Principi di comunicazione ambientale

L'ambiente non è altro da noi

Non è possibile raccontare l’ambiente a compartimenti stagni, dividendo cambiamento climatico e protezione degli habitat, energia e biodiversità. Non solo: è impossibile separarle da tematiche un tempo esclusivamente umane, come industria e agricoltura.

Quando la questione ambientale diventa una questione ideologica arriva il momento di fermarsi perché la strada intrapresa, qualunque sia il punto di vista, è sbagliato. L’agricoltura intensiva danneggia gli ecosistemi? E allora non ha senso chiedere da che parte si sta, se a favore degli agricoltori o delle linci, o dei fenicotteri.

Sono divisioni prive di senso, perché nessun paese al mondo può rinunciare né alla propria economia né alla propria ecologia, o alla biodiversità. Ma domande divisive come quelle sono la conseguenza diretta della radicalizzazione del discorso ambientale, fenomeno pronto ad essere cavalcato proprio da chi si oppone, per motivi politici che il più delle volte nascondono interessi economici, o da chi si contrappone comunque alla protezione dell’ambiente. Il tema ambientale viene distorto e trasformato e così la ricerca di soluzioni comuni diviene invece la contrapposizione di due parti inconciliabili.

Negli anni Novanta del XX secolo una campagna promossa dall’industria del legname statunitense promosse uno slogan: “Salva un boscaiolo, mangia un gufo”, riferendosi alle campagne di protezione delle foreste antiche dove, tra i tanti, abitava una rara specie di allocco. E’ un esempio classico di ricerca di contrapposizione, taglialegna contro ambientalisti, uomo contro natura, in una ricerca forzata e polemica dell’antitesi inesistente.

L'ecologia è l’esempio più vivo dell’alleanza tra chi c’è, chi c’è stato e chi verrà dopo di noi, dove quel noi non è riferito esclusivamente ad Homo sapiens.

E lo hanno dimostrato i fatti. Nelle zone dove le foreste sono state protette prosperano il turismo, l’agricoltura…e i gufi, con molti di coloro i quali esercitavano da generazioni il mestiere di taglialegna, riconvertiti con successo in altri settori. Nelle altre zone non c’è più niente: nemmeno il lavoro per i boscaioli.

L’unica possibilità per contrastare questa ricerca polemica dell’antitesi tra uomo e natura è un cambio radicale di paradigma. Un’economia giusta per tutti: per gli uomini e per la natura. Le popolazioni devono poter vivere, almeno decentemente e in ciò mettiamoci tutto ciò che ruota intorno ad un’economia agricola intensiva basata su monocolture che sono nemiche della biodiversità, dallo sfruttamento dei lavoratori migranti stagionali che per pochi euro a cassetta raccolgono ogni anno sempre gli stessi prodotti dagli stessi campi, al mantenimento del filo conduttore della storia di un territorio di un’economia che spesso ha emancipato le popolazioni che ci vivevano. È la storia dell’Europa millenaria il cui ecosistema è stato tanto umano quanto naturale.

Proteste

La Nature Restoration Law della Comunità Europea è un primo importante e coraggioso passo verso questa visione globale del problema ambientale. I tentativi della coalizione di destra che voleva affossare questa legge europea sono falliti.
Lo scorso 18 agosto la "Nature Restoration Law" è entrata in vigore.
La speranza è che si possano portare a termine la maggior parte degli ambiziosi obiettivi.
Una legge che dovrebbe imporre agli Stati membri obiettivi di rigenerazione e di protezione degli ecosistemi molto stringenti, che dovrebbero fermare e anzi invertire il drammatico degrado che ha colpito la maggior parte degli habitat naturali europei negli ultimi decenni. La legge è un pezzo fondamentale del Green Deal europeo e rappresenta la politica ambientale più ambiziosa mai proposta a livello globale, perché quelli ambientali sono problemi globali, e non si risolvono guardando ognuno il proprio interesse.

La legge va oltre: marca il passaggio da una visione ambientale spinta soprattutto dagli interessi industriali (energie rinnovabili, tecnologie per la transizione ecologica, nuova mobilità) ad una visione olistica. È una prospettiva che cerca di affrontare la questione a tutto tondo che non pensa che i problemi ambientali dell'Europa si risolveranno solo costruendo più impianti eolici o fotovoltaici; l'idea di base di questa legge è che, se non si mettono limiti all'agricoltura intensiva, se non si proteggono le ultime foreste naturali e gli ultimi ecosistemi pristini d'Europa, se non si ferma lo sfruttamento indiscriminato del mare, tutti gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico saranno comunque vani. È un'idea giusta e ambiziosa, che però si scontra con interessi fortissimi a livello europeo che da anni rallentano o impediscono la riforma di politiche chiave come quelle della politica agricola comune, per mantenere in piedi un sistema di sussidi tanto distorto quanto distorcente.

