Sperimentazione, pubblicazione, peer review, patologie e cantonate

 

Sperimentazione
C’è un imperativo, direi un dogma (lo so, suona male parlando di scienza), che guida ogni ricercatore che sa fare il suo mestiere: la riproducibilità dei risultati sperimentali.

Chiunque annunci di aver fatto una «scoperta», non solo si deve aspettare che altri colleghi ripetano l'esperimento nei loro laboratori, cercando di ottenere gli stessi risultati, ma anzi deve auspicare che ciò accada. Ogni articolo scientifico descrive nella sezione «Materiali e metodi» le procedure sperimentali o teoriche usate, inclusi preparazione dei campioni, apparecchiature, protocolli, agenti chimici, metodi statistici, software e autorizzazioni etiche, se richieste. Provare per credere dunque! Se in questa sezione sono presenti evidenti lacune, il lavoro non viene pubblicato e agli autori viene fornito un elenco di modifiche da apportare, a volte accompagnato da commenti anche molto critici. Se ciò che si dichiara non può essere verificato nonostante protocolli formalmente corretti, allora probabilmente da qualche parte c’è un errore, almeno. La riproducibilità dei risultati è un vaglio cieco e spietato, che protegge la scienza dagli errori, a volte vere e proprie ca…ntonate e, soprattutto, aiuta a distinguere, nel marasma delle cose che capitano, quello che scienza non è. Ad esempio, le truffe - tra cui includiamo le fake news - oppure, emotivamente parlando, la suggestione collettiva e la manipolazione inconscia.

E ciò accade perché gli scienziati, prima di esser tali, sono persone, soggette alle stesse distorsioni cognitive degli altri e alle prese con la quotidianità della vita di chiunque, fissazioni da cui faticano a liberarsi e tante belle speranze comprese: la speranza prima è effettuare per primi una scoperta, magari eclatante! Ecco spiegato anche perché studiosi con fior di competenze trascorrano le giornate chiusi in laboratori dentro a una montagna, in un osservatorio in pieno deserto o chiusi in un batiscafo a 2500 metri di profondità negli abissi oceanici; e qui da noi, in cambio di una borsa di studio a quarant'anni con cui a malapena ci si autosostenta e senza nemmeno la possibilità di scaricare le spese mediche. Appare quindi comprensibile che questa ambizione possa intaccare quel sano scetticismo di fondo che è uno dei dispositivi di protezione individuale più importanti per ogni scienziato. Capita cioè che uno scienziato, anche di prim'ordine, si convinca erroneamente di aver osservato un nuovo fenomeno, e a furia di arrovellarsi sulla questione arrivi ad affezionarsi ai «suoi» dati sperimentali, addirittura anche se inconsistenti e ben poco riproducibili, nonché alle argomentazioni imbastite strada facendo per inquadrare di tutto un po’ in una cornice pseudorazionale. E se quelle teorie ad hoc vanno contro a saperi consolidati, dimostrati e funzionanti non c’è problema: ci si appella alla rivoluzionarietà dell’idea. Pur di salvare il proprio lavoro, questi scienziati butteranno nel cestino, più o meno inconsciamente, i dati che contraddicono le attese accogliendo solo quelli graditi, attribuiranno effetti del tutto accidentali a cause che non c'entrano niente, vedranno un segno certo in uno spettro fatto solo da rumore di fondo. Infine, per un insieme di motivi, riusciranno a convincere un certo numero di colleghi della bontà delle proprie convinzioni, alimentando così un micidiale autoinganno collettivo. Quella dei “Raggi N” è una storia esemplare davvero notevole.

Scienza patologica…e sovietica
La costruzione di una simile architettura priva di fondamenta ed eretta in totale buona fede, ha un che di patologico: non a caso il premio Nobel per la chimica Irving Langmuir la definì proprio così, scienza patologica, dedicandosi con passione a fare quel che oggi chiamiamo debunking, smascherare le bufale, le false scoperte.

