato minimi storici. Altri studi hanno dimostrato che era improbabile che questi minimi storici si fossero verificati prima, nell'ultimo secolo. Omettere gli ultimi anni di evoluzione del ghiaccio marino antartico è un'enorme omissione.
Gli autori del DoE riescono a evitare affermazioni che singolarmente sono chiaramente errate. È persino un po' difficile individuare singole frasi che sarebbero chiaramente fuorvianti prese singolarmente, perché ciò dipende dal contesto in cui vengono inserite. Tuttavia, considerando la sezione nel suo complesso, penso sia abbastanza chiaro che stiano enfatizzando eccessivamente le incertezze e il possibile ruolo relativo della variabilità naturale, minimizzando gli altri due principali possibili meccanismi alla base del declino dell'albedo degli ultimi due decenni e mezzo, ovvero un possibile feedback positivo emergente dalle nubi basse e gli effetti (in gran parte indiretti) degli aerosol.

Prove a sostegno
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INGANNEVOLE

Un recente brusco aumento delle temperature medie globali ha sollevato la questione dei fattori climatici a breve termine. Uno di questi candidati è la frazione di radiazione solare assorbita, anch'essa aumentata bruscamente negli ultimi anni. La domanda è se il cambiamento sia un feedback interno al riscaldamento causato dai gas serra o se qualcos'altro abbia aumentato la frazione di radiazione assorbita che ha poi causato il recente riscaldamento.

Un «forte aumento recente della temperatura globale» e «la frazione di radiazione solare assorbita che è anch'essa aumentata bruscamente» sono potenzialmente fuorvianti poiché, sebbene sia la temperatura superficiale globale sia la radiazione solare assorbita siano variate col fenomeno ENSO (El Niño Southern Oscillation), sono anche aumentate costantemente nel tempo. Questa formulazione potrebbe enfatizzare artificialmente il ruolo della variabilità naturale.

Prove a sostegno

INGANNEVOLE

Probabilmente il cambiamento più sorprendente nel sistema climatico terrestre nel corso del XXI secolo è la significativa riduzione dell'albedo planetario a partire dal 2015, che ha coinciso con almeno due anni di caldo globale record.

L'albedo planetario è diminuito sia prima che dopo il 2015, sebbene le diminuzioni siano maggiori intorno al 2012-14 (aumenti della luce solare assorbita). Le diminuzioni della luce solare riflessa fino al 2016 sono catturate da alcuni modelli climatici, suggerendo che siano una risposta al riscaldamento globale e al suo modello spaziale, sebbene non sia chiaro quanto del modello del riscaldamento globale sia spiegato dal forzante radiativo e quanto dalla variabilità interna.

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INGANNEVOLE

Si è scoperto che la diminuzione delle nubi a bassa e media quota dal 2015 è la ragione principale della diminuzione dell'albedo planetario nell'emisfero settentrionale, mentre nell'emisfero meridionale la diminuzione dell'albedo planetario è dovuta principalmente alla diminuzione delle nubi a media quota in tutte le zone di latitudine.

Le «diminuzioni delle nubi a bassa e media quota» (si veda anche qui e qui) dichiarate sono fuorvianti poiché si è accertato che le diminuzioni della copertura nuvolosa e anche della riflettanza hanno contribuito all'aumento della luce solare assorbita insieme alle diminuzioni dell'albedo superficiale (che possono essere correlate allo scioglimento dei ghiacci in altre parti dell'articolo): «Scopriamo che le diminuzioni della frazione e della riflessione delle nubi a bassa e media quota e la riduzione della riflessione dalle aree libere da nubi alle latitudini medio-alte sono le ragioni principali dell'aumento delle tendenze ASR (radiazione solare assorbita) nell'emisfero settentrionale... Nell'emisfero meridionale l'aumento dell'ASR è dovuto principalmente alle diminuzioni della riflessione delle nubi a media quota e a una riduzione più debole della riflessione delle nubi a bassa quota». L'aumento della riflessione contrasta gli argomenti presentati secondo cui le diminuzioni degli aerosol non influenzano le diminuzioni dell'albedo poiché il loro effetto nel rendere le nuvole più luminose diminuisce, mentre l'ulteriore aumento costante dell'ASR è anche coerente con i feedback delle nuvole e dell'albedo del ghiaccio sottoposto a riscaldamento nonché con il calo delle emissioni globali di aerosol.

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Stime basate su modelli della sensibilità climatica (climate sensitivity)

FALSO

AR6 non si è basato su simulazioni di modelli climatici nella sua valutazione della sensibilità climatica[1], ma si è basato invece su metodi basati sui dati. [NdR – si fa notare la contraddizione. Sono proprio spesso i modelli ad essere contestati, ritenendoli solo simulazioni teoriche prive di fondamento. Stavolta si contestano i dati che dovrebbero essere invece quando di più solido si ha a disposizione nella ricerca scientifica]. 

L'AR6 ha utilizzato molteplici linee di evidenza nella valutazione della sensibilità climatica: la comprensione dei processi climatici, la registrazione strumentale, i paleoclimi, dozzine di dati proxy e i vincoli emergenti basati su modelli. In effetti, gli autori del rapporto del DoE contraddicono la loro stessa affermazione quattro paragrafi dopo, affermando: «Per l'AR6, l'IPCC ha attribuito un peso primario a risultati che hanno combinato dati storici e proxy paleoclimatici con l'approccio basato sui processi». Ma questi stessi risultati hanno utilizzato i modelli climatici come una delle loro linee di evidenza.

