L’uso
massiccio di combustibili fossili, necessario per sostenere la crescita dei
processi industriali a partire da circa due secoli fa, ha riversato in
atmosfera quantitativi di gas serra tali da modificare profondamente il clima
della Terra; consumo del suolo e deforestazione hanno dato il colpo di grazia
con quegli stessi processi industriali che, laddove presenti, hanno consentito
e – anche se non ovunque – sostenuto la crescita demografica oggi registrata.
Il risultato è un cambiamento climatico con un marcato riscaldamento senza
precedenti, a coinvolgere i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta.
Ne ho scritto su queste pagine numerose volte e da numerosi punti di vista.
Il cambiamento climatico, così come
definito dal punto 2 dell’Art. 1 della
costituzione della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) è innanzi tutto un
fenomeno ecologico; causato dall’innalzamento della temperatura media
dell’atmosfera terrestre, o meglio, della sua parte a diretto contatto con la
superficie, la troposfera. Tale aumento è già mediamente superiore ad un grado
centigrado più alto di quanto non fosse a cavallo tra XVIII e XIX secolo,
inizio dell’era industriale, e nel corso di quest’anno si sono sfiorati i 2 °C. Le premesse ecologiche del cambiamento
climatico sono un’aumentata concentrazione di gas serra nell’atmosfera e una diminuita capacità da parte dei
sistemi naturali di assorbirli. La causa dell’aumento è l’uso massiccio di
combustibili fossili allo scopo di fornire l’energia necessaria ai processi
industriali che, dal 1800 in poi, hanno permesso più alti livelli di consumi e
di benessere alla crescente popolazione mondiale. Nell’arco di un paio di
secoli, l’uso intenso di combustibili fossili quali fonti di energia ha alzato
la qualità di vita di miliardi di persone, alterando però sistemi naturali che
erano stati largamente stabili per migliaia di anni, un cambiamento talmente
rapido da meritarsi, per qualcuno, una distinzione in termini di cronologia
geologica: l’Antropocene. Le implicazioni ecologiche del cambiamento climatico
potrebbero andare da modificazioni di ecosistemi relativamente blande e sparse
a massicce catastrofi di portata planetaria, compresa un’estinzione di massa, la sesta,
ampiamente documentata. Il cambiamento del clima è un problema senza
precedenti, che coinvolge i sistemi ecologici fondamentali del nostro pianeta e
pone minacce multiple, probabilistiche, dirette ed indirette, spesso invisibili
e senza limiti spaziali o temporali.
L’incertezza principale sugli
scenari si lega all’incertezza dell’efficacia delle politiche di mitigazione. O
agiamo tutti insieme, a livello globale, o gli sforzi individuali saranno
trascurabili. Per quanto lodevole nessuna iniziativa locale o personale fa la
differenza. È come trovarsi su una barca che sta imbarcando acqua: l’azione di
un singolo che svuota l’acqua con un secchio non serve granché, ma se nessuno
inizia affonderanno tutti. Solo uno sforzo collettivo può evitare i danni
peggiori del riscaldamento globale.
Ciò nonostante, la maggior parte dei paesi al mondo è lontana dalla cosiddetta
decarbonizzazione, la
cooperazione internazionale vacilla e non sembra si abbiano gli strumenti
tecnologici per contrastare il fenomeno con successo a discapito delle attuali
conoscenza e tecnologia che già offrono la maggioranza delle risposte al da
farsi per iniziare un serio e condiviso processo di mitigazione. Le difficoltà di gestione non sono solo il
risultato di mancati accordi internazionali e scarsa volontà politica, ma
rispondono anche a effettive difficoltà nel concettualizzare il problema
climatico, applicare ad esso ciò che deriva da democrazia e responsabilità, contrastarlo. Prima
ancora di dimostrare volontà condivisa sembra ormai tracciata una duplice
natura del fallimento, politica e internazionale da un lato, e domestica, quest’ultima
declinata in dozzine di modi tante sono le diverse realtà locali e culturali.
In questa prima parte tratteremo
della prima che condurrà, purtroppo, a dipingere un quadro piuttosto desolante
e deludente.
Anticipando e riassumendo eventuali conclusioni la
possibilità che si possa governare il cambiamento climatico, appare
sempre più utopica. Una flebile speranza deriva dal riconoscere che moltissimo
si è fatto quando si presentò il problema della riduzione dei danni allo strato
dell’ozono, e parecchio, anche se non tutto, quando si dovette procedere con
urgenza alla limitazione dei danni provocati dalle piogge acide.
Sono esempi virtuosi e importanti che, stabilito che
esistono rischi notevoli per la popolazione umana, soprattutto quella già
provata da difficoltà aventi altre origini, ci fanno ben sperare,
unitamente al ruolo che potranno avere nuove tecnologie.