Ecco perché la battaglia contro la Nature Restoration Law è stata promossa da una serie di lobby del settore agricolo ittico e forestale molto potenti e molto ricche, e la destra vi ha trovato un'occasione valida per prepararsi alle elezioni europee del 2024.

Ripartizione dei seggi al parlamento europeo a seguito delle elezioni 2024

Mentre la legge veniva discussa, col cambiamento climatico che sta già impattando brutalmente la produzione agricola in tutto il continente europeo, dalla Spagna fino alla Polonia, gli agricoltori se la prendono con la protezione della natura e con le decisioni prese a Bruxelles, invadendo di trattori le strade e cospargendole di letame, fomentati da una destra che comunque ha cavalcato l’onda e ha incassato parecchi voti.

In tutto questo non si è compreso che toccare proprio quelle misure che, promuovendo il ritorno di ecosistemi in salute, proteggerebbero l'agricoltura da minacce come quelle che pendono sui campi della Gran Bretagna che, con la Brexit, si è allontanata sempre di più dalle stringenti normative di protezione ambientale in essere nella Comunità Europea, nonostante il paradosso della Scozia che nel 2022, dopo vent’anni di crescita, ha fatto registrare il 113% del fabbisogno energetico prodotta tutta da rinnovabili. Pur essendo comprensibili le proteste, per tanti agricoltori il lavoro è durissimo e il guadagno minimo, dovrebbero prendersela con altro: con la competizione insostenibile delle grandi multinazionali agricole che hanno troppo potere contrattuale, e si possono permettere prezzi ridicoli grazie allo sfruttamento insostenibile delle migliaia di ettari che disboscano in Brasile, in Mozambico, in Malesia; con i politici collusi che distribuiscono i 55 miliardi destinati alla politica agricola comune dell'UE, a coltivazioni intensive per guadagnare una manciata di voti; con gli agricoltori ricchi che sfruttano queste proteste a proprio vantaggio.

Cinque principi di comunicazione ambientale

1. Le questioni ambientali sono tutte interconnesse


Non è possibile raccontare l’ambiente a compartimenti stagni, dividendo cambiamento climatico e protezione degli habitat, energia e biodiversità. Non solo: è impossibile separarle da tematiche un tempo esclusivamente umane, come industria e agricoltura.

Esempio. La crisi idrica del Lago Ciad

Il Lago Ciad, situato nell'Africa centrale, è un esempio di come le questioni ambientali siano interconnesse e impossibili da trattare isolatamente. Il lago si è ridotto di oltre il 90% dalla metà del XX secolo a causa del cambiamento climatico, della gestione inefficace delle risorse idriche e dell'espansione dell'agricoltura. Ecco il tragico effetto domino.
Cambiamento climatico: la diminuzione delle precipitazioni e l'aumento delle temperature hanno accelerato l'evaporazione dell'acqua, contribuendo alla drastica riduzione del lago.
Protezione degli habitat e biodiversità: la riduzione del lago ha devastato gli ecosistemi circostanti, mettendo a rischio le specie di flora e fauna che dipendevano dalle sue acque. La biodiversità locale è in declino a causa della perdita dell'habitat naturale.
Agricoltura e industria: l'espansione agricola e industriale nella regione ha intensificato il prelievo delle risorse idriche del lago per l'irrigazione e il consumo umano, aggravando la sua scomparsa.
Impatto umano: la scarsità d'acqua ha provocato migrazioni di massa e conflitti tra le popolazioni che dipendevano dal lago per la loro sopravvivenza. La competizione per le risorse limitate ha alimentato tensioni sociali e politiche, e persino il terrorismo in alcune aree.
In questo caso, cambiamento climatico, agricoltura, biodiversità, e impatti sociali ed economici sono tutti legati: non è possibile affrontare la crisi del Lago Ciad senza considerare l'interconnessione tra questi fattori. Le soluzioni devono integrare approcci olistici che combinino la protezione ambientale con lo sviluppo sostenibile.

2. Non esiste separazione tra uomo e natura

I vasti territori incontaminati sono un sogno distante, tanto in Europa quanto nel resto del mondo. L’uomo è ovunque: l’obiettivo dovrà essere trovare una nuova via per la convivenza tra uomo e natura, e preservare la poca natura ancora intatta nel mondo.