Prove a sostegno

INGANNEVOLE

Un argomento sottolineato nell'AR6 è che le stime ECS (Equilibrium Climate Sensitivity) basate sui dati potrebbero sottostimare la futura risposta al riscaldamento globale dovuta ai gas serra a causa di un cosiddetto effetto modello. Si ritiene che il Pacifico tropicale influenzi fortemente l'efficienza complessiva con cui la Terra irradia calore nello spazio, ma alcune regioni rimuovono il calore in modo più efficiente di altre. Se il gradiente di temperatura da ovest a est nel Pacifico tropicale si indebolisce in un clima in riscaldamento, il riscaldamento si concentrerebbe dove il calore viene rimosso meno efficientemente, aumentando l'ECS.

La citazione è accettabile, ma piuttosto superficiale e sbrigativa, data la grande quantità di prove valutate sull'effetto modello nel rapporto dell'IPCC. L’autore della ricerca citata dal gruppo del DoE ha inoltre osservato come sia stato distorto e reso tendenzioso nel suggerire un piccolo raffreddamento da gas serra. In particolare, manca molta altra letteratura con prove contrastanti. Molta letteratura che viene citata nel rapporto dell'IPCC e altre prove pubblicate suggeriscono un reale effetto modello e un'elevata sensibilità climatica. La volontà di contrastare le argomentazioni di IPCC, prodotte da molti autori internazionali e da tre cicli di peer review, incluse diverse revisioni governative, viene a mancare perché manca la confutazione definitiva alle affermazioni di AR6.

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Attribuzione del riscaldamento globale

INGANNEVOLE

AR6 afferma che i fattori naturali esterni dal 1850 al 1900 hanno modificato la temperatura superficiale globale da -0,1 °C a +0,1 °C, mentre la variabilità interna l'ha modificata da -0,2 °C a +0,2 °C, senza avere in media alcun impatto netto sul riscaldamento dal 1850 al 1900.

Il rapporto AR6 presenta questo dato come contributi aggregati al riscaldamento 2010-2019 rispetto al periodo 1850-1900. Questo si riferisce all'effetto netto di vari fattori climatici sulla temperatura superficiale globale tra questi due periodi, non alle variazioni massime osservate. L'intervallo di valori riportato rappresenta l'incertezza di queste stime. È quindi fuorviante affermare che l'AR6 affermi che i fattori naturali abbiano modificato la temperatura globale di ±0,1 °C dal 1850-1900. In realtà è mostrato che la variabilità naturale ha portato a fluttuazioni di temperatura fino a ±0,5 °C in momenti diversi, ma il contributo netto dei fattori naturali al riscaldamento a lungo termine è stimato intorno a ±0,1 °C.

Prove a sostegno

INGANNEVOLE

L'AR5 ha concluso che la migliore stima del forzante radiativo dovuto alle variazioni dell'irradianza solare totale (TSI) nel periodo 1750-2011 era molto piccola (0,05 W/m2, Myrhe et al. (2014)).

L'AR6 ha definito la forzante solare in modo diverso per riflettere la differenza tra cicli solari completi piuttosto che minimi solari, utilizzando dati e modelli aggiornati per la stima del TSI. Questo cambiamento metodologico non è riconosciuto nel rapporto del DoE, il che potrebbe portare a malintesi o confronti errati tra i valori dell'AR6 e quelli di rapporti IPCC precedenti.

Prove a sostegno

FALSO

L'IPCC ha discusso solo in minima parte l'influenza dell'energia solare sul clima globale e regionale.

Contrariamente a questa affermazione, negli ultimi tre rapporti di valutazione dell'IPCC se ne discute molto.

Prove a sostegno

INGANNEVOLE

Esistono prove sostanziali di un'elevata attività solare nella seconda metà del XX secolo (a partire dal 1959) e che si è protratta fino agli anni '90, prima di un declino all'inizio del XXI secolo; questo periodo è spesso definito il massimo moderno. Tuttavia, alcuni scienziati hanno concluso che non è possibile essere certi di un trend pluridecennale nel TSI.

Lo stesso autore citato dal DoE risponde che sebbene la frase in cui lo citano sia fattualmente corretta se presa isolatamente, il testo circostante crea un'impressione fuorviante. Ancora più importante, il loro paragrafo successivo contiene affermazioni fuorvianti ed errate.

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L’acidificazione degli oceani

INGANNEVOLE

Anche se l'acqua diventasse acida, si ritiene che la vita negli oceani si sia evoluta quando gli oceani erano leggermente acidi, con un pH compreso tra 6,5 e 7,0.

