Date le alte poste in gioco del cambiamento climatico,
è sconsiderato fare affidamento sul DAC come eroe che viene in nostro soccorso.
Uno studio del MITEI (MIT Energy Initiative) ha rivelato che molti piani di contenimento del cambiamento climatico si basano su ipotesi discutibili, soprattutto se relazionate ai costi futuri e all’impiego della cosiddetta tecnologia di “cattura diretta dell’aria” (DAC, Direct Air Caputure); lo scenario più plausibile è che potrebbero non produrre le riduzioni ipotizzate e/o promesse.
Premessa
Nel 2015, in occasione della COP21 l'Unione Europea ed altri 195 paesi si impegnarono, siglando il cosiddetto “Accordo di Parigi”, ad attuare dei piani concreti volti a limitare l'aumento della temperatura globale a 1,5 gradi Celsius. Eppure, già nel 2023, ed ancora nel 2024, il mondo ha superato quel limite per la maggior parte dell’anno, se non per tutto, mettendo quindi in discussione la fattibilità a lungo termine del raggiungimento di quell'obiettivo. Nella recente COP29 l’effettiva volontà nel perseguire questo obiettivo è emersa in tutta la sua evidenza.
È noto, oltre ogni ragionevole dubbio, che per fare ciò, vanno ridotti i livellidi gas serra emessi nell'atmosfera dalle attività antropiche e questo
impegno dev’essere globale, condiviso a livello mondiale.
A tale scopo le strategie
proposte e adottate sono diverse, tutte mirate a raggiungere un certo grado di stabilizzazione
del clima. Molte di queste combinano da una parte tagli drastici nelle
emissioni di biossido di carbonio (CO2) e dall’altra l'uso della cattura diretta dall'aria (DAC, Direct Air Caputure),
una tecnologia che rimuove il CO2 direttamente dall’aria.
Per fare un controllo dello stato
di fatto, un gruppo di ricercatori del MIT Energy Initiative (MITEI) ha
esaminato queste strategie, e ciò che hanno scoperto è piuttosto allarmante: sembra
che queste si basino su ipotesi eccessivamente
ottimistiche, se non irrealistiche, su
quanto CO2 potrebbe essere rimosso da un DAC (d’ora in avanti se al
maschile va inteso come impianto DAC, se al femminile come tecnologia). Di
conseguenza, le strategie non funzioneranno come previsto. Tuttavia, il team
del MITEI raccomanda che il lavoro per sviluppare la tecnologia DAC continui,
in modo che sia pronta ad aiutare la transizione energetica, anche se la gigantesca
sfida della decarbonizzazione del mondo richiederà ben altro.
DAC vs CCS
Occorre fare attenzione a non
confondere la DAC con una tecnologia simile, la CCS,
Carbon Capture and Storage (cattura e stoccaggio del carbonio). Le due infatti hanno scopi e metodi diversi: mentre la CCS
mira a ridurre le emissioni nel punto in cui vengono prodotte – con l’obiettivo
di raggiungere, nella migliore delle ipotesi, un bilancio a emissioni zero – la
DAC mira a cancellare parte della nostra impronta di carbonio passata
generando emissioni negative: le tecnologie DAC sono progettate per
essere altamente efficienti nel filtrare e rimuovere il CO2 attraverso
soluzioni tecnologiche avanzate e una serie di reazioni fisiche e chimiche. La
DAC ci permette di rimuovere il CO2 direttamente dall’atmosfera
in qualsiasi luogo, fornendo un potente strumento nella nostra lotta contro il
riscaldamento globale.
La CCS invece, nota fin dagli
anni Settanta, nacque come tecnologia proposta dalle industrie petrolifere, e
consiste nel reiniettare CO2 nei
giacimenti di petrolio e gas naturale pressoché esauriti, a grattare il
fondo del barile, recuperando ogni minimo residuo. Quando questa tecnologia
fu pensata come mitigatrice degli effetti del cambiamento climatico si pensò di
catturare il gas serra e conservarlo nei giacimenti esauriti o in siti di
stoccaggio permanenti. L’industria dei combustibili fossili in tutto il mondo
propone la CCS come panacea per la decarbonizzazione delle proprie attività.