Esempio. La Foresta Amazzonica

La Foresta Amazzonica, spesso considerata il "polmone del pianeta", rappresenta un esempio evidente di come l'uomo abbia profondamente alterato uno degli ultimi grandi ecosistemi naturali. Nonostante la sua vastità e la biodiversità unica, l'Amazzonia è costantemente minacciata dall'espansione dell'attività umana, come la deforestazione per fare spazio ad attività agricole, estrazioni minerarie e lo sviluppo infrastrutturale.
Questa interazione tra uomo e natura sta distruggendo vaste porzioni di foresta ogni anno, riducendo non solo la biodiversità, ma anche la capacità della foresta di assorbire biossido di carbonio e contrastare il cambiamento climatico (si veda anche qui). Ciò dimostra che i territori incontaminati sono sempre più rari e che la presenza dell'uomo è ovunque, anche nelle aree più remote.
Tuttavia, esistono iniziative che mirano a preservare ciò che rimane di queste aree naturali. Ad esempio, progetti di conservazione e riforestazione in Amazzonia tentano di ristabilire un equilibrio tra l'uomo e l'ambiente, puntando a un modello di convivenza più sostenibile. Queste iniziative cercano di bilanciare lo sviluppo economico delle popolazioni locali con la necessità di proteggere uno degli ecosistemi più preziosi al mondo.

3. Non esistono (sempre) buoni e cattivi


Il discorso ambientale è fatto di sfumature, non di contrapposizioni tra colpevoli e benefattori. Esistono eccezioni, chiaramente, ma nella maggior parte dei casi l’obiettivo non dovrà essere più accusare, ma prima di tutto comprendere.

Esempio. L'uso della plastica nei paesi in via di sviluppo

La questione ambientale legata all'uso della plastica mostra chiaramente che non esistono sempre "buoni e cattivi" quando si tratta di temi ecologici. Da una parte, la plastica è una delle maggiori fonti di inquinamento globale, con enormi quantità di rifiuti che finiscono nei mari e negli oceani, causando gravi danni agli ecosistemi marini. Dall'altra, però, nei paesi in via di sviluppo, la plastica è spesso un materiale economico e accessibile che garantisce vantaggi in termini di salute e sicurezza, come l'accesso all'acqua potabile attraverso bottiglie di plastica o la protezione degli alimenti dalla contaminazione.
Mentre le campagne ambientaliste nei paesi ricchi spingono per l'eliminazione della plastica monouso, nei paesi in via di sviluppo, dove mancano infrastrutture per la gestione dei rifiuti e alternative sostenibili, la plastica è spesso una risorsa necessaria per il benessere quotidiano delle persone. Qui non si tratta semplicemente di identificare colpevoli (chi usa plastica) e benefattori (chi combatte la plastica), ma piuttosto di comprendere le sfumature della situazione: la plastica è un problema ambientale, ma può anche essere una soluzione temporanea per altre sfide, come la povertà e la salute.
Per affrontare la questione, non serve accusare chi utilizza la plastica in contesti dove è essenziale, ma piuttosto cercare soluzioni che bilancino le esigenze ambientali con le necessità umane, come investire in alternative accessibili o migliorare i sistemi di riciclaggio in queste aree. Questo esempio dimostra che, nell'ambito ambientale, il vero progresso spesso richiede comprensione e cooperazione piuttosto che semplici divisioni tra "giusto" e "sbagliato". Si veda anche qui.

4. La comunicazione ha bisogno di più scienza, la scienza di più comunicazione


La complessità delle questioni rende necessario costruire un ponte tra chi possiede gli strumenti di disseminazione e chi i dati e le informazioni, creando occasioni e piattaforme per un dialogo che sia costante e duraturo.

Esempio. La comunicazione della pandemia di COVID-19

Durante la pandemia di COVID-19, la necessità di unire scienza e comunicazione è emersa in modo evidente. Gli scienziati possedevano i dati, le informazioni e la conoscenza riguardo al virus, i vaccini, le misure di contenimento e le cure. Tuttavia, la loro capacità di diffondere tali conoscenze al grande pubblico era spesso limitata da fattori come il linguaggio tecnico, la complessità dei dati e il rapido evolversi delle scoperte scientifiche.
Dall'altra parte, i media e le piattaforme di comunicazione avevano gli strumenti per raggiungere miliardi di persone, ma non sempre possedevano l'esperienza scientifica per interpretare correttamente e spiegare le informazioni. Questo divario ha portato a disinformazione, panico, e confusione, con conseguenze negative sulla salute pubblica.
Un esempio positivo di come si possa costruire un ponte tra scienza e comunicazione è stato il ruolo svolto da esperti come Anthony Fauci e da organizzazioni come l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Questi attori hanno saputo semplificare e divulgare informazioni scientifiche in modo chiaro e accessibile, creando un dialogo costante con il pubblico e fornendo aggiornamenti regolari attraverso conferenze stampa, social media e altre piattaforme. In questo contesto, la comunicazione ha avuto bisogno di scienza per essere accurata e fondata, mentre la scienza ha avuto bisogno di comunicazione per essere efficace nel raggiungere il pubblico e influenzare comportamenti su larga scala.
Questo esempio dimostra l'importanza di un'interazione costante e duratura tra scienza e comunicazione, specialmente in situazioni di crisi globali, dove la corretta trasmissione delle informazioni può salvare vite. In questo post un esempio dal passato approfondisce il tema.