Tuttavia, di fronte allo stato di fatto delle
iniziative globali e delle loro auspicate ricadute sui governi locali, soprattutto
quelli dei paesi ricchi, al cospetto dei continui conflitti armati che anziché
diminuire aumentano di anno in anno (ad oggi
se ne contano 56!), permangono sentimenti di disillusione e sgomento, che
certamente non aiutano e inducono, come ho avuto modo di scrivere recentemente,
ad una sorta di catastrofismo
climatico da un lato, e all’inazione
dall’altro. Atteggiamenti entrambi pericolosi e da contrastare.
Il fallimento internazionale
Già all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, ancora prima per molti aspetti, alla comunità scientifica internazionale era chiaro, oltre ogni
ragionevole dubbio e dati alla mano, che il modo migliore per affrontare il
cambiamento climatico fosse modificare le nostre fonti di energia, non
un’azione drastica ma maledettamente ovvia.
Anche il resto del mondo era di questo parere, e i
leader governativi e le ONG decisero di incontrarsi a Rio de Janeiro, in
occasione dell’Earth Summit delle NazionI Unite. Nel giugno del 1992, tutti gli allora 192 stati
erano rappresentati, erano presenti 108 capi di stato, 2.400 rappresentanti di
organizzazioni non governative e più di 10.000 giornalisti, mentre altre 17.000
persone presero parte a un forum parallelo delle ONG, per affrontare il
problema del cambiamento climatico antropogenico. Fu letteralmente la più vasta riunione di capi di stato mai vista. Emblematica la presenza persino dell’allora
presidente USA, George H. W. Bush, scettico e condizionato da informazioni
manipolate, rinviata di giorno in giorno, ma che lo vide volare a Rio de
Janeiro all’ultimo minuto firmare la UN Framework Convention on Climate Change
(UNFCCC), che impegnava i firmatari a evitare «pericolose interferenze
antropiche sul sistema climatico». Bush promise di tradurre il documento in
«azioni concrete atte a proteggere il pianeta». Nel marzo del 1994, 192
Paesi avevano siglato la convenzione quadro che entrò così in vigore.
Analogamente alla Convenzione di Vienna (1985) sulla
protezione dello strato di ozono, la UNFCCC, non avendone il potere, non
stabiliva vincoli o limiti alle emissioni: era un accordo su linee di
principio, punto di partenza per qualsiasi altra iniziativa. I limiti
effettivi sarebbero stati determinati più avanti, in un protocollo che venne poi firmato a Kyoto, in Giappone, nel 1997. Al
crescere della possibilità che fosse necessario attuare delle regolamentazioni,
cresceva, assumendo maggior impatto sociale e mediatico, la costruzione a
tavolino del negazionismo climatico, talmente forte che nonostante fossero già
allora chiarissime cause e contromisure, ancora oggi vengono riciclati gli
stessi argomenti, falsi.

L’evento segnò quindi la nascita di una coscienza ambientale globale e definì le linee guida per una transizione condivisa
ed efficace verso nuove forme di crescita economica, sostenibili. Un bel sogno: il nord e il
sud globale del mondo mano nella mano; quest’ultima parte dell’umanità da
sempre ignorata e che oggi, a comprendere minoranze che non necessariamente
vivono a sud dell’Equatore ed altre comunità emarginate, è stato chiamato MAPA, Most Affected People and Areas. Paesi industrializzati,
emergenti e in via di sviluppo, uniti per proteggere insieme il pianeta e i
suoi abitanti più vulnerabili. Il sogno di una trasformazione globale dei
valori, fuori dalle ideologie politiche divisive che avevano segmentato il
mondo fino a pochi anni prima e verso comuni obiettivi globali.
Si fantasticava intorno a stati in grado di assumersi
obblighi reciproci e vincolanti, in uno sforzo comune teso a proteggere
l’ambiente, trasferendo benessere e benefici ai paesi emergenti e in via di
sviluppo, ma soprattutto teso a proteggere le generazioni a venire, nel
rispetto di un antico proverbio Navajo che dice che «non ereditiamo la terra dai nostri antenati,
ma la prendiamo in prestito dai nostri figli». Un sogno di garanzia di libertà per tutti, per onorare
l’uguaglianza di fondo tra ricchi e poveri e promuovere fraternità tra le
generazioni. Un bel sogno rimasto tale. Come ebbe a dire il filosofo inglese
Isahia Berlin «la libertà dei
lupi significa la morte degli agnelli».
Pochi anni dopo, per esempio, il vecchio continente fu
risvegliato drammaticamente dal sogno dell’annullamento della contrapposizione
est-ovest, ancorché festeggiato con l’unificazione delle due Germanie, dal
sanguinoso conflitto nella ex Yugoslavia.
Fin dall’inizio emersero gravi opposizioni e contrasti.
