Dissertazioni intorno all’origine della vita

L’adattamento dissipativo e altre cosucce…

Immagine di Shaila Fish per Quanta Magazine

L’adattamento dissipativo

Un fisico teorico americano, Jeremy England, sulla base di analisi statistiche estremamente complesse, ha elaborato una serie di equazioni (una formula, insomma) che descrivono cosa accade ad un gruppo di atomi quando è soggetto ad una fonte di energia esterna e immerso in un ambiente caldo.

Se riportiamo tutto ciò all’ambiente caldo che potevano offrire gli oceani primordiali o la stessa atmosfera terrestre più o meno 4 miliardi di anni fa, e consideriamo il Sole la fonte di energia illimitata necessaria (illimitata almeno dal punto di vista della vita), la formula di England potrebbe descrivere cosa è accaduto durante la cosiddetta abiogenesi, ovvero durante i processi che hanno dato origine alla Vita (con la maiuscola, come spiegato nel mio post precedente).

Ma cosa predice questa formula? Che nelle suddette condizioni gli atomi e le molecole semplici tendono inevitabilmente a strutturarsi in modalità complessa crescente, a formare quindi, autonomamente, molecole via via più complesse aventi inoltre la straordinaria capacità di catturare energia e dissiparla in entropia. In sintesi: lasciate un gruppo di atomi al Sole e in breve tempo potreste avere amminoacidi, lipidi, nucleotidi ed altre molecole fondamentali: i mattoni della Vita.

clip_image004Il processo è ovviamente abbastanza più complesso e tempo fa, in un mio post, avevo trattato brevemente questa sorta di spontaneità nella formazione di composti via via più complessi. In altre parole, sulla Terra, ai primordi, c’era quanto necessario, sia nativo che sicuramente portato dallo spazio esterno a bordo degli asteroidi che impattavano col pianeta.

England ha definito tutto ciò adattamento dissipativo o adattamento guidato dalla dissipazione, ovvero dal processo di dispersione dell’energia nell’ambiente circostante (processo noto anche come dissipamento, o distribuzione). Uno dei tanti aspetti dell’inesorabile ed inevitabile “Secondo principio della termodinamica”.

Questa teoria considera quindi l’origine della vita come un risultato inevitabile della termodinamica.

L’esistenza della vita, quindi, non sarebbe un mistero o un colpo di fortuna, ma deriverebbe piuttosto da principi fisici generali
.

Inevitabile?

clip_image006Una volta che il processo è iniziato, spinto da una sorgente di energia, la materia grezza tende inesorabilmente a organizzarsi e ad acquistare le caratteristiche fisiche associate con la Vita. Quello che spinge gli atomi in questa corsa è una tendenza intrinseca della materia, in talune circostanze, (ampia disponibilità di energia e ambiente caldo), a organizzarsi per consumare sempre più energia per dissiparla in entropia. Per far questo, gli atomi devono dar luogo a strutture sempre più complesse, quelle che sono alla base della Vita. La conseguenza è che il processo diventa sempre più efficiente e più veloce, come se si sostenesse e si autoalimentasse. In altre parole, al verificarsi di certe condizioni, si manifesta una caratteristica intrinseca della materia, cioè quella di evolvere in forme molecolari di Vita. Ovviamente non stiamo ancora parlando di organismi ma delle molecole alla base della Vita, cioè del processo di abiogenesi. Il processo formazione di molecole utili, innanzi tutto autoreplicanti, non sarebbe quindi puramente casuale, bensì guidato da una forza che accelera di continuo.

Una delle implicazioni di questa teoria è che verrebbe risolto anche un altro problema, quello del tempo a disposizione affinché tutto questo possa essersi verificato, in un lasso di tempo complessivamente piuttosto breve, rispetto all’età della Terra.

Se gli anni vi sembrano pochi…

clip_image008Abbiamo visto nel post precedente, che in poche (in termini geologici) centinaia di milioni di anni, in un periodo compreso tra i 4, o poco più, e i 3,5 miliardi di anni fa, si è passati dalla non-Vita alla Vita. E’ un tempo sufficientemente lungo a consentire tutto ciò? Qualcuno dice di no. Quello del tempo insufficiente è sempre stato uno dei crucci maggiori anche agli albori dell’evoluzionismo: lo stesso Darwin sapeva che, per spiegare l’estrema variabilità della Vita, la Terra avrebbe dovuto essere estremamente più vecchia di quel che si reputava allora.

Non molto tempo fa, una delle figure più autorevoli della moderna biologia, Lynn Margulis, si è cimentata in una serie di calcoli. Scriveva:

«Se c'è stata qualche forma di processo pre-cellulare, esso deve essere originato dall'assemblaggio casuale di aminoacidi o nucleotidi. Tra tutti questi eventi casuali, uno in maniera fortunosa deve aver portato alla formazione di un gene o di una proteina con qualche forma di vantaggio rispetto alle altre forme casuali. Quanto tempo ci sarebbe voluto? Facendo un po’ di utili assunzioni, una proteina (o gene) simile si sarebbe formata una volta ogni 10500 volte che si formava una proteina casuale. Cioè ci sarebbero voluti 10500 tentativi per formare una proteina/gene “utile”.»


A conti fatti, che qui omettiamo, il tempo necessario affinché ciò sarebbe potuto accadere è di circa 10450 anni.

Un numero inimmaginabile. L’Universo ha 1,4x1010 anni, stando alla teoria cosmologica oggi più accreditata ovvero, un ordine di grandezza di 10440 volte maggiore dell’età stessa dell’Universo per avere un qualsiasi primo gene (o proteina) utile.

“1” seguito da 440 zeri: pressoché impossibile.

Anche ipotizzando che abbiano ragione coloro i quali sostengono che la Vita sulla Terra abbia origine extraterrestre (panspermia, che è una teoria tutt’altro che frutto di una qualche pseudo-scienza) il problema del tempo non viene risolto, ma solo spostato dalla Terra allo spazio, dove ci sarebbe voluto esattamente lo stesso tempo. E anche se nello spazio avrebbero potuto esserci condizioni chimiche e fisiche tali da accorciare il tempo necessario, sempre in base al calcolo originario, una riduzione di un fattore 10440 appare decisamente difficile da immaginare, lo stesso dicasi ipotizzando che il calcolo sia corretto ma che non lo siano le assunzioni fatte e i parametri usati per effettuarlo: uno scenario plausibile che possa accorciare il tempo di 10440 è altrettanto inimmaginabile.

