23 ottobre 2025

COP30. Dal processo all'azione?


La COP30 è alle porte: quest’anno si terrà a Belém, in Amazzonia, Brasile, location altamente simbolica. E quest’anno anticipo il mio commento, sentendomi abbastanza sicuro del fatto che, anche stavolta, sarà stato bello argomentare e fare accademia intorno a parentesi e virgole…dopo tutto se saltaste alle ultime due righe potrebbe essere amaramente divertente.

Con l’avvicinarsi della COP30 l'attenzione deve spostarsi dal processo all'azione, all’impatto che questa dovrà avere: occorre definire non una mera dichiarazione d’intenti, le solite linee guida che da anni stanno accompagnando senza efficacia le annuali conferenze delle parti. Serve una risposta credibile per contrastare gli attacchi ai molteplici aspetti del cambiamento climatico, per silenziare le voci negazioniste e per promuovere azioni volte a ridurre le emissioni, a definire l'adattamento, la mitigazione, a contenere le perdite e i danni, soprattutto in termini finanziari.

Non dovrà essere solo il solito vertice, ma una dichiarazione sulla nostra serietà nell'affrontare la crisi climatica.

Per avere successo questa COP, tutte le COP, non hanno bisogno, non soltanto, della definizione dei programmi tradizionali, ancorché importanti, e nemmeno solo dei risultati attesi o conseguiti in tema di adattamento, transizione, mitigazione, o di implicazioni economiche: tutto ciò è definito, misurabile e controllabile in quanto presente nel cosiddetto Global Stocktake (GST), il bilancio globale, ovvero il meccanismo di valutazione dei progressi ottenuti a livello globale nella risposta alla crisi climatica e nell’implementazione delle contromisure. Mitigazione, adattamento, mezzi economici di attuazione e sostegno, ripetiamolo, sono conosciuti e definiti, ma questi, privi del necessario supporto, portano e hanno portato rapidamente ad una gestione che non ho esitato a definire fallimentare.

Indubbiamente sono tutte tematiche importanti ed essenziali, ma anche tutte insieme, non costituiscono il “grande obiettivo” di cui questa COP ha bisogno per avere successo.

Non retorica, ma credibilità

Occorre in primo luogo una cover decision: un documento chiave alla fine della conferenza internazionale sul clima che delinea i principali obiettivi e traguardi politici, un accordo primario, basato sul consenso, che stabilisca l'agenda e tenga traccia dei progressi per le azioni future, come fu per il Patto di Glasgow della COP26 o prima ancora l’Accordo di Parigi della COP21; rappresentare una strategia volta a colmare le significative carenze complessivamente riscontrate, soprattutto quelle legate ai piani ambiziosi di azioni riguardanti il cambiamento climatico. Continuerò ad usare la sua definizione inglese, noi lo chiameremmo documento programmatico: lo so, richiama subito alla mente tante belle chiacchiere nostrane[1]

La credibilità della COP30 si basa proprio sul come affronterà tutto questo. I tentativi di spacciare, ancora una volta la COP30 per un successo, senza una risposta del genere, sembrano vani, soprattutto dopo le precedenti edizioni piuttosto scarse in termini di risultati, e a volte paradossali, almeno in termini di sede. Se la COP30 deve colmare il vuoto decisionale lasciato dopo tante belle dichiarazioni d’intenti, ecco che emerge ancora più forte l’esigenza di una cover decision.

All'ultima COP, si è assistito ad un gran parlare di mitigazione e adattamento, senza però affiancarci un serio programma di provvedimenti economici e finanziari legati al cambiamento climatico. Ed è questo è il punto più critico. I paesi in via di sviluppo e quelli più vulnerabili esigono meccanismi di finanziamento più solidi e concreti. Sarà cruciale definire come sbloccare i flussi di capitale per l'adattamento agli impatti e per la mitigazione delle emissioni, superando le promesse generiche. La finanza climatica è la chiave per costruire fiducia tra le nazioni.

Un’azione climatica davvero efficace deve introdurre e partire dalla più grande delle emergenze: le disuguaglianze economiche. Omettere dal quadro generale tutti gli aspetti di giustizia sociale e redistribuzione delle risorse non porta da nessuna parte. Se l’umanità non capirà che la transizione energetica è innanzi tutto un problema sociale non sarà mai davvero conscia della gravità del cambiamento climatico. E, amara considerazione, dei fondi stanziati, a chiacchiere, non un solo dollaro finora è realmente giunto nelle casse dei paesi più bisognosi.

Senza impegni concreti – in particolare nuovi finanziamenti credibili da parte dei paesi ricchi – la storia rischia di ripetersi. Il processo da solo non è garanzia di successo, ma un processo mal gestito è la ricetta per il fallimento.

La COP30 dovrebbe chiudere il ciclo di ambizioni del Global Stocktake, lanciato alla COP28, e non basta affatto inquadrare queste velleità o buoni propositi che sia, in termini di temperatura media globale da non superare.

La COP30 è considerata una tappa cruciale, arrivando a 10 anni di distanza dall'Accordo di Parigi. L'obiettivo di mantenere il riscaldamento globale a 1.5 °C è ancora lontano. C'è l'urgente necessità che paesi presentino i loro piani relativi agli obiettivi di riduzione delle emissioni, in linea con le indicazioni scientifiche, ma finora, quasi il 95 percento dei paesi non ha rispettato la data di presentazione! Il Brasile, come ospite, cercherà di posizionarsi come leader di questa spinta, possibilmente tutt’altro che nudging.

Tra i paesi che hanno fatto i compiti a casa ci sono gli Emirati Arabi Uniti, il Brasile, la Svizzera, il Regno Unito, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti, il cui piano però dovrebbe essere abbandonato dal presidente Trump che vuole uscire dall'Accordo di Parigi a partire dal 2026. Nella lista figurano anche Uruguay, Andorra, Ecuador e Santa Lucia, Isole Marshall, Singapore e Zimbabwe. Anche il Canada si è aggiunto, nonostante le critiche. 