5. Ora o mai più


Le minacce che non solo l’ambiente, ma il mondo nella sua interessa affronta, non sono mai state così grandi – e sono già reali. Ma è anche un momento in cui abbiamo ancora la possibilità di invertire o ridurre queste tendenze, perché finalmente possediamo gli strumenti adeguati. Bisognerà agire adesso perché abbiano successo: è l’ultima occasione che abbiamo.

Esempio. La lotta contro il cambiamento climatico

Il cambiamento climatico rappresenta una delle più grandi minacce globali, con impatti già visibili in tutto il mondo: scioglimento dei ghiacciai, aumento dei livelli del mare, eventi meteorologici estremi come uragani, ondate di calore e incendi boschivi. Gli scienziati avvertono che, se non agiamo rapidamente, il riscaldamento globale supererà il limite critico di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali, provocando danni irreversibili agli ecosistemi e alle società umane.
Tuttavia, abbiamo ancora la possibilità di agire per limitare questi impatti, e il momento di farlo è adesso. Le tecnologie necessarie per la transizione verso un'economia a basse emissioni di carbonio esistono già: energie rinnovabili come solare ed eolico, infrastrutture per la mobilità elettrica, soluzioni per l'efficienza energetica e nuove pratiche agricole sostenibili. Inoltre, la crescente consapevolezza pubblica e politica sta spingendo verso l'adozione di accordi internazionali come l'Accordo di Parigi, che mira a limitare il riscaldamento globale.
Tuttavia, questo è un "ora o mai più": se non riduciamo drasticamente le emissioni di gas serra entro i prossimi anni, le opportunità di mitigare gli effetti più devastanti del cambiamento climatico si ridurranno drasticamente. Il rapporto del 2021 dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha sottolineato che le scelte fatte oggi determineranno le condizioni future del pianeta, e che agire subito è l'unica possibilità per evitare conseguenze catastrofiche.
In sintesi, siamo a un punto di svolta: possediamo gli strumenti, la tecnologia e la consapevolezza, ma è cruciale agire immediatamente per invertire le tendenze attuali e assicurare un futuro sostenibile.
In questa serie di tre post alcuni approfondimenti.

L’intangibilità del problema del cambiamento climatico

Rispetto a molte altre questioni ambientali, quelle che riguardano il cambiamento climatico spesso sembrano intangibili, contemplando processi estremamente complessi rispetto ai quali la mente umana fatica a confrontarsi, e soprattutto, le evidenze di rapporti causa-effetto sono rare e difficili da tracciare. Se le acque reflue di una miniera di rame inquinano la falda acquifera sarà comunque possibile tracciare una linea tra quello che è successo e quello che ne è seguito. Col cambiamento climatico ciò è praticamente impossibile, sia perché il fenomeno acuisce situazioni già esistenti, portandole al limite, sia perché non è possibile ritenerlo causa di una singola tempesta o di una singola siccità.

Di come funziona il clima sulla Terra ne sappiamo davvero poco e dobbiamo soprattutto basarci su modelli previsionali le cui variabili sono in numero così elevato che cambiare le condizioni di partenza per ritrovarsi futuri completamente diversi è estremamente probabile; e se sappiamo poco della circolazione atmosferica ancora meno ne sappiamo degli oceani e del loro ruolo nella regolazione climatica globale. Ma non per questo non ne sappiamo ormai abbastanza per sostenere alcune conclusioni consolidate.

Per fare un solo esempio il sistema di correnti di quella che i ricercatori chiamano AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation (ne scrissi anche in questo post), un complesso sistema di correnti marine di cui la Corrente del Golfo fa parte) è al suo minimo energetico da 1600 anni, in parte per cause naturali ma l’assurdo, rapidissimo riscaldamento imposto dall’uomo alla Terra le sta dando il colpo di grazia: uno studio recentissimo riporta che, se il livello di emissioni non cambia, il collasso potrebbe già avvenire nel corso dei prossimi decenni, accelerato dallo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e da un artico con estati sempre più vicine ad essere ice-free. Con conseguenze inimmaginabili: quando accadde in passato, il collasso dell’AMOC provocò variazioni di temperatura media dell’ordine di 10 gradi sopra la media, ma non abbiamo dati a sufficienza per capire quanto il riscaldamento globale antropogenico, enormemente più rapido rispetto ai cicli naturali, possa causare sulle correnti. Sicuramente se il ruolo di questo sistema di correnti termoaline (guidate cioè non solo da differenze di temperatura ma anche di salinità) è quello di rinfrescare i climi tropicali più freschi o quelli nordici più miti di quanto dovrebbero essere in base alla loro latitudine, un collasso dell’AMOC porterebbe sicuramente a stravolgimenti climatici notevoli, con la fine dell’Europa come la conosciamo oggi dal punto di vista climatico, impatti sull’agricoltura sia in Africa che in India, sulle piogge amazzoniche e sul livello del mare in Nord America. Il collasso dell’AMOC è uno dei tipping point già annunciati e che, qualsiasi cosa si faccia adesso, non servirà a mutarne gli effetti futuri; al pari della scomparsa dell’Amazzonia o dello scioglimento del permafrost.
Un affascinante viaggio lungo la corrente potrete farlo grazie alla lettura di questo libro che ho recentemente recensito sulle pagine della rubrica "La scienza e la tecnica raccontate" di Sigea-APS. 