Lasciamo da parte le speculazioni, anche se scientificamente supportate in teoria, di multiversi, cicli infiniti di nascita, morte, rinascita di infiniti universi. Adottare l’infinito (qui un vecchio mio post) metterebbe a disposizione altrettante possibilità e quel fattore impossibile diverrebbe forse possibile, ma paradossale. Una singolarità che i fisici non amano.

Eppur ci siamo!

clip_image010«Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?» (Jacques Monod).

Poi c’è tutta la faccenda del cosiddetto principio antropico. Siamo qui e stiamo qui a parlarne, evidentemente l’evento così inimmaginabile è accaduto. Nulla esclude che la remotissima probabilità pari a una volta su 10500 possa essersi verificata nei primi tentativi, addirittura al primo! I più rigidi obietteranno che sarebbe un evento quasi impossibile ma la risposta è inconfutabile: se stiamo qui a parlarne è proprio perché l’impossibile è accaduto, altrimenti non saremmo qui. Attenzione però. Il disagio che si prova con una spiegazione del genere è normale: in realtà la cosa non spiega nulla, ribadisce soltanto, in forma diversa, quel che vorrebbe spiegare: la chiamano tautologia. A questo punto tanto varrebbe chiamare in causa una qualche forma di intervento divino.

Francis Crick, molto più razionalmente, scrisse nel suo libro “L’origine della vita”:

«Un uomo onesto, munito di tutte le conoscenze attuali, può solo affermare che […] l’origine della vita appare quasi un miracolo […]. Ma questa considerazione non è una ragione valida per credere che la vita non ha avuto origine sulla Terra, utilizzando una sequenza coerente di comuni reazioni chimiche.
Il tempo a disposizione è stato troppo lungo, i vari microambienti presenti sulla superficie della Terra troppo diversi, le possibilità chimiche troppo numerose, la nostra conoscenza e la nostra immaginazione troppo labili per permettere di decifrare esattamente come l’origine della vita ha potuto, o non ha potuto, aver luogo tanto tempo fa, in particolare perché non abbiamo dati sperimentali di quel periodo per verificare le nostre idee.»

Chiudiamo il cerchio

A quanto pare la teoria di England fornisce la spiegazione cercata, qualcosa di plausibile che spieghi che le cose non sono state guidate unicamente dal caso. Un qualcosa che ci permetta di pensare che il calcolo della Margulis non si applica all’abiogenesi perché questa non è determinata in maniera puramente casuale. Senza introdurre entità più o meno metafisiche, perché nella scienza ciò non è ammissibile e dobbiamo invece trovare leggi, regole e logiche compatibili con le leggi dell’Universo per fornire delle ipotesi.

Ogni tanto spunta fuori qualcuno che afferma che gli esseri viventi violano il “Secondo principio della termodinamica”: semplificando, e con riferimento alla riproduzione sessuata, dalla fusione di un paio di cellule, maschile e femminile, organizzazione e complessità vanno via via aumentando per tutto il corso della vita: ma un organismo vivente non è un sistema chiuso, c’è all’origine del suo apparente violare le leggi dell’entropia, la fruizione continua di energia. Un sistema semplice formato da una pianta, dal Sole e dall’Universo tutto ne è la prova: è grazie al fluire continuo dell’energia radiante dal Sole che la pianta sintetizza quanto occorre per crescere e sostenersi, e se al posto della pianta inseriamo la Vita tutta avremo che gli animali erbivori mangiando le piante avranno tutto ciò che serve loro per costruirsi; i carnivori mangeranno gli erbivori e ne estrarranno energia e materia loro necessaria per costruirsi. Se il sistema Vita mantiene sempre alta la propria energia e quindi bassa la propria entropia è perché la fonte primaria di energia è il Sole, una fonte pressoché inesauribile dal punto di vista della Vita.

Quella tra Vita e termodinamica è quindi una contraddizione apparente.

Inoltre tutte le specie viventi dissipano calore, cioè energia, e altre forme di materiali disordinati, in un processo la cui efficienza non può ovviamente essere del 100 percento, fino al termine del proprio ciclo vitale, laddove con la morte ogni organismo si decompone e restituisce al disordine tutto l’ordine costruito in precedenza.

La Vita è un’isola privilegiata dove è concesso, temporaneamente, un accumulo di energia. Ma alla fine vince l’entropia.

Possiamo dunque definire le caratteristiche fondamentali che definiscono la Vita.

1. Capacità di catturare e immagazzinare energia dall’ambiente.
2. Capacità di disperderla, ovvero dissiparla, nell’ambiente sotto forma di calore.

Se England ha messo nero su bianco che, con le debite condizioni, atomi e molecole riescono a formare molecole che sono sempre più vive è palese che se c’è qualcosa che sa fare le due cose suddette molto meglio di un comune ammasso di atomi sono proprio le forme di Vita, indipendentemente dalla loro complessità.

Ma c’è ancora tantissimo da fare. La teoria di England, ancorché teoricamente esatta, al momento è solo una serie di equazioni, di dimostrazioni matematiche effettuate in sistemi matematici modello. Grandi attenzioni e altrettante critiche corredano le necessarie evidenze sperimentali anche se qualcosa inizia a muoversi. Inoltre l’adattamento dissipativo descrive cosa accade ma non lo spiega: non è noto da cosa dipenda questa tendenza intrinseca della materia ad auto-organizzarsi.

Dopo tutto, occuparsi spesso del come piuttosto che del perché delle cose è compito preciso della scienza e del suo metodo. Non è un limite. Ci sono oggetti fisici conosciutissimi su cui, a tutt’oggi, le idee sono tutt’altro che chiare. Mettereste in discussione la gravità? L’energia? Il tempo? Eppure anche essendo in grado di misurarle, sapere cosa fanno, conoscerne le proprietà, dire esattamente cosa siano, nessuno ancora lo sa.

L’uovo e la gallina

clip_image012In questo paragrafo farò uso di nomi e sigle che meriterebbero ognuna pagine di approfondimento: ma quel che ci interessa è il quadro complessivo, lasciando quindi a voi la voglia e la volontà di approfondire o di ripassare il manuale di biologia delle superiori. Qualcuno ha detto che «la gallina è solo un mezzo con cui un uovo fa un altro uovo» e qui stiamo parlando di livelli di complessità inimmaginabili rispetto a quelli che vengono comunemente definiti come “mattoni” della Vita: essenzialmente nucleotidi, geni/proteine, metalli catalizzanti, lipidi, in un ammasso informe di molecole in continua trasformazione e polimerizzazione e laddove, alcuni, divennero auto-replicanti e auto-sostenenti.

