L’uso
massiccio di combustibili fossili, necessario per sostenere la crescita dei
processi industriali a partire da circa due secoli fa, ha riversato in
atmosfera quantitativi di gas serra tali da modificare profondamente il clima
della Terra; consumo del suolo e deforestazione hanno dato il colpo di grazia
con quegli stessi processi industriali che, laddove presenti, hanno consentito
e – anche se non ovunque – sostenuto la crescita demografica oggi registrata.
Il risultato è un cambiamento climatico con un marcato riscaldamento senza
precedenti, a coinvolgere i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta.
Ne ho scritto su queste pagine numerose volte e da numerosi punti di vista.
Il cambiamento climatico, così come
definito dal punto 2 dell’Art. 1 della
costituzione della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) è innanzi tutto un
fenomeno ecologico; causato dall’innalzamento della temperatura media
dell’atmosfera terrestre, o meglio, della sua parte a diretto contatto con la
superficie, la troposfera. Tale aumento è già mediamente superiore ad un grado
centigrado più alto di quanto non fosse a cavallo tra XVIII e XIX secolo,
inizio dell’era industriale, e nel corso di quest’anno si sono sfiorati i 2 °C. Le premesse ecologiche del cambiamento
climatico sono un’aumentata concentrazione di gas serra nell’atmosfera e una diminuita capacità da parte dei
sistemi naturali di assorbirli. La causa dell’aumento è l’uso massiccio di
combustibili fossili allo scopo di fornire l’energia necessaria ai processi
industriali che, dal 1800 in poi, hanno permesso più alti livelli di consumi e
di benessere alla crescente popolazione mondiale. Nell’arco di un paio di
secoli, l’uso intenso di combustibili fossili quali fonti di energia ha alzato
la qualità di vita di miliardi di persone, alterando però sistemi naturali che
erano stati largamente stabili per migliaia di anni, un cambiamento talmente
rapido da meritarsi, per qualcuno, una distinzione in termini di cronologia
geologica: l’Antropocene. Le implicazioni ecologiche del cambiamento climatico
potrebbero andare da modificazioni di ecosistemi relativamente blande e sparse
a massicce catastrofi di portata planetaria, compresa un’estinzione di massa, la sesta,
ampiamente documentata. Il cambiamento del clima è un problema senza
precedenti, che coinvolge i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta e
pone minacce multiple, probabilistiche, dirette ed indirette, spesso invisibili
e senza limiti spaziali o temporali.
L’incertezza principale sugli
scenari si lega all’incertezza dell’efficacia delle politiche di mitigazione. O
agiamo tutti insieme, a livello globale, o gli sforzi individuali saranno
trascurabili. Per quanto lodevole nessuna iniziativa locale o personale fa la
differenza. È come trovarsi su una barca che sta imbarcando acqua: l’azione di
un singolo che svuota l’acqua con un secchio non serve granché, ma se nessuno
inizia affonderanno tutti. Solo uno sforzo collettivo può evitare i danni
peggiori del riscaldamento globale.
Ciò nonostante, la maggior parte dei paesi al mondo è lontana dalla cosiddetta
decarbonizzazione, la
cooperazione internazionale vacilla e non sembra si abbiano gli strumenti
tecnologici per contrastare il fenomeno con successo a discapito delle attuali
conoscenza e tecnologia che già offrono la maggioranza delle risposte al da
farsi per iniziare un serio e condiviso processo di mitigazione. Le difficoltà di gestione non sono solo il
risultato di mancati accordi internazionali e scarsa volontà politica, ma
rispondono anche a effettive difficoltà nel concettualizzare il problema
climatico, applicare ad esso ciò che deriva da democrazia e responsabilità, contrastarlo. Prima
ancora di dimostrare volontà condivisa sembra ormai tracciata una duplice
natura del fallimento, politica e internazionale da un lato, e domestica, quest’ultima
declinata in dozzine di modi tante sono le diverse realtà locali e culturali.