Peccato che secondo una ricerca
affidabile dell’IEEFA (Institute for Energy Economics and Financial
Analysis) il 75% del CO2 catturato ogni anno continua ad
essere reimmesso nei pozzi per indurre la fuoriuscita di altro combustibile
fossile dal sottosuolo. Una tecnologia di mitigazione quindi molto discutibile,
tanto che l’IEA (International Energy
Agency) ha riportato che «la cattura del carbonio,
fulcro delle strategie di molte aziende, non può essere utilizzata per
mantenere lo status quo», considerando inoltre che il consumo di gas
e petrolio aumenterà certamente, anziché diminuire come in teoria dovrebbe
accadere, per mantenere l’aumento al di sotto di 1,5 °C con le tecnologie di
cattura occorrerebbe prelevare dall’atmosfera qualcosa come 32 Gton (Gton = 109
tonnellate) di carbonio entro il 2050: inconcepibile.
E di questa quantità almeno 23 Gton per mezzo della DAC. La quantità di energia
elettrica necessaria ad alimentare queste tecnologie per questo scopo supererebbe
l’attuale domanda mondiale di elettricità!
Per restare con i piedi per terra
la quantità di CO2 oggi catturata con la CCS è pari a 43 Mton (Mton
= 106 tonnellate), lo 0,1% delle emissioni. Se tutti gli impianti
entrassero in funzione entro il 2030 (!), si arriverebbe a poco meno di 300
Mton, lo 0,6%. E tutto ciò fa capire come le promesse e la realtà dei fatti
siano tuttora piuttosto distanti tra loro. Ad oggi l’ordine di grandezza della
cattura è almeno 1000 volte inferiore.
DAC: promessa e realtà
Includere la DAC nei piani per
stabilizzare il clima ha comunque senso. Si sta lavorando molto per sviluppare
sistemi DAC che abbiano caratteristiche tecnologiche promettenti. Pur sapendo
che non si avrà mai uno scenario in cui ogni azienda possa avere un proprio impianto
DAC queste possono già acquistare crediti di carbonio (altro argomento molto spinoso) basati sulla DAC. Ad oggi, esiste
un mercato multimiliardario in cui entità o individui che affrontano costi
elevati o interruzioni insostenibili nella produzione, allo scopo di compensare
le proprie emissioni di carbonio possono pagare altri per intraprendere azioni
di riduzione delle emissioni per loro conto. Tali azioni possono comportare
l'avvio di nuovi progetti di energia rinnovabile o iniziative di rimozione
del carbonio, come la DAC o progetti riforestazione/afforestazione (piantare
alberi in aree che non sono mai coperte da foreste o che lo sono state in
passato, si veda il paragrafo specifico di questo
mio post).
I crediti basati su DAC sono particolarmente interessanti per diversi motivi. Utilizzando impianti DAC, misurare e verificare la quantità di carbonio rimosso è semplice; la rimozione è immediata, a differenza della piantumazione di foreste, che potrebbe richiedere decenni per avere un certo grado di efficacia; e nel caso si combini la DAC con lo stoccaggio di CO2, ad esempio in formazioni geologiche adatte allo scopo, questo gas serra viene escluso dal ciclo e tenuto fuori dall'atmosfera sostanzialmente in modo permanente, a differenza, ad esempio, del sequestro che avviene negli alberi, che un giorno potrebbero bruciare e rilasciare il CO2 immagazzinato.
Ma gli attuali piani che si basano sulla DAC saranno efficaci nello stabilizzare il clima nei prossimi anni?
Il gruppo del MITEI ha messo nero su bianco i punti principali su cui la tecnologia e le sfide ingegneristiche dovranno puntare. Tre sfide inevitabili che insieme portano ad una quarta: costi elevati per rimuovere una singola tonnellata di CO2 dall'atmosfera.
#1. Ingrandirsi
Quando si tratta di rimuovere il CO2
dall'aria, la natura presenta «una sfida importante
e non negoziabile»: la concentrazione di CO2 nell'aria è mediamente
estremamente bassa, appena 420 ppm, ovvero circa lo 0,04 percento. Al
contrario, la concentrazione di CO2 nei gas di scarico emessi dalle
centrali elettriche alimentate a combustibili fossili e dai processi
industriali varia dal 3 al 20 percento. Pur considerando che molti aziende utilizzano
varie tecnologie di cattura e sequestro del carbonio (CCS) per estrarre CO2
dai loro gas di scarico, catturare invece CO2 direttamente dall'aria
è molto più difficile.