Ma anche per la Vita più semplice che conosciamo, come un batterio con qualche centinaio di geni appena (e ne esistono), occorrono sistemi autoreplicativi che contengono l’informazione (acidi nucleici, DNA e RNA), un metabolismo capace di produrre molecole ed energia (tutto basato su enzimi, ovvero su proteine) e, infine, membrane, formate da lipidi, per separare la cellula dal resto del mondo, proteggendone il contenuto ma al tempo stesso in grado di selezionare cose che possono entrare da cose che devono uscire.

E serve tutto insieme. In una ipersemplificazione, si veda anche il diagramma precedente, il DNA, per mezzo dell’RNA, assembla le proteine a garantire le funzioni cellulari, ma il tutto è sottoposto al metabolismo energetico e alle funzioni di replicazione, traduzione e trascrizione effettuate da proteine specifiche, enzimi compresi. Insomma se fosse nato prima l’uovo, l’RNA (la famosa teoria del RNA World, ne scrissi qui), un candidato ideale dato la sua versatilità e flessibilità, come avrebbe questi potuto generare codice utile ad assemblare proteine…senza le proteine necessarie? E se fossero nati prima gli amminoacidi a formare proteine, cosa avrebbe potuto codificarle correttamente senza gli acidi nucleici?

In laboratorio, o come amano dire i biologi in vitro, si è riusciti a simulare e creare le condizioni prebiotiche necessarie a produrre tutti i componenti, ma un gruppo alla volta. Ovvero, in tutte le sintesi prebiotiche, ottenute in laboratorio, le condizioni sono talmente diverse tra loro da essere reciprocamente incompatibili. Se si fanno amminoacidi non c’è verso in quelle condizioni che si facciano nucleotidi o lipidi, e così via.

Le condizioni per fare tutto insieme per moltissimo tempo non sono mai state ottenute e questo ha spinto a pensare che, nel mondo reale, uno dei sistemi dovesse essersi sviluppato per primo, a seguire gli altri, in una sorta di gerarchia necessaria.

- L’evoluzione necessita di autoreplicatori che contengano l’informazione per la Vita, quindi la replicazione deve essere emersa per prima (replication first).
- La cosa non si può fare senza metabolismo ed energia, quindi il metabolismo deve essere venuto per primo (metabolism first).
- E come fai una cellula senza separarla dal resto? I lipidi devono essere venuti per primi (lipid first).

E come avrebbe fatto un sistema ad inventare gli altri? Se le condizioni nelle quali si sviluppa il primo evento, uno qualsiasi tra quelli elencati, sono incompatibili con lo sviluppo del secondo, come si fa ad arrivare ad avere tutte le componenti necessarie?

Tutti primi, nessun primo. Non ha senso porsi la domanda paradossale, se sia nato prima l’uovo o la gallina, perché alla fine, o meglio all’inizio, uovo e gallina sono la stessa cosa.

Out of the blue

Fortunatamente è arrivato un altro pilastro della moderna biologia: John Sutherland. Abbandonando l’assunto che occorrono condizioni diverse per generare i diversi componenti, e non accontentandosi di accettare l’idea che le sintesi prebiotiche dei vari mattoni siano incompatibili tra loro è riuscito a creare le condizioni per farli tutti insieme, o almeno per farne un buon numero. Partendo da due soli elementi, probabilmente disponibili sulla terra prebiotica (essenzialmente acido cianidrico e acido solfidrico, HCN e H2S), associati a quanto già presente, e utilizzando raggi UV come unica sorgente di energia, lo scienziato ha dimostrato l'esistenza di una serie complessa di reazioni che possono portare alla sintesi di aminoacidi (12 dei 20 esistenti in natura), nucleotidi (2 su 4) e una molecola precursore dei lipidi. Tutti allo stesso tempo e dallo stesso ambiente! Ha inoltre dimostrato che il processo può essere accelerato in presenza di rame, stante il ben conosciuto ruolo di catalizzatore che possono avere i metalli, ruolo sicuramente presente quando le proteine enzimatiche non erano ancora sviluppate: enzimi che oggi spesso contengono al loro interno atomi di vari metalli.

I lavori di Sutherland descrivono uno scenario nuovo, impensato fino a poco tempo fa. Un pianeta reduce da una catastrofe cosmica, l’ultimo grande bombardamento meteoritico subito, ribollente di pozze acide, con un’atmosfera rarefatta e tossica e bersagliato da letali radiazioni UV: ma tutto è pronto per dar luogo alla sintesi simultanea di tutte le molecole della Vita. E, come la chimica dimostra, il fatto che tutto sia pronto significa semplicemente che avviene.

L’acido cianidrico, una delle componenti fondamentali, in tedesco è noto come “acido blu”. Ecco perché Sutherland ha denominato il suo modello Out of the blue, giocando con la traduzione letterale “che viene fuori dal blu” e col reale significato “che accade inaspettatamente”.

Riassunto delle puntate precedenti, giusto qualche centinaio di milioni di anni

clip_image014Il 1° febbraio 1871, Charles Darwin scrisse al suo amico e corrispondente Joseph Hooker, discutendo la sua ipotesi sull’origine della vita:

«Ma se (e che grande se) potessimo concepire in un piccolo stagno caldo con tutti i tipi di sali di ammonio e fosforo, – luce, calore, elettricità, ecc. – presenti, che un composto proteico fosse chimicamente formato, pronto per subire trasformazioni ancora più complesse, oggi tale materia verrebbe istantaneamente divorata, o assorbita, cosa che non sarebbe avvenuta prima che si formassero gli esseri viventi.” (Charles Darwin)

L’intuizione fenomenale del grande scienziato ricorda quel che molti avranno certamente sentito nominare: il cosiddetto brodo primordiale, che dovette essere però qualcosa di ben più complesso del miscuglio usato da Miller e Urey nel loro famoso esperimento, nel quale galleggiavano poche molecole elementari in attesa di qualche scarica elettrica. Era più probabilmente un minestrone nel quale avvenivano reazioni chimiche, catalizzate da metalli e sostenute da energia disponibile in abbondanza.

clip_image016Nel corso di queste reazioni prendevano forma i mattoni della Vita, e forse si formavano contemporaneamente senza che un sistema dovesse necessariamente precederne un altro. L’assemblaggio di alcuni di queste mattoni (i nucleotidi) potrebbe aver portato alla formazione delle prime molecole in grado di replicarsi. Ma oltre a queste emergevano circuiti proto-metabolici, anch’essi capaci di autosostenersi e forse anche di autoreplicarsi. E piccole proteine (i peptidi) che potrebbero aver contribuito all’autoreplicazione delle prime forme di RNA che a loro volta fornivano supporto a queste. Il tutto in una sorta di co-evoluzione.

