Le menzogne di Trump

 Factcheck: il rapporto di Trump sul clima include più di 100 affermazioni false o fuorvianti

Immagine della mappa interattiva a disposizione sul sito di Carbon Brief: le pagine evidenziate in rosso contengono affermazioni false, mentre quelle evidenziate in arancione contengono affermazioni fuorvianti. Le pagine possono contenere più di un'affermazione falsa o fuorviante. Le pagine non colorate rappresentano parti del rapporto che sono state dichiarate accurate dall'autore citato o che non hanno ricevuto alcun commento dagli esperti invitati. 

No. Non è un commento dei fatti recenti e relativi all'incontro con Putin; ma potrà comunque servire a capire con chi il mondo ha avuto e avrà a che fare.

Fin dall’inizio del suo secondo mandato, con diversi segnali fin dalla campagna elettorale, in tema ambientale s’era capito dove stesse andando a parare Trump, e ne avevo scritto lo scorso gennaio. Immediatamente a seguire una serie di colpi, definiti mortali non a caso, alla stragrande maggioranza delle agenzie federali, soprattutto quelle che si occupano di ambiente, agli istituti di ricerca, alle università, e via dicendo.

Ultima tra le azioni dell’amministrazione attuale quella di aver incaricato il Dipartimento dell’Energia (DoE) degli Stati Uniti di redigere e pubblicare un rapporto intitolato "A critical review of impacts of greenhouse gas emissions on the US climate” a cui ho fatto riferimento in un mio recente post, anche se per introdurre tutt’altro. In sintesi, il rapporto rivede radicalmente il cosiddetto consenso scientifico in tema di cambiamento climatico, contrapponendosi a quanto, pressoché quotidianamente, viene confermato dalle sintesi di migliaia di pubblicazioni scientifiche, e soprattutto al contenuto del Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC (AR6), la sintesi più autorevole, completa e condivisa della letteratura scientifica sul clima.

La pubblicazione del DoE è volta a sostenere la recente iniziativa dell’EPA (Environmental Protection Agency) che prova a confutare la “Endangerment Finding” del 2009 (rilevamento del pericolo), ossia il riconoscimento ufficiale da parte dell’EPA che la CO₂ e altri gas serra rappresentano una minaccia per la salute e il benessere pubblico, e che costituisce, almeno finora, la base legale per tutte le successive politiche federali di mitigazione del cambiamento climatico negli Stati Uniti. Il rapporto del DoE rappresenta quindi il tentativo di giustificare, dal punto di vista scientifico, l’abbandono di qualsiasi politica di contenimento delle emissioni di gas serra, usando vecchi argomenti del negazionismo climatico degli ultimi 20 anni, come i presunti benefici della CO₂ per l’agricoltura, l’incertezza dei modelli climatici e le presunte esagerazioni dei danni stimati per i cambiamenti climatici. Una vera e propria manna per i negazionisti e gli scettici radicali.

In altre parole l’amministrazione Trump ha commissionato ciò che ritiene essere una “valutazione critica” che giustifichi l’inversione di tendenza delle normative statunitensi sul clima.

Il documento DoE contiene almeno 100 affermazioni false o fuorvianti.

Fact-checking
Ebbene, ad appena un mese dalla pubblicazione del documento del DoE, su incarico di “Carbon Brief”, un ente britannico specializzato nell'analisi e nella comunicazione di questioni legate al clima, alla scienza e alla politica energetica, un gruppo costituito da decine di scienziati del clima, ha prodotto un ricco ed ampiamente documentato documento di fact-checking, ovverosia di controllo delle affermazioni e delle dichiarazioni, effettuando un vero e proprio processo peer review. Il documento, in modalità interattiva, è disponibile sul sito di Carbon Brief e accessibile con il link ripetuto qui sotto.

Nota importante: in seguito agli attacchi dell'amministrazione Trump alla scienza , alcuni collaboratori hanno chiesto di rimanere anonimi.

In un mio successivo post mi occuperò di analizzarlo in parte, lasciando gli approfondimenti all’originale.

Factcheck: Trump’s climate report includes more than 100 false or misleading claims

Questo rapporto, di ben 140 pagine, guarda caso è stato pubblicato dal DoE  il 23 luglio scorso, pochi giorni prima che il governo presentasse i piani per revocare qualsiasi provvedimento che sia basato sulla certezza scientifica che il riscaldamento climatico in atto è di origine antropica e causato dalle emissioni di gas serra, in primo luogo di CO₂. Revocare quindi quanto attinente al controllo delle emissioni, in perfetta linea, tanto per fare un esempio, con lo slogan drill, baby drill! di entrambe le campagne elettorali di Trump.

Il riassunto esecutivo del controverso rapporto afferma, erroneamente, che il «riscaldamento indotto dal CO2 potrebbe essere meno dannoso dal punto di vista economico di quanto comunemente si creda». Afferma inoltre, in modo fuorviante che «politihe di mitigazione [delle emissioni] eccessivamente aggressive potrebbero rivelarsi più dannose che benefiche».

Redatto, in soli due mesi, da cinque ricercatori indipendenti selezionati personalmente dal segretario all'energia statunitense Chris Wright, un noto scettico nei confronti del cambiamento climatico, e altrettanto noto imprenditore nel settore dei combustibili fossili. Fin dall’inizio il documento ha scatenato aspre critiche da parte degli scienziati del settore, che hanno evidenziato errori di fatto, travisamenti della ricerca, citazioni disordinate e una selezione accurata dei dati (il cosiddetto cherry picking). Il documento inoltre somiglia in moltissime sue parti ad una memoria legale prodotta per difendere l’imputato: in questo caso il biossido di carbonio.

Come più volte spiegato, è un errore basilare ritenere che nella scienza incertezza significhi ignoranza, e usare l’incertezza come scusa per l’inazione o per la negazione; al contrario, affidarsi all’incertezza per rimandare interventi in grado di rallentare cambiamenti così veloci, o di limitarne le conseguenze, è pericoloso. La storia della scienza del clima insegna che le proiezioni fatte in passato si sono rivelate molto spesso ottimiste, e l’iniziale incertezza si è risolta in maggiori motivi di preoccupazione: l’incertezza prepara ad affrontare gli scenari peggiori.

Sul ruolo del dubbio nella ricerca scientifica ne ho scritto tempo fa qui.

Il gruppo di lavoro di Wright, inoltre, sostiene che il rapporto, attualmente aperto al commento pubblico nell'ambito di una revisione di 30 giorni, è stato sottoposto al peer review…da parte di personale interno al DoE: insomma, come si dice, se la sono suonata e ora se la cantano. A sottolineare questo aspetto l'analisi di Carbon Brief rileva, inoltre, che dei 350 riferimenti inclusi nel documento, quasi il 10% è opera degli stessi autori del rapporto.

Il rapporto, come anticipato, è stato concepito per fornire un fondamento scientifico a uno dei piani dell'amministrazione Trump di revocare le disposizioni “Endangerment finding” dell’EPA, che costituiscono il prerequisito legale per la regolamentazione federale delle emissioni, oltre a mettere in dubbio che l’EPA possa avere l’autorità legale sulla regolamentazione delle stesse. Anche questo è un deja vu. Quando le industrie produttrici di tabacco da fumo decisero di chiamare il fumo passivo fumo ambientale, pensando di mitigare l’impatto psicologico, si diedero la zappa sui piedi, perché entrò nella questione proprio l’EPA: se è ambientale è di loro competenza, si disse. Da quel momento partì una campagna di negazione e decostruzione delle evidenze scientifiche note che l’EPA avrebbe poi usato per ergersi ad ente federale di controllo, limitazione e divieto.