Per usare un’analogia efficace un conto è trovare circa 10 biglie rosse in un barattolo di 100 biglie di cui 90 sono blu (quanto deve attuarsi con la CCS) e ben altra cosa è trovare 10 biglie rosse in un barattolo di 25.000 biglie di cui 24.990 sono blu (la DAC).
Con concentrazioni così basse in
atmosfera, rimuovere una singola tonnellata di CO2 dall'aria
richiede che circa 1,8 milioni di metri cubi di aria vengano analizzati, il volume
di 720 piscine olimpioniche o qualcosa come due ettari cubici d’aria. E tutta
quell'aria deve essere spostata attraverso un dispositivo assorbente e
filtrante che cattura il CO2: un'impresa che richiede grandi infrastrutture.
Stando ad un progetto recentemente proposto per catturare 1 Mton di CO2
l'anno, servirebbe una struttura alta circa tre piani e lunga cinque chilometri!
Studi di modellizzazione recenti ipotizzano
l'impiego della DAC ad una scala che va dalle 5 alle 40 Gton di CO2 l’anno
rimosso. Ma i ricercatori concludono che la probabilità di impiegare la DAC a
scala pari alla gigatonnellata è «altamente incerta».
#2. Fabbisogno energetico
La fonte di tale elettricità è critica. Ad esempio, utilizzare l'elettricità da fonti che a loro volta utilizzino combustibili fossili come il carbone, per azionare un processo DAC completamente elettrificato, genererebbe 1,2 tonnellate di CO2 per ogni tonnellata di CO2 catturata. Un aumento netto delle emissioni, vanificando l'intero scopo del DAC. Quindi, è chiaro che il fabbisogno energetico deve essere soddisfatto utilizzando elettricità a basse emissioni di carbonio o elettricità generata utilizzando combustibili fossili con impianti CCS oppure ancora, ovviamente, elettricità generata da rinnovabili. Un DAC completamente elettrificato distribuito su larga scala, ad esempio 10 Gton di CO2 rimossi annualmente, richiederebbe 12.000 TWh di energia elettrica, ovvero un valore prossimo al totale del consumo mondiale di elettricità ad oggi (ovvero 14.000 TWh, l’11% del consumo totale sommando tutte le forme di energia)! Per confronto l’Italia da sola ne produce annualmente circa 300 TWh.
Il consumo di elettricità inoltre sappiamo già che crescerà (in 15 anni è aumentato di quasi il 20%) a causa della crescente elettrificazione complessiva dell'economia mondiale; l'elettricità a basse emissioni di carbonio sarà molto richiesta per gli usi più disparati e concorrenti, come ad esempio nella produzione di energia, nei trasporti, nell'industria e nell’edilizia. Destinare quindi l’utilizzo dell’energia elettrica per alimentare impianti DAC anziché per ridurre le emissioni di CO2 in altre aree critiche solleva quindi preoccupazioni legate al fatto che l’energia elettrica da fonti pulite dovrebbe essere destinata ad usi migliori.
Ci sono stati studi che hanno ipotizzato di alimentare le unità DAC dal calore di scarto generato da qualche processo industriale o da impianti nelle vicinanze. Secondo i ricercatori del MITEI tutto ciò è estremamente lontano dalla realtà. La fonte di calore dovrebbe trovarsi entro poche miglia dall'impianto DAC affinché il trasporto del calore sia economico; i costi di realizzazione sono tali che il DAC dovrebbe funzionare senza sosta, richiedendo quindi una fornitura di calore costante; e la temperatura richiesta dall'impianto DAC avrebbe comunque anche altri usi, per il riscaldamento degli edifici ad esempio. Infine, se il DAC dovesse operare con ordini di grandezza della gigatonnellata all'anno, un eventuale calore di scarto sarebbe probabilmente in grado di fornire solo una piccola frazione dell'energia necessaria.
#3. Ubicazione
Disegno del progetto del più grande
impianto DAC al mondo, previsto in Texas
Alcuni analisti hanno affermato
che, poiché l'aria è ovunque, le unità DAC possono essere posizionate ovunque.