Cina, Unione Europea e India non hanno ancora presentato i loro piani climatici, paesi tra i principali responsabili della crisi climatica. I segnali politici sull’azione climatica globale non sono positivi.

Dalle parole ai fatti?
Ciò nonostante, una cover decision potrebbe non essere il mezzo più efficace, per lo meno non da sola. È tempo che la COP vada oltre la negoziazione continua, a volte una vero e proprio conflitto, sulla formulazione delle decisioni, e si dedichi davvero a sostenere e facilitare l'attuazione. Ovviamente una COP, ma nemmeno UNFCCC, non sono organi decisionali, legislativi, ma non devono nemmeno essere ridotti al ruolo di portavoce, più o meno ufficiale e ascoltato, dei problemi legati al cambiamento climatico: quelli sono sotto gli occhi di tutti. Facendo inoltre attenzione all’aspetto, in un certo qual modo, burocratico: una cover decision non fornisce necessariamente una migliore panoramica dei risultati, né facilita il raggiungimento di un equilibrio tra diverse priorità.

In secondo luogo, mentre la giustificazione iniziale a Glasgow nel 2021 era la valida necessità di affrontare gli ambiziosi (irrealizzabili?) processi di mitigazione (argomento validissimo anche a Belém), proporre una cover decision inevitabilmente apre la porta all'inserimento di una serie di altri argomenti: il dibattito si amplia e rischia rapidamente di trasformarsi in un ginepraio. Anche se c’è chi vede tutto ciò come un modo per garantire l'equilibrio tra gli argomenti, man mano che i problemi si moltiplicano il prezzo da pagare sale. Un esempio? Dopo la COP27 del 2022 a Sharm el-Sheikh, in Egitto, fu presentato un documento conclusivo (cover decision) contenente ben 17 sezioni! Tutte rimaste lettera morta. Non ci credete? Leggete voi stessi, al primo punto stiamo ancora al ringraziamento e al riconoscimento del contributo scientifico. E qui potete trovare, in italiano, quanto prodotto a Glasgow alla COP26.

In terzo luogo, le cover decision spesso danno origine a mandati mal preparati. Il programma di lavoro sulla mitigazione di Glasgow e il programma di lavoro sulla giusta transizione di Sharm El Sheikh avevano buone ragioni, ma la loro portata e i loro obiettivi sono stati poco discussi prima dell'adozione delle decisioni, e da allora le parti hanno faticato a trovare un accordo su come attuarli. Lettera morta, ancora.

Occorre invece razionalizzare e migliorare i mandati già esistenti, assicurando l’istituzione di processi che facciano la differenza e non che li ostacolino ulteriormente.

Allora, cos’altro opporre, o affiancare, ad una cover decision tutta da realizzare?

Argomenti principali della Action Agenda della COP30

Action! Agenda! Forum!
La cosa migliore sembra quella di realizzare un forum di attuazione, passare all’azione, all’impatto, come ho scritto in apertura. A parte le descrizioni di sintesi, molto utili per approfondire, di ciò che dovrebbe essere e fare un forum del genere a Belém sembra si sia già un bel pezzo avanti, perché esiste già una Action Agenda, che mobilita azioni volontarie per il clima in tutte le economie e le società, fornendo proprio lo strumento di cui abbiamo bisogno per raggiungere questo obiettivo, con il grande vantaggio di non richiedere risultati consensuali. La presidenza brasiliana si sta già muovendo nella giusta direzione, con la riorganizzazione dell'agenda d'azione.

Obiettivi della Action Agenda della COP30, 2025
Un attivista di Extinction Solution alla COP29, 2024


Troppi galli a cantar non fa mai giorno...
Ma ecco che il grillo parlante inizia a frinire: osservando le due immagini precedenti sembra proprio che anche stavolta si voglia fare di tutto per realizzare il solito ginepraio, un coro stonato e disarmonico di mille voci, tante chiacchiere e nulla di fatto. Per essere accettabile, un forum di attuazione deve correggere la debolezza principale dell'agenda d'azione finora adottata: non deve moltiplicare gli annunci ma garantire un seguito credibile e un'attuazione concreta. Questa tendenza deve cambiare.

Proteste alla COP29 contro la proposta di un accordo sui finanziamenti per il clima, chiedendo "trillions not billions" e gridando "nessun accordo è meglio di un cattivo accordo". 2024.

Perché di problemi sul tavolo ce ne sono già tanti, a cominciare dalle proteste degli attivisti dei paesi del cosiddetto “sud globale” (oggi meglio definiti come MAPA, Most Affected People and Areas) che, giustamente, protestano e invitano a disertare COP30. 

Gli ultimi giorni della COP non dovranno essere come in molte delle precedenti edizioni: un'ulteriore e tesa negoziazione su un ennesima cover decision che non avrà molto impatto. Dovrebbero invece essere il momento in cui viene presentato un piano di attuazione, con la garanzia del suo forum. 

Questo piano chiarirebbe come andranno avanti tutti i lavori messi in opera, specificando chi, cosa e quando, con risultati chiari nel giro di uno o due anni. Indicherebbe dove e quando si riunirà un forum di attuazione già nel 2026, per supervisionare i progressi. Tale processo dovrebbe essere guidato dalla presidenza della COP30, dai promotori e, auspicabilmente, entro quella data, dalla presidenza entrante della COP31.

Massimizzare l'azione nel mondo reale

Un piano di questo tipo sarebbe inclusivo, coinvolgendo non solo le parti in causa, ma anche altre organizzazioni internazionali, istituzioni finanziarie, imprese, governi subnazionali e la società civile. Fondamentalmente, potrebbe comunque catturare messaggi politici chiave – sugli obiettivi di mitigazione, adattamento, finanza, perdite e danni – ma in termini di risultati da raggiungere attraverso l'azione, non con la solita retorica.