Tornando al rapporto, questa constatazione di pericolo,  emanata dall’amministrazione Obama nel 2009, afferma che esistono ben sei gas serra che contribuiscono agli impatti netti negativi del cambiamento climatico e che, quindi, mettono in pericolo la popolazione.

Ed ecco invece che, con un comunicato stampa del 29 luglio scorso, l'agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti ha affermato che «studi e informazioni aggiornati hanno messo in discussione le precedenti ipotesi», quanto fu dichiarato nel 2009. Si noti l’uso del termine ipotesi, ad indicare che già allora solo di questo si trattava, nulla di certo: il dubbio…

Carbon Brief ha chiesto a un'ampia gamma di climatologi, compresi tutti quelli che gli autori della revisione critica hanno citato, di verificare i fatti a sostegno delle varie affermazioni e delle dichiarazioni contenute nel rapporto.

Fonte Climalteranti.it

Difetti evidenti del rapporto DoE
Nella tabella precedente sono riportate le principali differenze macroscopiche tra le affermazioni contenute nel rapporto del DoE e quanto presente invece nel documento IPCC AR6. Per non appesantire troppo la lettura in un mio post successivo esaminerò qualcuna delle considerazioni fatte dal gruppo di Carbon Brief, a ribadire ed ampliare quanto ho già esposto di recente in un altro mio post.

Per un approfondimento ovviamente rimando al sito Carbon Brief.

La gestione fallimentare del cambiamento climatico - Prima parte

L’uso massiccio di combustibili fossili, necessario per sostenere la crescita dei processi industriali a partire da circa due secoli fa, ha riversato in atmosfera quantitativi di gas serra tali da modificare profondamente il clima della Terra; consumo del suolo e deforestazione hanno dato il colpo di grazia con quegli stessi processi industriali che, laddove presenti, hanno consentito e – anche se non ovunque – sostenuto la crescita demografica oggi registrata. Il risultato è un cambiamento climatico con un marcato riscaldamento senza precedenti, a coinvolgere i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta. Ne ho scritto su queste pagine numerose volte e da numerosi punti di vista. 

Il cambiamento climatico, così come definito dal punto 2 dell’Art. 1 della costituzione della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) è innanzi tutto un fenomeno ecologico; causato dall’innalzamento della temperatura media dell’atmosfera terrestre, o meglio, della sua parte a diretto contatto con la superficie, la troposfera. Tale aumento è già mediamente superiore ad un grado centigrado più alto di quanto non fosse a cavallo tra XVIII e XIX secolo, inizio dell’era industriale, e nel corso di quest’anno si sono sfiorati i 2 °C. Le premesse ecologiche del cambiamento climatico sono un’aumentata concentrazione di gas serra nell’atmosfera e una diminuita capacità da parte dei sistemi naturali di assorbirli. La causa dell’aumento è l’uso massiccio di combustibili fossili allo scopo di fornire l’energia necessaria ai processi industriali che, dal 1800 in poi, hanno permesso più alti livelli di consumi e di benessere alla crescente popolazione mondiale. Nell’arco di un paio di secoli, l’uso intenso di combustibili fossili quali fonti di energia ha alzato la qualità di vita di miliardi di persone, alterando però sistemi naturali che erano stati largamente stabili per migliaia di anni, un cambiamento talmente rapido da meritarsi, per qualcuno, una distinzione in termini di cronologia geologica: l’Antropocene. Le implicazioni ecologiche del cambiamento climatico potrebbero andare da modificazioni di ecosistemi relativamente blande e sparse a massicce catastrofi di portata planetaria, compresa un’estinzione di massa, la sesta, ampiamente documentata. Il cambiamento del clima è un problema senza precedenti, che coinvolge i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta e pone minacce multiple, probabilistiche, dirette ed indirette, spesso invisibili e senza limiti spaziali o temporali.

L’incertezza principale sugli scenari si lega all’incertezza dell’efficacia delle politiche di mitigazione. O agiamo tutti insieme, a livello globale, o gli sforzi individuali saranno trascurabili. Per quanto lodevole nessuna iniziativa locale o personale fa la differenza. È come trovarsi su una barca che sta imbarcando acqua: l’azione di un singolo che svuota l’acqua con un secchio non serve granché, ma se nessuno inizia affonderanno tutti. Solo uno sforzo collettivo può evitare i danni peggiori del riscaldamento globale.

Ciò nonostante, la maggior parte dei paesi al mondo è lontana dalla cosiddetta decarbonizzazione, la cooperazione internazionale vacilla e non sembra si abbiano gli strumenti tecnologici per contrastare il fenomeno con successo a discapito delle attuali conoscenza e tecnologia che già offrono la maggioranza delle risposte al da farsi per iniziare un serio e condiviso processo di mitigazione.  Le difficoltà di gestione non sono solo il risultato di mancati accordi internazionali e scarsa volontà politica, ma rispondono anche a effettive difficoltà nel concettualizzare il problema climatico, applicare ad esso ciò che deriva da democrazia e responsabilità, contrastarlo.  Prima ancora di dimostrare volontà condivisa sembra ormai tracciata una duplice natura del fallimento, politica e internazionale da un lato, e domestica, quest’ultima declinata in dozzine di modi tante sono le diverse realtà locali e culturali.

In questa prima parte tratteremo della prima che condurrà, purtroppo, a dipingere un quadro piuttosto desolante e deludente.

Anticipando e riassumendo eventuali conclusioni la possibilità che si possa governare il cambiamento climatico, appare sempre più utopica. Una flebile speranza deriva dal riconoscere che moltissimo si è fatto quando si presentò il problema della riduzione dei danni allo strato dell’ozono, e parecchio, anche se non tutto, quando si dovette procedere con urgenza alla limitazione dei danni provocati dalle piogge acide.

Sono esempi virtuosi e importanti che, stabilito che esistono rischi notevoli per la popolazione umana, soprattutto quella già provata da difficoltà aventi altre origini, ci fanno ben sperare, unitamente al ruolo che potranno avere nuove tecnologie.

Tuttavia, di fronte allo stato di fatto delle iniziative globali e delle loro auspicate ricadute sui governi locali, soprattutto quelli dei paesi ricchi, al cospetto dei continui conflitti armati che anziché diminuire aumentano di anno in anno (ad oggi se ne contano 56!), permangono sentimenti di disillusione e sgomento, che certamente non aiutano e inducono, come ho avuto modo di scrivere recentemente, ad una sorta di catastrofismo climatico da un lato, e all’inazione dall’altro. Atteggiamenti entrambi pericolosi e da contrastare.

Il fallimento internazionale

Già all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, ancora prima per molti aspetti, alla comunità scientifica internazionale era chiaro, oltre ogni ragionevole dubbio e dati alla mano, che il modo migliore per affrontare il cambiamento climatico fosse modificare le nostre fonti di energia, non un’azione drastica ma maledettamente ovvia.