Una tra queste e su tutte fu quella che ha caratterizzato, e continua a farlo,
ogni tentativo di gestione climatica globale: l’opposizione tra i paesi
industrializzati (Stati Uniti, Comunità Europea, Giappone, Canada, Australia e
Nuova Zelanda) e i paesi emergenti e in via di sviluppo, rappresentati
all’interno dell’ONU dal Gruppo dei 77 (G77), nato nel 1964 proprio per promuovere la crescita
economica dei propri membri. Le posizioni all’interno di questo gruppo sono
molteplici e spesso in contrasto: se ad esempio abbiamo da un lato
rappresentati i piccolissimi stati isola dell’Oceania, che magari rischiano
di finire sott’acqua per l’inevitabile innalzamento del livello medio dei mari,
e che quindi chiedono un’azione istantanea da parte di tutti, d’altra parte
abbiamo nello stesso gruppo anche la cordata dei paesi produttori di petrolio,
che avversano invece qualsiasi mossa possa intaccare la loro principale fonte
di reddito e gettano dubbi sui dati scientifici sul clima; ci sono poi giganti
emergenti come Brasile, India e Cina (la quale però non è un membro del G77 ma
un osservatore invitato speciale). Senza dimenticare che alcuni di
questi hanno creato, in tempi recenti e a complicare parecchio il quadro, il
cosiddetto BRICS. Su una cosa sono comunque tutti concordi: la richiesta
di aiuti sia finanziari che tecnologici ai paesi industrializzati e il rifiuto
di sottoscrivere accordi vincolanti per i propri membri prima che lo avessero
fatto i paesi industrializzati. Questa opposizione ha caratterizzato l’intera traiettoria della diplomazia
del clima e continua ancora oggi.
Giustificare l’idea che i paesi industrializzati
debbano fare di più, contro il cambiamento climatico, di quelli emergenti e in
via di sviluppo, è apparentemente abbastanza ovvio: i paesi industrializzati
hanno storicamente contribuito all’innalzamento delle temperature molto più di
quanto abbiano fatto i secondi. La Cina ad esempio, spesso e non a torto, è annoverata
tra i paesi che più contribuiscono all’emissione di gas serra, ma non lo è storicamente
rispetto agli Stati Uniti, né come quantitativo pro capite (USA e Canada
15 t/anno pro capite, Cina 8, UE 5). I paesi industrializzati, hanno tratto
indiscutibilmente beneficio, in termini di aspettativa e qualità della vita, dalle
attività che hanno causato l’innalzamento delle temperature, anche se queste
ultime non tendono a rappresentare un beneficio. I paesi emergenti chiedono
quindi, richiamandosi a principi di equità, che anche loro possano beneficiare
innanzi tutto di energia a costi inferiori a quelli delle cosiddette
alternative, a favorire e migliorare le aspettative e la qualità di vita dei
loro cittadini, utilizzando gli stessi schemi di sviluppo dei paesi
industrializzati: schemi basati
essenzialmente su circuiti industriali alimentati da combustibili fossili. Inoltre, i paesi industrializzati hanno a
disposizione più fondi e conoscenze di quelli emergenti e in via di sviluppo, e
sono dunque quelli più capaci di sostenere i costi delle politiche di contrasto,
mitigazione e adattamento. Infine, molti degli abitanti dei paesi emergenti e
in via di sviluppo, molti di più che non in quelli industrializzati, sono
esposti e vulnerabili agli effetti potenzialmente peggiori del cambiamento
climatico, essendo poveri e dunque più direttamente dipendenti dagli ecosistemi
per il proprio sostentamento nonché generalmente meno equipaggiati per
adattarsi a mutate condizioni.

Sembra ancora maledettamente ovvio: per considerazioni di responsabilità
storica, equità, capacità e vulnerabilità sono dunque i paesi ricchi, il nord
del mondo, che devono condurre e finanziare la lotta al cambiamento climatico,
almeno in una prima fase. I paesi emergenti e in via di sviluppo devono poter
avere maggior margine per alzare le aspettative e qualità di vita dei loro
cittadini attraverso schemi di sviluppo energizzati da combustibili fossili,
considerando il loro contributo proporzionalmente molto ridotto rispetto al
resto del mondo; raggiunto quell’obiettivo, però, devono anch’essi mettersi in
linea con gli altri - gli industrializzati già decarbonizzati - pena il
fallimento dell’intera operazione. Responsabilità comuni quindi, ma
differenziate, necessarie a garantire stabilità politica, ambientale e
giustizia sociale. Questo, a grandi linee, è il principio di responsabilità comuni ma differenziate, fondamento delle relazioni internazionali sul clima.
È un principio che esplicita considerazioni non solo di stabilità politica ed
eco-sistemica ma anche e soprattutto di giustizia globale.
La prova della ovvietà di questa differenziazione?
L’1% più ricco della popolazione mondiale (rapporto Oxfam “Climate Equality”, novembre 2023) è responsabile
del 16% delle emissioni globali di carbonio. Lo stesso quantitativo
prodotto dal 66% più povero dell’umanità. Un altro indicatore dello
stile di vita insostenibile, come quando si dice che uno svizzero consuma 10
volte più di un eritreo.
Un’azione climatica davvero efficace deve introdurre e
partire dalla più grande delle emergenze: le disuguaglianze economiche.