In questa prima parte tratteremo
della prima che condurrà, purtroppo, a dipingere un quadro piuttosto desolante
e deludente.
Anticipando e riassumendo eventuali conclusioni la
possibilità che si possa governare il cambiamento climatico, appare
sempre più utopica. Una flebile speranza deriva dal riconoscere che moltissimo
si è fatto quando si presentò il problema della riduzione dei danni allo strato
dell’ozono, e parecchio, anche se non tutto, quando si dovette procedere con
urgenza alla limitazione dei danni provocati dalle piogge acide.
Sono esempi virtuosi e importanti che, stabilito che
esistono rischi notevoli per la popolazione umana, soprattutto quella già
provata da difficoltà aventi altre origini, ci fanno ben sperare,
unitamente al ruolo che potranno avere nuove tecnologie.
Tuttavia, di fronte allo stato di fatto delle
iniziative globali e delle loro auspicate ricadute sui governi locali, soprattutto
quelli dei paesi ricchi, al cospetto dei continui conflitti armati che anziché
diminuire aumentano di anno in anno (ad oggi
se ne contano 56!), permangono sentimenti di disillusione e sgomento, che
certamente non aiutano e inducono, come ho avuto modo di scrivere recentemente,
ad una sorta di catastrofismo
climatico da un lato, e all’inazione
dall’altro. Atteggiamenti entrambi pericolosi e da contrastare.
Il fallimento internazionale
Anche il resto del mondo era di questo parere, e i
leader governativi e le ONG decisero di incontrarsi a Rio de Janeiro, in
occasione dell’Earth Summit delle NazionI Unite. Nel giugno del 1992, tutti gli allora 192 stati
erano rappresentati, erano presenti 108 capi di stato, 2.400 rappresentanti di
organizzazioni non governative e più di 10.000 giornalisti, mentre altre 17.000
persone presero parte a un forum parallelo delle ONG, per affrontare il
problema del cambiamento climatico antropogenico. Fu letteralmente la più vasta riunione di capi di stato mai vista. Emblematica la presenza persino dell’allora
presidente USA, George H. W. Bush, scettico e condizionato da informazioni
manipolate, rinviata di giorno in giorno, ma che lo vide volare a Rio de
Janeiro all’ultimo minuto firmare la UN Framework Convention on Climate Change
(UNFCCC), che impegnava i firmatari a evitare «pericolose interferenze
antropiche sul sistema climatico». Bush promise di tradurre il documento in
«azioni concrete atte a proteggere il pianeta». Nel marzo del 1994, 192
Paesi avevano siglato la convenzione quadro che entrò così in vigore.
Analogamente alla Convenzione di Vienna (1985) sulla
protezione dello strato di ozono, la UNFCCC, non avendone il potere, non
stabiliva vincoli o limiti alle emissioni: era un accordo su linee di
principio, punto di partenza per qualsiasi altra iniziativa. I limiti
effettivi sarebbero stati determinati più avanti, in un protocollo che venne poi firmato a Kyoto, in Giappone, nel 1997. Al
crescere della possibilità che fosse necessario attuare delle regolamentazioni,
cresceva, assumendo maggior impatto sociale e mediatico, la costruzione a
tavolino del negazionismo climatico, talmente forte che nonostante fossero già
allora chiarissime cause e contromisure, ancora oggi vengono riciclati gli
stessi argomenti, falsi.
Si fantasticava intorno a stati in grado di assumersi
obblighi reciproci e vincolanti, in uno sforzo comune teso a proteggere
l’ambiente, trasferendo benessere e benefici ai paesi emergenti e in via di
sviluppo, ma soprattutto teso a proteggere le generazioni a venire, nel
rispetto di un antico proverbio Navajo che dice che «non ereditiamo la terra dai nostri antenati,
ma la prendiamo in prestito dai nostri figli». Un sogno di garanzia di libertà per tutti, per onorare
l’uguaglianza di fondo tra ricchi e poveri e promuovere fraternità tra le
generazioni. Un bel sogno rimasto tale. Come ebbe a dire il filosofo inglese
Isahia Berlin «la libertà dei
lupi significa la morte degli agnelli».