Anche il resto del mondo era di questo parere, e i leader governativi e le ONG decisero di incontrarsi a Rio de Janeiro, in occasione dell’Earth Summit delle NazionI Unite. Nel giugno del 1992, tutti gli allora 192 stati erano rappresentati, erano presenti 108 capi di stato, 2.400 rappresentanti di organizzazioni non governative e più di 10.000 giornalisti, mentre altre 17.000 persone presero parte a un forum parallelo delle ONG, per affrontare il problema del cambiamento climatico antropogenico. Fu letteralmente la più vasta riunione di capi di stato mai vista. Emblematica la presenza persino dell’allora presidente USA, George H. W. Bush, scettico e condizionato da informazioni manipolate, rinviata di giorno in giorno, ma che lo vide volare a Rio de Janeiro all’ultimo minuto firmare la UN Framework Convention on Climate Change (UNFCCC), che impegnava i firmatari a evitare «pericolose interferenze antropiche sul sistema climatico». Bush promise di tradurre il documento in «azioni concrete atte a proteggere il pianeta». Nel marzo del 1994, 192 Paesi avevano siglato la convenzione quadro che entrò così in vigore.

Analogamente alla Convenzione di Vienna (1985) sulla protezione dello strato di ozono, la UNFCCC, non avendone il potere, non stabiliva vincoli o limiti alle emissioni: era un accordo su linee di principio, punto di partenza per qualsiasi altra iniziativa. I limiti effettivi sarebbero stati determinati più avanti, in un protocollo che venne poi firmato a Kyoto, in Giappone, nel 1997. Al crescere della possibilità che fosse necessario attuare delle regolamentazioni, cresceva, assumendo maggior impatto sociale e mediatico, la costruzione a tavolino del negazionismo climatico, talmente forte che nonostante fossero già allora chiarissime cause e contromisure, ancora oggi vengono riciclati gli stessi argomenti, falsi.

L’evento segnò quindi la nascita di una coscienza ambientale globale e definì le linee guida per una transizione condivisa ed efficace verso nuove forme di crescita economica, sostenibili. Un bel sogno: il nord e il sud globale del mondo mano nella mano; quest’ultima parte dell’umanità da sempre ignorata e che oggi, a comprendere minoranze che non necessariamente vivono a sud dell’Equatore ed altre comunità emarginate, è stato chiamato MAPAMost Affected People and Areas. Paesi industrializzati, emergenti e in via di sviluppo, uniti per proteggere insieme il pianeta e i suoi abitanti più vulnerabili. Il sogno di una trasformazione globale dei valori, fuori dalle ideologie politiche divisive che avevano segmentato il mondo fino a pochi anni prima e verso comuni obiettivi globali.

Si fantasticava intorno a stati in grado di assumersi obblighi reciproci e vincolanti, in uno sforzo comune teso a proteggere l’ambiente, trasferendo benessere e benefici ai paesi emergenti e in via di sviluppo, ma soprattutto teso a proteggere le generazioni a venire, nel rispetto di un antico proverbio Navajo che dice che «non ereditiamo la terra dai nostri antenati, ma la prendiamo in prestito dai nostri figli». Un sogno di garanzia di libertà per tutti, per onorare l’uguaglianza di fondo tra ricchi e poveri e promuovere fraternità tra le generazioni. Un bel sogno rimasto tale. Come ebbe a dire il filosofo inglese Isahia Berlin «la libertà dei lupi significa la morte degli agnelli».

Pochi anni dopo, per esempio, il vecchio continente fu risvegliato drammaticamente dal sogno dell’annullamento della contrapposizione est-ovest, ancorché festeggiato con l’unificazione delle due Germanie, dal sanguinoso conflitto nella ex Yugoslavia.

Fin dall’inizio emersero gravi opposizioni e contrasti. Una tra queste e su tutte fu quella che ha caratterizzato, e continua a farlo, ogni tentativo di gestione climatica globale: l’opposizione tra i paesi industrializzati (Stati Uniti, Comunità Europea, Giappone, Canada, Australia e Nuova Zelanda) e i paesi emergenti e in via di sviluppo, rappresentati all’interno dell’ONU dal Gruppo dei 77 (G77), nato nel 1964 proprio per promuovere la crescita economica dei propri membri. Le posizioni all’interno di questo gruppo sono molteplici e spesso in contrasto: se ad esempio abbiamo da un lato rappresentati i piccolissimi stati isola dell’Oceania, che magari rischiano di finire sott’acqua per l’inevitabile innalzamento del livello medio dei mari, e che quindi chiedono un’azione istantanea da parte di tutti, d’altra parte abbiamo nello stesso gruppo anche la cordata dei paesi produttori di petrolio, che avversano invece qualsiasi mossa possa intaccare la loro principale fonte di reddito e gettano dubbi sui dati scientifici sul clima; ci sono poi giganti emergenti come Brasile, India e Cina (la quale però non è un membro del G77 ma un osservatore invitato speciale). Senza dimenticare che alcuni di questi hanno creato, in tempi recenti e a complicare parecchio il quadro, il cosiddetto BRICS. Su una cosa sono comunque tutti concordi: la richiesta di aiuti sia finanziari che tecnologici ai paesi industrializzati e il rifiuto di sottoscrivere accordi vincolanti per i propri membri prima che lo avessero fatto i paesi industrializzati. Questa opposizione ha caratterizzato l’intera traiettoria della diplomazia del clima e continua ancora oggi.

Giustificare l’idea che i paesi industrializzati debbano fare di più, contro il cambiamento climatico, di quelli emergenti e in via di sviluppo, è apparentemente abbastanza ovvio: i paesi industrializzati hanno storicamente contribuito all’innalzamento delle temperature molto più di quanto abbiano fatto i secondi. La Cina ad esempio, spesso e non a torto, è annoverata tra i paesi che più contribuiscono all’emissione di gas serra, ma non lo è storicamente rispetto agli Stati Uniti, né come quantitativo pro capite (USA e Canada 15 t/anno pro capite, Cina 8, UE 5). I paesi industrializzati, hanno tratto indiscutibilmente beneficio, in termini di aspettativa e qualità della vita, dalle attività che hanno causato l’innalzamento delle temperature, anche se queste ultime non tendono a rappresentare un beneficio. I paesi emergenti chiedono quindi, richiamandosi a principi di equità, che anche loro possano beneficiare innanzi tutto di energia a costi inferiori a quelli delle cosiddette alternative, a favorire e migliorare le aspettative e la qualità di vita dei loro cittadini, utilizzando gli stessi schemi di sviluppo dei paesi industrializzati: schemi basati essenzialmente su circuiti industriali alimentati da combustibili fossili. Inoltre, i paesi industrializzati hanno a disposizione più fondi e conoscenze di quelli emergenti e in via di sviluppo, e sono dunque quelli più capaci di sostenere i costi delle politiche di contrasto, mitigazione e adattamento. Infine, molti degli abitanti dei paesi emergenti e in via di sviluppo, molti di più che non in quelli industrializzati, sono esposti e vulnerabili agli effetti potenzialmente peggiori del cambiamento climatico, essendo poveri e dunque più direttamente dipendenti dagli ecosistemi per il proprio sostentamento nonché generalmente meno equipaggiati per adattarsi a mutate condizioni.