Con una lunga e complessa serie di argomenti e citazioni viene sviluppata una parte di un'argomentazione ma l'intera argomentazione non viene mai veramente spiegata. Sembra funzionare più o meno così, con un bel ragionamento circolare: il pH dell'oceano è variato in passato e noi esistiamo oggi; quindi, esisteremo sempre e il pH dell'oceano non è importante.
La prima sottosezione si basa sulla conclusione del riassunto secondo cui «la vita oceanica è complessa e gran parte di essa si è evoluta quando gli oceani erano acidi rispetto al presente». Tralasciando per il momento la vacuità di questa argomentazione – la vita stessa si è evoluta quando c'era poco ossigeno nell'atmosfera, le innovazioni biochimiche che hanno inondato l'atmosfera di ossigeno sono state catastrofiche per la vita allora, ma immaginate come potremmo farne a meno oggi – le loro citazioni sono scarne e strane, soprattutto nel contesto di argomentazioni successive sul valore dei modelli e sull'affermazione che si tratti di una sorta di revisione critica significativa, con cui hanno, molto poco modestamente, preteso di riprodurre quasi tutta la storia climatica della Terra: epica impresa! Ma non per comprendere gli ultimi 200 anni. Anche se, a causa delle emissioni in eccesso di CO2 «l'acqua dovesse diventare acida, si ritiene che la vita negli oceani si sia evoluta quando gli oceani erano leggermente acidi, con un pH compreso tra 6,5 e 7,0». Quindi? Ma il paradosso si raggiunge quando si afferma che, non tanto perché forme di vita semplici sopravviveranno all'attuale riscaldamento globale, ma che una società umana sostenuta da una biosfera fiorente non solo sopravviverà, ma prospererà.
Il lavoro sull'acidità degli oceani miliardi di anni fa non ha alcuna rilevanza per gli impatti dell'acidificazione degli oceani causata dall'uomo odierno e che oggi la saturazione di carbonato di calcio nell'oceano sta rapidamente diminuendo parallelamente all'aumento dell'acidità. Il carbonato di calcio disciolto è essenziale per molte specie marine, in particolare quelle che ne fanno affidamento per costruire i loro gusci. I cambiamenti molto più graduali del pH oceanico che osserviamo su scale temporali geologiche non sono stati in genere accompagnati dai rapidi cambiamenti nella saturazione di carbonato causati dalle emissioni di CO2 umane, e quindi i primi non sono utili analoghi per valutare l'impatto dell'acidificazione degli oceani sulla moderna biosfera marina.

Prove a sostegno

La vita marina e gli ecosistemi moderni (ad esempio, le barriere coralline e le zone di pesca in mare aperto) sono inoltre molto diversi dalle forme di vita iniziali che si sono evolute nei primi oceani (ad esempio, batteri, organismi unicellulari) e quindi presentano diversi range di adattamento e vulnerabilità. Allo stesso modo in cui le condizioni ambientali adatte ai dinosauri hanno scarsa rilevanza per le condizioni ottimali per gli esseri umani, è poco pertinente confrontare i primi habitat batterici oceanici con le condizioni a cui si è adattata la vita marina moderna.

INGANNEVOLE

In sintesi, la vita oceanica è complessa e gran parte di essa si è evoluta quando gli oceani erano acidi rispetto ad oggi. Gli antenati dei coralli moderni sono comparsi per la prima volta circa 245 milioni di anni fa. I livelli di CO2 per oltre 200 milioni di anni dopo erano molte volte superiori a quelli odierni. Gran parte del dibattito pubblico sugli effetti dell'acidificazione degli oceani sul biota marino è stato unilaterale ed esagerato.

Come discusso in precedenza, le variazioni geologiche del pH a lungo termine non sono un buon analogo per un rapido calo del pH del tipo che si verifica oggi, per il motivo principale che un rapido calo del pH si traduce in un abbassamento dello stato di saturazione del carbonato di calcio, che rende più difficile la formazione di conchiglie. Per trovare analogie migliori per il moderno calo del pH nella documentazione geologica, dobbiamo esaminare i periodi in cui il pH oceanico è diminuito più rapidamente. Dati di questo tipo sono raccolti in un recente studio: questi mostrano che tutti i principali eventi di estinzione di massa nell'oceano per i quali disponiamo di ricostruzioni del pH sono associati a un rapido calo del pH oceanico. La documentazione geologica suggerisce quindi che il rapido calo del pH è motivo di seria preoccupazione per gli ecosistemi marini e le comunità e le economie che essi sostengono.

Prove a sostegno
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Scenari futuri di emissione e ciclo del carbonio

INGANNEVOLE

Ci sono circa 850 Gt di carbonio (GtC) nell'atmosfera terrestre, quasi tutto sotto forma di CO₂. Ogni anno, i processi biologici (crescita e decomposizione delle piante) e i processi fisici (assorbimento e degassamento oceanico) scambiano circa 200 GtC di quel carbonio con la superficie terrestre (circa 80 GtC con la terraferma e 120 GtC con gli oceani). Prima che le attività umane diventassero significative, le rimozioni dall'atmosfera erano più o meno in equilibrio con le immissioni. Ma la combustione di combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) rimuove il carbonio dal suolo e lo aggiunge allo scambio annuale con l'atmosfera.

La massa totale di carbonio nell'atmosfera aumenta nel tempo con l'aumentare della concentrazione di anidride carbonica. Si stima una massa di 877 petagrammi di carbonio (PgC; un PgC equivale a una GtC, un miliardo di tonnellate di C o, considerando il peso molecolare, 3,67 miliardi di tonnellate di CO2). Questa stima deriva dai dati attendibili del 2020, quando la frazione molare di CO2 atmosferica nell'aria secca (una misura della concentrazione) era di circa 412 ppm. In questo caso, la loro stima di circa 850 GtC era rilevante circa un decennio fa, quando la concentrazione media di CO2 era più vicina a 400 ppm. Qui si riscontra un clamoroso errore inoltre. Gli scambi lordi annuali di carbonio tra Terra e atmosfera e tra oceano e atmosfera citati sono errati e i loro valori relativi sono invertiti. In questo caso, affermano che la terra scambia 80 GtC con l'atmosfera e gli oceani 120 GtC con l'atmosfera. Non citano fonti specifiche per questi numeri e soprattutto non provengono dal lavoro citato: quel documento cita un flusso lordo di carbonio oceano-atmosfera di 90 GtC all'anno e flussi lordi di carbonio terra-atmosfera compresi tra 120 e 175 GtC all'anno.
Concludono questo paragrafo osservando che le 10,3 GtC emesse dall'uso di combustibili fossili e dalla produzione di cemento rappresentano solo circa il 5% delle emissioni annuali della biosfera terrestre e degli oceani. Questa è una mezza verità che è chiaramente intesa a trarre in inganno. Non riconosce che l'atmosfera e il clima rispondono alle emissioni e alle rimozioni nette di carbonio, non ai flussi lordi. La biosfera terrestre e l'oceano aggiungono e rimuovono carbonio dall'atmosfera, mentre l'uso di combustibili fossili e altre attività umane aggiungono solo carbonio all'atmosfera. Facendo una media a livello globale e annuale, la biosfera terrestre e l'oceano rimuovono tanto carbonio quanto ne emettono, insieme a oltre la metà di queste emissioni antropiche, producendo emissioni nette negative e solo circa la metà delle emissioni antropiche positive. In questo contesto, le emissioni antropogeniche nette sono più del doppio dei flussi naturali netti di CO2.