Man mano che le reazioni procedevano diventavano sempre più complesse, al punto di dare il via alla produzione su scala planetaria. La svolta avvenne quando alcuni RNA acquisirono la possibilità di controllare e direzionare la sintesi delle proteine. L’equilibrio di mutua assistenza si ruppe e si stabilirono le prime gerarchie di sintesi, in cui l’RNA prese il controllo delle proteine così come stabilito dal famoso dogma centrale della biologia molecolare. A questo punto le condizioni per avere il mondo a RNA erano disponibili: a partire da questo, la Vita.

clip_image018Un’interessante alternativa, o forse un percorso in parallelo, ad uno sviluppo sulla superfice della Terra esposta agli agenti atmosferici, è data dalle ricerche condotte intorno agli ambienti dei cosiddetti camini idrotermali, sia quelli delle profondità oceaniche che quelli più superficiali. Questi potrebbero aver fornito le condizioni necessarie affinché i mattoni fondamentali potessero essere prodotti e successivamente organizzati in livelli di complessità crescenti, fino ai primi organismi unicellulari appena abbozzati: niente più che una membrana lipidica che racchiude un genoma primitivo, costituito da DNA, qualche proteina e l’immancabile RNA. Probabilmente una rete di organismi che si scambiavano pezzi di codice genetico per mezzo del “Trasferimento genico orizzontale” (vedi qui), a formare un insieme di LUCA, Last Universal Common Ancestor, di cui abbiamo scritto nel mio post precedente: un ammasso confuso di organismi indistinguibili che si sono poi evoluti seguendo modelli interdipendenti.

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E’ successo davvero?

Per ora sono ipotesi avvincenti e anche se suffragate da alcune evidenze sperimentali non sappiamo ancora se tutto ciò sia avvenuto davvero. Molte delle scoperte sembrano portare in questa direzione e, ribadiamolo, non ci sono mai stati un uovo e una gallina. L’uovo e la gallina sono la stessa cosa. Se c’è stata una sorta di discontinuità nel passaggio tra Vita e non-Vita è questa una comodità arbitraria. In realtà sembra proprio che ancora una volta natura non facit saltus, e in una progressione graduale con passaggi appena distinguibili l’uno dall’altro, la materia sia andata continuamente trasformandosi.

clip_image022La ricerca del primo vivente, antecedente a LUCA, continua, inarrestabile, soprattutto grazie al lavoro del team di Jack Szostak che spera di ottenere in laboratorio un giorno la prima cellula autoreplicante con genoma costituito da RNA: sarebbe la specie più primitiva di ogni altro essere vivente sulla Terra, una scoperta monumentale. Per molti il problema dell’origine della Vita sarà in gran parte risolto.

Ma, citando Enrico Fermi, «è questo il modo in cui potrebbe essere avvenuto, o è davvero successo così?».

Carl Sagan ricordava quanto accadde durante un dibattito pubblico nel 1960. Qualcuno chiese agli scienziati quando avrebbero risolto il problema dell’origine della Vita, riproducendo il processo in provetta. Uno degli oratori rispose che ci sarebbero voluti almeno altri 1000 anni. Il secondo 300. Il numero continuò a scendere finché uno degli scienziati affermò che era già stato fatto.

A seconda del punto di vista la risposta a come potrebbe essersi formata la Vita è sempre stata dietro l’angolo oppure talmente complessa non poter mai essere davvero trovata.

Ma la scienza non smetterà mai di cercare una risposta e anche se tuttora ignota, ancora una volta la scienza ci ha raccontato qualcosa sulla sua stessa natura e anche su quella di noi stessi.

«La Natura, spiegata in tutta la sua estensione, ci presenta un quadro immenso, in cui tutti gli ordini degli esseri sono rappresentati da una catena, che regge un seguito continuo d’oggetti vicini, e simili sufficientemente, perché le loro differenze sieno difficili da comprendere.» (Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, 1770).

Riferimenti bibliografici.

Breve storia della creazione. Bill Mesler e James Cleaves II. Bollati Boringhieri. 2016.
La vita inevitabile. Pier Paolo Di Fiore. Codice. 2022
I motori della vita. Paul Falkowski. Bollati Boringhieri. 2015

Omne vivum ex vivo...et omnia ex LUCA

Dopo moltissimo tempo dal mio ultimo post in tema, torno alla biologia: mia grande passione.

Omne vivum ex vivo sembra abbia detto Pasteur mettendo la parola fine alla controversa storia della teoria della “generazione spontanea”. E anche se l’affermazione pare sia apocrifa resta il concetto chiave: ogni essere vivente proviene da un altro essere vivente. Se volete approfondire tutta la faccenda, qui potete trovare un articolo ben fatto che ripercorre la storia delle idee e delle ricerche, con i vari esperimenti ben descritti ed illustrati. La cosa curiosa è che sembra che parecchio tempo prima di illustri pensatori come Aristotele o Copernico, persino Leonardo, ci sia stato qualcuno che, pur cieco come vorrebbe la tradizione, ci aveva visto giusto!

«Ma timor mi grava che nelle piaghe di Patroclo
intanto vile insetto non entri,
che di vermi generator la salma (ahi! senza vita!)
ne guasti sì che tutta imputridisca»
(Omero, Iliade, XIX)

Uno schema di ramificazione. Al centro l’origine comune

Circa tre miliardi e mezzo di anni il primo qualcosa definibile come vivente ha fatto la sua comparsa sul nostro pianeta, questo è quel che sappiamo. Da quel momento l'evoluzione ha iniziato a fare il suo lavoro, dando vita ai 2,3 milioni di specie conosciute e catalogate ad oggi dalla scienza (2,3 milioni su un totale di specie viventi e vissute inimmaginabile, come vedremo): animali, piante, funghi e batteri, imparentati e interconnessi tra loro, che oggi sono stati organizzati in un enorme e completo “albero della vita” o, più tecnicamente, un albero filogenetico.

Tempo fa in un mio post si raccontava di come la Vita, (con la V maiuscola, ad indicare il processo globale che ha portato dalla non-Vita ad ogni singola vita che ci circonda) sembra quasi essere ineluttabile e pressoché inevitabile conseguenza della presenza di molecole disseminate ovunque nell’Universo e trasportate a spasso dalla polvere interstellare e dai meteoriti; e anche allora si cercò di definire la Vita.