Sembra ancora maledettamente ovvio: per considerazioni di responsabilità storica, equità, capacità e vulnerabilità sono dunque i paesi ricchi, il nord del mondo, che devono condurre e finanziare la lotta al cambiamento climatico, almeno in una prima fase. I paesi emergenti e in via di sviluppo devono poter avere maggior margine per alzare le aspettative e qualità di vita dei loro cittadini attraverso schemi di sviluppo energizzati da combustibili fossili, considerando il loro contributo proporzionalmente molto ridotto rispetto al resto del mondo; raggiunto quell’obiettivo, però, devono anch’essi mettersi in linea con gli altri - gli industrializzati già decarbonizzati - pena il fallimento dell’intera operazione. Responsabilità comuni quindi, ma differenziate, necessarie a garantire stabilità politica, ambientale e giustizia sociale. Questo, a grandi linee, è il principio di responsabilità comuni ma differenziate, fondamento delle relazioni internazionali sul clima. È un principio che esplicita considerazioni non solo di stabilità politica ed eco-sistemica ma anche e soprattutto di giustizia globale. 

La prova della ovvietà di questa differenziazione? L’1% più ricco della popolazione mondiale (rapporto Oxfam “Climate Equality”, novembre 2023) è responsabile del 16% delle emissioni globali di carbonio. Lo stesso quantitativo prodotto dal 66% più povero dell’umanità. Un altro indicatore dello stile di vita insostenibile, come quando si dice che uno svizzero consuma 10 volte più di un eritreo.

Un’azione climatica davvero efficace deve introdurre e partire dalla più grande delle emergenze: le disuguaglianze economiche. Omettere dal quadro generale tutti gli aspetti di giustizia sociale e redistribuzione delle risorse non porta da nessuna parte. Se l’umanità non capirà che la transizione energetica è innanzi tutto un problema sociale non sarà mai davvero conscia della gravità del cambiamento climatico.

Un altro bel sogno?

Fu questo il principio adottato a Rio. Ma ad oggi non si è riusciti nemmeno a definire una realizzazione pratica che soddisfi tutti, peggio che nelle peggiori riunioni di condominio che arrivino a sfiorare la rissa. Financo l’accordo di Parigi del 2015, primo risultato di una delle tantissime COP (di cui ho trattato…) in cui non si cercava una soluzione comune negoziale sul clima ma si lavorava per dare forma alle proposte dei singoli paesi, senza costringere nessuno a fare più di quanto volesse. Ciò nonostante, quell’accordo non fu giudicato equo da alcuni paesi, chi perché lo giudicava troppo blando e chi, guarda caso gli USA che, dopo averlo promosso e sottoscritto, lo hanno rimesso in discussione perché troppo oneroso.  Sono passati decenni e ancora oggi abbiamo ad esempio le posizioni espresse dal secondo mandato Trump.

Problemi pratici

Una lunga parabola fallimentare per la diplomazia del clima. Dalle negoziazioni embrionali di Rio nel 1992 a quelle di Copenhagen nel 2009, la difficoltà in cui continua a trovarsi anche dopo l’accordo di Parigi del 2015, le dichiarazioni d’intenti, altissime e nobilissime che ad ogni COP si ripetono stancamente, illumina alcune difficoltà strutturali in cui si è venuta a trovare la governance globale negli ultimi trent’anni; non solo sul clima ma, con specificità diverse, anche su altri temi come la proliferazione nucleare e le regole del commercio internazionale (e qui nulla di più emblematico che le decisioni attuali di Trump).  Il caso del clima è però particolarmente vivido e dunque istruttivo, nonché il più grave.

Una prima difficoltà è che sulla scena globale ci sono molti nuovi attori di peso, il cui consenso e cooperazione sono oggi non solo desiderabili, come erano nel passato, ma assolutamente imprescindibili. Paesi emergenti come Cina, Brasile, India, Russia, Sudafrica, Indonesia e Messico producono enormi quantità di gas serra e, in assenza di accordi globali efficaci che li limitino, ne produrranno sempre di più in futuro; con un distinguo sulla Cina, perché questo grande paese ha un piano ambizioso di decarbonizzazione che, per quanto se ne sa, ha avviato da tempo e intende rispettare. Ad oggi però non c’è modo di contrastare il cambiamento climatico se questi paesi non collaborano, e più tempo passa più il valore della loro collaborazione aumenta. Questi paesi non collaboreranno se non in termini che siano per loro economicamente e politicamente accettabili. Il quadro è ulteriormente complicato dal fatto che la stessa logica si applica anche nei casi dei paesi già industrializzati e di quelli che ancora devono emergere: il cambiamento climatico accresce il valore e dunque il costo della cooperazione di ogni stato.

Inoltre, la gestione del cambiamento climatico non è unicamente nelle mani degli stati. Attori globali come aziende multinazionali, banche d’investimento, WTO, IMF e varie compagini che operano al di sopra dei livelli governativi dei vari stati, tra questi o a loro margine, sono tutte coinvolte nella governance del clima in modi sia diretti che indiretti. Una moltitudine di attori molto diversi fra loro e le cui agende non necessariamente coincidono devono accordarsi su una questione estremamente complessa, che comincia solo ora ad essere compresa e che non è concettualizzata da tutti nello stesso modo.

Se il cambiamento climatico è un problema geopolitico, allora servono nuovi accordi ed istituzioni globali che funzionino. Se è un fallimento di mercato allora ci vogliono tasse sulle emissioni e/o un mercato che assegni loro un prezzo. Se il problema è soprattutto tecnologico allora serve un programma d’energia pulita o forse di geoingegneria. Se il cambiamento climatico è solo l’ultimo modo in cui i ricchi danneggiano e opprimono i poveri allora bisogna rinnovare la lotta per la giustizia globale, e via discorrendo. Il problema è che quanto più aumentano gli argomenti tra loro relazionati e tutti plausibili, tanto più i sistemi politici tenderanno ad evitarli perché sanno già che sarebbe impossibile gestirli, con i diversi attori coinvolti, ognuno con la propria soluzione in ambiti diversi e ognuno con la propria visione di successo o di fallimento.

Una seconda difficoltà è la complessità stessa della questione. In qualunque modo lo si concettualizzi, il cambiamento climatico non è un semplice problema ambientale ma una condizione ecologica dalle innumerevoli premesse e implicazioni politiche, economiche e sociali. È un problema multidimensionale che affonda le sue radici nel modo stesso in cui viviamo e chiama in causa questioni di demografia, sviluppo, investimenti, commercio, uso delle risorse, consumi, urbanistica, mobilità, educazione, salute, sicurezza, migrazione e molto altro. Ognuno di questi domini è competenza di questa o quella organizzazione internazionale, o di questo o quel dipartimento delle Nazioni Unite, o di questo o quel Ministero in questo o quello stato. C’è un alto grado di interconnessione fra questi attori, a cui non corrisponde però un grado egualmente alto di integrazione operativa. Non si riesce a procedere senza consultare ciascuno degli organi che invoca giurisdizione su un dato dominio, ma poiché nessun dominio può essere gestito efficacemente senza che vengano chiamati in causa anche gli altri e senza che si agisca a vari livelli di organizzazione sociale (locale, nazionale, regionale, globale), ciascuno degli organi preposti vede la propria competenza sfumare in quella altrui - e con essa le proprie responsabilità.

Una terza difficoltà deriva dal fatto che le istituzioni, nate per omogeneizzare i loro domini di competenza e dar luogo ad aspetti unitari, hanno rimodellato i domini stessi: appaiono quindi difficoltosi i tentativi futuri di governarli in modi che non siano inquadrati all’interno del percorso già intrapreso. In altre parole, si tende a mantenere lo status quo e questo crea ostacoli a fronte di problemi di nuova generazione. Nuovi problemi richiedono nuove istituzioni con nuove soluzioni e non modellare il nuovo con strumenti e soluzioni già a disposizione. Si pensi a quel che accade, anche solo a livello locale, durante gli eventi di precipitazioni estreme che portano ad inondazioni e dissesto idrogeologico: spesso si è usato e reagito con istituzioni perfettamente adattate…ad un clima che non c’è più.