Prove a sostegno

INGANNEVOLE

Il ciclo del carbonio assorbe circa il 50% della piccola quantità di carbonio immessa annualmente nell'aria dall'umanità, sequestrandola naturalmente attraverso la crescita delle piante e l'assorbimento oceanico, mentre il resto si accumula nell'atmosfera. Per questo motivo, l'aumento annuale della concentrazione atmosferica di CO2 è in media solo circa la metà di quello ingenuamente previsto dalle emissioni umane.

In questo rapporto, gli autori riconoscono che le osservazioni esistenti mostrano che i processi naturali nella biosfera terrestre e negli oceani rimuovono costantemente circa il 50% delle emissioni antropogeniche di CO2. Notano inoltre che questo rapporto si è mantenuto nonostante l'aumento delle emissioni di combustibili fossili. Attribuiscono il crescente assorbimento di CO2 da parte del suolo al fenomeno del global greening, ovvero al ruolo di incremento del tenore di inverdimento. Tuttavia, non riconoscono che ci sono stati molti cambiamenti negli ultimi 50 anni che hanno trasformato moltissime aree da serbatoi di cattura del COa fonti nette di CO2. Questi cambiamenti sono dovuti agli impatti delle attività umane (ad esempio deforestazione, degrado forestale) e ai cambiamenti climatici (aumento della temperatura, siccità, deficit di pressione di vapore).
Gli autori non notano inoltre che, sebbene le terre tropicali assorbano meno CO2, queste perdite vengono compensate principalmente da un maggiore assorbimento di carbonio da parte delle foreste alle medie e alte latitudini. Lì, il cambiamento climatico sta determinando stagioni di crescita più lunghe e calde e lo scioglimento del permafrost consente agli alberi di sviluppare apparati radicali più profondi e massicci che sequestrano più carbonio nel suolo. La rapida crescita, combinata con temperature più elevate e siccità più frequenti a queste latitudini, si traduce in incendi boschivi più estesi e frequenti, che rilasciano CO2. In sintesi, mentre la frazione di CO2 di origine antropica assorbita dalla biosfera terrestre è rimasta pressoché costante in risposta alla crescente abbondanza di CO2atmosferica, diverse parti del mondo stanno rispondendo in modo diverso ai cambiamenti climatici. L'attenzione al greening globale è una semplificazione eccessiva del sistema.

Prove a sostegno

Il CO2 come fattore che contribuisce all'inverdimento globale

INGANNEVOLE

Elevate concentrazioni di CO2 stimolano direttamente la crescita delle piante, contribuendo a rendere il pianeta più verde a livello globale e ad aumentare la produttività agricola.

In questa vecchissima affermazione, cavallo di battaglia del negazionista tipico, ci sono due problemi principali. I benefici diretti del CO2 sono ampiamente riconosciuti e non sono una novità. Sappiamo però che livelli elevati di COsono associati al cambiamento climatico (uno dei miei post per tutti) e quindi la domanda è se i benefici della CO2 siano sufficientemente consistenti da compensare le perdite climatiche. Il rapporto DoE non affronta gli effetti netti, che molti studi hanno dimostrato essere negativi. I numeri che citano per gli effetti diretti della CO2 provengono principalmente da un sito non attendibile: i loro riassunti non sono sottoposti a peer review e includono molti studi su piante in vaso nelle serre, notoriamente distorti. I numeri citati nel rapporto sono più del doppio di quelli riportati dalla migliore letteratura

Prove a sostegno

FALSO

I modelli basati sull’analisi dei vegetali prevedono un aumento della fotosintesi in risposta all'aumento di CO2, con un tasso di fertilizzazione da CO2 molto più elevato rispetto alle previsioni dei modelli. In altre parole, la fertilizzazione da CO2 ha determinato un aumento della fotosintesi globale osservata del 30% dal 1900, rispetto al 17% previsto dai modelli vegetali. Se fosse vero, ciò indicherebbe che i modelli globali degli impatti socioeconomici dell'aumento di CO2 hanno sottostimato i benefici per le colture e l'agricoltura.

I risultati dichiarati si concentrano solo sugli ecosistemi vegetali naturali, non sulle coltivazioni. Pertanto, anche se i risultati evidenziano che gli effetti della fertilizzazione con CO2 sull'inverdimento globale abbiano un peso maggiore rispetto ad altri fattori, i risultati non sono direttamente trasferibili agli impatti socio-economici dell'aumento di CO2 sull'agricoltura. L'aumento di CO2 contribuisce a un maggiore forzante radiativo, che aumenta la temperatura media globale e accelera il ciclo globale dell'acqua, causando un aumento della gravità e della frequenza di eventi meteorologici estremi (ad esempio siccità, stress termico e incendi boschivi), minacciando in particolare i raccolti e la produzione.