La mente del ricercatore «contagiato», pur accettando a priori le regole fondamentali del metodo scientifico sperimentale, inconsapevolmente se ne allontana e comincia a interpretare i dati in base ai propri desideri. Il bello è che, a prima vista, l'indagine condotta ha una parvenza di ordinaria credibilità - cosa che di solito fa presa non solo sul grande pubblico complottaro, ma anche su vari addetti ai lavori che cadono vittime dell’esaltazione per, ciò che ritengono essere, una grande scoperta. Ma un’indagine obiettiva mostra subito che il fenomeno accade solo in una regione piuttosto limitata dello spaziotempo, cioè sotto gli occhi di chi brama vederlo. Nonostante ci siano prove più che sufficienti a dimostrare l'inconsistenza del tutto i ricercatori colpiti dal male si ostineranno a difendere le proprie teorie iperboliche, controbattendo alle critiche con congetture buttate lì seduta stante. Dopo un po’, nella scienza sana prevale lo scoramento e si riprende il largo abbandonando la fantasiosa scoperta al proprio destino. Ci penserà il tempo a sommergerla nell'oblio o farle toccare terra in altre epoche, regalando eventualmente alle teorie alla deriva una seconda opportunità. Personalmente, ne ho conosciuto uno…

Insomma sembra un po’ il contrappasso del debunking che, stando ad analisi recenti e affidabili, pare non serva a nulla. Il tentativo di smontare le bufale nella speranza che si arresti la diffusione di informazioni false online non funziona insomma. Ci sono evidenze scientifiche che hanno dimostrato chiaramente che questa pratica è utile soltanto per chi già è predisposto a cercare la versione smentita. Si predica ai convertiti.

Ma non attecchisce laddove dovrebbe farlo, e a peggiorare le cose causa un effetto di maggiore polarizzazione dovuto al fatto che chi si vede arrivare delle informazioni a smentita della sua tesi si arrocca sempre più su posizioni difensive reagendo con veemenza.

C’è poi anche ciò che amo definire scienza sovietica. Quanto accadeva nell'URSS decenni fa o dando ascolto a scienziati di comprovata fede politica, tipo Lysenko (si veda qui per la vicenda e la tragica fine di Vavilov), che prese una cantonata genetica clamorosa; o, al contrario, non ascoltando scienziati e teorie valide perché non in linea con la linea del partito.  Un po’ come la cosiddetta identity politics condiziona il pensiero politico qui potremmo parlare di identity science se non fosse che parlarne in tal senso sia un evidente paradosso.

Ciò nonostante, ci sono ancora dozzine di casi di false scoperte e pseudoscienza che continuano a riaffiorare.

Il blog Retraction Watch contiene un database di oltre 40.000 articoli scientifici caduti in disgrazia e ritirati e ritrattati per i più svariati motivi.

C'è inoltre una vergognosa top ten dei 10 articoli ritrattati, sbagliati, più citati. Articoli che dopo essere stati ritrattati e ritirati hanno ricevuto ancora più like, persino dalla comunità scientifica internazionale.

Ancora in lista all’ottavo posto, c'è il famigerato articolo di Andrew Wakefield che suggeriva un legame tra vaccino trivalente e autismo. Quel lavoro venne pubblicato nel 1998 e fu ritirato nel 2010. Le sue conclusioni sono state più volte smentite, la condotta di Wakefield giudicata scorretta e l'intera storia è stata raccontata allo sfinimento. Ciò nonostante, l'articolo continua a galleggiare sull'oblio, anche grazie ad alcuni scienziati forse superficiali, fosse distratti, forse chissà. Ma se loro per primi non si chinano a seppellire i cadaveri, né li riconoscono, non si capisce bene chi dovrebbe farlo.

Di clamorose cantonate prese da fior di scienziati ne è piena la storia, tra le più famose quella della «memoria dell’acqua» (si veda il paragrafo dedicato all’omeopatia in questo mio post) e quella della «fusione fredda» (qui).