Omettere dal quadro generale tutti gli aspetti di giustizia sociale e
redistribuzione delle risorse non porta da nessuna parte. Se l’umanità non capirà che la transizione energetica
è innanzi tutto un problema sociale non sarà mai davvero conscia della gravità
del cambiamento climatico.
Un altro bel sogno?
Fu questo il principio adottato a Rio. Ma ad oggi non si è riusciti nemmeno a
definire una realizzazione pratica che soddisfi tutti, peggio che nelle
peggiori riunioni di condominio che arrivino a sfiorare la rissa. Financo
l’accordo di Parigi del 2015, primo risultato
di una delle tantissime COP (di cui ho trattato…) in cui non si cercava una soluzione comune
negoziale sul clima ma si lavorava per dare forma alle proposte dei singoli
paesi, senza costringere nessuno a fare più di quanto volesse. Ciò nonostante,
quell’accordo non fu giudicato equo da alcuni paesi, chi perché lo giudicava
troppo blando e chi, guarda caso gli USA che, dopo averlo promosso e
sottoscritto, lo hanno rimesso in discussione perché troppo oneroso. Sono
passati decenni e ancora oggi abbiamo ad esempio le posizioni espresse dal
secondo mandato Trump.
Problemi pratici
Una lunga parabola fallimentare per la diplomazia del
clima. Dalle negoziazioni embrionali di Rio nel 1992 a quelle di Copenhagen nel
2009, la difficoltà in cui continua a trovarsi anche dopo l’accordo di Parigi
del 2015, le dichiarazioni d’intenti, altissime e nobilissime che ad
ogni COP si ripetono stancamente, illumina alcune difficoltà strutturali in cui
si è venuta a trovare la governance globale negli ultimi trent’anni; non
solo sul clima ma, con specificità diverse, anche su altri temi come la
proliferazione nucleare e le regole del commercio internazionale (e qui nulla
di più emblematico che le decisioni attuali di Trump). Il caso del clima
è però particolarmente vivido e dunque istruttivo, nonché il più grave.

Una prima difficoltà è che sulla scena globale ci sono molti nuovi attori di
peso, il cui consenso e cooperazione sono oggi non solo desiderabili, come
erano nel passato, ma assolutamente imprescindibili. Paesi emergenti come Cina,
Brasile, India, Russia, Sudafrica, Indonesia e Messico producono enormi
quantità di gas serra e, in assenza di accordi globali efficaci che li
limitino, ne produrranno sempre di più in futuro; con un distinguo sulla
Cina, perché questo grande paese ha un piano ambizioso di
decarbonizzazione che, per quanto se ne sa, ha avviato da tempo e intende
rispettare. Ad oggi però non c’è modo di contrastare il cambiamento climatico
se questi paesi non collaborano, e più tempo passa più il valore della loro
collaborazione aumenta. Questi paesi non collaboreranno se non in termini che
siano per loro economicamente e politicamente accettabili. Il quadro è
ulteriormente complicato dal fatto che la stessa logica si applica anche nei
casi dei paesi già industrializzati e di quelli che ancora devono emergere: il
cambiamento climatico accresce il valore e dunque il costo della cooperazione
di ogni stato.
Inoltre, la gestione del cambiamento climatico non è unicamente nelle mani
degli stati. Attori globali come aziende multinazionali, banche d’investimento,
WTO, IMF
e varie compagini che operano al di sopra dei livelli governativi dei vari
stati, tra questi o a loro margine, sono tutte coinvolte nella governance del
clima in modi sia diretti che indiretti. Una moltitudine di attori molto
diversi fra loro e le cui agende non necessariamente coincidono devono
accordarsi su una questione estremamente complessa, che comincia solo ora ad
essere compresa e che non è concettualizzata da tutti nello stesso modo.
Se il cambiamento climatico è un problema geopolitico, allora servono nuovi accordi ed istituzioni globali che funzionino. Se è un fallimento di mercato allora
ci vogliono tasse sulle emissioni e/o un mercato che assegni loro un prezzo. Se
il problema è soprattutto tecnologico allora serve un programma d’energia
pulita o forse di geoingegneria. Se il cambiamento climatico è solo l’ultimo modo in
cui i ricchi danneggiano e opprimono i poveri allora bisogna rinnovare la lotta
per la giustizia globale, e via discorrendo. Il problema è che quanto più
aumentano gli argomenti tra loro relazionati e tutti plausibili, tanto più i
sistemi politici tenderanno ad evitarli perché sanno già che sarebbe
impossibile gestirli, con i diversi attori coinvolti, ognuno con la propria
soluzione in ambiti diversi e ognuno con la propria visione di successo o di
fallimento.