Cambiare l'abitudine della UNFCCC di negoziare le decisioni sarà difficile. Anche se il risultato dovrà includere una sorta di testo decisionale questo dovrà essere breve e mirato, ma dovrà sicuramente essere affiancato da un forum di attuazione parallelo per conferirgli credibilità.

Il vertice dei leader, che si terrà poco prima dell'apertura della COP30, potrebbe offrire ulteriori opportunità per raccogliere richieste di intervento più incisive e da quello si capiranno molte cose.

Partire dal presupposto che una (ennesima) cover decision a Belém sarebbe sufficiente e prova di successo non è soddisfacente, poiché comporterebbe un alto rischio di fallimento in seguito. Alla COP30 si dovrà puntare più in alto a rappresentare il momento in cui il mondo sposterà la propria attenzione per garantire una maggiore credibilità e, soprattutto, iniziare a massimizzare il proprio impatto nel mondo reale.

Come dite? Un bel discorsetto anche questo? Un altro gallo che canta?
Sono d’accordo…


Il ministro dell'Ambiente brasiliano Marina Silva interviene alla cerimonia di apertura pre-COP a Brasilia, 13/10/2025

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[1] Chissà, riuscirebbe forse meglio in questo compito uno di quei software di AI specializzati? Ce ne sono in grado di tener traccia di quel che si dice in qualsiasi riunione, realizzando un abstract, uno schema per punti chiave, mappe concettuali e addirittura un'agenda del chi fa cosa e quando. Certo, da usare con attenzione, visto quel che davvero fanno questi software.

 

12 ottobre 2025

La Terra dopo di noi

Sto rileggendo, saltellando di pagina in pagina, il libro “La Terra dopo di noi”, di Telmo Pievani, il noto filosofo della biologia, che insieme al fotografo Frans Lanting, ci invita ad immaginare, in una sorta di esperimento mentale, una Terra priva di noi: un esercizio sia chiaro, non un augurio. Come apparirebbe il nostro pianeta senza i sedicenti sapiens.

Lo scopo di ciò, che definirei più proiezioni che fantasie, è portarci umilmente a riconsiderare il nostro ruolo e la nostra posizione nell’immenso panorama evoluzionistico, geologicamente e biologicamente parlando. Le bellissime foto di Frans Lanting ci propongono scenari, tutti belli e spesso angoscianti, del nostro pianeta senza traccia umana. Non c’è molta superficie terrestre che possiamo considerare priva dell’impronta ecologica antropogenica – forse il 15-20% -, che sia considerabile incontaminata; ma è ancora possibile scattare foto del genere, che aiutano a realizzare l’esercizio proposto da Telmo Pievani e che invito a vedere.

Nel corso della sua lunga storia, circa 4.500.000.000 anni (l'espressione in anni è voluta), la Terra è stata ed è andata tranquillamente avanti senza Homo sapiens, che è apparso sul pianeta solo 200.000, o forse 300.000 anni fa – in 4,5 miliardi di anni di periodi da 200.000 ce ne stanno circa 20.000!

Un esercizio piuttosto facile quindi.

Se l’intera storia del pianeta fosse racchiusa in un giorno, noi sapiens saremmo apparsi solo alle 23:37 e avremmo inventato l’agricoltura e l’allevamento solo un minuto e qualche secondo prima della mezzanotte. La Terra è quindi stata pressoché sempre priva…e prima di noi, cavandosela sempre egregiamente nonostante abbia subito fenomeni geologici che definire cataclismi è poco (un esempio) ed estinzioni di massa di portata tale d’aver cancellato la quasi totalità delle forme di vita, sulle terre emerse così come negli oceani.

Tutto ciò senza emozione alcuna: il pianeta non è dotato di alcuna sensibilità, nulla lo turba, di ciò che noi umani abbiamo categorizzato come bene o male. Al pari degli altri pianeti, che siano o no quelli del sistema solare, la Terra ha un lungo passato alle spalle e un lungo futuro davanti (più o meno altrettanto tempo di quanto ne è trascorso finora, circa 5 miliardi di anni). Altro che carpe diem! Prima e dopo l’attimo presente, è stata e sarà del tutto indifferente alle umane vicende. Ricorda da vicino la visione del tipo che non temeva la morte perché, dopo tutto, nel prima e nel dopo della sua infinitesima esistenza, era sempre stato morto.

Una cosa è però certa, e per quanto ci è dato sapere l’unica che conosciamo: su questo pianeta, circa 3,5 miliardi di anni fa, è comparsa la vita, dando luogo alla formazione di una delle sue sfere: la biosfera, che insieme a litosfera, atmosfera, criosfera e idrosfera, costituiscono quel blue pale dot di cui scrisse Carl Sagan. La biosfera: un ambiente piccolissimo rispetto alle dimensioni del pianeta ma così incredibilmente ricco in termini di esseri viventi. Se riducessimo le dimensioni della Terra a quelle di una palla di biliardo (circa 6 cm di diametro), non riusciremmo ad apprezzare la rugosità dovuta ad esempio all’Himalaya, con le sue cime, né alle più profonde fosse oceaniche; l’atmosfera, considerata nei suoi primi 10 chilometri, sarebbe appena qualche centesimo di millimetro e qualche goccia d’acqua di gran lunga superiore al quantitativo ridotto a questa scala. Eppure in così poco spazio così tanta vita, diversità, infinite bellissime forme ebbe a dire Charles Darwin.