COP29 - Petrolio e gas sono un dono di dio

Post amareggiato, già a partire dalla sede, dalle dichiarazioni d’apertura, e dall’aria che tira.
Questa COP parte come atteso: malissimo. E finirà peggio.


«Petrolio, gas e materie prime sono un dono di dio», queste le parole del presidente azero; ed ha aggiunto che hanno arricchito il suo paese.  Ilham Aliyev nel suo intervento di apertura alla COP29 di Baku (capitale dell’Azerbaigian), ha sottolineato ricordandolo che l'Unione Europea gli aveva chiesto di fornire più gas, dopo la crisi energetica del 2022. «Qualsiasi risorsa naturale, petrolio, gas, eolico, solare, oro, argento, rame: queste sono risorse naturali e i paesi non dovrebbero essere incolpati di averle e di fornirle ai mercati, perché i mercati ne hanno bisogno»; e ci ha messo il carico dicendo che «I fake news media degli Stati Uniti, il principale produttore mondiale di combustibili fossili, farebbero meglio a guardarsi allo specchio».

Touché?

Il Segretario delle Nazioni Unite António Guterres, che non ha mai nascosto d’essere fortemente schierato affinché vengano urgentemente rinforzate le politiche di transizione energetica, quando addirittura ancora non avviate, ha potuto rispondere con un timido vagito che «la transizione non è un’opzione».

E tutte le associazioni, pubbliche e private, Onlus, ONG, comitati e movimenti, che hanno chiesto da mesi di depennare dalle COP i paesi produttori di petrolio? Non pervenute perché censurate.

E i più grandi tra i grandi assenti, Cina e Stati Uniti?

Ricordo brevemente cos’è una COP, che sta per Conference of the Parties. La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (UNFCCC in inglese, United Nations Framework Convention on Climate Change), fu firmata nel 1992 ed è a tutt’oggi il punto di riferimento per la regolamentazione giuridica sovranazionale in ambito climatico. È un trattato che fa da strumento operativo per il contrasto al cambiamento climatico, così come definito appunto da UNFCCC: "attributed directly or indirectly to human activity that alters the composition of the global atmosphere and which is in addition to natural climate variability observed over comparable time periods". Sono 197 i paesi che hanno, ad oggi, ratificato il trattato.

A proposito, sul cambiamento climatico ho scritto di tutto e di più.

La Convenzione non è un accordo legalmente vincolante ma ogni paese firmatario ha degli obblighi sanciti, alcuni validi per tutti ed altri solo per i paesi più sviluppati. Ogni COP, riunita annualmente, è l’organo supremo di controllo delle parti che hanno ratificato tale accordo, eche lo esercita esaminando l’attuazione della convenzione. Alle COP possono partecipare come osservatori anche altre agenzie delle Nazioni Unite, rappresentanti di organizzazioni internazionali, enti, agenzie e ONG.

Le negoziazioni relative al tema del cambiamento climatico si svolgono in seno e durante ogni COP. La più famosa delle conferenze fu COP21, del 2015, che si chiuse con il famoso Accordo di Parigi, quello che prevedeva un impegno collettivo per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C…a chiacchiere, perché a quanto pare già quest’anno siamo andati sopra.

Ed ecco pronta un’altra COP ospitata da un paese la cui economia è fondata sui combustibili fossili. 

Di male in peggio quindi.

Panorama azero

L’anno scorso avevo sottolineato che anche la COP 28 a Dubai era fortemente inquinata (l’allusione è voluta) dal fatto che il paese ospitante fosse uno dei principali produttori di petrolio al mondo, e soprattutto che la strategia dei paesi arabi mira chiaramente a massimizzare lo sfruttamento delle considerevoli riserve petrolifere, rappresentanti oltre la metà delle risorse globali, finché il mercato del greggio mantiene la sua rilevanza e prima che sia gradualmente sostituito. La COP28 finì quasi in clamoroso fiasco, nonostante le dichiarazioni che furono annunciate entusiasticamente; e cosa ci fu allora di meglio a provarlo se non le parole dall'emiro Sultan Al Jaber, leader degli Emirati Arabi Uniti? «Torneremo alle caverne» disse, e sottintendeva se non si continuerà ad usare combustibili fossili, a cominciare dai paesi arabi a cui resterebbe solo la sabbia da vendere.