E c’è un esempio analogo che viene dal passato. Nel 1987, dopo anni di susseguirsi di prove a sostegno che i composti chimici chiamati (oggi impropriamente) “clorofluorocarburi” (CFC) e dopo che nel 1985 fu pubblicato un articolo su Nature (gli scienziati conoscevano il problema fin dagli anni Settanta), a Montreal venne stabilito un protocollo che riuscì a proibire, velocemente e permanentemente, la produzione e l’uso di molti dei clorofluorocarburi, stante le prove che fossero i diretti responsabili dell’assottigliamento e del cosiddetto buco dell’ozonosfera. Fu un trionfo: l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, lo definì: «un esempio di eccezionale cooperazione internazionale; probabilmente l’accordo fra stati più di successo».

Sulla falsa riga del Protocollo di Montreal i primi approcci del 1992 a Rio furono dello stesso tipo. Partendo dal presupposto che, se un fattore individuabile causa il problema (i clorofluorocarburi in un caso, i gas serra e in particolare il biossido di azoto nell’altro), lavorando esclusivamente sull’eliminazione di quel fattore si risolverà il problema.

Per l’ozono è più o meno vero, ma non per il clima.  L’assottigliamento e il buco dell’ozono erano problemi ostici ma con soluzioni definite e definitive. Il cambiamento climatico è invece un problema configurato dall’interazione di una moltitudine di sistemi aperti, dislocati a diversi livelli ecologici e sociali, che operano su scale spaziali e temporali diverse, e che sono conosciuti ognuno in modo solo incompleto. Una seconda differenza tra il caso dell’ozono e quello del clima è che le emissioni di CO2 non sono, come i CFC, un dettaglio prontamente ritrattabile: sono il risultato del nostro attuale modo di vivere. L’intero sistema di infrastrutture di produzione e consumo mondiale è impostato sull’uso di combustibili fossili: per contrastare il cambiamento climatico bisogna ridiscutere modalità e strutture di tutto ciò che facciamo.

Per i CFC l’industria chimica seppe trovare rapidamente (dopo il divieto di produzione e utilizzo) alternative più efficaci e addirittura meno costose e, incredibile ma vero, i consumatori mostrarono estrema sensibilità al problema ambientale, cambiando abbastanza rapidamente le loro abitudini prima ancora che venissero emanate leggi restrittive; per i gas serra invece la cosiddetta transizione energetica, soprattutto a livello industriale, ha mostrato fin dall’inizio, i suoi aspetti più ardui da affrontare.

In uno scenario così complesso e confuso la diplomazia del clima si è occupata di negoziare quante emissioni ogni paese potesse o non potesse produrre. Configurare quote in questo modo, senza ridiscutere e dunque lasciando invariati i metodi stessi con cui l’oggetto quotato viene prodotto, significa inevitabilmente imporre riduzioni. Ridurre le emissioni, dati i metodi attuali di produzione e consumo, significa frenare la crescita economica. Ma soprattutto, con quale autorità se non una sorta di etica sovranazionale, controllare i quantitativi negoziati?

Tra l’altro, ancora dal passato, voglio ricordare che quando si dovette affrontare il problema delle cosiddette piogge acide, l’allora amministrazione USA (Reagan) pensò di utilizzare diritti di emissione trasferibili, col governo che avrebbe potuto determinare la quantità massima di inquinamento ammessa, e quindi assegnare o vendere il diritto a inquinare a soggetti che a loro volta avrebbero potuto usarlo, venderlo o scambiarlo. Qualcosa di simile agli odierni carbon credits. Ma il problema principale con cui il mercato dovette confrontarsi fu questo: che valore ha la natura? Secondo molti economisti i problemi ambientali, come l’inquinamento ad esempio, sono un chiaro esempio di fallimento del mercato: i danni collaterali costituiscono un costo nascosto che non viene riflesso nel prezzo di un dato bene o servizio.

Anziché concentrarsi sui processi necessari a raggiungere determinati risultati si è puntato l’indice su rinunce individuali che nessuno vuole attuare, rendendo ogni nazione antagonista di tutte le altre. Si è dato per scontato, e si continua spesso a farlo, che si potessero costruire accordi efficaci sul clima senza occuparsi anche di questioni più ampie, in particolare quelle connesse alla disuguaglianza globale. Come pensare infine che possa essere possibile mantenere il controllo delle emissioni sia da parte di un utopico organismo centralizzato, quando all’interno delle stesse nazioni si susseguono continuamente cambi della classe dirigente? In breve: nuove distribuzioni globali di potere, la complessità del problema climatico, l’affastellarsi di competenze isolatamente impotenti ma non sistemicamente integrate e la tendenza tipica delle istituzioni ad affrontare problemi nuovi con metodi vecchi hanno concorso a causare uno dei fallimenti politici più evidenti nella storia della governance globale e forse dell’umanità intera.

Problemi concettuali

Stante la validità del principio di responsabilità comuni ma differenziate, fondamenta delle relazioni internazionali sul clima dal loro inizio, si riconosce che il problema climatico è comune e si devono ripartire le responsabilità in modo condiviso ma proporzionale. Questo principio presenta la gestione del cambiamento climatico anche come una questione di giustizia globale (intesa come giustizia fra stati) e implica che i paesi industrializzati, i ricchi, debbano fare di più contro il cambiamento climatico e che debbano farlo prima. Tutto ciò ricorda molto da vicino la giustizia sociale ricercata da chi sostiene la necessità in termini di ridistribuzione delle risorse, della ricchezza. E ne dipinge in anticipo scenari piuttosto utopici.

Ad ogni modo, a fondamento del principio ambientale stanno almeno quattro ordini di considerazioni di giustizia: responsabilità storica, equità, capacità e vulnerabilità.

Questi quattro elementi sono, guarda caso, gli stessi alla base dello stato attuale di moltissimi paesi poveri, giunti al terzo millennio dopo secoli di vicissitudini e sfruttamento causati da colonialismo e neocolonialismo. Forse è per questo che molti accademici credono che pensare il cambiamento climatico come un problema di giustizia fra stati sia teoricamente rassicurante e sufficiente, e dipingono così il fenomeno come un caso speciale a cui applicare schemi teorici consolidati. Il paradigma della giustizia globale è molto apprezzato anche dai politici, particolarmente da quelli che rappresentano i paesi più poveri. Per coloro che sono svantaggiati dall’attuale ordine mondiale il linguaggio della giustizia globale offre una sorta di soft power. Costoro presentano il cambiamento climatico come una ingiustizia che i paesi ricchi infliggono a quelli poveri. A Copenhagen nel 2009, ad esempio, il capo negoziatore dei paesi appartenenti al G77, paragonò l’accordo appena raggiunto all’Olocausto.