Pochi anni dopo, per esempio, il vecchio continente fu
risvegliato drammaticamente dal sogno dell’annullamento della contrapposizione
est-ovest, ancorché festeggiato con l’unificazione delle due Germanie, dal
sanguinoso conflitto nella ex Yugoslavia.
Fin dall’inizio emersero gravi opposizioni e contrasti. Una tra queste e su tutte fu quella che ha caratterizzato, e continua a farlo, ogni tentativo di gestione climatica globale: l’opposizione tra i paesi industrializzati (Stati Uniti, Comunità Europea, Giappone, Canada, Australia e Nuova Zelanda) e i paesi emergenti e in via di sviluppo, rappresentati all’interno dell’ONU dal Gruppo dei 77 (G77), nato nel 1964 proprio per promuovere la crescita economica dei propri membri. Le posizioni all’interno di questo gruppo sono molteplici e spesso in contrasto: se ad esempio abbiamo da un lato rappresentati i piccolissimi stati isola dell’Oceania, che magari rischiano di finire sott’acqua per l’inevitabile innalzamento del livello medio dei mari, e che quindi chiedono un’azione istantanea da parte di tutti, d’altra parte abbiamo nello stesso gruppo anche la cordata dei paesi produttori di petrolio, che avversano invece qualsiasi mossa possa intaccare la loro principale fonte di reddito e gettano dubbi sui dati scientifici sul clima; ci sono poi giganti emergenti come Brasile, India e Cina (la quale però non è un membro del G77 ma un osservatore invitato speciale). Senza dimenticare che alcuni di questi hanno creato, in tempi recenti e a complicare parecchio il quadro, il cosiddetto BRICS. Su una cosa sono comunque tutti concordi: la richiesta di aiuti sia finanziari che tecnologici ai paesi industrializzati e il rifiuto di sottoscrivere accordi vincolanti per i propri membri prima che lo avessero fatto i paesi industrializzati. Questa opposizione ha caratterizzato l’intera traiettoria della diplomazia del clima e continua ancora oggi.
Giustificare l’idea che i paesi industrializzati debbano fare di più, contro il cambiamento climatico, di quelli emergenti e in via di sviluppo, è apparentemente abbastanza ovvio: i paesi industrializzati hanno storicamente contribuito all’innalzamento delle temperature molto più di quanto abbiano fatto i secondi. La Cina ad esempio, spesso e non a torto, è annoverata tra i paesi che più contribuiscono all’emissione di gas serra, ma non lo è storicamente rispetto agli Stati Uniti, né come quantitativo pro capite (USA e Canada 15 t/anno pro capite, Cina 8, UE 5). I paesi industrializzati, hanno tratto indiscutibilmente beneficio, in termini di aspettativa e qualità della vita, dalle attività che hanno causato l’innalzamento delle temperature, anche se queste ultime non tendono a rappresentare un beneficio. I paesi emergenti chiedono quindi, richiamandosi a principi di equità, che anche loro possano beneficiare innanzi tutto di energia a costi inferiori a quelli delle cosiddette alternative, a favorire e migliorare le aspettative e la qualità di vita dei loro cittadini, utilizzando gli stessi schemi di sviluppo dei paesi industrializzati: schemi basati essenzialmente su circuiti industriali alimentati da combustibili fossili. Inoltre, i paesi industrializzati hanno a disposizione più fondi e conoscenze di quelli emergenti e in via di sviluppo, e sono dunque quelli più capaci di sostenere i costi delle politiche di contrasto, mitigazione e adattamento. Infine, molti degli abitanti dei paesi emergenti e in via di sviluppo, molti di più che non in quelli industrializzati, sono esposti e vulnerabili agli effetti potenzialmente peggiori del cambiamento climatico, essendo poveri e dunque più direttamente dipendenti dagli ecosistemi per il proprio sostentamento nonché generalmente meno equipaggiati per adattarsi a mutate condizioni.