Una seconda difficoltà è la complessità stessa della questione. In qualunque
modo lo si concettualizzi, il cambiamento climatico non è un semplice problema
ambientale ma una condizione ecologica dalle innumerevoli premesse e
implicazioni politiche, economiche e sociali. È un problema multidimensionale
che affonda le sue radici nel modo stesso in cui viviamo e chiama in causa
questioni di demografia, sviluppo, investimenti, commercio, uso delle risorse,
consumi, urbanistica, mobilità, educazione, salute, sicurezza, migrazione e
molto altro. Ognuno di questi domini è competenza di questa o quella
organizzazione internazionale, o di questo o quel dipartimento delle Nazioni
Unite, o di questo o quel Ministero in questo o quello stato. C’è un alto grado
di interconnessione fra questi attori, a cui non corrisponde però un grado
egualmente alto di integrazione
operativa. Non si riesce a procedere senza
consultare ciascuno degli organi che invoca giurisdizione su un dato dominio,
ma poiché nessun dominio può essere gestito efficacemente senza che vengano
chiamati in causa anche gli altri e senza che si agisca a vari livelli di
organizzazione sociale (locale, nazionale, regionale, globale), ciascuno degli
organi preposti vede la propria competenza sfumare in quella altrui - e con
essa le proprie responsabilità.
Una terza difficoltà deriva dal fatto che le istituzioni, nate per
omogeneizzare i loro domini di competenza e dar luogo ad aspetti unitari, hanno
rimodellato i domini stessi: appaiono quindi difficoltosi i tentativi futuri di
governarli in modi che non siano inquadrati all’interno del percorso già
intrapreso. In altre parole, si tende a mantenere lo status quo e questo
crea ostacoli a fronte di problemi di nuova generazione. Nuovi problemi
richiedono nuove istituzioni con nuove soluzioni e non modellare il nuovo con
strumenti e soluzioni già a disposizione. Si pensi a quel che accade, anche
solo a livello locale, durante gli eventi di precipitazioni estreme che portano
ad inondazioni e dissesto idrogeologico: spesso si è usato e reagito con istituzioni perfettamente adattate…ad un clima
che non c’è più.
E c’è un esempio analogo che viene dal passato. Nel
1987, dopo anni di susseguirsi di prove a sostegno che i composti chimici
chiamati (oggi impropriamente) “clorofluorocarburi” (CFC) e dopo che nel 1985
fu pubblicato un articolo su Nature (gli scienziati conoscevano il problema fin
dagli anni Settanta), a Montreal venne stabilito un protocollo che riuscì a
proibire, velocemente e permanentemente, la produzione e l’uso di molti dei
clorofluorocarburi, stante le prove che fossero i diretti responsabili
dell’assottigliamento e del cosiddetto buco dell’ozonosfera. Fu un trionfo: l’allora Segretario
Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, lo definì: «un esempio di
eccezionale cooperazione internazionale; probabilmente l’accordo fra stati più
di successo».
Sulla falsa riga del Protocollo di Montreal i primi approcci del 1992 a Rio
furono dello stesso tipo. Partendo dal presupposto che, se un fattore
individuabile causa il problema (i clorofluorocarburi in un caso, i gas serra e
in particolare il biossido di azoto nell’altro), lavorando esclusivamente
sull’eliminazione di quel fattore si risolverà il problema.
Per l’ozono è più o meno vero, ma non per il clima.
L’assottigliamento e il buco dell’ozono erano problemi ostici ma con soluzioni
definite e definitive. Il cambiamento climatico è invece un problema
configurato dall’interazione di una moltitudine di sistemi aperti, dislocati a
diversi livelli ecologici e sociali, che operano su scale spaziali e temporali
diverse, e che sono conosciuti ognuno in modo solo incompleto. Una seconda
differenza tra il caso dell’ozono e quello del clima è che le emissioni di CO2
non sono, come i CFC, un dettaglio prontamente ritrattabile: sono il risultato del
nostro attuale modo di vivere. L’intero sistema di infrastrutture di produzione
e consumo mondiale è impostato sull’uso di combustibili fossili: per
contrastare il cambiamento climatico bisogna ridiscutere modalità e strutture
di tutto ciò che facciamo.
Per i CFC l’industria chimica seppe trovare
rapidamente (dopo il divieto di produzione e utilizzo) alternative più efficaci
e addirittura meno costose e, incredibile ma vero, i consumatori mostrarono
estrema sensibilità al problema ambientale, cambiando abbastanza rapidamente le
loro abitudini prima ancora che venissero emanate leggi restrittive; per i gas
serra invece la cosiddetta transizione energetica, soprattutto a livello
industriale, ha mostrato fin dall’inizio, i suoi aspetti più ardui da
affrontare.
In uno scenario così complesso e confuso la diplomazia
del clima si è occupata di negoziare quante emissioni ogni paese potesse o non
potesse produrre. Configurare quote in questo modo, senza ridiscutere e dunque
lasciando invariati i metodi stessi con cui l’oggetto quotato viene prodotto,
significa inevitabilmente imporre riduzioni. Ridurre le emissioni, dati i
metodi attuali di produzione e consumo, significa frenare la crescita economica.