Prove a sostegno

Promuovere inoltre la crescita delle piante non è sempre positivo, perché alcune specie ne traggono più benefici di altre, il che crea rischi per la biodiversità. Ad esempio, nelle foreste tropicali, l'elevata concentrazione di CO2 favorisce la crescita delle liane, parassiti che minacciano gli alberi. Anche l'aumento della fertilizzazione con CO2 contribuisce a destabilizzare gli ecosistemi di praterie e savane, favorendo la crescita di alberi e arbusti (invasione legnosa).

Prove a sostegno
Prove a sostegno

Gli autori del rapporto DoE citano il lavoro di due ricercatori cinesi che, di fatto, mostrano prove di altri fattori di cambiamento, riportando ad esempio «hanno notato che l'inverdimento era osservabile persino nell'Artico», ma gli stessi autori, proseguono dimostrando che in realtà il riscaldamento il fattore dominante dell'inverdimento nell'Artico è il riscaldamento, non la fertilizzazione da CO2. Inoltre, gli autori del rapporto del DoE contraddicono la loro stessa affermazione due paragrafi dopo, affermando che «dimostrano che in Cina e India gran parte di questo fenomeno è dovuto a cambiamenti nella gestione del territorio». Ancora una volta, cherry picking.
Ben due capitoli del rapporto DoE affermano che la fertilizzazione con CO₂ aumenterà la crescita delle piante e le rese delle colture. Ma la fertilizzazione con CO₂ è solo uno dei diversi meccanismi che controllano la crescita delle piante. Come ogni agricoltore sa, la crescita delle piante è raramente limitata dall'abbondanza del nutriente più abbondante essendo invece di solito è limitata dalla quantità del nutriente meno abbondante. Mentre un aumento di CO₂ può accelerare la crescita delle piante in condizioni di laboratorio attentamente controllate, ciò accade raramente in natura o nell'agricoltura su larga scala. In questi casi, la crescita delle piante è solitamente limitata da acqua, azoto, fosforo, luce solare o temperatura. La vasta gamma di risultati prodotti dai modelli riflette le incertezze nei ruoli relativi di questi processi e nella loro potenziale evoluzione con il cambiamento climatico. Questo comportamento dovrebbe suscitare seria preoccupazione (dubbio) sui potenziali benefici della fertilizzazione con CO₂ in un clima in costante cambiamento.

Prove a sostegno

INGANNEVOLE

Se i livelli di CO2 atmosferico avessero continuato a diminuire, la crescita delle piante sarebbe diminuita e alla fine si sarebbe arrestata. Al di sotto di 180 ppm, i tassi di crescita di molte specie C3 (NdR - le piante a C3, la stragrande maggioranza, sono fotosinteticamente attive di giorno, mentre di notte chiudono gli stomi e diventano consumatrici di ossigeno) si riducono del 40-60% rispetto a 350 ppm e la crescita si è arrestata del tutto in condizioni sperimentali di 60-140 ppm di CO2. Alcune piante C4 sono ancora in grado di crescere a livelli anche bassi come 10 ppm, sebbene molto lentamente.

Il declino dei livelli di CO2 atmosferica negli ultimi decenni si è arrestato naturalmente e, negli ultimi 800.000 anni, fino alla Rivoluzione Industriale, non ha mostrato una tendenza particolare, oscillando solo tra circa 170 e 280 parti per milione (qualche dettaglio sull’andamento storico è disponibile qui). Lo scenario ipotetico di un ulteriore declino al di sotto di questi livelli non è rilevante: non è vero che le emissioni di CO2 causate dall'uomo ci abbiano in qualche modo salvato dal calo dei livelli di CO2 e dal declino della crescita delle piante, come sembra implicare quanto affermato. Inoltre, gli stessi autori citati dal DoE hanno dichiarato che i loro risultati sono stati ottenuti in ambiente di laboratorio in condizioni estremamente controllate.

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Condizioni meteorologiche estreme

INGANNEVOLE

Gli autori del DoE iniziano sensatamente, nell'introduzione, affermando che «Il clima riguarda le proprietà statistiche del tempo meteorologico nel corso di decenni, non singoli eventi. Inoltre, ci sono solo circa 130 anni di dati osservativi affidabili che possono essere analizzati statisticamente. Quel breve intervallo non include nemmeno lontanamente tutti gli eventi estremi che il sistema climatico può creare da solo». È strano, quindi, che procedano a presentare serie temporali di lunghezza ancora più breve e affermino di non trovare in esse tendenze degli eventi estremi, portando così il lettore a concludere che non ci siano tendenze sottostanti. Avrebbero dovuto semplicemente attenersi alla loro affermazione originale e trarre la conclusione corretta che le osservazioni di solito non sono sufficienti a rilevare tendenze di eventi estremi dell'entità prevista, per poi passare a un'esposizione di ciò che la teoria e i modelli hanno da dire.
È anche più strano che non si faccia quasi menzione della teoria e dei modelli per gli eventi estremi. I dati climatici globali mostrano chiaramente e inequivocabilmente che questo limite sta aumentando in praticamente tutte le regioni di genesi dei cicloni tropicali. E, contrariamente a quanto affermato nel rapporto del DoE, è stata rilevata e pubblicata una tendenza al rialzo nella percentuale di uragani molto forti. Ma invece di citare tutto questo, questi autori violano la loro stessa affermazione introduttiva citando dati brevi e generalmente inaffidabili. Ad esempio, affermano correttamente che non esiste una tendenza rilevabile negli approdi degli uragani negli Stati Uniti continentali. Tuttavia, con una media di tre tempeste che approdano dall'oceano ogni anno, non ci sono dati sufficienti per rilevare una tendenza della magnitudo prevista. Dato che la regione caraibica aveva un'elevata densità di popolazione (e relativi resoconti giornalistici) fin dall'inizio del XIX secolo, avrebbero potuto esaminare tutti gli approdi atlantici, non solo quelli degli Stati Uniti. Se lo avessero fatto, avrebbero scoperto una chiara tendenza al rialzo.