La prova della ovvietà di questa differenziazione?
L’1% più ricco della popolazione mondiale (rapporto Oxfam “Climate Equality”, novembre 2023) è responsabile
del 16% delle emissioni globali di carbonio. Lo stesso quantitativo
prodotto dal 66% più povero dell’umanità. Un altro indicatore dello
stile di vita insostenibile, come quando si dice che uno svizzero consuma 10
volte più di un eritreo.
Un’azione climatica davvero efficace deve introdurre e
partire dalla più grande delle emergenze: le disuguaglianze economiche.
Omettere dal quadro generale tutti gli aspetti di giustizia sociale e
redistribuzione delle risorse non porta da nessuna parte. Se l’umanità non capirà che la transizione energetica
è innanzi tutto un problema sociale non sarà mai davvero conscia della gravità
del cambiamento climatico.
Fu questo il principio adottato a Rio. Ma ad oggi non si è riusciti nemmeno a
definire una realizzazione pratica che soddisfi tutti, peggio che nelle
peggiori riunioni di condominio che arrivino a sfiorare la rissa. Financo
l’accordo di Parigi del 2015, primo risultato
di una delle tantissime COP (di cui ho trattato…) in cui non si cercava una soluzione comune
negoziale sul clima ma si lavorava per dare forma alle proposte dei singoli
paesi, senza costringere nessuno a fare più di quanto volesse. Ciò nonostante,
quell’accordo non fu giudicato equo da alcuni paesi, chi perché lo giudicava
troppo blando e chi, guarda caso gli USA che, dopo averlo promosso e
sottoscritto, lo hanno rimesso in discussione perché troppo oneroso. Sono
passati decenni e ancora oggi abbiamo ad esempio le posizioni espresse dal
secondo mandato Trump.
Problemi pratici
Una lunga parabola fallimentare per la diplomazia del clima. Dalle negoziazioni embrionali di Rio nel 1992 a quelle di Copenhagen nel 2009, la difficoltà in cui continua a trovarsi anche dopo l’accordo di Parigi del 2015, le dichiarazioni d’intenti, altissime e nobilissime che ad ogni COP si ripetono stancamente, illumina alcune difficoltà strutturali in cui si è venuta a trovare la governance globale negli ultimi trent’anni; non solo sul clima ma, con specificità diverse, anche su altri temi come la proliferazione nucleare e le regole del commercio internazionale (e qui nulla di più emblematico che le decisioni attuali di Trump). Il caso del clima è però particolarmente vivido e dunque istruttivo, nonché il più grave.
Inoltre, la gestione del cambiamento climatico non è unicamente nelle mani
degli stati. Attori globali come aziende multinazionali, banche d’investimento,
WTO, IMF
e varie compagini che operano al di sopra dei livelli governativi dei vari
stati, tra questi o a loro margine, sono tutte coinvolte nella governance del
clima in modi sia diretti che indiretti. Una moltitudine di attori molto
diversi fra loro e le cui agende non necessariamente coincidono devono
accordarsi su una questione estremamente complessa, che comincia solo ora ad
essere compresa e che non è concettualizzata da tutti nello stesso modo.
Se il cambiamento climatico è un problema geopolitico, allora servono nuovi accordi ed istituzioni globali che funzionino. Se è un fallimento di mercato allora
ci vogliono tasse sulle emissioni e/o un mercato che assegni loro un prezzo. Se
il problema è soprattutto tecnologico allora serve un programma d’energia
pulita o forse di geoingegneria. Se il cambiamento climatico è solo l’ultimo modo in
cui i ricchi danneggiano e opprimono i poveri allora bisogna rinnovare la lotta
per la giustizia globale, e via discorrendo. Il problema è che quanto più
aumentano gli argomenti tra loro relazionati e tutti plausibili, tanto più i
sistemi politici tenderanno ad evitarli perché sanno già che sarebbe
impossibile gestirli, con i diversi attori coinvolti, ognuno con la propria
soluzione in ambiti diversi e ognuno con la propria visione di successo o di
fallimento.