Ma soprattutto, con quale autorità se non una sorta di etica sovranazionale,
controllare i quantitativi negoziati?
Tra l’altro, ancora dal passato, voglio ricordare che
quando si dovette affrontare il problema delle cosiddette piogge acide, l’allora amministrazione USA (Reagan) pensò di utilizzare diritti
di emissione trasferibili, col governo che avrebbe potuto determinare la
quantità massima di inquinamento ammessa, e quindi assegnare o vendere il
diritto a inquinare a soggetti che a loro volta avrebbero potuto usarlo,
venderlo o scambiarlo. Qualcosa di simile agli odierni carbon credits. Ma
il problema principale con cui il mercato dovette confrontarsi fu questo: che valore ha la natura? Secondo molti economisti i problemi ambientali, come l’inquinamento ad
esempio, sono un chiaro esempio di fallimento del mercato: i danni collaterali
costituiscono un costo nascosto che non viene riflesso nel prezzo di un dato
bene o servizio.

Anziché concentrarsi sui processi necessari a
raggiungere determinati risultati si è puntato l’indice su rinunce individuali
che nessuno vuole attuare, rendendo ogni nazione antagonista di tutte le altre.
Si è dato per scontato, e si continua spesso a farlo, che si potessero
costruire accordi efficaci sul clima senza occuparsi anche di questioni più
ampie, in particolare quelle connesse alla disuguaglianza globale. Come pensare
infine che possa essere possibile mantenere il controllo delle emissioni sia da
parte di un utopico organismo centralizzato, quando all’interno delle stesse
nazioni si susseguono continuamente cambi della classe dirigente? In
breve: nuove distribuzioni globali di potere, la complessità del problema
climatico, l’affastellarsi di competenze isolatamente impotenti ma non
sistemicamente integrate e la tendenza tipica delle istituzioni ad affrontare
problemi nuovi con metodi vecchi hanno concorso a causare uno dei fallimenti
politici più evidenti nella storia della governance globale e forse
dell’umanità intera.
Problemi concettuali
Stante la validità del principio di responsabilità comuni ma differenziate, fondamenta
delle relazioni internazionali sul clima dal loro inizio, si riconosce che il
problema climatico è comune e si devono ripartire le responsabilità in modo
condiviso ma proporzionale. Questo principio presenta la gestione del
cambiamento climatico anche come una questione di giustizia globale (intesa
come giustizia fra stati) e implica che i paesi industrializzati, i ricchi,
debbano fare di più contro il cambiamento climatico e che debbano farlo prima. Tutto
ciò ricorda molto da vicino la giustizia sociale ricercata da chi sostiene la
necessità in termini di ridistribuzione delle risorse, della ricchezza. E ne
dipinge in anticipo scenari piuttosto utopici.
Ad ogni modo, a fondamento del principio ambientale stanno
almeno quattro ordini di considerazioni di giustizia: responsabilità storica,
equità, capacità e vulnerabilità.
Questi quattro elementi sono, guarda caso, gli stessi alla base dello stato
attuale di moltissimi paesi poveri, giunti al terzo millennio dopo secoli di
vicissitudini e sfruttamento causati da colonialismo e neocolonialismo. Forse è
per questo che molti accademici credono che pensare il cambiamento climatico
come un problema di giustizia fra stati sia teoricamente rassicurante e
sufficiente, e dipingono così il fenomeno come un caso speciale a cui applicare
schemi teorici consolidati. Il paradigma della giustizia globale è molto
apprezzato anche dai politici, particolarmente da quelli che rappresentano i
paesi più poveri. Per coloro che sono svantaggiati dall’attuale ordine mondiale
il linguaggio della giustizia globale offre una sorta di soft power.
Costoro presentano il cambiamento climatico come una ingiustizia che i paesi
ricchi infliggono a quelli poveri. A Copenhagen nel 2009, ad esempio, il capo
negoziatore dei paesi appartenenti al G77, paragonò l’accordo appena raggiunto
all’Olocausto.
La descrizione del cambiamento climatico come un’ingiustizia perpetrata dai
paesi ricchi a danno dei paesi poveri non è senza meriti, ovviamente. La
maggior parte delle emissioni è prodotta dai paesi ricchi ma la maggior parte
dei danni, sofferenze e morti che il cambiamento climatico causerà avrà luogo
nei paesi poveri, che hanno meno capacità economiche e tecnologiche per reagire
e spesso già soffrono di variabilità climatiche ed eventi meteorologici estremi
(a loro volta già causa, quantomeno parziale, della loro povertà). L’Honduras,
ad esempio, è naturalmente più esposto agli uragani degli Stati Uniti,
l’Etiopia è più esposta alla siccità della Germania e probabilmente nessun
paese è più esposto alle inondazioni di quanto lo sia il Bangladesh.
Personalmente, pensando all’innalzamento del livello medio dei mari, riporto
sempre l’esempio del Delta del Mekong.