Publish or perish

Ma non tutti gli abbagli sono spiegabili in termini di scienza patologica. Fatte salve le ipotesi di frode, si verificano talvolta errori significativi da parte degli scienziati, spesso attribuibili alla pressione di tempi ristretti in un contesto che normalmente richiederebbe pazienza, chiarezza mentale e una riflessione approfondita. Contrariamente a tutto questo, ci si trova immersi in un ambiente frenetico a causa della competitività sfrenata ed esasperata dell'ambiente accademico, con implicazioni anche internazionali, con la penuria di fondi puntata alla tempia e le incerte prospettive di carriera strette al collo. Per non parlare degli interessi industriali legati a molti programmi di ricerca che hanno resto il mondo accademico molto più restio alla condivisione di quanto fosse un tempo. Gli avanzamenti sono inoltre legati al numero di pubblicazioni scientifiche e al loro impatto, misurato in termini di numero di citazioni, ovvero quanto i colleghi hanno preso i tuoi lavori come riferimento, e col famigerato impact factor, un altro numerino aggiornato di anno in anno che quantifica il prestigio di ogni rivista. È chiaro che, se il motivo conduttore diventa publish or perish, «pubblica o muori», le debolezze umane possono saltar fuori, zone d'ombra incluse. Nella migliore delle ipotesi il ricercatore in ansia da prestazione (o da precariato) può essere spinto a pubblicare troppo e troppo presto i propri lavori, trascurando di svolgere i dovuti controlli. Così, succede di sorvolare su quel che appare un’inezia, un miserabile dato che non torna, senza coglierne tutto l'aspetto inquisitorio e approfondire. Altrove, in particolare in ambito medico biologico, la cantonata può arrivare da una inadeguata analisi statistica dei dati, che conduce a conclusioni gravemente errate.

Durante la pandemia da Covid-19 ad esempio, la tendenza a pubblicare rapidamente i risultati delle ricerche sul tema è aumentata parecchio e non sono mancate le ritrattazioni eccellenti, con annesse polemiche, critiche anche feroci da parte di improvvisati tuttologi e cali generalizzati della fiducia da parte dell’opinione pubblica, già soggetta ad un bombardamento continuo di fake news costruite a tavolino.

La ritrattazione avviene quando un articolo viene rimosso dall'archivio della rivista su cui è stato pubblicato, e sostituito con una nota editoriale in cui si spiegano le ragioni del dietro-front.

In genere si tratta di ricerche viziate da gravi errori plagio e frodi accertate o sospette. Il ritiro dell'articolo può essere richiesto dall'autore stesso o da altri ricercatori perché non riescono a riprodurre i risultati del lavoro incriminato seguendone i protocolli. Occorre innanzitutto evitare che un articolo sbagliato funga da base per ulteriori studi, inquinando la letteratura di riferimento; questi dolorosi mea culpa sottolineano la natura auto correttiva e la vocazione alla trasparenza della scienza, i cui risultati ricadono idealmente sulle vite di tutti e ne diventano patrimonio ed eredità.

Peer review
La scienza è, soprattutto oggi, una grande impresa collettiva, e da ciò derivano la sua forza e la capacità di isolare gli errori: lo strumento collettivo utilizzato, in cui ogni ricercatore diventa giudice dei colleghi e da essi viene giudicato si chiama peer review, revisione tra pari. È Il sistema di controllo adottato dalla maggior parte delle riviste scientifiche ed elimina la spazzatura macroscopica. La pratica della peer review venne introdotta nel 1665 col numero inaugurale della rivista «Phylosophical Transactions» della «Royal Society for Improving Natural Knowledge», la prima istituzione scientifica della storia degna di questo nome, citata brevemente come Royal Society.

Una procedura ben consolidata quindi, ma è davvero efficace?

Ovviamente ci sono storie davvero tristi. Un biologo e giornalista scientifico nel 2013 inventò di sana pianta un articolo sulle proprietà antitumorali di una sostanza estratta dai licheni. Infarcì l’articolo di errori così grossolani che anche uno studente delle superiori se ne sarebbe accorto, spedì l’articolo a 304 riviste open-access (ad accesso gratuito, ci sono poi quelle in abbonamento), inventandosi uno pseudonimo davvero improbabile e il nome dell’istituto di ricerca, localizzandolo, a caso, in Eritrea.