Una terza difficoltà deriva dal fatto che le istituzioni, nate per
omogeneizzare i loro domini di competenza e dar luogo ad aspetti unitari, hanno
rimodellato i domini stessi: appaiono quindi difficoltosi i tentativi futuri di
governarli in modi che non siano inquadrati all’interno del percorso già
intrapreso. In altre parole, si tende a mantenere lo status quo e questo
crea ostacoli a fronte di problemi di nuova generazione. Nuovi problemi
richiedono nuove istituzioni con nuove soluzioni e non modellare il nuovo con
strumenti e soluzioni già a disposizione. Si pensi a quel che accade, anche
solo a livello locale, durante gli eventi di precipitazioni estreme che portano
ad inondazioni e dissesto idrogeologico: spesso si è usato e reagito con istituzioni perfettamente adattate…ad un clima
che non c’è più.
E c’è un esempio analogo che viene dal passato. Nel 1987, dopo anni di susseguirsi di prove a sostegno che i composti chimici chiamati (oggi impropriamente) “clorofluorocarburi” (CFC) e dopo che nel 1985 fu pubblicato un articolo su Nature (gli scienziati conoscevano il problema fin dagli anni Settanta), a Montreal venne stabilito un protocollo che riuscì a proibire, velocemente e permanentemente, la produzione e l’uso di molti dei clorofluorocarburi, stante le prove che fossero i diretti responsabili dell’assottigliamento e del cosiddetto buco dell’ozonosfera. Fu un trionfo: l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, lo definì: «un esempio di eccezionale cooperazione internazionale; probabilmente l’accordo fra stati più di successo».
Sulla falsa riga del Protocollo di Montreal i primi approcci del 1992 a Rio
furono dello stesso tipo. Partendo dal presupposto che, se un fattore
individuabile causa il problema (i clorofluorocarburi in un caso, i gas serra e
in particolare il biossido di azoto nell’altro), lavorando esclusivamente
sull’eliminazione di quel fattore si risolverà il problema.
Per l’ozono è più o meno vero, ma non per il clima.
L’assottigliamento e il buco dell’ozono erano problemi ostici ma con soluzioni
definite e definitive. Il cambiamento climatico è invece un problema
configurato dall’interazione di una moltitudine di sistemi aperti, dislocati a
diversi livelli ecologici e sociali, che operano su scale spaziali e temporali
diverse, e che sono conosciuti ognuno in modo solo incompleto. Una seconda
differenza tra il caso dell’ozono e quello del clima è che le emissioni di CO2
non sono, come i CFC, un dettaglio prontamente ritrattabile: sono il risultato del
nostro attuale modo di vivere. L’intero sistema di infrastrutture di produzione
e consumo mondiale è impostato sull’uso di combustibili fossili: per
contrastare il cambiamento climatico bisogna ridiscutere modalità e strutture
di tutto ciò che facciamo.
Per i CFC l’industria chimica seppe trovare
rapidamente (dopo il divieto di produzione e utilizzo) alternative più efficaci
e addirittura meno costose e, incredibile ma vero, i consumatori mostrarono
estrema sensibilità al problema ambientale, cambiando abbastanza rapidamente le
loro abitudini prima ancora che venissero emanate leggi restrittive; per i gas
serra invece la cosiddetta transizione energetica, soprattutto a livello
industriale, ha mostrato fin dall’inizio, i suoi aspetti più ardui da
affrontare.
In uno scenario così complesso e confuso la diplomazia del clima si è occupata di negoziare quante emissioni ogni paese potesse o non potesse produrre. Configurare quote in questo modo, senza ridiscutere e dunque lasciando invariati i metodi stessi con cui l’oggetto quotato viene prodotto, significa inevitabilmente imporre riduzioni. Ridurre le emissioni, dati i metodi attuali di produzione e consumo, significa frenare la crescita economica. Ma soprattutto, con quale autorità se non una sorta di etica sovranazionale, controllare i quantitativi negoziati?