Al contrario della Terra nella sua interezza la biosfera non è affatto indifferente alla nostra presenza: nonostante si sia su questo pianeta da un battito di ciglia su questa biosfera abbiamo lasciato e stiamo lasciando un’impronta marcata e ben visibile. Probabilmente già prima della rivoluzione neolitica, circa diecimila anni fa, col controllo del fuoco, ma sicuramente allora, in diverse parti del mondo più o meno in simultanea i nostri avi hanno smesso la loro economia fondata sulla raccolta e sulla caccia per abbracciare un’economia fondata sull’agricoltura e sull’allevamento. Un’impronta così marcata da aver indotto alcuni ad etichettare così una nuova epoca geologica: l’Antropocene che, pur non trovando accordo sul momento storico esatto da cui farla partire, e quale sia l’evidenza che la certifica, rende molto bene l’idea. Un’epoca il cui fattore determinante e distinguente è Anthropos, l’essere umano.

Homo sapiens allora iniziò ad alterare il territorio con incendi e disboscamenti, a costruire città e monumenti, a regimentare le acque, adattandosi ai climi più freddi con i vestiti, e la popolazione crebbe da pochi, decine di migliaia forse, a centinaia di milioni.

E da allora di tutto ciò il pianeta, o meglio la biosfera, se ne accorse.  Il genere umano divenne un attore ecologico globale, in grado di interferire con i grandi cicli biogeochimici del pianeta, con la sua tipica capacità arrogante di pretendere il ruolo di protagonista, all’apice di una scala di progresso che veda Homo fine ultimo.

Indubbiamente il percorso ha avuto successo, altrettanto va detto del progresso compiuto. Con le sue migliaia di contraddizioni la condizione del genere umano è decisamente migliorata nel suo complesso, ma con gli effetti collaterali sotto gli occhi di tutti: talmente tanti che offuscano la dimensione di progresso.

Tutti dovrebbero conoscere il biologo americano Paul Ehrlich che nel 1968 scrisse un libro (in realtà fu scritto a quattro mani insieme alla moglie), The Population Bomb, in cui dipingeva a tinte fosche il futuro, prevedendo centinaia di milioni di morti per fame e con l'India che non sarebbe sopravvissuta oltre il 1980. Nulla di tutto ciò accadde. Un esempio: in India la popolazione è raddoppiata rispetto al 1968, superando di recente la Cina, ma è anche il paese che ha più che triplicato la propria produzione di grano e riso e la sua economia è cresciuta di cinquanta volte. 

Ancora, nel 1990, meno della metà della popolazione della Terra aveva accesso a sistemi di distribuzione idrici centralizzati; oggi questi sistemi raggiungono il 60 percento della popolazione, un successo enorme se si tiene conto che nel frattempo siamo passati da 5,3 a 8 miliardi di persone. I miglioramenti inoltre sono ovunque: una famiglia media oggi spende per il cibo una percentuale minore del proprio budget di quanto non accadesse trenta anni fa.

Attenzione, ciò non significa che sia partita una inesorabile marcia verso il progresso e il benessere per tutti né voglio sostenere con questo che la malnutrizione o l’accesso a fonti d’acqua pulita, ad esempio, non siano un problema serio o drammatico in alcune zone del mondo.

E anche se non possiamo liquidare Ehrlich dandogli del catastrofista la sua previsione era sbagliata.

Non aveva tenuto conto della forza dell'innovazione, comprese le varie rivoluzioni agricole che hanno consentito di produrre una quantità di cibo per ettaro maggiore, un aumento di resa con la selezione artificiale di nuove varietà.

Nonostante ciò, nonostante queste premesse in apparenza virtuose, la strada della crescita senza sviluppo è stata imboccata. Mai l’umanità ha prodotto tanta ricchezza, e mai la distribuzione di questa ricchezza è stata così disuguale, prepotentemente ingiusta: quel famoso 1% più ricco del mondo che detiene una quota sproporzionata di ricchezza ed emette una quota di gas serra pari a circa il 66% del totale. Mala tempora currunt. Mai l’impronta umana sull’ambiente è stata così marcata. Stiamo assistendo e vivendo in prima persona un cambiamento climatico e la distruzione della biodiversità, spesso legata al primo. Le più grandi crisi globali, oltre a un numero incalcolabile di crisi locali, della biosfera indotte dall’uomo.

E la crisi sociale si intreccia a quella ambientale.

Fin dell’Earth Summit delle Nazioni Unite, nel 1992, e prima ancora, nel 1987, il rapporto della Commissione Brundtland delle Nazioni Unite, Our Common Future, che è poi diventato la base della Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo in cui sono state varate la Convenzione sui cambiamenti del clima e la Convenzione sulla biodiversità, si afferma che potremo passare dalla crescita allo sviluppo solo se ci sarà sostenibilità sociale ed ecologica. Non ci può essere sviluppo sostenibile a livello sociale se non c’è sviluppo sostenibile a livello ambientale. E viceversa.

Pievani, nel suo libro, ci sollecita a immaginare una Terra senza di noi per aiutarci a costruire un percorso verso un futuro desiderabile. Grazie a numerosi studi scientifici è facile dimostrare come le diverse impronte umane sulla biosfera resterebbero per tempi medi, lunghi e lunghissimi dopo una nostra eventuale scomparsa improvvisa. Passati quei tempi, il pianeta ci dimenticherebbe.

Ma, sempre secondo l’autore, questo della scomparsa improvvisa (in termini geologici) di Homo sapiens non è uno scenario plausibile. Non a breve e medio periodo, almeno. Noi sulla Terra ci resteremo: il problema è come (nel bel libro di Alfonso Lucifredi c’è uno degli aspetti in gioco: la crescita demografica).

Se il modello di crescita senza sviluppo continuerà vivremo tempi di lacerazione del tessuto sociale accompagnata da condizioni climatiche sempre più estreme. L’umanità non scomparirà ma vivrà in condizioni sempre peggiori. Non me ne voglia Alessandro Barbero ma sarebbe una sorta di nuovo Medioevo.

