Sto rileggendo, saltellando di pagina in pagina, il libro “La Terra dopo di noi”, di Telmo Pievani, il noto filosofo della biologia, che insieme al fotografo Frans Lanting, ci invita ad immaginare, in una sorta di esperimento mentale, una Terra priva di noi: un esercizio sia chiaro, non un augurio. Come apparirebbe il nostro pianeta senza i sedicenti sapiens.
Lo scopo di ciò, che definirei
più proiezioni che fantasie, è portarci umilmente a riconsiderare il nostro
ruolo e la nostra posizione nell’immenso panorama evoluzionistico,
geologicamente e biologicamente parlando. Le bellissime foto di Frans Lanting
ci propongono scenari, tutti belli e spesso angoscianti, del nostro pianeta
senza traccia umana. Non c’è molta superficie terrestre che possiamo
considerare priva dell’impronta
ecologica antropogenica – forse il 15-20% -, che sia considerabile incontaminata;
ma è ancora possibile scattare foto del genere, che aiutano a realizzare
l’esercizio proposto da Telmo Pievani e che invito a vedere.
Al contrario della Terra nella
sua interezza la biosfera non è affatto indifferente alla nostra presenza:
nonostante si sia su questo pianeta da un battito di ciglia su questa
biosfera abbiamo lasciato e stiamo lasciando un’impronta
marcata e ben visibile. Probabilmente già prima della rivoluzione neolitica, circa
diecimila anni fa, col controllo del fuoco, ma sicuramente allora, in diverse
parti del mondo più o meno in simultanea i nostri avi hanno smesso la loro
economia fondata sulla raccolta e sulla caccia per abbracciare un’economia
fondata sull’agricoltura e sull’allevamento. Un’impronta così marcata da aver
indotto alcuni ad etichettare così una nuova epoca geologica: l’Antropocene
che, pur non trovando accordo sul momento storico esatto da cui farla partire,
e quale sia l’evidenza che la certifica, rende molto bene l’idea. Un’epoca il
cui fattore determinante e distinguente è Anthropos, l’essere umano.
Homo sapiens allora iniziò ad
alterare il territorio con incendi e disboscamenti, a costruire città e
monumenti, a regimentare le acque, adattandosi ai climi più freddi con i
vestiti, e la popolazione crebbe da pochi, decine di migliaia forse, a
centinaia di milioni.
E da allora di tutto ciò il
pianeta, o meglio la biosfera, se ne accorse. Il genere umano divenne un attore ecologico
globale, in grado di interferire con i grandi cicli biogeochimici del pianeta,
con la sua tipica capacità arrogante di pretendere il ruolo di protagonista,
all’apice di una scala di progresso che veda Homo fine ultimo.
Indubbiamente il percorso ha
avuto successo, altrettanto va detto del progresso
compiuto. Con le sue migliaia di contraddizioni la condizione del genere umano
è decisamente migliorata nel suo complesso, ma con gli effetti collaterali
sotto gli occhi di tutti: talmente tanti che offuscano la dimensione di
progresso.
Tutti dovrebbero conoscere il biologo americano Paul Ehrlich che nel 1968 scrisse un libro (in realtà fu scritto a quattro mani insieme alla moglie), The Population Bomb, in cui dipingeva a tinte fosche il futuro, prevedendo centinaia di milioni di morti per fame e con l'India che non sarebbe sopravvissuta oltre il 1980. Nulla di tutto ciò accadde. Un esempio: in India la popolazione è raddoppiata rispetto al 1968, superando di recente la Cina, ma è anche il paese che ha più che triplicato la propria produzione di grano e riso e la sua economia è cresciuta di cinquanta volte.
Ancora, nel 1990, meno della metà
della popolazione della Terra aveva accesso a sistemi di distribuzione idrici
centralizzati; oggi questi sistemi raggiungono il 60 percento della
popolazione, un successo enorme se si tiene conto che nel frattempo siamo passati
da 5,3 a 8 miliardi di persone. I miglioramenti inoltre sono ovunque: una
famiglia media oggi spende per il cibo una percentuale minore del proprio
budget di quanto non accadesse trenta anni fa.