Gli Stati Uniti, assenti e con Trump neo(ri)eletto, sono già in odore di uscire da qualsiasi accordo climatico. Per il presidente USA il cambiamento climatico è una bufala. E ho detto tutto.

Sulla Cina, anch’essa assente, andrei più cauto. È vero che è attualmente il maggior produttore di CO2 (non storicamente, lì il triste primato è tutto americano) ma è altrettanto vero che il grande paese ha un piano ambizioso di decarbonizzazione che, per quanto se ne sa, ha avviato da tempo e intende rispettare


Storico delle emissioni di biossido di carbonio di Cina e USA comparati col resto del mondo.
Grafico interattivo.

Insomma, a Baku è un deja vu: allarmi, promesse, ipocrisie e il solito capro espiatorio. Mentre ancora contavano i voti in Minnesota, Trump era già indicato come uno dei colpevoli del fallimento della COP29. È vero, il predecessore e il successore di Biden ha promesso che, come ho scritto poco fa, farà uscire gli USA dall’Accordo di Parigi, ma è un pezzo ormai che le COP ostentano autolesionismo e si sabotano da sole.

Con uno schema ripetuto e collaudato si passerà attraverso le previsioni catastrofiche, e lungi da me dal fare appunto catastrofismo, di esempi ne abbiamo a iosa, al messaggio in stile last generation con ultimatum alla Terra tirando in ballo i soliti tipping points (e anche su questo ne ho scritto a iosa) fino ad arrivare alle grandi promesse durante le discussioni che quasi H24 terranno impegnati i presenti. Un accordo ci sarà, sarebbe troppo vergognoso uscirne senza, ma sarà, ancora una volta al ribasso, tanto si avrà modo di tornarci su, si diranno. E questo la dice lunga su quel che davvero pensano i leader mondiali del cambiamento climatico.

Almeno fino alla prossima COP, perché come avevo detto per la COP26 nel 2022, prendendola forse troppo seriamente, ce ne sarà un’altra. Purtroppo?

Ci sono altri grandi assenti. Joe Biden, Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron, Narendra Modi, Olaf Scholz e Xi Jinping non presenzieranno e Giorgia Meloni farà un passaggio obbligato dal suo momentaneo ruolo di capo del G7. Assente persino Luiz Inácio Lula da Silva, il presidente del Brasile che ospiterà la prossima COP. Le banche? Assenti. I petrolieri? Tutti presenti!

 

La via del petrolio e del gas azeri

Il presidente della COP, Mukhtar Babayev, risiede stabilmente da decenni nella compagnia petrolifera statale azera Socar, e molti osservatori sostengono che l’obiettivo dell’Azerbaigian in questi giorni è trovare accordi per aumentare le proprie esportazioni di gas all’estero; grottesco vero? Ma già visto l’anno scorso a Dubai. E come dimenticare il dettaglio, non è un segreto per nessuno, che  l’Azerbaigian sta ospitando la COP per ripulirsi l’immagine a livello internazionale, dopo l’invasione del Nagorno-Karabakh e numerose violazioni dei diritti umani denunciate anche dal Parlamento Europeo? (sull’eterno conflitto tra armeni e azeri suggerisco il bel video di Stefano Tiozzo).

Ma fare promesse, tutte in odore di greenwashing è facile. A proposito di verde, avete notato la scelta strategica del colore dato all’evento azero? Un bel verde…verde petrolio o speranza!




Tanto sarà stata colpa di Trump, almeno per i prossimi quattro anni.  Mai sostenuto il tycoon e la sua politica, ma qualcuno si è accorto che durante il suo primo mandato presidenziale le emissioni di carbonio pro capite degli Stati Uniti sono scese dalle 16,1 tonnellate a persona del 2016 alle 14,9 del 2021? E che il suo principale sponsor elettorale, Elon Musk, sia uno dei più importanti produttori di auto elettriche al mondo? Ancora una volta, grottesco.


Emissioni 2017-2021 pro capite di cittadini statunitensi comparati con altri paesi.
Grafico interattivo.

Con il disimpegno americano dall’Accordo di Parigi  sarà chiaro a tutti quello che già è noto: nel mondo quasi nessuno ha intenzione di sacrificare la crescita economica e industriale per raggiungere obiettivi totalmente arbitrari con mezzi costosissimi.

Questa COP era un fallimento certificato prima ancora di iniziare.

AP/Peter Dejong

Il cambiamento climatico è innanzi tutto un problema di ordine sociale, con implicazioni drammatiche per una parte gigantesca dell’umanità.