Nel 2008 il Bangladesh pubblicò un suo Climate Action Plan, il quale richiedeva
un finanziamento di cinque miliardi di dollari per i primi cinque anni. Questa
cifra è più della metà del budget annuale del paese. Il Bangladesh
semplicemente non può adattarsi al cambiamento climatico senza aiuto
finanziario e tecnologico da parte dei paesi ricchi. Esso soffrirà immensamente
gli effetti del fenomeno pur avendo avuto un ruolo minuscolo nel causarlo: le
sue emissioni totali di biossido di carbonio sono meno dello 0,2% del totale
globale; su base pro capite, le sue emissioni sono circa un ventesimo della
media globale e un cinquantesimo di quelle degli Stati Uniti.
Ricordando che anche ciò che non vediamo ci riguarda, sono questo tipo di
considerazioni a fornire plausibilità all’idea che il cambiamento climatico sia un atto di ingiustizia
dei paesi ricchi a danno dei paesi poveri. Rileggendo le parole del cardinale Pietro Parolin, a margine della recente
e ultima COP29 a Baku, sottolineo però che, fin dalle buone intenzioni di Rio
nel 1992, non un solo dollaro, di fondi appositamente stanziati, è stato
erogato a fronte delle richieste di aiuto da parte dei paesi più poveri, per
avviare qualcosa di concreto in termini di decarbonizzazione,.
Giustizia sociale quindi? Non basta. Un istante di
riflessione porta alla luce, come se non ce ne fossero già abbastanza, una
serie di complicazioni.
Il cambiamento climatico non mostra alcune delle
caratteristiche tipiche delle tradizionali ingiustizie fra stati, mentre ne
mostra altre che le teorie di giustizia globale tradizionali sembrano male
equipaggiate ad affrontare: si tratta davvero di un
problema mai affrontato prima dall’umanità: estremizzando, quasi fossero
effetti della caduta di un asteroide o di una guerra nucleare.
Vediamo le differenze principali con le tematiche di
sola giustizia sociale.
Primo - Una prima differenza è che molte persone, inclusi alcuni leader
politici, soprattutto nei paesi industrializzati, sono, o quantomeno si
dichiarano, all’oscuro degli effetti del cambiamento climatico. Per non parlare
di quelli, sempre inclusi leader politici, che lo negano. Altri paesi ammettono invece che ci siano effetti
molto negativi e forniscono (o si dichiarano disposti a fornire) aiuti
economici o tecnologici a coloro che ne soffrono. Se il cambiamento climatico è
un caso di ingiustizia fra stati, qualcosa non torna. Per chi si dichiara
all’oscuro è come se un paese ne invadesse ingiustamente un altro ma senza
sapere che lo ha invaso (!), e per chi ammette i rischi è come se un paese
cercasse di alleviare i danni che causa ad un altro pur continuando a causarli
a livello di politica di base.
Secondo - Le ingiustizie fra stati includono l’imposizione
intenzionale di danni e nel caso del cambiamento climatico non è così. Le
emissioni di gas serra sono un effetto delle attività industriali di un paese e
il cambiamento climatico è a sua volta un’ulteriore conseguenza. Ammettiamo che
non siano volute, anche se ci sarebbe da discutere. Ogni paese aspira ad avere,
se non altro per il proprio benessere, ad avere attività industriali senza
produrre emissioni; lo stesso si può auspicare per evitare di non causare alcun
danno a terzi. Nel caso di una guerra ingiusta o dell’imposizione di un accordo
commerciale iniquo, l’intenzione è invece proprio quella di danneggiare gli
altri togliendo ciò che è loro (territorio o risorse).
Terzo - L’atmosfera è del tutto indifferente ai confini nazionali e una
molecola di biossido di carbonio ha lo stesso effetto sul clima indipendentemente
dal luogo in cui viene emessa. Se assumiamo che parte del cambiamento climatico
è in realtà un problema causato da persone ricche (quelle che guidano, mangiano
carne, usano i computer, fanno lunghe docce calde e via dicendo), in qualsiasi
paese esse vivano, e sofferto da persone povere in qualsiasi paese esse vivano,
la prospettiva cambia radicalmente rispetto ad un’ingiustizia sociale
tradizionale. Sia coloro che causano, che coloro che soffrono il cambiamento
del clima, sono distribuiti in tutti i paesi del mondo (anche se in proporzioni
diverse).
L’India, ad esempio, è diventata negli ultimi venti
anni uno dei principali emettitori mondiali, pur rimanendo anche una delle
principali vittime del cambiamento climatico. Le precipitazioni monsoniche sono
sempre più abbondanti e concentrate, lo scioglimento dei ghiacciai
sull’Himalaya accresce i rischi di inondazioni nella piana del Gange, e i
cicloni sulle coste sono sempre più frequenti. I costi economici del
riscaldamento del clima per l’India sono valutati attorno al 2% del PIL annuale
da qui al 2050, ma i costi sociali e ambientali potrebbero essere ancora più
gravi. Il punto è che non sono solo i ricchi americani ma anche quelli indiani
(e cinesi o nigeriani, paese africano quest’ultimo che registra la crescita
demografica più alta della Terra) a causare danni agli indiani più poveri (come
anche agli americani più poveri). Le divisioni per stati non catturano con
precisione né i colpevoli né le vittime del cambiamento climatico.