Tra l’altro, ancora dal passato, voglio ricordare che quando si dovette affrontare il problema delle cosiddette piogge acide, l’allora amministrazione USA (Reagan) pensò di utilizzare diritti di emissione trasferibili, col governo che avrebbe potuto determinare la quantità massima di inquinamento ammessa, e quindi assegnare o vendere il diritto a inquinare a soggetti che a loro volta avrebbero potuto usarlo, venderlo o scambiarlo. Qualcosa di simile agli odierni carbon credits. Ma il problema principale con cui il mercato dovette confrontarsi fu questo: che valore ha la natura? Secondo molti economisti i problemi ambientali, come l’inquinamento ad esempio, sono un chiaro esempio di fallimento del mercato: i danni collaterali costituiscono un costo nascosto che non viene riflesso nel prezzo di un dato bene o servizio.
Problemi concettuali
Stante la validità del principio di responsabilità comuni ma differenziate, fondamenta
delle relazioni internazionali sul clima dal loro inizio, si riconosce che il
problema climatico è comune e si devono ripartire le responsabilità in modo
condiviso ma proporzionale. Questo principio presenta la gestione del
cambiamento climatico anche come una questione di giustizia globale (intesa
come giustizia fra stati) e implica che i paesi industrializzati, i ricchi,
debbano fare di più contro il cambiamento climatico e che debbano farlo prima. Tutto
ciò ricorda molto da vicino la giustizia sociale ricercata da chi sostiene la
necessità in termini di ridistribuzione delle risorse, della ricchezza. E ne
dipinge in anticipo scenari piuttosto utopici.
Ad ogni modo, a fondamento del principio ambientale stanno
almeno quattro ordini di considerazioni di giustizia: responsabilità storica,
equità, capacità e vulnerabilità.
Questi quattro elementi sono, guarda caso, gli stessi alla base dello stato
attuale di moltissimi paesi poveri, giunti al terzo millennio dopo secoli di
vicissitudini e sfruttamento causati da colonialismo e neocolonialismo. Forse è
per questo che molti accademici credono che pensare il cambiamento climatico
come un problema di giustizia fra stati sia teoricamente rassicurante e
sufficiente, e dipingono così il fenomeno come un caso speciale a cui applicare
schemi teorici consolidati. Il paradigma della giustizia globale è molto
apprezzato anche dai politici, particolarmente da quelli che rappresentano i
paesi più poveri. Per coloro che sono svantaggiati dall’attuale ordine mondiale
il linguaggio della giustizia globale offre una sorta di soft power.
Costoro presentano il cambiamento climatico come una ingiustizia che i paesi
ricchi infliggono a quelli poveri. A Copenhagen nel 2009, ad esempio, il capo
negoziatore dei paesi appartenenti al G77, paragonò l’accordo appena raggiunto
all’Olocausto.
La descrizione del cambiamento climatico come un’ingiustizia perpetrata dai
paesi ricchi a danno dei paesi poveri non è senza meriti, ovviamente. La
maggior parte delle emissioni è prodotta dai paesi ricchi ma la maggior parte
dei danni, sofferenze e morti che il cambiamento climatico causerà avrà luogo
nei paesi poveri, che hanno meno capacità economiche e tecnologiche per reagire
e spesso già soffrono di variabilità climatiche ed eventi meteorologici estremi
(a loro volta già causa, quantomeno parziale, della loro povertà). L’Honduras,
ad esempio, è naturalmente più esposto agli uragani degli Stati Uniti,
l’Etiopia è più esposta alla siccità della Germania e probabilmente nessun
paese è più esposto alle inondazioni di quanto lo sia il Bangladesh.
Personalmente, pensando all’innalzamento del livello medio dei mari, riporto
sempre l’esempio del Delta del Mekong.