Quella parte da sempre ignorata dell’umanità. Ciò che una volta veniva chiamato sud (globale) del Mondo e che ora, a comprendere minoranze che non necessariamente vivono a sud dell’Equatore ed altre comunità emarginate, è stato chiamato MAPA, Most Affected People and Areas.

[Edit del 13/11/2024] Le parole rivolte ai partecipanti alla COP29 da parte del Card. Pietro Parolin, Segretario di Stato del Vaticano, ne amplificano la portata: «Quando si parla di finanziamenti per il clima, è importante ricordare che il debito ecologico e il debito estero sono due facce della stessa medaglia, che ipotecano il futuro». E ancora, ricordando le parole del Papa: «Le nazioni più ricche riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: c’è infatti un vero ‘debito ecologico’, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali compiuto storicamente da alcuni Paesi».[fine]

Volete la prova? L’1% più ricco della popolazione mondiale (rapporto Oxfam “Climate Equality”, novembre 2023) è responsabile del 16% delle emissioni globali di carbonio. Lo stesso quantitativo prodotto dal 66% più povero dell’umanità. Un altro indicatore dello stile di vita insostenibile, come quando si dice che uno svizzero consuma 10 volte più di un eritreo.

[Edit del 14/11/2024]Nel suo intervento odierno, intervento di prammatica in quanto momentaneo capo del G7, Giorgia Meloni ha detto, tra le varie cose «dobbiamo proteggere la natura con l'uomo al suo centro». Niente di peggio. È proprio l'antropocentrismo che crea la non esistente antitesi uomo-natura alla radice dell'atteggiamento di superiorità degli esseri umani sul resto della natura; che invece non è altro da noi, ma ne siamo parte, ricordando con umiltà che siamo qui solo da 200.000 anni e che per tutto il resto del tempo, 4 miliardi di anni, ovvero almeno 20.000 volte di più, la natura ha fatto a meno di noi.[fine]

Ricordando da quanti decenni si parla, e basta, di cancellazione del debito dei paesi poveri il sillogismo con lo squilibrio delle responsabilità ambientali e climatiche sarà chiaro. 

Così come finora i paesi ricchi, che sono anche i più inquinanti, non hanno pagato nessun extra per tentare di ridistribuire la ricchezza e migliorare la vita della maggioranza dell’umanità, questi stessi paesi non hanno realmente intenzione di pagare quel che anni fa, nel suo libro sul clima, Bill Gates (molto più esperto ed attento di quanto si ritenga) ha definito Green Premium.

Un’azione climatica davvero efficace deve introdurre e partire dalla più grande delle emergenze: le disuguaglianze economiche. Omettere dal quadro generale tutti gli aspetti di giustizia sociale e redistribuzione delle risorse non porta da nessuna parte. Se l’umanità non capirà che la transizione energetica è innanzi tutto un problema sociale non sarà mai davvero conscia della gravità del cambiamento climatico.

Concedetemi un’ultima amarezza: le rinnovabili? Nonostante i 3870 GW (IRENA, marzo 2024) di energia prodotta da fonti esclusivamente rinnovabili, laddove il fotovoltaico da solo rappresenta quasi i tre quarti del totale, la quota di energia da combustibili fossili è ancora superiore all’80%, appena cinque punti in meno che nel 2015, ai tempi dell’Accordo di Parigi. E non perché non stiamo aggiungendo rinnovabili (500 GW solo nel 2023), ma perché non le usiamo per sostituire le fonti fossili, ma vengono aggiunti al fabbisogno energetico complessivo. Un grafico ostentato con orgoglio che rappresenti un aumento delle rinnovabili, privo di contesto, è narrare di una lotta al cambiamento climatico inesistente.

Non è energia che ha sostituito le fonti fossili, ma energia che si è aggiunta allo status quo. E ciò non significa transizione.

Scetticismo, delusione e rammarico crescono.
Non servirà a niente quel minimo di impegno che qua e là emerge.
Come fare la differenziata e buttare tutto in discarica.

AP/Rafiq Maqbool

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Pubblicato anche su Protectaweb

Imperfetti per fortuna

 

Giorni fa pubblicavo un post sulla potenza dell’anormalità. E come non scrivere anche dell’imperfezione, una delle caratteristiche della vita e motore dell’evoluzione?

Un ghepardo in corsa. Bellissimo, potente, velocissimo, nato per uccidere direbbe qualcuno. Una macchina da guerra perfetta. Perfetta? Mica tanto.

Trovate qualche documentario in cui mostrano, su un certo numero di tentativi di predazione, quante volte fallisce. Un minuto dopo ha il fiatone e deve sdraiarsi all’ombra: anche oggi si mangia domani.

Per cacciare il ghepardo si è specializzato sulla velocità immediata, trascurando altro. Specializzarsi significa anche rinunciare, fare un compromesso, purché funzioni.