Ben 157 riviste pubblicarono quella spazzatura. I valutatori o avevano lavorato coi piedi, meglio dire non lavorato, o proprio non esistevano. Più della metà delle decisioni finali non avevano rapporti di approvazione.

In un altro caso la allora direttrice del British Medical Journal nel 1998 inviò a duecento revisori (referee) un articolo contenente, apposta, ben otto errori di vario tipo. In media gli esperti ne trovarono due, nessuno li scovò tutti, e per qualcuno l’articolo era perfetto.

Tornando alla domanda a monte va detto che l'obiettivo di fondo della procedura di peer review non è garantire la correttezza dei dati riportati facendo così emergere truffe e manipolazioni ma, piuttosto, assicurare la correttezza formale e metodologica del lavoro. Se un revisore ha dubbi sui risultati, può richiedere altri esperimenti. Tuttavia, spesso non è facile valutare la validità delle misure, quindi di solito i risultati vengono accettati.

La procedura pur avendo numerosi limiti tecnici riesce comunque abbastanza bene nel controllo della forma e del metodo del lavoro e nel caso sbagli, il punto di forza della peer review e ancora una volta la capacità di autocorreggersi. Può accadere che un articolo di buona qualità, rifiutato da una rivista prestigiosa, venga poi accettato altrove e venga ampiamente citato, riconoscendone l'effettivo valore. Inoltre, la peer review è solo il punto di partenza di un percorso in cui il tempo giocherà un ruolo fondamentale. Se in un certo lavoro c'è davvero del buono, altri verranno a replicarne i risultati, a costruire sulle conclusioni della scoperta, ritagliandole il posto che merita.

Nota: quanto guadagnano i revisori dalla loro attività? Zero. Operano a titolo gratuito; e ancora, riviste prestigiose in abbonamento, non sono per questo più autorevoli di quelle gratuite.

Concludo citando un caso recente, nato sull’onda del progresso e della potenza elaborativa, inarrestabile ed a crescita esponenziale, dei cosiddetti Large Language Models (LLM), strumenti di AI.

La possibilità offerta da questi di realizzare in modalità pressoché automatica lavori da sottoporre a pubblicazione e peer review è stata, già da qualche anno, oggetto di una levata di scudi da parte della comunità scientifica; ciò nonostante, non sono mancati episodi più o meno eclatanti di ricercatori rivelatisi alla fine non meno peggio di tanti ciarlatani. Ma qui le cose si invertono.

Ci sono ormai evidenze che l’AI sia utilizzata dai revisori, per automatizzare il loro lavoro, generando spesso risultati completamente errati. Ricordo che un LLM segue sempre la stessa metodologia, sia che fornisca risposte corrette che sbagliate (sulla pagina Facebook di Walter Quattrociocchi ci sono numerose informazioni utili).

Ed ecco che non è l'autore della pubblicazione da sottoporre a review che sta barando, ma chi dovrebbe leggerlo, allora il primo non fa che difendersi: questa scelta è stata difesa, con razionalità, sostenendo che i prompt nascosti rappresentano una contromisura contro i revisori pigri che usano l’AI. Secondo il professore, in assenza di regole univoche sull’integrazione dell’AI nel processo di peer review, e sapendo che molte riviste vietano esplicitamente l’uso dell’intelligenza artificiale per valutare i lavori, l’aver inserito dei prompt leggibili solo dalle AI rappresenta un modo per poter controllare questa pratica e smascherarla dove presente.

Ad ogni modo, e lo affermo in maniera asettica, appare probabile che in un futuro non proprio lontano, il ruolo dell’AI nella revisione delle pubblicazioni scientifiche sarà preponderante. La capacità di assorbimento della necessaria letteratura che qualsiasi LLM potrà offrire, e spesso già offre, supera di diversi ordini di grandezza le potenzialità di chiunque, con buona pace di Borges e della sua biblioteca.