Attenzione,
ciò non significa che sia partita una inesorabile marcia verso il progresso e
il benessere per tutti né voglio sostenere con questo che la malnutrizione o
l’accesso a fonti d’acqua pulita, ad esempio, non siano un problema serio o
drammatico in alcune zone del mondo.
E anche se non possiamo liquidare
Ehrlich dandogli del catastrofista la sua previsione era
sbagliata.
Non aveva tenuto conto
della forza dell'innovazione, comprese
le varie rivoluzioni agricole che hanno consentito di produrre una quantità di
cibo per ettaro maggiore, un aumento di resa con la selezione artificiale di
nuove varietà.
E la crisi sociale si intreccia a quella ambientale.
Fin dell’Earth Summit delle Nazioni Unite, nel 1992, e prima ancora, nel 1987, il rapporto della Commissione Brundtland delle Nazioni Unite, Our Common Future, che è poi diventato la base della Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo in cui sono state varate la Convenzione sui cambiamenti del clima e la Convenzione sulla biodiversità, si afferma che potremo passare dalla crescita allo sviluppo solo se ci sarà sostenibilità sociale ed ecologica. Non ci può essere sviluppo sostenibile a livello sociale se non c’è sviluppo sostenibile a livello ambientale. E viceversa.
Pievani, nel suo libro, ci sollecita a immaginare una Terra senza di noi per aiutarci a costruire un percorso verso un futuro desiderabile. Grazie a numerosi studi scientifici è facile dimostrare come le diverse impronte umane sulla biosfera resterebbero per tempi medi, lunghi e lunghissimi dopo una nostra eventuale scomparsa improvvisa. Passati quei tempi, il pianeta ci dimenticherebbe.
Ma, sempre secondo l’autore, questo della scomparsa improvvisa (in termini geologici) di Homo sapiens non è uno scenario plausibile. Non a breve e medio periodo, almeno. Noi sulla Terra ci resteremo: il problema è come (nel bel libro di Alfonso Lucifredi c’è uno degli aspetti in gioco: la crescita demografica).
Se il modello di crescita senza sviluppo continuerà vivremo tempi di lacerazione del tessuto sociale accompagnata da condizioni climatiche sempre più estreme. L’umanità non scomparirà ma vivrà in condizioni sempre peggiori. Non me ne voglia Alessandro Barbero ma sarebbe una sorta di nuovo Medioevo.Possiamo fare qualcosa per scongiurare questo scenario non desiderabile? Possiamo far leva su una nostra caratteristica peculiare, ovvero sapere che siamo l’unico fattore di forte perturbazione della biosfera che ha coscienza di esserlo?
La consapevolezza che il pianeta ha fatto a meno di noi in passato e potrebbe fare a meno di noi in futuro è dunque il primo atto di umiltà evoluzionistica, assumere piena cognizione delle conseguenze delle nostre azioni. Fondare un nuovo ambientalismo, critico e lucido: basato sulla scienza e informato di umanesimo.
Ma siamo in grado di cambiare il nostro modello economico fondato sulla crescita illimitata dei consumi individuali? Siamo in grado di accettarlo, e passare da crescita senza sviluppo a uno sviluppo senza crescita che, attenzione, non è la utopica e inapplicabile decrescita felice? Come intenderci su cosa intendiamo per crescita da portare a termine che non comporti la crescita del nostro benessere?
Invertire la crescita continua dei consumi di materia e di energia da fonti fossili che liberano carbonio è possibile, persino per un piccolo paese come il nostro. Ma siamo disposti a pagarne il sovrapprezzo sapendo che dovremmo per forza di cose caricarci anche i costi della transizione dei paesi poveri o delle economie emergenti?
Dobbiamo passare a un modello democratico di sviluppo fondato sulla conoscenza. Ma siamo in grado di valutare i benefici futuri senza ridurre le necessità attuali? Che valore ha il futuro?
E se probabilmente l’ambientalismo del futuro sarà la forma più alta di
umanesimo, i segnali di cambiamento che ancora oggi, e siamo in tremendo
ritardo, abbiamo a disposizione, sono inequivocabili.
La gestione del cambiamento climatico, IMHO, è, ad oggi, fallimentare. Tanto da avergli dedicato una serie di tre post, legati ad altrettanti aspetti (qui il primo)
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