Nel 2008 il Bangladesh pubblicò un suo Climate Action Plan, il quale richiedeva
un finanziamento di cinque miliardi di dollari per i primi cinque anni. Questa
cifra è più della metà del budget annuale del paese. Il Bangladesh
semplicemente non può adattarsi al cambiamento climatico senza aiuto
finanziario e tecnologico da parte dei paesi ricchi. Esso soffrirà immensamente
gli effetti del fenomeno pur avendo avuto un ruolo minuscolo nel causarlo: le
sue emissioni totali di biossido di carbonio sono meno dello 0,2% del totale
globale; su base pro capite, le sue emissioni sono circa un ventesimo della
media globale e un cinquantesimo di quelle degli Stati Uniti.
Ricordando che anche ciò che non vediamo ci riguarda, sono questo tipo di
considerazioni a fornire plausibilità all’idea che il cambiamento climatico sia un atto di ingiustizia
dei paesi ricchi a danno dei paesi poveri. Rileggendo le parole del cardinale Pietro Parolin, a margine della recente
e ultima COP29 a Baku, sottolineo però che, fin dalle buone intenzioni di Rio
nel 1992, non un solo dollaro, di fondi appositamente stanziati, è stato
erogato a fronte delle richieste di aiuto da parte dei paesi più poveri, per
avviare qualcosa di concreto in termini di decarbonizzazione,.
Giustizia sociale quindi? Non basta. Un istante di riflessione porta alla luce, come se non ce ne fossero già abbastanza, una serie di complicazioni.
Il cambiamento climatico non mostra alcune delle caratteristiche tipiche delle tradizionali ingiustizie fra stati, mentre ne mostra altre che le teorie di giustizia globale tradizionali sembrano male equipaggiate ad affrontare: si tratta davvero di un problema mai affrontato prima dall’umanità: estremizzando, quasi fossero effetti della caduta di un asteroide o di una guerra nucleare.
Vediamo le differenze principali con le tematiche di sola giustizia sociale.
Primo - Una prima differenza è che molte persone, inclusi alcuni leader politici, soprattutto nei paesi industrializzati, sono, o quantomeno si dichiarano, all’oscuro degli effetti del cambiamento climatico. Per non parlare di quelli, sempre inclusi leader politici, che lo negano. Altri paesi ammettono invece che ci siano effetti molto negativi e forniscono (o si dichiarano disposti a fornire) aiuti economici o tecnologici a coloro che ne soffrono. Se il cambiamento climatico è un caso di ingiustizia fra stati, qualcosa non torna. Per chi si dichiara all’oscuro è come se un paese ne invadesse ingiustamente un altro ma senza sapere che lo ha invaso (!), e per chi ammette i rischi è come se un paese cercasse di alleviare i danni che causa ad un altro pur continuando a causarli a livello di politica di base.
Secondo - Le ingiustizie fra stati includono l’imposizione
intenzionale di danni e nel caso del cambiamento climatico non è così. Le
emissioni di gas serra sono un effetto delle attività industriali di un paese e
il cambiamento climatico è a sua volta un’ulteriore conseguenza. Ammettiamo che
non siano volute, anche se ci sarebbe da discutere. Ogni paese aspira ad avere,
se non altro per il proprio benessere, ad avere attività industriali senza
produrre emissioni; lo stesso si può auspicare per evitare di non causare alcun
danno a terzi. Nel caso di una guerra ingiusta o dell’imposizione di un accordo
commerciale iniquo, l’intenzione è invece proprio quella di danneggiare gli
altri togliendo ciò che è loro (territorio o risorse).
Terzo - L’atmosfera è del tutto indifferente ai confini nazionali e una
molecola di biossido di carbonio ha lo stesso effetto sul clima indipendentemente
dal luogo in cui viene emessa. Se assumiamo che parte del cambiamento climatico
è in realtà un problema causato da persone ricche (quelle che guidano, mangiano
carne, usano i computer, fanno lunghe docce calde e via dicendo), in qualsiasi
paese esse vivano, e sofferto da persone povere in qualsiasi paese esse vivano,
la prospettiva cambia radicalmente rispetto ad un’ingiustizia sociale
tradizionale. Sia coloro che causano, che coloro che soffrono il cambiamento
del clima, sono distribuiti in tutti i paesi del mondo (anche se in proporzioni
diverse).