Una definizione di vita cui spesso si fa riferimento è quella fornita dalla NASA: la vita è un sistema chimico che si autosostiene ed è soggetto a evoluzione darwiniana. Questa definizione non incontra grosse obiezioni ma è in errore: la vita non si autosostiene, per farlo assorbe ed elabora energia dall’esterno e lo fa non come sistema bensì come processo e un processo non può evolvere perché, formalmente, è esso stesso qualcosa che evolve. Un’analisi formale di oltre 100 definizioni di vita ha portato a questa meta-definizione: la vita è autoriproduzione con variazioni che, pur priva di valore assoluto valore assoluto indica cosa la scienza ritenga essere la materia vivente. Vale non solo per quanto è terrestre ma applicabile ad ogni forma di vita che l’immaginazione possa concepire: vita extraterrestre, forme di chimica alternativa, modelli di computer, forme astratte. E la sua unica base comune è questa: è vita tutto ciò che copia se stesso e cambia. Ma una definizione che sia completa non può aversi se non si tiene conto che il processo dell’insieme delle reazioni chimiche coordinate, selezionate nel tempo e integrate con reazioni preesistenti pone la vita nel dominio dei processi caratterizzati da proprietà emergenti, che non erano presenti prima che il sistema raggiungesse un dato livello di complessità. La vita è dunque complessità auto-generata basata su informazione che riproduce se stessa.

clip_image004[7]

clip_image006[7]Ma torniamo al tema dell’albero della Vita. Il primo che ne intuì l’esistenza e che ne abbozzò uno schema sul suo taccuino fu Charles Darwin, che ve lo dico a fare. E man mano che i dati sono andati accumulandosi con la ricerca questo ha assunto forme sempre più ramificate e complesse fino a poter essere rappresentato sia con che senza radici, come nella figura qui sopra.

Il punto cruciale di questa rappresentazione è che, se accettiamo che omne vivum ex vivo, la rappresentazione della vita come un albero ci porta inevitabilmente a postulare l’esistenza di un antenato comune a tutte le forme di Vita oggi esistenti. E questo organismo primordiale, alla base dell’albero della Vita lo hanno simpaticamente chiamato LUCA (Last Universal Common Ancestor). Il bisticcio è solo apparente. Per come si guarda al tempo passato dovrebbe essere il primo degli antenati, ma la scelta di last non dipende dal fatto che fuca (con la f di first) suona decisamente male, ma perché LUCA non è il primo assoluto, ma è effettivamente l’unico iniziale a cui si può risalire, il primo (…) della sequenza vissuto tra i 3,5 e i 4 e qualcosa miliardi di anni fa, ripercorrendo a ritroso l’albero della Vita. Prima di LUCA potrebbe esser benissimo essere esistita una Vita, anche diversamente variegata, della quale non restano tracce perché spazzate via dall’ultimo bombardamento da parte di grandi meteoriti (davvero enormi, con diametri tra 100 e 1000 km) avvenuto più o meno 4 miliardi di anni fa o, chissà, magari dante origine ad un ramoscello che ha portato a LUCA. Ma il punto è un altro.

L’idea alla base di tutto ciò è chiara. C’è stato in passato ovviamente chi la pensava diversamente, come quelli che affermavano che le specie che vediamo sono sempre esistite e state così come sono (li chiamavano fissisti), o quelli che postulavano che ogni ramo principale avesse un suo particolare antenato comune. Ma entrambe queste ipotesi sono state da tempo ampiamente confutate.

Ovviamente LUCA non ha lasciato fossili e la sua esistenza è stata inferita dallo stato attuale delle forme viventi oggi esistenti sulla Terra; fu certamente una forma di Vita ma sulla quale possiamo soltanto fare delle congetture, sulla base dei fatti disponibili.

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Uno schema di ramificazione. Alla base l’origine comune

Semplificando con un colpo di scure è stato calcolato che tra LUCA e il presente, noi compresi, si siano evolute qualcosa come 5 miliardi di diverse specie. 5 miliardi! Per aumentare il capogiro si pensi che oggi sono state catalogate appena poco più di 2 milioni di specie ed è un mistero che probabilmente resterà irrisolto, considerando che se ne perdono continuamente, sapere quante specie esistano. Si stima che solo per il dominio degli Eucarioti (organismi formati da cellule con nucleo, protozoi, funghi, piante, animali…) ci siano circa da 10 a 30 milioni di specie; ovvero, ci è ignoto almeno il 90 percento delle specie di questo Dominio. Gli altri due sono ancora più complicati da analizzare anche solo con simulazioni matematiche; si stima esistano qualcosa come 1000 miliardi di specie di batteri! 

E da tutto ciò, come non bastasse, escludiamo i virus, il cui stato di "vivente" è tuttora oggetto di controversie e di cui se ne conoscono circa 5.000 specie stimando ne esistano milioni a formare un gruppo a sé stante che qualcuno ha definito virosfera.

Ma l’aspetto fondamentale che ben conosciamo è che di tutte le specie viventi esistite sulla Terra se ne sono estinte più del 99 percento!

clip_image010[7]Adesso proviamo a pensare al risultato dell’evoluzione delle specie come ad una sfera formata da più strati, una sorta di cipolla, con LUCA al centro, e strato dopo strato arriviamo all’ultimo, sottilissimo, dove ci siamo noi e tutte le specie oggi viventi a noi contemporanee. E se in questa sfera tracciamo una linea, come quelle rosse della figura seguente, che va da noi a LUCA, il raggio della figura geometrica, quello che rappresentiamo su quel segmento è il tempo trascorso. Ma in quanto raggio della sfera la lunghezza è la stessa (nella figura ovviamente l’effetto prospettico rende le linee disuguali) anche per la quercia o per la zanzara che vi ho rappresentato, o per qualsiasi altro vivente, microbi compresi!

L’unico metro in evoluzione è il tempo, il tempo profondo, profondissimo, che ci porta fino a quei circa 3,5 miliardi di anni fa, e questa constatazione evidente, ha una prima fondamentale conseguenza: tutte le specie oggi presenti sulla Terra, incluso Homo sapiens, sono ugualmente evolute! Ogni popolazione umana è ugualmente evoluta, tanto quanto la zanzara che ci infastidisce nelle notti estive, tanto quanto l’albero che ci offre riparo e frescura, o il batterio che altera il nostro metabolismo o che ci aiuta a digerire. Attenzione ai limiti del linguaggio: evoluto non sta a significare più complesso.

Non voglio complicare ulteriormente la faccenda facendo il riassunto di tutte le evidenze che nel corso dei decenni, dei secoli direi, di ricerca, sono andate accumulandosi a comprovare ed accettare LUCA come radice comune dell’albero della Vita ma qualcosa va detto. Ecco le principali evidenze.