Qualsiasi prodotto della natura non è finito: è un processo in corso. Perché gli scienziati non sono riusciti per lo meno ad imitare soluzioni naturali come la policromia del polpo o la fotosintesi clorofilliana? Perché quelli che ci appaiono, e lo sono, come prodigi, sono il risultato di miliardi di anni di tentativi ed errori.

Le caratteristiche di ogni specie, le variazioni individuali, si evolvono senza uno standard prefissato, esplorando le possibilità presenti innumerevoli, utilizzando il materiale a disposizione, riciclandolo e riadattandolo senza inventare dal nulla niente: purché funzioni, proprio come il compromesso del ghepardo.

L'imperfezione è ovunque

L'imperfezione è ovunque.

Rita Levi-Montalcini diceva che il nostro cervello è un accrocco di parti vecchie e nuove, riciclate e riadattate, altro che meraviglia dell’universo. I cloroplasti, organelli specializzati delle cellule vegetali all’interno dei quali avvengono le reazioni fotosintetiche, erano in origine batteri specializzati fagocitati e diventati parti simbionti di altri batteri. Il mal di schiena, i dolori del parto? Retaggi del bipedismo, riutilizzo di qualcosa che andava benissimo quando stavamo a quattro zampe come gli altri mammiferi. Persino il DNA, l’origine di tutto (più o meno) è un accrocco che contiene ridondanze e ripetizioni.

Sempre il solito (...) Charles Darwin scrisse che «la natura gronda di inutilità e l’imperfezione è il segno della storia». Ed è qui che il grande naturalista colse nel segno della sua rivoluzione: le specie non sono qualcosa a cui si mira idealmente, termine di processi finalistici, magari governati da entità metafisiche. Le specie sono popolazioni di individui concreti, ognuno diverso dagli altri, ciascuno portatore di piccole differenze che fanno la differenza. Inutile anelare a canoni ottimali di perfezione, di efficienza, di purezza, di bellezza formale.

Inutile e sbagliato, per quanto attraente per la maggior parte degli esseri umani. Se continuiamo a guardare il mondo, umano e non, attraverso la lente deformante dei tipi ideali, automaticamente salta fuori la diversità che assume connotati negativi, perché diverso viene inteso come deviazione dalla norma (ne ho scritto qui), qualcosa da interpretare come imperfetto rispetto al canone. Ciò comporta gerarchie di valori e persino in società apparentemente ugualitarie ci sarà qualcuno che si sentirà più uguale degli altri. 

Si è scritto come il mondo del web sia l’espressione prima del conformismo, dell’appiattimento, dell’omogeneizzazione, con tantissimi esempi di gruppi che nascono apposta per consentire a determinate individualità di sentirsi accolti: l’aspetto drammatico in tutto questo è che gli algoritmi e le piattaforme della rete, per nulla neutrali, sono progettati sulla base di precisi preconcetti che hanno come obiettivo quello di creare canoni di consenso, bolle di autoconvincimento e comunità digitali fondate sul pregiudizio, di modo che ogni «tribù» abbia un profilo sfruttabile commercialmente. Con l’aggravante che il tutto è ammantato da un’aura di libertà informativa e di democrazia dal basso. 

E così la mente umana, predisposta a certe scelte, fa sentire appagati coloro i quali si chiudono in queste comunità protettive, in piccoli e asfissianti «noi» digitali, ciascuno organizzato secondo standard propri di perfezione a cui conformarsi, nel look, negli idiomi, nei gusti o nei comportamenti.

La perfezione ha comunque un potere seduttivo notevole, e non è nemmeno corretto elogiare la morale o l’estetica dell’imperfezione perché, pur essendo naturale, non è positivo, né giusto di per sé, e men che meno piacevole.

Ciò che occorre, per evitare sofferenza, ansia, scarsa autostima e disagio da imperfezione, è sradicare gli stereotipi di perfezione socialmente indotti, vere e proprie fabbriche di pregiudizi e sensi di colpa, per eliminare una causa contestuale che aggrava quel disagio.

Non dovendo più corrispondere a pressioni esterne indebite ci sentiremmo consapevoli di essere diversi in molti modi. L’evoluzione si nutre sia delle differenze individuali ma anche delle diversità multiple: se gli altri seguono canoni di perfezione ognuno ha comunque il diritto di emanciparsene.

La natura non è un’autorità morale e non può essere invocata strumentalmente per condannare come «contro natura» tutto ciò che non piace.

Il nostro corpo imperfetto non è normale in quanto naturale. E non è solo un diritto da rivendicare contro pregiudizi e condanne sociali. È qualcosa di più profondo: è l’espressione della diversità individuale, che non può essere eliminata o soffocata nell’appiattimento sociale.

 Sono le ragioni evolutive di quell’imperfezione che ci hanno reso umani.