Spiccioli di matematica

Fin dalle scuola media abbiamo imparato che un teorema matematico va dimostrato. Insomma non può arrivare un Pitagora qualunque e affermare che «In ogni triangolo rettangolo, l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti». Tutti i triangoli rettangoli? Pitagora non avrebbe mai averli potuti disegnare e misurare tutti visto che sono infiniti. Ma veniamo al punto, dando per assodato che ci sono diverse dimostrazioni del famoso teorema.

In ambito scientifico, la dimostrazione matematica è lo strumento più infallibile e potente che si ha per produrre conoscenza. È Verità con la V. Un enunciato di cui viene data dimostrazione matematica vale in qualunque tempo e in qualunque angolo dell’Universo. Un teorema dimostrato è per sempre, altro che diamanti (che tra l’altro non lo sono trattandosi della fase instabile del carbonio…ma non divaghiamo).

Una dimostrazione inizia da una serie di assiomi, asserzioni vere perché evidenti a chiunque (tipo quelle di Euclide e dei suoi fondamenti). Si prosegue poi con logica inoppugnabile passo dopo passo alla necessaria validità della conclusione, che è poi l’enunciato stesso del teorema. Solidità dei blocchi di partenza e correttezza formale del ragionamento. Criteri così scrupolosi e condivisi non esistono in nessun altro campo di indagine.

Quando i matematici dimostrano usano uno strumento molto più affidabile di qualsiasi altra prova scientifica usata da chimici, fisici e via discorrendo, men che mai da medici o psicologi. Nel loro procedere questi ultimi non usano strumenti logici impeccabili ma si affidano ad osservazioni ed esperimenti, che è comunque la base del metodo scientifico fin dal suo ideatore, Galileo Galilei. Studiano un fenomeno, formulano una certa ipotesi e la vagliano alla luce di un esperimento che ne esamina l’efficacia, sia nello spiegare il fenomeno sia nel suo saper predire l’esito di altri fenomeni. Esperimenti non necessariamente fisici, ma anche esclusivamente mentali, come quelli di Einstein. Quelli raccolti man mano sono solo indizi, mai certezze, che costituiranno le fondamenta di una teoria al massimo altamente probabile. Nonostante le tante e solide prove scientifiche a disposizione, concettualmente almeno, nulla che derivi da osservazione e percezione è mai inconfutabile né univoco. Ogni esperimento, per quanto condotto a regola d’arte, è comunque fallibile, parziale e diversamente interpretabile. E tutto ciò nonostante la rivoluzione della Meccanica Quantistica, che ci ha insegnato ad accettare ad esempio fenomeni assolutamente controintuitivi e al limite del paradosso, sui quali però, innegabilmente si basa il funzionamento di tantissima tecnologia.

L’intrinseca debolezza della prova scientifica è comunque il nutriente del progresso scientifico, dei cambiamenti di paradigma; ogni qual volta una teoria, fino ad allora ritenuta valida, per lo meno la più corretta, è stata sostituita da un’altra, con la consapevolezza che qualsiasi spiegazione o modello, anche se decisamente migliore del precedente, rimarranno comunque viziati da qualche elemento di incertezza.

La conoscenza che deriva dalla logica matematica, invece, è ben più assoluta e definitiva di quella di ogni altra disciplina. Perderemo le nostre città, l'ultima delle piramidi d'Egitto si sgretolerà a terra come accadde alle altre meraviglie del mondo antico, dimenticheremo storie, poemi e le opere d'arte verranno inghiottite nella marea dei secoli, ma le intuizioni di Euclide, l'algebra o il calcolo infinitesimale no, quelli ci accompagneranno anche su un altro pianeta.

Per evitare comunque interpretazioni scorrette sulla apparente mancanza di validità (fino a prova contraria) di una teoria scientifica, suggerisco di approfondire tra i miei post ogni qualvolta ho fatto, da profano, un po’ di filosofia della scienza, o quando ho citato e spiegato il falsificazionismo di Popper.