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La maggior parte dei fenomeni meteorologici estremi non presenta tendenze statisticamente significative a lungo termine nei dati storici disponibili.

È importante sottolineare che non vi sono prove a sostegno dell'affermazione degli autori di questa revisione critica del DoE secondo cui «la maggior parte dei fenomeni meteorologici estremi non presenta tendenze statisticamente significative a lungo termine rispetto ai dati storici disponibili». Non è chiaro a quali tipi di fenomeni meteorologici estremi si riferiscano gli autori, a quali regioni e quale sia la dimostrazione alla base dell'affermazione secondo cui la maggior parte di questi fenomeni non presenta tendenze statisticamente significative a lungo termine. Nel nel capitolo non viene fornita alcuna giustificazione a sostegno di tale affermazione.
Si sottolineano inoltre le seguenti conclusioni tratte da uno dei capitoli dell’AR6, che forniscono una valutazione collettiva molto diversa.

  • È un fatto accertato che le emissioni di gas serra indotte dall'uomo hanno portato a un aumento della frequenza e/o dell'intensità di alcuni eventi meteorologici e climatici estremi sin dall'epoca preindustriale, in particolare per quanto riguarda gli estremi di temperatura.
  • Il forzante dei gas serra indotto dall'uomo è il principale fattore determinante dei cambiamenti osservati negli estremi caldi e freddi su scala globale (praticamente certo).
  • La frequenza e l'intensità degli eventi di forti precipitazioni sono probabilmente aumentate su scala globale nella maggior parte delle regioni terrestri con una buona copertura di osservazione. Le forti precipitazioni sono probabilmente aumentate su scala continentale in tre continenti: Nord America, Europa e Asia.
  • Un numero maggiore di regioni è interessato dall'aumento delle siccità agricole ed ecologiche con l'aumento del riscaldamento globale (alto livello di confidenza).
  • È probabile che la proporzione globale di casi di cicloni tropicali di categoria 3-5 sia aumentata negli ultimi quattro decenni.

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Temperature estreme

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La sezione sugli estremi di caldo è un esempio estremo di risultati cherry picking. Il rapporto DoE non riconosce che le regioni evidenziate sono tra le pochissime regioni a livello globale in cui le temperature massime annuali non sono aumentate (come evidenziato da AR6). Il rapporto evidenzia inoltre che in alcune regioni il numero di giorni più caldi non è aumentato, ma omette che le notti più calde sono aumentate nelle stesse regioni e negli stessi periodi. Inoltre, la temperatura delle notti più calde mostra una crescita continua negli ultimi decenni. Il rapporto inoltre non fa riferimento all'ampia letteratura che discute il ruolo dei cambiamenti nell'uso del suolo e dell'irrigazione, del forzante degli aerosol e della variabilità interna spontanea nelle regioni con andamenti ridotti.

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Cambiamenti nel livello del mare

FALSO

Nella valutazione delle proiezioni AR6 fino al 2050 (con riferimento al periodo di riferimento 1995-2014), entro il 2025 è trascorsa quasi la metà dell'intervallo, con un aumento del livello del mare a un ritmo inferiore a quello previsto.

Probabilmente è stata ignorata l'accelerazione, un fatto osservato, dando quindi per scontato che nella prima metà del periodo si sarebbe dovuto verificare metà dell'innalzamento previsto. Ma, naturalmente, le proiezioni dell'IPCC tengono conto dell'accelerazione: quindi meno della metà dell'innalzamento avrebbe dovuto verificarsi fino ad ora. In effetti, prevedere l'innalzamento del livello del mare fino al 2050 semplicemente estrapolando l'innalzamento osservato, inclusa l'accelerazione osservata, corrisponde quasi esattamente alle proiezioni dell'IPCC, sebbene queste siano formulate in modo completamente diverso.
Osservando i dati, per il punto intermedio 2030, l'AR6 prevede una stima ottimale di 9-10 cm, rispetto allo stesso periodo di base 1995-2014. I dati satellitari mostrano un aumento di 74 mm da quel periodo di base fino al 2025. Allo stesso ritmo, saranno 93 mm entro il 2030, ben al di sotto della stima ottimale.

Prove a sostegno
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FALSO

Le misurazioni effettuate dai mareografi statunitensi non rivelano alcuna accelerazione evidente oltre il tasso medio storico di innalzamento del livello del mare.

La maggior parte dei mareografi statunitensi mostra un'accelerazione, sulla costa orientale statisticamente significativa e maggiore dell'accelerazione media globale, mentre sulla costa occidentale lo è meno.

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INGANNEVOLE

Dopo la fine della Piccola era glaciale, a metà del XIX secolo, i mareografi mostrano che il livello medio globale del mare ha iniziato a salire nel periodo 1820-1860, ben prima della maggior parte delle emissioni di gas serra di origine antropica. 