Possiamo fare qualcosa per scongiurare questo scenario non desiderabile? Possiamo far leva su una nostra caratteristica peculiare, ovvero sapere che siamo l’unico fattore di forte perturbazione della biosfera che ha coscienza di esserlo? 

La consapevolezza che il pianeta ha fatto a meno di noi in passato e potrebbe fare a meno di noi in futuro è dunque il primo atto di umiltà evoluzionistica, assumere piena cognizione delle conseguenze delle nostre azioni. Fondare un nuovo ambientalismo, critico e lucido: basato sulla scienza e informato di umanesimo. 

Ma siamo in grado di cambiare il nostro modello economico fondato sulla crescita illimitata dei consumi individuali? Siamo in grado di accettarlo, e passare da crescita senza sviluppo a uno sviluppo senza crescita che, attenzione, non è la utopica e inapplicabile decrescita felice? Come intenderci su cosa intendiamo per crescita da portare a termine che non comporti la crescita del nostro benessere? 

Invertire la crescita continua dei consumi di materia e di energia da fonti fossili che liberano carbonio è possibile, persino per un piccolo paese come il nostro. Ma siamo disposti a pagarne il sovrapprezzo sapendo che dovremmo per forza di cose caricarci anche i costi della transizione dei paesi poveri o delle economie emergenti? 

Dobbiamo passare a un modello democratico di sviluppo fondato sulla conoscenza. Ma siamo in grado di valutare i benefici futuri senza ridurre le necessità attuali? Che valore ha il futuro? 

E se probabilmente l’ambientalismo del futuro sarà la forma più alta di umanesimo, i segnali di cambiamento che ancora oggi, e siamo in tremendo ritardo, abbiamo a disposizione, sono inequivocabili.

La gestione del cambiamento climatico, IMHO, è, ad oggi, fallimentare. Tanto da avergli dedicato una serie di tre post, legati ad altrettanti aspetti (qui il primo)

[Edit del 13/10/2025]. Oggi è stato assegnato il Nobel per l'Economia. Nemmeno a farlo apposta, tra le motivazioni del Comitato si legge: «I vincitori ci hanno insegnato che una crescita sostenibile non può essere data per scontata. La stagnazione economica, non la crescita, è stata la norma per gran parte della storia umana. Il loro lavoro dimostra che dobbiamo essere consapevoli e contrastare le minacce alla crescita continua»; e ancora «per aver identificato i prerequisiti per una crescita sostenibile attraverso il progresso tecnologico e per meta».


24 settembre 2025

No! Il cambiamento climatico non è una truffa con dati manipolati

Sommario

Introduzione
Origine dei dati climatici: raccolta, elaborazione e verifica
La realtà innegabile: la scienza del cambiamento climatico
Sfatare i miti: affrontare le accuse di manipolazione
Il pericolo della sfiducia: conseguenze per la politica e la percezione pubblica
Conclusioni

Introduzione

In linea con le dichiarazioni di gennaio scorso, con la richiesta di redazione di un rapporto pieno di imprecisioni e falsità, ecco il recentissimo intervento di Trump all'ONU, che se non fosse tragico sarebbe esilarante. Questo sì che è un esempio evidente di manipolazione!

L'affermazione che il cambiamento climatico sia una montatura  è quasi diventata un luogo comune, un inganno perpetuato dagli scienziati al soldo di chissà quali poteri occulti, che manipolano dati e informazioni allo scopo di favorire ora una cosa ora l’altra. Tuttavia, questa affermazione si sgretola sotto il peso di prove schiaccianti e di rigorosi processi scientifici che hanno reso la realtà del cambiamento climatico in atto pressoché inequivocabile, al di là di ogni ragionevole dubbio. La verità è che i dati climatici sono solidi, credibili e meticolosamente verificati, e le accuse di manipolazione sono infondate. Per cambiamento climatico[1] si intende qui quanto indicato dal punto 2 dell’Art. 1 della costituzione della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change, nata nel 1992): «(…) si intende un cambiamento del clima attribuito direttamente o indirettamente all'attività umana che altera la composizione dell'atmosfera globale e che si aggiunge alla variabilità climatica naturale osservata in periodi di tempo comparabili.». Ed è questo, uno dei processi che può condizionare fortemente la rivalità e la competizione tra le grandi potenze del pianeta, oltre ai nuovi equilibri che gli assetti geopolitici globali stanno vedendo nascere.

Le voci negazioniste hanno forme molteplici, le forme della bugia, dell’imbroglio, della malafede e del complottismo. Con metodo, ovviamente scientifico, senza ardire a proclamarne la verità assoluta, di contro la voce scientifica è una, chiarissima. La voce dei fatti incontrovertibili, delle evidenze sperimentali, dei risultati matematici della modellizzazione, dei confronti tra posizioni fino al cosiddetto consenso scientifico. Fortunatamente le prime sembrano avviarsi infine ad essere sempre più flebili e arroccate sulle loro posizioni sbagliate tanto quanto, e tanto per iniziare, quanto quelle degli astrologi che credono che ancora oggi, tra gennaio e febbraio, la Terra sia in Acquario.

Mettere in dubbio persino il significato dei dati che portano a pensare che una determinata teoria scientifica sia un «fatto», come fa lo scettico radicale, è analogo a quello che conduce a dubitare dell’esistenza stessa del mondo esterno. E il dubbio sull’esistenza di un mondo presuppone la volontà di ricercare come stanno le cose, e quest’ultima presuppone che ci sia un modo in cui le cose sono che, per lo scettico radicale, o non possiamo conoscere o è completamente illusorio. Ma anche l’essere illusorio rispetto a noi, se le cose stessero così, sarebbe qualcosa, sarebbe appunto il modo di essere del mondo. Un ragionamento simile in genere provoca il collasso del negazionista alla quinta riga: e nonostante non sia la famosa supercazzola, il più delle volte si ritira nel nulla, altre diventa aggressivo, e pericoloso.