La descrizione del cambiamento climatico come un’ingiustizia perpetrata dai paesi ricchi a danno dei paesi poveri non è senza meriti, ovviamente. La maggior parte delle emissioni è prodotta dai paesi ricchi ma la maggior parte dei danni, sofferenze e morti che il cambiamento climatico causerà avrà luogo nei paesi poveri, che hanno meno capacità economiche e tecnologiche per reagire e spesso già soffrono di variabilità climatiche ed eventi meteorologici estremi (a loro volta già causa, quantomeno parziale, della loro povertà). L’Honduras, ad esempio, è naturalmente più esposto agli uragani degli Stati Uniti, l’Etiopia è più esposta alla siccità della Germania e probabilmente nessun paese è più esposto alle inondazioni di quanto lo sia il Bangladesh. Personalmente, pensando all’innalzamento del livello medio dei mari, riporto sempre l’esempio del Delta del Mekong.

Nel 2008 il Bangladesh pubblicò un suo Climate Action Plan, il quale richiedeva un finanziamento di cinque miliardi di dollari per i primi cinque anni. Questa cifra è più della metà del budget annuale del paese. Il Bangladesh semplicemente non può adattarsi al cambiamento climatico senza aiuto finanziario e tecnologico da parte dei paesi ricchi. Esso soffrirà immensamente gli effetti del fenomeno pur avendo avuto un ruolo minuscolo nel causarlo: le sue emissioni totali di biossido di carbonio sono meno dello 0,2% del totale globale; su base pro capite, le sue emissioni sono circa un ventesimo della media globale e un cinquantesimo di quelle degli Stati Uniti. 

Ricordando che anche ciò che non vediamo ci riguarda, sono questo tipo di considerazioni a fornire plausibilità all’idea che il cambiamento climatico sia un atto di ingiustizia dei paesi ricchi a danno dei paesi poveri. Rileggendo le parole del cardinale Pietro Parolin, a margine della recente e ultima COP29 a Baku, sottolineo però che, fin dalle buone intenzioni di Rio nel 1992, non un solo dollaro, di fondi appositamente stanziati, è stato erogato a fronte delle richieste di aiuto da parte dei paesi più poveri, per avviare qualcosa di concreto in termini di decarbonizzazione,.

Giustizia sociale quindi? Non basta. Un istante di riflessione porta alla luce, come se non ce ne fossero già abbastanza, una serie di complicazioni.

Il cambiamento climatico non mostra alcune delle caratteristiche tipiche delle tradizionali ingiustizie fra stati, mentre ne mostra altre che le teorie di giustizia globale tradizionali sembrano male equipaggiate ad affrontare: si tratta davvero di un problema mai affrontato prima dall’umanità: estremizzando, quasi fossero effetti della caduta di un asteroide o di una guerra nucleare.

Vediamo le differenze principali con le tematiche di sola giustizia sociale.


Primo - Una prima differenza è che molte persone, inclusi alcuni leader politici, soprattutto nei paesi industrializzati, sono, o quantomeno si dichiarano, all’oscuro degli effetti del cambiamento climatico. Per non parlare di quelli, sempre inclusi leader politici, che lo negano. Altri paesi ammettono invece che ci siano effetti molto negativi e forniscono (o si dichiarano disposti a fornire) aiuti economici o tecnologici a coloro che ne soffrono. Se il cambiamento climatico è un caso di ingiustizia fra stati, qualcosa non torna. Per chi si dichiara all’oscuro è come se un paese ne invadesse ingiustamente un altro ma senza sapere che lo ha invaso (!), e per chi ammette i rischi è come se un paese cercasse di alleviare i danni che causa ad un altro pur continuando a causarli a livello di politica di base.

Secondo - Le ingiustizie fra stati includono l’imposizione intenzionale di danni e nel caso del cambiamento climatico non è così.  Le emissioni di gas serra sono un effetto delle attività industriali di un paese e il cambiamento climatico è a sua volta un’ulteriore conseguenza. Ammettiamo che non siano volute, anche se ci sarebbe da discutere. Ogni paese aspira ad avere, se non altro per il proprio benessere, ad avere attività industriali senza produrre emissioni; lo stesso si può auspicare per evitare di non causare alcun danno a terzi. Nel caso di una guerra ingiusta o dell’imposizione di un accordo commerciale iniquo, l’intenzione è invece proprio quella di danneggiare gli altri togliendo ciò che è loro (territorio o risorse).

Terzo - L’atmosfera è del tutto indifferente ai confini nazionali e una molecola di biossido di carbonio ha lo stesso effetto sul clima indipendentemente dal luogo in cui viene emessa. Se assumiamo che parte del cambiamento climatico è in realtà un problema causato da persone ricche (quelle che guidano, mangiano carne, usano i computer, fanno lunghe docce calde e via dicendo), in qualsiasi paese esse vivano, e sofferto da persone povere in qualsiasi paese esse vivano, la prospettiva cambia radicalmente rispetto ad un’ingiustizia sociale tradizionale. Sia coloro che causano, che coloro che soffrono il cambiamento del clima, sono distribuiti in tutti i paesi del mondo (anche se in proporzioni diverse).
L’India, ad esempio, è diventata negli ultimi venti anni uno dei principali emettitori mondiali, pur rimanendo anche una delle principali vittime del cambiamento climatico. Le precipitazioni monsoniche sono sempre più abbondanti e concentrate, lo scioglimento dei ghiacciai sull’Himalaya accresce i rischi di inondazioni nella piana del Gange, e i cicloni sulle coste sono sempre più frequenti. I costi economici del riscaldamento del clima per l’India sono valutati attorno al 2% del PIL annuale da qui al 2050, ma i costi sociali e ambientali potrebbero essere ancora più gravi. Il punto è che non sono solo i ricchi americani ma anche quelli indiani (e cinesi o nigeriani, paese africano quest’ultimo che registra la crescita demografica più alta della Terra) a causare danni agli indiani più poveri (come anche agli americani più poveri). Le divisioni per stati non catturano con precisione né i colpevoli né le vittime del cambiamento climatico.

Quarto - Una quarta differenza è che la maggior parte dei casi di ingiustizia fra stati prevedono un paese che si avvantaggia a spese di un altro paese e questo può andare avanti più  meno indefinitamente. I livelli attuali di emissioni di gas serra prodotti dai ricchi della Terra, invece, non possono essere mantenuti indefinitamente, poiché le troppe emissioni di gas serra minacciano di destabilizzare le condizioni stesse che rendono una vita da ricchi possibile anche per i ricchi stessi. Un caso continuato di ingiustizia globale solitamente non indebolisce progressivamente anche chi la causa e mantiene.

Quinto - Laddove i danni, le sofferenze e le morti connesse a guerre ingiuste o altri casi emblematici di ingiustizia fra stati sono, per certi importanti versi, interamente nelle nostre mani, quelle connesse al cambiamento climatico non lo sono. Il cambiamento climatico chiama in scena un nuovo attore: l’insieme di processi e sistemi ecologici, di interazioni e feedback che chiamiamo usualmente natura, spesso ignorata anche da molti teorici della giustizia globale che, impegnati a discutere di diritti e obblighi fra umani tendono a dare per scontato (non credo inavvertitamente) che la natura offra sempre un pasto gratis. Nel caso del cambiamento climatico la natura presenta invece imperiosamente il conto (metaforicamente s’intende) e non accorda particolari dilazioni nel pagamento. Al tavolo di un’osteria i commensali possono negoziare le rispettive quote da pagare, ma c’è ben poco da negoziare quando c’è il conto da pagare. In altre parole, concettualizzando il cambiamento climatico come un problema di giustizia fra stati si tende spesso a fare i conti senza l’oste e a dimenticare che a costui non interessa come il conto viene ripartito fra i commensali, purché lo si paghi. Senza dimenticare quanto si è detto sulle enormi difficoltà che emergono nel cercare di dare un giusto valore economico alla natura.