Ma in realtà, la scelta del sito di un impianto DAC comporta molte questioni
complesse. Come visto gli impianti DAC richiedono notevoli quantità di energia;
quindi avere accesso a fonti sufficienti ed a basse emissioni è fondamentale. Così
come lo è avere la possibilità nelle vicinanze di immagazzinare il CO2
rimosso. Se non esistono siti di stoccaggio o infrastrutture efficaci di
trasporto verso tali siti, sarà necessario costruire il tutto ex novo, con oneri
notevoli, perché costruire qualsiasi tipo di infrastruttura è costoso e
complicato, comportando anche questioni relative ai permessi, alla giustizia
ambientale e all'accettabilità pubblica, questioni che sono, nelle parole dei
ricercatori, «comunemente sottovalutate nel mondo
reale e trascurate nei modelli».
Devono essere considerate altre due esigenze di ubicazione. Innanzitutto, le condizioni meteorologiche devono essere adeguate. Qualsiasi unità DAC sarà esposta alle condizioni atmosferiche e temperatura e umidità influenzeranno le prestazioni e la disponibilità del processo. In secondo luogo, un impianto DAC richiederà terreno ad esso dedicato, e non è chiaro quanto, poiché le esigenze ottimali delle unità non hanno ancora avuto una risposta definitiva. Come le turbine eoliche, le unità DAC inoltre, devono essere opportunamente distanziate per garantire le massime prestazioni, in modo che non si verifichino situazioni paradossali in cui un DAC si trovi a filtrare aria impoverita di CO2 da un'altra unità.
#4. Costo
Le dolenti note. Considerando dunque
le prime tre sfide, quella finale è chiara: il costo
per tonnellata di CO2 rimosso è inevitabilmente alto. Anche
se ci sono studi di modellizzazione recenti che presuppongono costi DAC relativamente
bassi (tra i 100 e i 200 € per ogni tonnellata di CO2 rimosso) i
ricercatori del MITEI hanno trovato evidenze che suggeriscono costi molto più
alti.
I costi tipici per centrali elettriche e siti industriali che utilizzano attualmente la tecnologia CCS per rimuovere la CO2 dalle loro emissioni è stimato tra 50 e 150 € per tonnellata di CO2. Ma come premesso è ovvio che nell’aria, le condizioni di concentrazione di CO2 enormemente più basse, portano a costi sostanzialmente più elevati.
Al primo punto abbiamo inoltre visto che le dimensioni delle unità DAC necessarie per catturare la quantità di aria richiesta sono enormi. I costi iniziali sono quindi altissimi, soprattutto per manodopera, materiali e permessi. Alcune stime arrivano a calcolare qualcosa come 5.000 € per tonnellata catturata all'anno.
A tutto ciò si devono aggiungere i costi di manutenzione e quelli dell'energia. Al secondo punto è stato indicato che rimuovere 1 Gton/anno di CO2 richiede l'equivalente di 1,2 MWh di elettricità. A 0,10 € per kWh, il costo della sola elettricità necessaria per rimuovere una tonnellata di CO2 è di 120 €. Ma il team del MITEI non è d’accordo e sottolineano che supporre un prezzo così basso è discutibile, dato l'aumento previsto della domanda di elettricità, la futura competizione per l'energia pulita e i costi più elevati in un sistema dominato da fonti energetiche rinnovabili, ma intermittenti.
Poi c'è il costo dello stoccaggio, che viene ignorato in molte stime dei costi DAC.
Sono molte le considerazioni che dimostrano che costi compresi tra 100 e 200 € a tonnellata non sono realistici e che presumere valori così bassi distorcerà la valutazione delle strategie, compromettendo i risultati teorici auspicati.
I ricercatori riconoscono che in
futuro ci sarà spazio per miglioramenti nell'efficienza energetica, ma le unità
DAC saranno sempre soggette a requisiti di lavoro più elevati rispetto alla CCS
applicata alle centrali elettriche alimentate a fossile o ai gas di scarico
industriali, e non esiste un percorso chiaro per ridurre i requisiti di lavoro
molto al di sotto dei livelli delle attuali tecnologie DAC.
Ma siccome è la somma che fa il totale gli stessi ricercatori raccomandano che il lavoro per sviluppare la DAC continui «perché potrebbe essere necessario per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero, soprattutto dato il loro attuale ritmo».
Ma non si sottovaluti il loro avvertimento. «Date le alte poste in gioco del cambiamento climatico, è sconsiderato fare affidamento sul DAC come eroe che viene in nostro soccorso».
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