Molecolari. Tutta la Vita usa componenti e meccanismi chimici simili se non identici, con somiglianze sorprendenti tra specie del tutto diverse. Il famoso dogma centrale della biologia vale per tutti i viventi, e la straordinaria unitarietà del macchinario molecolare testimonia un’origine comune. Qualora fosse scoperta, non mi sorprenderebbe affatto sapere che c’è DNA in una specie aliena: «Ha il DNA!» gridò entusiasta il ricercatore che stava analizzando il povero ET nel simpatico film di Spielberg.

Paleontologiche. Per quanto raro il processo di fossilizzazione i fossili forniscono da sempre le prove di un’origine comune, a chi ha saputo vedercele senza ritenerli bizzarre testimonianze del diluvio universale o scherzi della natura. Prove provenienti dalla comparazione e dall’analisi della comparsa o della scomparsa di certe caratteristiche, strato geologico dopo strato geologico, come un libro che racconta la storia della Terra, e in epoche recenti, le datazioni geochimiche o addirittura, soprattutto in paleoantropologia, l’analisi del DNA.

Anatomiche ed embriologiche. Un solo esempio: i cosiddetti organi vestigiali. La presenza di strutture rudimentali e non funzionali, o con funzionalità ridotte rispetto all’originale, e che invece erano sviluppate nelle specie precedenti. Il nostro coccige è quanto resta della coda presente nelle specie che ci hanno preceduto, i denti del giudizio o l’appendice ne sono esempi. L’embriologia offre inoltre prove a volte spettacolari se si confronta lo sviluppo embrionale di specie anche lontanissime tra loro o quello di specie imparentate.

Biogeografia, selezione artificiale, esperimenti, studi di speciazione e modelli matematici. Impossibile elencare o anche solo riassumere tutti gli studi condotti in diverse discipline, spesso l’una a confermare l’altra, che hanno fornito prove a sostegno e rafforzamento dell’idea della discendenza comune.

Genetica e genomica. Ma queste due discipline, di nascita relativamente recente, sono quelle che hanno maggiormente contribuito, oltre ogni ragionevole dubbio giacché la parola certezza non fa parte del linguaggio scientifico, a confermare la radice comune. Le tecniche di sequenziamento del materiale genetico, giunte ormai a poter essere eseguite in un solo giorno e con minima spesa per un intero genoma, hanno contribuito, oltre a permettere enormi progressi in medicina, a dimostrare che specie simili possiedono genomi simili, e che quanto più indietro nel tempo si va tanto maggiori sono le differenze: Homo sapiens condivide con gli scimpanzè il 95 percento del genoma, con i gatti il 90, l’85 con i topi, con i polli il 65, con le api il 45 e con i batteri del lievito di birra il 25! E non solo: la genomica ha scoperto come calcolare il tempo in base al numero delle mutazioni che come il ticchettare di un orologio (anche se oggi gli orologi non ticchettano più…) si susseguono durante le replicazioni. E i risultati cronologici che distanziano le ascendenze che derivano dalle informazioni molecolari coincidono con quelle stratigrafiche o paleontologiche.

E infine, quale maggior prova di discendenza comune, che quella che viene dalla composizione e dall’utilizzo che viene fatto, in qualsiasi specie vivente, delle quattro basi azotate della struttura degli acidi nucleici? E il fatto che tutti gli organismi sono tutti fatti di cellule? Non è forse questa una delle prove più importanti della profonda connessione evolutiva che unisce tutti gli organismi sulla Terra?

Lo stesso dappertutto e in ogni tempo.

E’ dunque LUCA il primo vivum? No. Se omne vivum ex vivo allora prima di LUCA deve esserci stata Vita. Ma LUCA è un ottimo inizio, in tutti i sensi, anche sperimentali. Ma questa è un’altra storia, perché andando a ritroso nel tempo la discontinuità tra vivo e non vivo si perde in miriadi di passaggi che sembrano proprio voler dire che il processo fu continuo e...inevitabile!

Tutti ugualmente evoluti è la storia che ci interessa. Una lezione di umiltà che deve darci la consapevolezza dell’unicità e della preziosità della Vita e che deve ancora una volta farci riflettere sulla nostra responsabilità.

Jacques Monod, nel 1970, nel suo famosissimo saggio “Il caso e la necessità”, scrive la sintesi perfetta di quanto meravigliosa possa essere la consapevolezza di questa responsabilità.

«La probabilità a priori che, fra tutti gli avvenimenti possibili dell’universo, se ne verifichi uno in particolare è quasi nulla. Eppure l’universo esiste; bisogna dunque che si producano in esso certi eventi la cui probabilità (prima dell’evento) era minima. Al momento attuale non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle.

Quest’idea non solo non piace ai biologi in quanto uomini di scienza, ma urta anche contro la nostra tendenza a credere che ogni cosa reale nell’universo sia sempre stata necessaria, e da sempre. Dobbiamo tenerci sempre in guardia da questo senso così forte del destino. La scienza moderna ignora ogni immanenza. Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana, la sola specie dell’universo capace di realizzare un sistema logico di combinazione simbolica. Altro avvenimento unico che dovrebbe, proprio per questo, trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Se esso è stato veramente unico, come forse lo è stata la comparsa della vita stessa, ciò dipende dal fatto che prima di manifestarsi, le sue possibilità erano quasi nulle. L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?»

E ancora:

«L'antica alleanza è infranta; l'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente dell'Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre.»

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Immagine realizzata dall’autore del post

Nota

clip_image013[7]A scanso equivoci, voglio richiamare qui lo stesso mio post citato in apertura. Quando si parla di evoluzione come discendenza con modificazioni (altra cosa evidenziata per primo da Darwin) significa che non ci siamo evoluti da nessuno degli animali che sono vivi oggi! Le scimmie non si stanno evolvendo per diventare umane!

Il vero significato è che qualsiasi essere vivente oggi condivide con altri esseri viventi, sempre oggi, un antenato comune vissuto nel loro passato, spesso milioni di anni prima (per esempio, tra 6,5 e 9,3 milioni di anni fa per quel che riguarda noi e le scimmie). Questo in breve, per approfondire il già citato post.

Insomma, non mi stancherò mai di mettere in evidenza che il meme illustrato qui, dallo scimmione brutto e gobbo, al bel maschione bianco e alto, è sbagliato per un sacco di motivi: l’evoluzione non procede linearmente e non c’è progresso né in senso cinematico né culturale, tanto per cominciare. Purtroppo ancora oggi sono numerosissimi coloro che ancora lo adottano, persino in certi testi di biologia per le scuole!

Vi lascio con un meraviglioso filmato, che in me suscita le stesse emozioni che mi provocava, da ragazzo, la lettura di libri di avventure o la visione di certi film di fantascienza. Tutto quel che qui è stato rappresentato avviene continuamente, con gli stessi meccanismi, in qualsiasi cellula di qualsiasi organismo vivente, e così come avviene oggi è avvenuto -semplificando- nei viventi a partire da quei 3,5 miliardi di anni fa.