La posizione «ormai è troppo tardi» è un'altra delle tipiche posizioni negazioniste a cui arriva o cerca di arrivare il negazionista tipico, o chi esprima scetticismo radicale. L'ultima posizione, la più disperata dopo averle tentate tutte. I negazionisti, che si tratti di clima, virus, danni da inquinamento o da tabagismo, prima negano, poi negano le responsabilità quando non possono più farlo con i fatti, scaricano colpe altrove, poi minimizzano; quando non riescono più a fare tutto questo cercano di salvaguardare il profitto il più possibile, se si parla di regole iniziano a dire questo no, quest'altro nemmeno, non potete fermare tutto ecc. E alla fine, disperati «tanto ormai è tardi» buttato lì. Il negazionismo in cinque mosse.

In fondo, tutti vorremmo sperare che i negazionisti climatici abbiano ragione. Se per caso venisse fuori che, veramente, è stato tutto un abbaglio, che il clima non sta cambiando così velocemente come sembra o che, perlomeno, l’uomo non c’entra nulla…sarebbe come risvegliarsi da un incubo: il mostro che ti stava rincorrendo non esiste. Ma così non è.

Origine dei dati climatici: raccolta, elaborazione e verifica

Classifica mensile di temperatura media globale per il periodo 2001-oggi. Conoscendo le temperature globali medie per ogni mese, è stata ricostruita la classifica dei mesi più caldi a partire dal 1880. Per vedere quale sia stato il marzo più caldo, o il secondo agosto più caldo, o il terzo novembre più caldo, si deve far riferimento al numero corrisponde alla posizione in classifica. Quindi ad esempio  1  sulla riga del mese di aprile indica l'anno dall'aprile più caldo,  2  l'anno del secondo aprile più caldo,  20  l'anno del ventesimo aprile più caldo, e così via. Il cromatismo rosso-blu più o meno intensi indicano dal più caldo al più freddo, rosso e blu scuri rispettivamente. Dal grafico si nota come i mesi più vicini ai nostri giorni siano effettivamente tra i più rossi, e quindi più caldi. Notiamo anche come non serva andare troppo indietro negli anni per trovare il mese più caldo mai misurato. Questo ancora una volta mostra che il nostro pianeta si sta scaldando come mai sia stato registrato fino ad ora. (@galselo su chpdb.it)

Per comprendere l'integrità della climatologia, la scienza del clima, è fondamentale definire cosa intendiamo per dati, informazioni e manipolazione. I dati si riferiscono a fatti e cifre grezze, come le letture della temperatura e della pressione, il livello del mare e le concentrazioni dei gas componenti l’atmosfera. Quando questi dati vengono analizzati, interpretati e contestualizzati, diventano informazioni che otteniamo sulle tendenze climatiche. Questa cospicua parte del lavoro dei climatologi o di altri scienziati è una noiosissima normalizzazione e omogeneizzazione di milioni (!) di valori. E laddove manchino dati derivanti da misurazioni dirette esistono gli annuari, i diari, gli appunti ed altri documenti tramandatici dalla storia e realizzati, fin da quando furono inventati termometri e barometri. E prima? Ci sono i cosiddetti proxy data, dati per procura, indiretti, come quelli relativi al polline dei vegetali o alla presenza (o assenza) di determinati microrganismi fossili, testimoni di condizioni climatiche particolari, i rapporti isotopici di alcuni elementi chimici, fino all’analisi della composizione delle bolle d’aria rimaste intrappolate nel ghiaccio accumulatosi migliaia o decine di migliaia di anni fa, estratto dalla profondità dei ghiacciai o delle calotte polari (paleoclimatologia).

Ed ecco che già si delinea un quadro in cui la manipolazione, in questo contesto, che implica l'alterazione deliberata di dati o informazioni per presentare una falsa narrazione diventa qualcosa di assai improbabile, dovendo essere coordinata e normalizzata a livello globale. La raccolta di dati climatici è uno sforzo globale e collaborativo, fatto da migliaia di scienziati provenienti da diverse istituzioni in tutto il mondo, che raccolgono queste enormi quantità di dati utilizzando metodi standardizzati e strumenti calibrati, dalle stazioni meteorologiche e dai satelliti alle boe oceaniche e alle carote di ghiaccio. Dati quindi sottoposti a rigorosi controlli di qualità, tra cui la verifica indipendente, il cosiddetto peer review[2] e l'accessibilità pubblica, rendendo praticamente impossibile qualsiasi manipolazione coordinata su larga scala. Infine, molto spesso, gli scienziati contribuiscono alla ricerca volontariamente e gratuitamente, azzerando qualsiasi sospetto di interesse.