Sebbene sia vero che questo avviene prima della maggior parte delle emissioni di gas serra, è scorretto confrontare l'inizio dell'aumento con la maggior parte delle emissioni. Si presume solitamente che l'era industriale abbia avuto inizio nel 1700 e anche la concentrazione di CO2 inizia ad aumentare sensibilmente intorno al 1820-1860, più o meno nello stesso periodo del livello del mare (vedi curva di Keeling).

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Attribuzione degli eventi estremi

FALSO

L'esistenza di un valore anomalo alla fine di una serie di dati pone il problema che le stime delle probabilità dell'evento saranno distorte indipendentemente dal fatto che il valore anomalo venga incluso o escluso. Non sono ancora stati stabiliti metodi per eliminare tale distorsione.

Il testo suggerisce che la presenza dell'evento anomalo (in questo caso un evento estremo dopo una serie di eventi normali) alla fine non può essere gestita, mentre l'argomentazione dell’autore citato a supporto della tesi DoE è che può essere gestita (se l'evento di selezione è noto) con metodi statistici appropriati, descritti in dettaglio.

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INGANNEVOLE

I metodi impiegati tendono a sopravvalutare la rarità delle ondate di calore estreme, portando a una percezione distorta dell'effetto del cambiamento climatico sull'evento dell'ondata di calore: «La tendenza a sovrastimare il periodo di ritorno degli eventi di ondate di calore estreme osservati può alimentare l'impressione che estremi di ondate di calore apparentemente impossibili si stiano attualmente raggruppando a un ritmo senza precedenti».

La citazione è di per sé corretta, ma completamente decontestualizzata. L’articolo mostra infatti che, utilizzando serie temporali di osservazione relativamente brevi, le stime del livello di ritorno possono essere sistematicamente sottostimate e i periodi di ritorno possono essere sovrastimati, il che influisce sul calcolo del rapporto di rischio negli studi di attribuzione. Il rischio di ondate di calore estreme potrebbe essere sottostimato sia nel clima passato che in quello attuale; sebbene le scelte metodologiche influenzino la stima esatta del rapporto di rischio, tutte le stime mostrano un forte ruolo del riscaldamento a lungo termine nell'aumentare la probabilità dell'evento.

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Incendi boschivi

INGANNEVOLE

Tuttavia, concentrandosi solo sul periodo successivo al 1985, il numero di incendi [negli Stati Uniti] non è in aumento. L'area bruciata è aumentata, ma solo fino al 2007 circa.

A prescindere dall’errore dovuto al concentrarsi solo sugli Stati Uniti la sezione del rapporto DoE sugli incendi boschivi raggruppa tutti gli Stati Uniti, senza distinzione su ciò che sta accadendo negli Stati Uniti occidentali, nonostante sia proprio la rapida crescita degli incendi boschivi nella parte occidentale degli Stati Uniti a rendere necessaria la sezione dedicata a questo rapporto. Sulla questione se l'area bruciata negli incendi boschivi negli Stati Uniti non sia aumentata: questo non è assolutamente il caso degli Stati Uniti occidentali, che sono ancora una volta la regione che suscita maggiori preoccupazioni circa l'andamento degli incendi boschivi negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti occidentali, l'area bruciata annua è triplicata negli ultimi 40 anni, con un aumento di 10 volte dell'area bruciata annua e da un raddoppio dell'area bruciata in aree non forestali. L'area bruciata negli Stati Uniti occidentali nel 2020 ha quasi raddoppiato il precedente record moderno (del 2012) e poi nel 2021 ha quasi eguagliato il 2020. L'aumento dell'area bruciata non si è nemmeno avvicinato alla fine del 2007 negli Stati Uniti occidentali.
Sulla responsabilità delle pratiche di gestione degli incendi boschivi nell'andamento degli Stati Uniti: a partire da circa un secolo fa, l'ampia implementazione di politiche di soppressione degli incendi ha permesso di controllare efficacemente gli incendi boschivi negli Stati Uniti occidentali, ma negli ultimi decenni la superficie bruciata annualmente è aumentata rapidamente nonostante i continui sforzi per la soppressione degli incendi. In altre parole, l'attuale preoccupazione per gli incendi boschivi non dovrebbe dipendere dal confronto tra gli incendi odierni e quelli dell'era pre-soppressione, ma dovrebbe piuttosto essere correlata al rapido aumento delle dimensioni degli incendi boschivi negli Stati Uniti occidentali, nonostante gli sforzi della società per evitare tale tendenza. Inoltre, non sono solo le crescenti dimensioni degli incendi a destare preoccupazione. Le dimensioni degli incendi sono semplicemente facili da misurare in modo affidabile. Ma con l'aumentare delle dimensioni degli incendi, hanno sempre più messo persone e proprietà sul percorso delle fiamme, hanno avuto un impatto così negativo sulla qualità dell'aria che la tendenza verso un'aria più pulita a partire dagli anni '80 si è invertita persino in gran parte degli Stati Uniti orientali, e il rapido aumento dell'estensione delle aree forestali in fiamme ad alta intensità ha messo in pericolo molti ecosistemi forestali, nonostante gli incendi siano un processo ecosistemico naturale.

L'influenza dell'urbanizzazione sull'andamento della temperatura

FALSO

In sintesi, sebbene vi sia chiaramente un riscaldamento nei dati sul territorio, vi sono anche prove che tale fenomeno sia distorto verso l'alto dai modelli di urbanizzazione e che tali distorsioni non siano state completamente rimosse dagli algoritmi di elaborazione dei dati utilizzati per produrre set di dati climatici. In altre parole parte del riscaldamento in atto è dovuto al contributo delle aree urbanizzate, ovviamente più calde.