Riferimenti bibliografici.

Breve storia della creazione. Bill Mesler e James Cleaves II. Bollati Boringhieri. 2016.
La vita inevitabile. Pier Paolo Di Fiore. Codice. 2022
I motori della vita. Paul Falkowski. Bollati Boringhieri. 2015


La fortuna aiuta le menti preparate

a tutti i nati oggi, per il loro futuro
Premessa
Speranza e aspettativa sono due cose diverse. In altre occasioni su queste pagine (qui e qui, ma anche qui) si è messo in evidenza come il cambiamento climatico in atto porti, oltre ad una serie di interrogativi tuttora irrisolti, ad alcune conseguenze che possono essere definite certezze, nonostante il futuro possa presentarsi sotto forma di alternative tra scenari probabili, plausibili o possibili, con linee di confine ben poco nette. 

Uno dei paradossi più inquietanti e sgradevoli che emerge è che, considerando che le prime regioni a sperimentare già da ora il riscaldamento globale su base annua sono quelle tropicali ed equatoriali, esse includono le nazioni che meno hanno contribuito alle cause scatenanti: Nicaragua, Ghana, Kenya, Bangladesh, Zambia, Gambia, Madagascar, Etiopia, Mali, Cambogia, Ciad e India tra i tanti, tutti paesi da emissioni annuali zero virgola. E sono quelle meno in grado di attenuare gli effetti del riscaldamento globale.

Se vi sorprende l’aver inserito l’India date un’occhiata al grafico interattivo seguente. Indubbiamente è la Cina il paese ad emettere la maggior parte di quelle circa 36 miliardi di tonnellate l’anno di CO2, ma ha iniziato da pochissimo tempo, e quindi, dal punto di vista delle responsabilità, gli USA sono al primo posto come maggior responsabile  individuale, considerando il totale delle emissioni nel tempo. Spesso poi si sente parlare dell'India come paese tra i più preoccupanti ma delle due l'una: o ha appena iniziato o, nonostante sia popoloso quanto la Cina, ha ancora un substrato economico in maggioranza tutt'altro che industrializzato. 

Di conseguenza il suo contributo alle emissioni è scarso e pressoché nullo in confronto ai danni diretti che subirà dal cambiamento climatico.

Osservate per tutti la flessione del 2020: effetto COVID.

Nella mappa interattiva successiva ci sono invece le emissioni pro capite, con dati aggiornati al 2022. E’ cromaticamente evidente che i paesi individuati nella fascia equatoriale e tropicale, soprattutto l’Africa subsahariana, sono quelli che meno emettono in termini di CO2 (e altri gas serra), ma che saranno quelli che più soffriranno: il cosiddetto mondo occidentale dovrà necessariamente prepararsi all’accoglienza. Nella stessa mappa lasciano piuttosto perplessi i tassi pro capite superiori alle 20 t annue di paesi come gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait o…il Brunei!

Può essere utile visualizzare anche il grafico (cliccare su chart) per avere la visione di come le emissioni pro capite siano cambiate nel tempo, paese per paese, con alcuni andamenti controtendenza. Dal menu a tendina in alto a destra è possibile selezionare e visualizzare i dati dei singoli continenti.

Località…globali
Così come speranza e aspettativa anche meteo e clima sono due cose completamente diverse, e lo si è ribadito spesso. Il famoso matematico e meteorologo Edward Lorenz diceva che “Il clima è ciò che ti aspetti, il meteo è ciò che ottieni[1].

Gli eventi meteorologici sono localizzati nel tempo e nello spazio: una nevicata in giugno non significa che si sta andando verso un’era glaciale, né una giornata particolarmente calda a fine gennaio è prova di riscaldamento globale. In altre parole è come un’analisi sociologica in grado di mediare su grandi numeri di esseri umani pur sapendo che, presi singolarmente, potrebbero comportarsi imprevedibilmente.

Ma persino un qualche tipo di evento meteorologico, come la temperatura in una determinata ora del giorno, la quantità di millimetri di pioggia caduta o il valore della pressione atmosferica, se cumulati a formare una base di dati sufficientemente grande da poter applicare la cosiddetta legge dei grandi numeri, sono stati in grado di fornire un’evidenza statisticamente significativa del cambiamento climatico in atto, a partire da dati giornalieri.

La cosa più difficile da realizzare in questi casi, allo scopo di ottenere un segnale chiaro che dimostri una determinata tendenza, è isolare il rumore. Negli eventi meteo di una singola località, ad esempio, la temperatura può variare di decine di gradi rispetto alla media misurata in un intervallo temporale sufficientemente lungo.


La figura precedente (lo studio completo, del 2020, è disponibile su Nature) illustra in modo evidente quanto è venuto fuori da studi di questo tipo. Sono stati utilizzati due modelli e due metodi di analisi statistica basati su altrettanti archivi di dati diversi, ma è chiaro che sia il primo che il secondo abbiano fornito risultati sovrapponibili (gli istogrammi in a,b e in c,d rispettivamente).

Nella colonna di sinistra ci sono le registrazioni della variazione di temperatura giornaliera in una località e confrontata con la temperatura giornaliera media, mentre a destra ci sono i risultati dei dati raccolti per un intervallo di molti giorni, allo scopo di ottenere una buona statistica per la distribuzione media delle variazioni giornaliere della temperatura locale.

Il fatto che in entrambi i grafici, indipendentemente dal modello, ci siano distribuzioni tipicamente normali è atteso, a significare qualità dell’analisi e inoltre, come ci si aspetta, la distribuzione delle variazioni di temperatura media in un singolo giorno per una singola località è molto più ampia della distribuzione delle variazioni registrate nello stesso giorno ma mediate globalmente.

Insomma, il vecchio proverbio inglese che dice che la Gran Bretagna ha un tempo orribile ma un clima fantastico torna ancora.

I risultati sono evidenti. Le distribuzioni di temperatura media giornaliera dei periodi 1951-1980 e 2009-2018, confrontate con i dati del periodo 1979-2005, sono tali da dimostrare che un giorno medio nel periodo 1951-1980 è stato più freddo che non nel periodo 1979-2005, mentre tra il 2009 e il 2018 il giorno medio è stato più caldo del medesimo periodo di riferimento.

Ci sono studi analoghi per regioni della Terra e per periodi diversi, ma i risultati sono i medesimi. Da questo punto di vista assumono grande valore quelli condotti nelle regioni citate in precedenza, tropicali o equatoriali, che godono di un rapporto segnale/rumore molto alto, ovvero hanno variabilità molto contenute rispetto ad altre aree del pianeta: non a caso durante la stagione calda ai tropici le previsioni meteo sono sempre le stesse.