La realtà innegabile: la scienza del cambiamento climatico

Le prove del cambiamento climatico non sono aneddotiche; sono un arazzo tessuto da innumerevoli linee di indagine indipendenti. Organizzazioni come l'IPCC, che sintetizza il lavoro di migliaia di scienziati in tutto il mondo, riportano costantemente una chiara tendenza al riscaldamento, strettamente associato all’attività umana, con una sovrapposizione più che evidente della crescita di quest’ultima, a partire dalla rivoluzione industriale, su quella del quantitativo di gas cosiddetti climalteranti (il più famoso dei quali è il biossido di carbonio, più noto come anidride carbonica).  Assistiamo all'aumento delle temperature globali, alla fusione dei ghiacciai e delle calotte glaciali, all'innalzamento del livello del mare e a eventi meteorologici estremi più frequenti e violenti. Il consenso scientifico sui cambiamenti climatici causati dall'uomo è schiacciante, con studi che dimostrano che oltre il 97% degli scienziati del clima che pubblicano attivamente concordano sul fatto che le tendenze del riscaldamento climatico nell'ultimo secolo sono pressoché inequivocabilmente dovute alle attività umane, a partire da quelle legate al consumo di combustibili fossili, ovvero carbone, petrolio e gas naturale. Questo consenso non si basa su un singolo studio, ma su decenni di prove accumulate in varie discipline. Il 97%, e forse anche più, concorda: risulta abbastanza difficile ipotizzare che anche in questo caso abbiano ragione coloro che soffrono di paranoia da complotto, come diceva Umberto Eco, e che vede noi italiani un po’ più ossessionati dall’idea che in qualche modo esista un potere che menta continuamente; idea che nasce soprattutto dal fatto che le spiegazioni più evidenti di molti dati preoccupanti non ci soddisfano, e spesso non lo fanno perché ci fa male accettarle. Certamente, lo insegna la scienza col suo metodo, ogni conclusione scientifica è vera fino a prova contraria, soprattutto sulle ricerche più recenti occorre sempre mantenere un atteggiamento di cautela e gli scienziati devono continuamente, in un certo qual modo, generare dubbi, persino sul loro stesso operato, ai dubbi seguono nuove ipotesi, nuovi modelli, nuove verifiche e, laddove necessario, un cambio di paradigma. Ma sull’argomento in oggetto i modelli realizzati, gli scenari futuri previsti, sembra proprio non abbiano bisogno di ulteriori conferme, e sono ormai passati diversi decenni da quando furono impostate le prime ricerche sul cambiamento climatico, tristemente confermate dalle evidenze osservate.

Nella figura sopra l'andamento della variazione media di temperatura rispetto alla media globale: si è modellato uno scenario dovuto alla sole attività naturali, solare e vulcanica, rispetto ad uno dove la forzante antropogenica si somma alle tendenze naturali. I dati osservati, cioè misurati, concordano col secondo modello. (ResearchGate, agosto 2023)

Sfatare i miti: affrontare le accuse di manipolazione

Le accuse di manipolazione dei dati emergono spesso. Una delle, se non la più famosa fu quella chiamata controversia sul bastone da hockey. Nel 1998, sulla base dell’analisi di migliaia di proxy data, fu presentato e discusso un diagramma - la cui forma ricorda appunto una mazza da hockey su ghiaccio - che presentava la temperatura media dell’emisfero settentrionale dell’ultimo millennio. Le ricostruzioni evidenziano costantemente mostrato una lenta tendenza al raffreddamento a lungo termine di raffreddamento a lungo termine, che si è improvvisamente trasformato in un riscaldamento accelerato a partire dalla fine del XIX secolo e impennatosi a metà del XX. Oggi sappiamo che le cose sono andate proprio così, se non peggio in termini di valori. Ma già allora era una prova del riscaldamento globale in atto e del conseguente cambiamento climatico.

La ricostruzione del 1998 fu subito messa in discussione da parte di alcuni critici, non molti, ma spesso fonti autorevoli perché famosi in altri campi della scienza. Alcuni in buona fede e operanti con spirito scientifico ma la maggior parte si scoprì a breve legati a gruppi di pressione finanziati dall'industria dei combustibili fossili, nel tentativo di mettere in dubbio nemmeno solo quei risultati, ma addirittura tutta la climatologia. In sostanza i critici ritenevano che i dati fossero stati manipolati per dare alla curva questa forma. Tuttavia, numerosi studi indipendenti, compreso uno del nostro CNR, utilizzando diverse metodologie e insiemi di dati anche diversi furono in grado di replicare il modello del bastone da hockey, convalidando i risultati iniziali.

Un altro degli esempi più frequentemente citati di su presunte manipolazioni fu la controversia sul Climategate del 2009, parafrasando il famoso scandalo presidenziale americano del Watergate. Furono sottratte con l’inganno, ad opera di hacker prezzolati, dozzine di messaggi di posta elettronica dall'Università dell'East Anglia, selezionate e travisate per suggerire che gli scienziati stavano complottando per sopprimere i veri dati o esagerare il tasso del riscaldamento. Diverse indagini indipendenti sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito hanno successivamente scagionato gli scienziati da qualsiasi illecito, concludendo che i dati non furono manipolati e che furono seguite correttamente tutte le pratiche scientifiche standard.

Questo tipo di accuse spesso selezionano i dati ad hoc, quelli che fanno comodo, travisano i metodi scientifici o ignorano il più ampio corpo di prove. I climatologi, non diversamente da altri scienziati, sono trasparenti riguardo ai loro dati e alle loro metodologie, anzi lo fanno proprio in cerca di conferme, e il loro lavoro è sottoposto a un esame approfondito, rendendo incredibilmente difficile perpetrare inganni diffusi.

Nella figura sopra la curva smussata mostrata in blu con il suo intervallo di incertezza in azzurro, è sovrapposta a punti verdi che mostrano la media globale trentennale data da una ricostruzione del 2013. La curva rossa mostra la temperatura media globale misurata con dati dal 1850 al 2013. (Wikipedia)

Il pericolo della sfiducia: conseguenze per la politica e la percezione pubblica

La libertà d'opione è libertà di mentire? Il persistente tentativo di indebolimento della climatologia ha gravi implicazioni. La sfiducia nei dati scientifici può paralizzare l'azione politica, ostacolando la nostra capacità di affrontare una crisi che richiede un'urgente cooperazione globale. Quando il pubblico è indotto a credere che i dati climatici siano fabbricati, erode la fiducia nelle istituzioni scientifiche e rende difficile l'attuazione di strategie efficaci di mitigazione e adattamento. Affidarsi ad affermazioni non verificate e disinformazione, piuttosto che a ricerche peer-reviewed e al consenso degli esperti, crea un ambiente pericoloso in cui le decisioni critiche si basano sull'ideologia piuttosto che sui fatti.