Conclusioni

Sulla base di una sorta di generico principio democratico si assiste spesso a dibattiti dove vengono messi a confronto scienziati con sedicenti esperti o comunque personaggi influenti. Ma dare a tutti lo stesso tempo per esporre opinioni diverse è una cosa che ha senso in un sistema politico bipartitico, ma non funziona nel caso della scienza, perché la scienza non è un’opinione: non è, appunto, democratica. Si basa invece sulle evidenze, e progredisce attraverso affermazioni che possono e debbono essere verificate sperimentalmente, mettendole a confronto con le osservazioni. Le ricerche sono poi, come abbiamo visto, soggette a una revisione critica da parte di una giuria di esperti scientifici. Le affermazioni che non vengono vagliate con questa procedura – o che sono state esaminate e sono state respinte – non possono dirsi scientifiche, e pertanto non meritano lo stesso tempo in un dibattito scientifico.

Un’ipotesi scientifica è come l’accusa di un pubblico ministero: è l’inizio di un processo che può essere molto lungo. La giuria deve decidere non sull’eleganza dell’accusa, ma sull’entità, la forza e la coerenza delle prove che la supportano. Giustamente si chiede che il pubblico ministero fornisca le prove – numerose, solide e coerenti – e che le prove resistano all’esame della giuria, che può prendersi tutto il tempo necessario per portarlo a termine.

Nella scienza avviene all’incirca la stessa cosa. Un’affermazione non viene accettata solo perché proviene da una persona intelligente, o perché un gruppo di persone ne discute, ma quando una giuria di revisori – in rappresentanza della comunità dei ricercatori – ha esaminato le evidenze a sostegno di quell’affermazione e ha concluso che sono sufficienti perché la si possa accettare.

Sappiamo anche che nella ricerca scientifica l'incertezza è costantemente presente, e se qualcuno ci dice che alcune cose sono incerte, tendiamo a pensare che la scienza sia incerta. È un errore. L’incertezza è sempre presente in ogni scienza, perché la scienza è un processo di continua scoperta: la scienza non si scrive, al massimo si riscrive. Gli scienziati non si fermano quando hanno trovato la spiegazione per qualcosa; cominciano subito a porsi nuove domande.

Il dubbio ha un’importanza cruciale per la scienza – quello che noi chiamiamo curiosità o scetticismo è ciò che spinge la scienza a progredire – ma nel contempo la rende vulnerabile alle rappresentazioni fuorvianti, in quanto è facile decontestualizzare le incertezze e creare l’impressione che ogni cosa sia ancora incerta. Molto negazionismo funziona così: non nega la scienza, non potrebbe perché non potrebbe dimostrarlo, ma usa la normale incertezza scientifica per minare la conoscenza scientifica.

E qui mi contraddico, senza se e senza ma!