Gli autori del rapporto DoE avanzano un'affermazione forte basata su articoli di alcuni membri del loro stesso team, ignorando altri studi che indicano il contrario. Non vi è alcun accordo sul fatto che esista un errore indotto dalle zone urbanizzate e dalle loro temperature. Le analisi al seguito della raccolta dei dati mostrano tutte che questi sono stati sottoposti ad omogeneizzazione rilevando e rimuovendo gli eccessi apparenti. Numerose analisi satellitari inoltre mostrano lo stesso tasso di riscaldamento dell'intera rete di stazioni terrestri suggerendo contributi locali ai centri urbanizzati minimi negli ultimi decenni. Infine, non ci si preoccupa mai di sottolineare che il mondo è composto principalmente da oceani, quindi anche qualora esistesse una variazione significativa (>10%) nelle temperature terrestri, avrebbe un effetto molto minore sulle temperature superficiali globali risultanti.

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Mortalità dovuta a temperature estreme

INGANNEVOLE

In relazione ad un circoscritto ambito di ricerca, il rapporto DoE cita due articoli a sostegno dell'affermazione secondo cui la mortalità correlata al freddo supera di gran lunga quella correlata al caldo nella maggior parte delle regioni. Sebbene sia vero, questo dice poco sull'impatto del cambiamento climatico sui decessi correlati alla temperatura. Infatti, l'attenzione dovrebbe concentrarsi sulla rispettiva (e opposta) variazione dei contributi del caldo e del freddo, non sui loro valori assoluti. A questo proposito, vi sono alcune evidenze che la prevista riduzione della mortalità correlata al freddo non compenserà l'aumento della mortalità correlata al caldo, in particolare in scenari di cambiamento climatico più estremi. Ancora più importante, il livello di adattamento al caldo necessario per compensare un effetto netto così positivo dovrebbe essere molto elevato, nell'ordine del 90% di riduzione.

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Cambiamento climatico, economia e costo sociale del carbonio

FALSO

Uno studio autorevole del 2012 suggeriva che il riscaldamento globale avrebbe danneggiato la crescita nei paesi poveri, ma la conclusione si è successivamente rivelata infondata. Gli studi che tengono pienamente conto delle incertezze dei modelli o non trovano prove di un effetto negativo delle emissioni di CO2 sulla crescita globale o indicano che i paesi poveri hanno le stesse probabilità di trarne beneficio rispetto ai paesi ricchi.

La seconda frase è errata. Gli autori DoE fanno riferimento a studi, ma senza riferimenti bibliografici. Gli studi allora disponibili indicano congiuntamente un impatto negativo del cambiamento climatico sulla crescita economica globale. La lettura meno sistematica della letteratura non porta a cambiare idea. La conclusione secondo cui i paesi poveri «probabilmente ne trarranno beneficio» non è ancora supportata da riferimenti bibliografici. L'unico riferimento citato nel paragrafo, conclude il contrario.

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INGANNEVOLE

Gli eventi meteorologici estremi del passato non hanno avuto un effetto significativo sulle performance delle banche statunitensi; è stato addirittura dimostrato che il riscaldamento globale è benefico per il settore finanziario e assicurativo.

Sembra la visione di Arrhenius che, da buon svedese, temeva gli effetti del freddo.  A parte la miopia del riferirsi solo agli USA il modo in cui sono stati presentati i risultati è fuorviante. Indagando gli effetti macroeconomici a lungo termine del cambiamento climatico in 48 stati degli Stati Uniti, vengono fornite prove dei danni che il cambiamento climatico causa negli Stati Uniti utilizzando vari indicatori economici a livello statale: tassi di crescita del prodotto interno lordo,  PIL pro capite (reddito), produttività del lavoro e occupazione, nonché crescita della produzione in 10 settori economici (ad esempio agricoltura, manifatturiero, servizi, commercio al dettaglio e all'ingrosso). Per essere chiari, (1) questi non sono piccoli effetti negativi e (2) dimostrano effettivamente che il cambiamento climatico ha effetti negativi sul reddito negli Stati Uniti. Dimostriamo che, mentre gli shock meteorologici hanno effetti di livello (o impatti temporanei sulla crescita), il cambiamento climatico – spostando la media a lungo termine e la variabilità delle condizioni meteorologiche – influisce sulla capacità dell'economia statunitense di crescere nel lungo termine! Studiando l'attività economica in tutti i settori dell'economia statunitense, agricoltura, silvicoltura e pesca, estrazione mineraria, edilizia, manifatturiero, trasporti, comunicazioni e servizi pubblici, commercio all'ingrosso, commercio al dettaglio, servizi finanziari e immobiliari, servizi e governo, si scopre che l’impatto del cambiamento climatico sulla crescita della produzione settoriale è ampio: ciascuno dei 10 settori considerati è influenzato da almeno una delle quattro variabili climatiche.

Prove a sostegno

 



[1] Si tratta di un parametro cruciale, spesso utilizzato strumentalmente dai negazionisti. La sensibilità climatica si riferisce a quanto aumenterà la temperatura media globale in risposta a un raddoppio delle concentrazioni di anidride carbonica atmosferica rispetto ai livelli preindustriali. È un fattore cruciale per comprendere i potenziali impatti del cambiamento climatico. Viene spesso definito come il riscaldamento medio globale della superficie previsto dopo un raddoppio del CO2, che è di circa 280-560 ppm.

  

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