E spesso, in buona o cattiva fede che sia, il clima di sfiducia, che sfoga spesso in violenza verbale o derisione, è scatenato da appartenenti al mondo scientifico che, pur non avendo competenze specifiche né esperienza in materia di climatologia o geofisica, si dilettano di interessarsi al tema. Curiosa, ad esempio, fu l’attenzione che si rivolse a un Nobel per la fisica (premiato per i suoi lavori sulla Meccanica Quantistica nel 2022, e che non ha mai lavorato su nulla relativo al clima o alla fisica dell’atmosfera) che esprimeva dubbi profondi sui risultati delle ricerche climatiche, mentre si è talvolta preferito ignorare i Nobel del 2021, sempre in fisica, conferiti a tre climatologi proprio per aver correttamente previsto e modellato il riscaldamento globale originato dalle attività umane. L’opinione non suffragata di un singolo, per quanto illustre, non conta nulla a fronte dei tre pilastri principali del consenso scientifico: i dati, le equazioni e i modelli. Al momento attuale, la stragrande maggioranza di coloro che si occupano di climatologia è soddisfatta dalla spiegazione antropogenica del riscaldamento globale, a fronte dei dati, delle equazioni e dei modelli a nostra disposizione, e nessuna delle ipotesi alternative, e men che meno le opinioni alternative, soddisfa questi criteri.

Per non parlare di quei casi in cui la montatura e la manipolazione sono costruiti e diffusi da manipoli di scienziati al soldo dell’industria o della politica, da comitati think tank o da organizzazioni sovranazionali con interessi soprattutto economici: sono qui i veri manipolatori, come hanno ottimamente raccontato, fin dal 2015, Oreskes e Conway nel loro libro “Mercanti di dubbi” (a breve sarà disponibile qui la mia recensione).

Senza tra l'altro dimenticare il danno causato da quella sorta di catastrofismo climatico che va diffondendosi, e che genera un pericolo altrettanto serio, quello dell'inazione o, ancora più gravemente, una gestione fallimentare del cambiamento climatico, che ho trattato in una serie di tre post; quadro già molto ben tratteggiato, purtroppo.

Conclusioni

In definitiva, le affermazioni sulla manipolazione dei dati e delle informazioni riguardanti il cambiamento climatico sono palesemente false. La natura robusta, trasparente e collaborativa a livello globale della scienza del clima, unita a prove schiaccianti e al consenso degli esperti, confuta fermamente queste accuse. Fidarsi di dati scientifici credibili non è un'opzione ma una necessità per prendere decisioni informate e salvaguardare il nostro futuro. Dobbiamo valutare criticamente le fonti di informazione e sostenere l'azione per il clima, guidati dalle prove innegabili fornite da una rigorosa indagine scientifica.

Il cambiamento climatico va affrontato con una sfida relativa alla gestione complessiva, che va spiegata ai cittadini perché ciò che oggi definiamo emergenza rappresenta qualcosa che sarà molto più comune in futuro.

Il dibattito odierno è tuttavia ancora bloccato su posizioni pressoché dogmatiche, inutili e sterili. Da una parte c'è chi dice che l'agire deve avvenire solo in risposta al rischio evidente di catastrofe climatica, posizione stupida perché, quando e se coloro che la sostengono avranno avuto ragione, sarà troppo tardi per le reazioni; d'altra parte, gli oppositori non esprimono più che far finta di nulla, accusando di catastrofismo i primi. Possiamo discutere sull'utilità, soprattutto politica, di una narrazione catastrofista, ma non possiamo negare che, se non verrà posto un freno o un limite alle emissioni di gas che alterano il bilancio termico del pianeta, le conseguenze saranno disastrose.

La scienza ovviamente non deve legittimare le scelte politiche, perché la tecnologia, sua derivazione, è fonte di potere; ma è indiscutibile che deve fornire i mezzi per supportarle, per guidarle, e la politica al tempo stesso deve innanzitutto fare in modo che il linguaggio scientifico sia reso accessibile alla cittadinanza, sia capito in modo che questa possa sostenere e legittimare le scelte politiche, affinché le scelte condivise siano sottoposte al vaglio della comunità.

I risultati scientifici sono comunque chiari: il clima sta cambiando, rapidamente. Resta da capire quanto e con quali impatti anche se le idee in proposito sono già parecchio chiare.

Questi risultati non derivano da domande poste da ambientalisti in cerca di conferme alle loro tesi particolari ma da interrogativi che nacquero quando si cercava di capire come funziona il sistema, senza scopi politici reconditi, quando la climatologia muoveva i primi passi.

Veicolare questi risultati al grande pubblico è fondamentale, soprattutto perché bombardato continuamente dalla diffusione di false notizie amplificate dalla cassa di risonanza dei social e realizzate perlopiù per strumentalizzare, in un'epoca di incremento del disinteresse e dell'ignoranza generalizzata.

La climatologia ha già fatto la sua parte, occorrono adesso scelte che non siano solo basate su principi di precauzione, notoriamente inutili in questi casi perché non indicano una strada univoca.




[1] Anche se numerose sono le fonti che utilizzano il concetto di “cambiamenti climatici” al plurale, perché ritenuto più inclusivo e accurato a sottolineare la complessità del fenomeno, personalmente preferisco il singolare “cambiamento climatico”, derivata dall’originale Climate Change introdotta nel 1992 con la nascita di UNFCCC. Il termine era in origine utilizzato come riferimento al riscaldamento globale; è mia opinione che il cambiamento, per quanto complesso, sia unico come causale di molteplici conseguenze.

[2] Pratica indispensabile nel mondo della ricerca, permette di discriminare un articolo con fondamenta scientifiche da uno che non ne ha, accreditando il primo e screditando il secondo. Questo lavoro viene svolto dalle riviste scientifiche, che con i propri revisori, operano una valutazione critica (revisione) del lavoro che verrà pubblicato. I revisori sono protetti dall'anonimato e generalmente privi di qualsiasi conflitto di interesse.