Sesto - Un’ultima differenza fra il cambiamento climatico e casi tradizionali di ingiustizie fra stati è la natura intergenerazionale del cambiamento climatico. Pur sapendo che anche le ingiustizie globali tradizionali possono danneggiare le generazioni future (una guerra ingiusta o l’imposizione di un trattato commerciale iniquo danneggiano anche i discendenti di chi li subisce) c’è una differenza. Nel caso del cambiamento climatico, invece, la giustizia globale e quella intergenerazionale sono spesso in tensione. Per eliminare le ingiustizie connesse alla povertà globale, ad esempio, bisogna stimolare crescita economica che produrrà emissioni di gas serra che a loro volta contribuiranno a cambiare il clima, a svantaggio delle generazioni future. D’altro canto, gli investimenti finalizzati a proteggere le generazioni future dal cambiamento climatico implicano spesso costi opportunità per le generazioni presenti e in particolare per i loro membri più poveri.


[Edit] - In queste ore giunge la notizia che la Corte di Giustizia Internazionale ha emesso una storica sentenza. 

L'opinione "storica" della Corte Mondiale sul clima

 

Quando non è il momento...è proprio il momento di far polemiche!

Recentemente il Dipartimento dell’Energia (DoE) degli Stati Uniti ha pubblicato un documento intitolato “A Critical Review of Impacts of Greenhouse Gas Emissions on the U.S. Climate”. Un rapporto che rivede radicalmente il cosiddetto consenso scientifico in tema di cambiamento climatico; un documento ostentatamente contrapposto a quanto, pressoché quotidianamente, viene confermato dalle sintesi di migliaia di pubblicazioni scientifiche, e soprattutto al contenuto del Sesto Rapporto di Valutazione dell’IPCC (AR6), la sintesi più autorevole, completa e condivisa della letteratura scientifica sul clima.

La pubblicazione del DoE è volta a sostenere la recente iniziativa dell’EPA (Environmental Protection Agency) nata per confutare la “Endangerment Finding” del 2009 (rilevamento del pericolo), ossia il riconoscimento ufficiale da parte dell’EPA che la CO₂ e altri gas serra rappresentano una minaccia per la salute e il benessere pubblico, e che ha costituito, finora?, la base legale per tutte le successive politiche federali di mitigazione del cambiamento climatico negli Stati Uniti. Il rapporto del DoE rappresenta quindi il tentativo di giustificare, dal punto di vista scientifico, l’abbandono di qualsiasi politica di contenimento delle emissioni di gas serra, usando vecchi argomenti del negazionismo climatico degli ultimi 20 anni, come i presunti benefici della CO₂ per l’agricoltura, l’incertezza dei modelli climatici e le presunte esagerazioni dei danni stimati per i cambiamenti climatici. Una vera e propria manna per i negazionisti e gli scettici radicali.

Non entriamo nel merito di quel che è stato scritto, rimandandolo a quest’ottimo post apparso su Climalteranti.it. Le differenze tra AR6 e il rapporto del DoE sono emblematiche fin dal principio: a fronte delle centinaia di autori, decine di migliaia (migliaia, sì!) di revisori del processo di peer review e delle indiscusse competenze di ognuno di questi, il rapporto DoE non solo seleziona con cura gli argomenti a loro favore (cherry picking) e presenta solo quelli, ma il gruppo di autori è una manciata di nomi noti, senza competenze specifiche nei temi trattati, che rappresentano bene i negazionisti a tavolino, direttamente stipendiati dall’industria e dagli imprenditori del settore fossile. È una delle tante conseguenze del secondo mandato Trump. E andando anche solo a confrontare gli argomenti principali, quanto il DoE cerca di ammantare di veridicità scientifica si scopre infine essere i soliti argomenti ripetuti fino alla nausea e facilmente confutabili.

Un ulteriore approfondimento sul rapporto del DoE è disponibile in quest'altro mio post.

Il punto su cui vorrei soffermarmi è però un altro. Perché la comunità scientifica, a parte poche voci isolate, tutto sommato non reagisce come ci si attenderebbe? Qualche voce c’è, per lo più dei soliti nomi, che magari si sentono direttamente coinvolti perché, come vedremo, in passato furono oggetto di attacchi diretti, ma per resto è silenzio.

E soprattutto, perché la gente comune riceve le menzogne dei negazionisti da innumerevoli fonti mediatiche, amplificate dai social, mentre le smentite e le posizioni scientifiche sono lette dai soliti pochi convertiti perché diffuse su poche testate specialistiche?

Quanti leggono Nature o National Geographic a fronte dei miliardi che leggono Facebook o X?

Con l’uso della radio, della televisione, e ora di Internet, si ha l’impressione che ciascuno possa far sentire la propria voce e possa essere sicuro che sarà riferita e citata, che dica il vero o il falso, cose sensate o ridicole, ben intenzionate o malevole. Internet ha creato un’informazione che assomiglia a una sala degli specchi, in cui ogni affermazione non importa quanto assurda, può essere moltiplicata all’infinito. E su Internet la disinformazione non muore mai, una vera e propria barbarie elettronica, un ambiente in cui tutti navigano e non esiste un porto sicuro. Un pluralismo impazzito.

Ma perché gli scienziati non protestano?

Se le argomentazioni riportate nel rapporto DoE, o in dozzine di altre pubblicazioni ammantate di un’aura di scientificità, erano politica camuffata da scienza, posizioni ideologiche, opinioni non suffragate da fatti, perché gli scienziati tacciono così come in passato tacevano quando attacchi ben congegnati e costruiti negavano i danni da tabagismo o il cosiddetto buco nell’ozono? Perché la comunità scientifica è rimasta immobile?

Ci sono alcune eccezioni, come la presa di posizione del climatologo Michael Mann su questo caso, che ha dichiarato trattarsi di «una narrazione antiscientifica, basata su argomentazioni ingannevoli e dati travisati» o, in passato, la totalità dei climatologi che difese un loro notissimo rappresentante; ma i casi di scienziati che combatterono sono davvero pochi. Sono voci, sfortunatamente, isolate. 

Ci fu persino chi vide rovinata la propria vita e la propria carriera perché non aveva i mezzi per affrontare cause giudiziali a seguito di querele ricevute da potenti esponenti dell’industria o scienziati corrotti al soldo di questa.

Ovviamente, gli scienziati sanno, e sapevano, che molte delle affermazioni dei negazionisti erano false. Perché non hanno fatto di più per respingerle? Perché gli scienziati non hanno cercato di smantellare l’artificiosa falsità dell’industria della menzogna?

Una delle ragioni ha a che fare con il complicato e particolare ruolo dei rapporti tra individui e gruppi della comunità scientifica. Gli scienziati sono fortemente motivati dagli elogi e dal prestigio personale che consegue da una scoperta importante ma, al tempo stesso, non amano esporsi alla mondanità. In primo luogo perché la scienza moderna è innanzi tutto frutto di un lavoro di gruppo, e nessuno dei membri di un gruppo di ricerca, fosse anche composto soli due individui, vorrebbe rivaleggiare in termini di presenze o citazioni. Ma soprattutto perché è il consenso degli altri, degli esperti, che conferisce alla conoscenza, alle nuove scoperte, il bollino di scienza, anche se scaturita dal genio o dalla creatività di un singolo. Nel mondo moderno, ogni scoperta scientifica quasi sempre è il risultato di uno sforzo collettivo che comprende diverse dozzine, in qualche caso centinaia, di ricercatori. E sono proprio enti come l’IPCC che, come in questo caso, cercano di sintetizzare il lavoro di migliaia di studiosi, che fa da loro portavoce, sotto forma di ente ufficiale di rappresentanza. Nessuno scienziato serio, per timore di essere censurato e per innata modestia, si sogna di esporsi parlando a nome dei suoi colleghi, anche per evitare che si pensi che voglia attirare su di sé l’attenzione. Fa parte dei principi di comunicazione scientifica di cui abbiamo parlato.