Quarto - Una quarta differenza è che la maggior parte dei casi di
ingiustizia fra stati prevedono un paese che si avvantaggia a spese di un altro
paese e questo può andare avanti più meno indefinitamente. I livelli
attuali di emissioni di gas serra prodotti dai ricchi della Terra, invece, non
possono essere mantenuti indefinitamente, poiché le troppe emissioni di gas
serra minacciano di destabilizzare le condizioni stesse che rendono una vita da
ricchi possibile anche per i ricchi stessi. Un caso continuato di ingiustizia
globale solitamente non indebolisce progressivamente anche chi la causa e
mantiene.
Quinto - Laddove i danni, le sofferenze e le morti connesse a guerre ingiuste o
altri casi emblematici di ingiustizia fra stati sono, per certi importanti
versi, interamente nelle nostre mani, quelle connesse al cambiamento climatico
non lo sono. Il cambiamento climatico chiama in scena un nuovo attore: l’insieme
di processi e sistemi ecologici, di interazioni e feedback che chiamiamo
usualmente natura, spesso ignorata anche da molti teorici della
giustizia globale che, impegnati a discutere di diritti e obblighi fra umani
tendono a dare per scontato (non credo inavvertitamente) che la natura offra
sempre un pasto gratis. Nel caso del cambiamento climatico la natura presenta invece imperiosamente il conto (metaforicamente s’intende) e non accorda particolari dilazioni nel
pagamento. Al tavolo di un’osteria i commensali possono negoziare le rispettive
quote da pagare, ma c’è ben poco da negoziare quando c’è il conto da pagare. In
altre parole, concettualizzando il cambiamento climatico come un problema di
giustizia fra stati si tende spesso a fare i conti senza l’oste e a dimenticare
che a costui non interessa come il conto viene ripartito fra i commensali, purché
lo si paghi. Senza dimenticare quanto si è detto sulle enormi difficoltà che
emergono nel cercare di dare un giusto valore economico alla natura.
Sesto - Un’ultima differenza fra il cambiamento climatico e casi tradizionali di
ingiustizie fra stati è la natura intergenerazionale del cambiamento climatico.
Pur sapendo che anche le ingiustizie globali tradizionali possono danneggiare
le generazioni future (una guerra ingiusta o l’imposizione di un trattato
commerciale iniquo danneggiano anche i discendenti di chi li subisce) c’è una
differenza. Nel caso del cambiamento climatico, invece, la giustizia globale e
quella intergenerazionale sono spesso in tensione. Per eliminare le ingiustizie
connesse alla povertà globale, ad esempio, bisogna stimolare crescita economica
che produrrà emissioni di gas serra che a loro volta contribuiranno a cambiare
il clima, a svantaggio delle generazioni future. D’altro canto, gli
investimenti finalizzati a proteggere le generazioni future dal cambiamento
climatico implicano spesso costi opportunità per le generazioni presenti e in
particolare per i loro membri più poveri.

[Edit] - In queste ore giunge la notizia che la Corte di Giustizia Internazionale ha emesso una storica sentenza.
L'opinione "storica" della Corte Mondiale sul
clima
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GLI INQUINATORI SONO "RESPONSABILI": La più alta corte delle Nazioni Unite ha detto ai paesi
"ricchi" "che devono rispettare i loro impegni
internazionali per frenare l'inquinamento o rischiano di dover pagare
un risarcimento alle nazioni duramente colpite dal cambiamento climatico",
ha riferito Reuters.
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha emesso un parere
consultivo molto atteso che i piccoli stati insulari hanno descritto
come un "trampolino di lancio legale per rendere responsabili i
grandi inquinatori", ha aggiunto il notiziario.
«DIRITTO INTRINSECO»: L' Associated
Press ha affermato che, durante un'udienza di due ore per
presentare l'opinione unanime, il giudice giapponese Yuji Iwasawa ha
detto alla corte che "il diritto umano a un ambiente pulito, sano
e sostenibile è... inerente al godimento di altri diritti umani". L'agenzia
di stampa ha detto che gli attivisti hanno descritto questo come un
"punto di svolta nel diritto internazionale sul clima".
«PESO LEGALE»: Il
Times
ha osservato che "il punto di vista non è vincolante per i
governi, incluso il Regno Unito, e gli Stati Uniti non riconoscono la
giurisdizione della corte". Tuttavia, "i pareri consultivi
della Corte Internazionale di Giustizia hanno un grande peso legale e
sono visti come un contributo al chiarimento del diritto
internazionale", ha aggiunto il giornale. Carbon Brief
ha appena pubblicato un'approfondita sessione di domande e risposte su
ciò che l'opinione significa per il cambiamento climatico.
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