Storie dal passato
Sperimentazione Clinica
Esemplare, in campo clinico ed epidemiologico, la storia della sperimentazione legata alla streptomicina, uno dei primi antibiotici derivati da muffe, ovvero da batteri, impiegato nel trattamento delSe qualcuno ci dice che alcune cose sono incerte, tendiamo a pensare che la scienza sia incerta. È un errore. L’incertezza è sempre presente in ogni scienza, perché la scienza è un processo di continua scoperta. Gli scienziati non si fermano quando hanno trovato la spiegazione per qualcosa; cominciano subito a porsi nuove domandela tubercolosi. Dopo averla estratta, verso la metà degli anni Quaranta del XX secolo, negli Stati Uniti si avviò la sperimentazione clinica che inizialmente sembrava fornire risultati mirabolanti. Ma la cosa non convinse l’epidemiologo inglese Bradford Hill che non accettava l’approccio americano se guariscono funziona, sennò amen, non abbiamo perso nulla. Hill voleva dei test specifici e progettò un metodo sperimentale a tavolino, inventando lo «Studio Controllato Randomizzato» (RCT). Lo studio si doveva basare quindi su due gruppi di pazienti, confrontando i risultati statistici di chi ha preso il farmaco e di chi no, un primo gruppo trattato ed un secondo, detto «di controllo» a cui veniva somministrato un placebo. La scelta dei pazienti da assegnare ai due gruppi deve essere assolutamente casuale e se è possibile né i pazienti né i medici devono sapere chi è trattato e con che cosa. Questo è il cosiddetto esperimento in «cieco», che può avere diversi livelli di mascheramento dove solo il paziente ignora o, in «doppio cieco», anche lo sperimentatore; per arrivare al «triplo cieco» dove anche chi analizza statisticamente i dati non sa da quale gruppo provengano evitando qualsiasi tipo di influenza. Gli RCT sono entrati nella ricerca clinica e vengono tutt'ora ritenuti, pur con i loro limiti, la forma più attendibile di evidenza scientifica con cui la medicina ha verificato e verifica regolarmente l’efficacia o meno di un certo farmaco. Ai tempi questo approccio suscitò varie obiezioni. Tra queste, il fatto che l’impressione soggettiva del medico, soprattutto se di lunga esperienza clinica, non fosse poi così meno affidabile della distaccata obiettività della statistica (…); che sarebbe come dire che un novello Commissario Maigret negasse le evidenze molecolari derivanti da un test del DNA che inchioda l’assassino. Inoltre, aspetto ben più importante, bisognava accettare in partenza l'ipotesi che, se alla fine dello studio il farmaco si fosse rivelato efficace, i pazienti casualmente assegnati al gruppo di controllo non ne avrebbero beneficiato, almeno non durante la sperimentazione, e magari qualcuno di loro sarebbe pure morto, mentre a posteriori lo si sarebbe potuto salvare. Ciononostante, il metodo venne accettato, forse grazie anche al fatto che, in quei tempi di magra post-bellica, non ci sarebbe stata abbastanza streptomicina per tutti gli ammalati; quindi, non darla a qualcuno era inevitabile seppur immorale. Se volete approfondire leggete questo intrigante e divertente libro.

Un Nobel sbagliato?
Si diceva all’inizio che capita che uno scienziato, anche di prim'ordine, si convinca erroneamente di aver osservato un nuovo fenomeno.

Il 10 dicembre 1938 l’Accademia delle Scienze di Stoccolma conferiva il premio Nobel a Enrico Fermi con la seguente motivazione: «Per l’identificazione di nuovi elementi radioattivi prodotti dal bombardamento di neutroni e per la scoperta, in relazione a questo studio, delle reazioni nucleari causate dai neutroni lenti». In quegli stessi giorni gli esperimenti di scienziati tedeschi di primordine capovolsero in maniera inoppugnabile le conclusioni del grande fisico italiano: «Non avete ingrossato il nucleo dell’uranio, ma l’avete spaccato in due». Addio ai fascistissimi Ausonio ed Esperio[1]!

Sbarcato sul suo americano, con le leggi razziali e il fascismo alle spalle, Fermi si affrettò a modificare la sua Nobel lecture, ammettendo l’errore e aggiungendo una nota di ritrattazione, il più grande della sua vita ebbe poi a dire, ma andò avanti, grazie comunque all’apertura, con la fissione nucleare, di nuovi campi di ricerca. Sbagliando s’impara, no?


[1] È una lunga storia che provo a riassumere in poche righe. Fermi, all’inizio degli anni Trenta del XX secolo, nel suo lavoro pionieristico sulla radioattività indotta da neutroni, era convinto di aver scoperto nuovi elementi chimici, che furono inizialmente chiamati ausonio (con numero atomico 93) ed esperio (94), oggi noti come nettunio e plutonio, scoperti nel 1940. Sebbene non abbia scoperto la fissione in sé (questo merito va principalmente a Otto Hahn, Lise Meitner e Fritz Strassmann), Fermi e il suo gruppo, i "Ragazzi di via Panisperna", furono i primi a realizzare sperimentalmente la fissione nucleare artificiale di un atomo di uranio, utilizzando neutroni lenti per bombardare il materiale.

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