Le società scientifiche hanno cercato di risolvere questo problema preparando delle dichiarazioni formali sul cambiamento climatico che riflettono il sapere collettivo dei loro membri. Queste dichiarazioni, per usare un eufemismo, tendono a essere molto asciutte e risultano spesso indecifrabili per una persona normale. Chi di noi ha letto o leggerebbe centinaia di pagine di sommario, men che mai le migliaia di pagine del rapporto completo? Se pochissimi sanno dell’esistenza di enti come UNFCCC o il WMO, l’EPA o il DoE è già grasso che cola. Sulle pagine dei loro siti web ci si può già fare un’idea delle loro posizioni sul cambiamento climatico.

È quindi fondamentale che qualcuno o, meglio, un qualcosa in forma di ente rappresentativo, riassuma e provveda a comunicare. Come già ben sapevano i fondatori del primo ente di rappresentanza della comunità scientifica inglese, la famosissima Royal Society, fondata nel 1665 e inventrice della procedura della peer review.

Occorre inoltre tener conto che gli scienziati lavorano per produrre conoscenze in ambiti molto specifici, ma di solito non sono preparati a comunicarle, specie al pubblico più vasto, e sono ancor meno preparati a difendere i loro lavori scientifici contro avversari determinati e ben finanziati. Spesso, non hanno né la predisposizione né la voglia di farlo. Fino a poco tempo fa la maggior parte degli scienziati non era particolarmente desiderosa di comunicare. Pensavano che il loro lavoro fosse quello di produrre conoscenza, non quello di divulgarla, e molti considerano queste attività come inconciliabili tra loro. Non sono stati pochi i casi di scienziati che hanno preso in giro dei colleghi che facevano divulgazione.

La dedizione degli scienziati nei confronti della competenza e dell’obiettività li pone in una posizione delicata quando si tratta di respingere affermazioni palesemente false. Devono inoltre evitare di entrare in discussioni che li portino su argomenti politici, per non rischiare di essere accusati di politicizzare la scienza e di mancare di obiettività. Si crea un paradosso comunicativo: la richiesta di essere obiettivi suggerirebbe di tenersi fuori da argomenti controversi ma, se lo fanno, nessuno potrebbe conoscere qual è la versione obiettiva e scientifica dell’argomento in questione. E ancora, amaramente, evitano come la peste di vedersi invitati a confrontarsi col tuttologo di turno, del tutto ignorante in materia, nel tentativo mediatico di creare l'illusione che esista un dibattito.

Gli scienziati temono di essere coinvolti perché hanno visto che cosa può succedere loro, come nel caso del già citato climatologo. Nel 2005, Michael Mann, ricercatore presso la Pennsylvania State University, ha subito un attacco furibondo da parte di un membro del Congresso americano, Joe Barton del Texas, che chiedeva che Mann fornisse informazioni dettagliate sulle fonti di supporto alle sue ricerche, sui server dove erano memorizzati tutti i suoi dati e molto altro: nonostante i lavori scientifici oggetto dell’indagine erano già stati pubblicati in riviste peer review, e non c’erano prove che Mann avesse fatto qualcosa di sbagliato, fornendo una delle prove inoppugnabili che la Terra si stava riscaldando rapidamente. 

Attacchi come questi hanno un effetto paralizzante. Alcuni scienziati, durante le discussioni che si tengono nelle sessioni dell’IPCC, sono riluttanti a presentare affermazioni troppo nette sulle evidenze scientifiche disponibili per paura che i negazionisti possano attaccarli. In un articolo comparso su «Scientific American» si evidenzia come i climatologi sottovalutino la gravità e la velocità dell’emergenza climatica per evitare di sbagliare ed essere messi alla berlina dai negazionisti e spesso i rapporti ufficiali tendono a sottovalutare i potenziali pericoli climatici: è eccesso di prudenza o uno dei pilastri del metodo scientifico, non un sinonimo di ignoranza? Altri preferiscono riportare stime per difetto perché ciò li fa sentire più sicuri. 

Le campagne di intimidazione, evidentemente, funzionano.

L’incertezza c’è, va detto con chiarezza, ma riguarda solo alcuni aspetti della scienza del clima. Non riguarda le cause – ormai largamente comprese – ma piuttosto gli scenari futuri, influenzati dalla grande complessità del sistema climatico. È per questo motivo che i rapporti IPCC si basano su decine migliaia di studi scientifici, dando molta importanza alla interconnessione tra vari elementi, all’esplorazione di scenari poco probabili e alla comunicazione delle incertezze.

Ma l’incertezza non dovrebbe spingerci all’immobilità, al contrario dovrebbe stimolarci all’azione su ciò che possiamo controllare, ovvero le nostre emissioni di gas serra. Perché è proprio sulla strumentalizzazione dell'incertezza, motore primo del metodo scientifico, che i costruttori della menzogna, i mercanti di dubbi come li definirono Oreskes e Conway nel loro libro del 2010, basano le loro strategie,

Forse il motivo più comprensibile per cui gli scienziati non vogliono essere coinvolti nelle polemiche è perché amano la scienza, e pensano che la verità alla fine avrà il sopravvento. È il loro lavoro, un lavoro davvero eccezionale, quello di capire quale sia la verità. Qualcun altro è senz’altro più bravo a divulgarla ed a comunicarla con maggiore efficacia. E se c’è chi va in giro a seminare spazzatura, che se ne occupi qualcun altro. È comprensibile che gli scienziati trovino anomalo perdere tempo per occuparsi di questioni del genere. Fin dal 1983, in tema di cambiamento climatico, o di numerosi altri temi d'interesse universale, gli scienziati sapevano che i tentativi di negazione erano spazzatura, e per questo li ignorarono. Disgraziatamente, la spazzatura non se ne va da sola e qualcuno deve occuparsene: i giornalisti in primo luogo, coloro che danno notizia delle scoperte scientifiche, supportati dagli organi professionali che rappresentano i diversi campi della scienza, e infine ognuno di noi può e deve contribuire a lasciare il giusto messaggio, opponendosi allo scetticismo radicale, alla negazione e soprattutto all’idiozia.

Non è vero, come da tempo immemore sostiene la propaganda negazionista, che il problema del riscaldamento globale non può essere risolto e possiamo solamente adattarci. Le soluzioni esistono. Il riscaldamento globale è un problema enorme, ma per risolverlo dobbiamo per prima cosa smettere di prestare ascolto alla disinformazione e di trastullarci in attesa di chissà cosa. Personalmente non posso fare molto, e considero questi miei post in tema di cambiamento climatico, il mio contributo minimo alla confutazione della negazione. 

Abbiamo bisogno di una conoscenza più precisa di ciò che è la scienza, dobbiamo sapere come riconoscere la vera scienza quando la incontriamo, e come dobbiamo fare per separarla dalla spazzatura.