Ed ecco che torna il messaggio citato all’inizio: le prime regioni a sperimentare fin d’ora il riscaldamento globale su base annuale sono quelle equatoriali e tropicali: il rapporto segnale/rumore per il riscaldamento globale sembra essere, e lo è, in relazione inversa con il livello di sviluppo di un paese.

La situazione non può che peggiorare. Entro il secolo, per quanto in media farà complessivamente più caldo ovunque, in queste regioni, che stanno già oggi sperimentando gli effetti del cambiamento climatico, rispetto al resto del pianeta, la temperatura media estiva sarà più alta per quasi il 100% del tempo rispetto all’estate più calda mai registrata.

Ci stiamo riferendo alle regioni con la più alta percentuale di malnutrizione, dipendenti fortemente dall’agricoltura, e che subiranno gli effetti più devastanti.

Sarebbe, sarà. Potrebbe, potrà.

In numerosi post su queste pagine ho messo più o meno direttamente in evidenza come, nonostante le famose risposte non lineari, che possono terrorizzare l’analista numerico, una simulazione può essere ridotta a piccolissimi intervalli di tempo durante i quali le risposte sono generalmente lineari, tenendo quindi sotto controllo il famigerato effetto farfalla, come ebbe a dire appunto il già citato Lorenz. Ma alla Natura i modellisti interessano poco: esistono senza dubbio meccanismi di risposta che influenzano il clima e sono difficili da modellare a causa delle variazioni improvvise che possono apportare. La chiave per risolvere tutto questo è saper riconoscere le incertezze. Le affermazioni fisiche che contengono incertezze sono quelle più virtuose.

Le predizioni fondamentali della climatologia sono basate su principi fisici ben consolidati: ciò basti a convincere che questa scienza non è una specie di vudù né che per comprenderne i significati e le conseguenze occorrano supercomputer. Cause, effetti e rischi di tali predizioni sono alla portata di tutti, e a tutti deve essere chiaro che la causa primaria è l’attività umana.

Nel già citato post precedente abbiamo visto come esistano dei già ben conosciuti “punti di non ritorno”, a cui possiamo aggiungere gli effetti su ecosistemi su vasta scala, quali ad esempio quelli dovuti all'acidificazione degli oceani, la fusione del permafrost, la deforestazione e molto altro ancora. Per quanto alcuni possano portare a disastri sul breve termine, mentre altri, come il potenziale scioglimento dei ghiacci della Groenlandia, richiederebbero forse secoli se non millenni, è la loro interazione che ha conseguenze spesso incerte. Un esempio viene da alcuni studi che dimostrano come, nella metà dei casi, il raggiungimento di un punto di non ritorno in un’area del pianeta innescherebbe un aumento del rischio in un’altra.

Pur essendo questi relativi al futuro come potrebbe, derivanti da scenari non direttamente modellabili, non possiamo trascurare l’impatto sul breve termine e, ancora una volta, emerge la necessità di un’azione politica globale perché globale è il problema.

Azione di cui non c’è traccia evidente.

Strategia

La Natura non fa piani, ed è indifferente sia alla nostra esistenza che a quella dell’intero pianeta. Ma noi umani sappiamo pianificare strategie per il futuro, capacità unica tra tutte le forme di vita. E soprattutto sappiamo sviluppare strumenti scientifici in grado di predire l’esito delle nostre azioni, oltre che strumenti tecnologici che ci danno un controllo senza precedenti sull’ambiente. Anche se è a causa delle nostre azioni se ci troviamo a questo punto non è detto che si sia sull’orlo di un precipizio: crisi è anche opportunità.

Per una frazione significativa degli esseri umani l’impatto del cambiamento climatico sarà devastante, già a breve termine. Ma ciò non deve farci assumere inutili e controproducenti posizioni catastrofiste, spesso strumentalizzate ora dall’una ora dall’altra corrente politica, né deve indurci all’inazione. Lo abbiamo visto durante la recente pandemia globale, in cui l’interconnessione dell’umanità si è manifestata pienamente e l’importanza di agire con urgenza di fronte all’evidenza è stata chiarissima. Possiamo avere maggiore o minore fiducia nei politici ma le persone razionali non hanno mai perso la fiducia nei confronti dei medici e degli scienziati che furono e sono in grado di stilare linee di azione per metterci in sicurezza.

Sono certo che scienza e tecnologica forniranno le risposte e i mezzi opportuni per mitigare gli impatti a breve termine e soprattutto per favorire l’adattamento al cambiamento. Anche se il futuro ci sta arrivando addosso come un treno fuori controllo lo fa su binari da noi costruiti. Se non si inizia davvero non sapremo mai se siamo ancora in tempo. Sono certo che scienza e tecnologia forniranno le risposte e i mezzi opportuni per mitigare gli impatti a breve termine e soprattutto per favorire l’adattamento al cambiamento. Anche se il futuro ci sta arrivando addosso come un treno fuori controllo lo fa su binari da noi costruiti. Se non si inizia davvero non sapremo mai se siamo ancora in tempo. Gli australiani, preoccupati per il flusso migratorio di qualche barchetta ogni tanto in arrivo dall’Indonesia, dovrebbero prendere coscienza seriamente del flusso di milioni di potenziali rifugiati climatici che, con le navi da crociera o con i mercantili, arriverà sulle loro coste, e sbarcheranno, fuori controllo. Lo stesso si può dire per l’opulento nord America nei confronti dei centroamericani, o per Europa, Turchia o repubbliche caucasiche nei confronti dei magrebini e delle popolazioni subsahariane. Perché saranno le regioni più povere ad essere maggiormente colpite, soprattutto se prive di aiuti e di accesso ad eventuali nuove tecnologie.

Diceva Pasteur: «la fortuna aiuta le menti preparate» (in questo post c'è un approfondimento su questo tema) e ciò, pur non essendo una garanzia offre solo maggiori probabilità che si arrivi ad avere risposte ed azioni concrete.

Capire la scienza del cambiamento climatico e i suoi effetti, ancorché probabili, è il primo passo per ottenere questa preparazione

Note bibliografiche:
Lawrence M. Krauss - La fisica del cambiamento climatico
Susan Solomon - Irreversible climate change due to carbon dioxide emissions
Our World in Data - CO₂ and Greenhouse Gas Emissions Data Explorer


[1] E’ lo stesso Lorenz che coniò la storica citazione: “Può un battito d'ali di una farfalla in Brasile causare un tornado in Texas?”