L’India, ad esempio, è diventata negli ultimi venti
anni uno dei principali emettitori mondiali, pur rimanendo anche una delle
principali vittime del cambiamento climatico. Le precipitazioni monsoniche sono
sempre più abbondanti e concentrate, lo scioglimento dei ghiacciai
sull’Himalaya accresce i rischi di inondazioni nella piana del Gange, e i
cicloni sulle coste sono sempre più frequenti. I costi economici del
riscaldamento del clima per l’India sono valutati attorno al 2% del PIL annuale
da qui al 2050, ma i costi sociali e ambientali potrebbero essere ancora più
gravi. Il punto è che non sono solo i ricchi americani ma anche quelli indiani
(e cinesi o nigeriani, paese africano quest’ultimo che registra la crescita
demografica più alta della Terra) a causare danni agli indiani più poveri (come
anche agli americani più poveri). Le divisioni per stati non catturano con
precisione né i colpevoli né le vittime del cambiamento climatico.
Quarto - Una quarta differenza è che la maggior parte dei casi di
ingiustizia fra stati prevedono un paese che si avvantaggia a spese di un altro
paese e questo può andare avanti più meno indefinitamente. I livelli
attuali di emissioni di gas serra prodotti dai ricchi della Terra, invece, non
possono essere mantenuti indefinitamente, poiché le troppe emissioni di gas
serra minacciano di destabilizzare le condizioni stesse che rendono una vita da
ricchi possibile anche per i ricchi stessi. Un caso continuato di ingiustizia
globale solitamente non indebolisce progressivamente anche chi la causa e
mantiene.
Quinto - Laddove i danni, le sofferenze e le morti connesse a guerre ingiuste o altri casi emblematici di ingiustizia fra stati sono, per certi importanti versi, interamente nelle nostre mani, quelle connesse al cambiamento climatico non lo sono. Il cambiamento climatico chiama in scena un nuovo attore: l’insieme di processi e sistemi ecologici, di interazioni e feedback che chiamiamo usualmente natura, spesso ignorata anche da molti teorici della giustizia globale che, impegnati a discutere di diritti e obblighi fra umani tendono a dare per scontato (non credo inavvertitamente) che la natura offra sempre un pasto gratis. Nel caso del cambiamento climatico la natura presenta invece imperiosamente il conto (metaforicamente s’intende) e non accorda particolari dilazioni nel pagamento. Al tavolo di un’osteria i commensali possono negoziare le rispettive quote da pagare, ma c’è ben poco da negoziare quando c’è il conto da pagare. In altre parole, concettualizzando il cambiamento climatico come un problema di giustizia fra stati si tende spesso a fare i conti senza l’oste e a dimenticare che a costui non interessa come il conto viene ripartito fra i commensali, purché lo si paghi. Senza dimenticare quanto si è detto sulle enormi difficoltà che emergono nel cercare di dare un giusto valore economico alla natura.
Sesto - Un’ultima differenza fra il cambiamento climatico e casi tradizionali di ingiustizie fra stati è la natura intergenerazionale del cambiamento climatico. Pur sapendo che anche le ingiustizie globali tradizionali possono danneggiare le generazioni future (una guerra ingiusta o l’imposizione di un trattato commerciale iniquo danneggiano anche i discendenti di chi li subisce) c’è una differenza. Nel caso del cambiamento climatico, invece, la giustizia globale e quella intergenerazionale sono spesso in tensione. Per eliminare le ingiustizie connesse alla povertà globale, ad esempio, bisogna stimolare crescita economica che produrrà emissioni di gas serra che a loro volta contribuiranno a cambiare il clima, a svantaggio delle generazioni future. D’altro canto, gli investimenti finalizzati a proteggere le generazioni future dal cambiamento climatico implicano spesso costi opportunità per le generazioni presenti e in particolare per i loro membri più poveri.
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