Quando la questione ambientale diventa una questione ideologica arriva il momento di fermarsi perché la strada intrapresa, qualunque sia il punto di vista, è sbagliato. L’agricoltura intensiva danneggia gli ecosistemi? E allora non ha senso chiedere da che parte si sta, se a favore degli agricoltori o delle linci, o dei fenicotteri.
Sono divisioni prive di senso, perché nessun paese al mondo può rinunciare né alla propria economia né alla propria ecologia, o alla biodiversità. Ma domande divisive come quelle sono la conseguenza diretta della radicalizzazione del discorso ambientale, fenomeno pronto ad essere cavalcato proprio da chi si oppone, per motivi politici che il più delle volte nascondono interessi economici, o da chi si contrappone comunque alla protezione dell’ambiente. Il tema ambientale viene distorto e trasformato e così la ricerca di soluzioni comuni diviene invece la contrapposizione di due parti inconciliabili.
Negli anni Novanta del XX secolo
una campagna promossa dall’industria del legname statunitense promosse uno
slogan: “Salva un boscaiolo, mangia un gufo”, riferendosi alle campagne di
protezione delle foreste antiche dove, tra i tanti, abitava una rara specie di
allocco. E’ un esempio classico di ricerca di contrapposizione, taglialegna
contro ambientalisti, uomo contro natura, in una ricerca forzata e polemica
dell’antitesi
inesistente.
L'ecologia è l’esempio più vivo dell’alleanza tra chi c’è, chi c’è stato e chi verrà dopo di noi, dove quel noi non è riferito esclusivamente ad Homo sapiens.
E lo hanno dimostrato i fatti.
Nelle zone dove le foreste sono state protette prosperano il turismo,
l’agricoltura…e i gufi, con molti di coloro i quali esercitavano da
generazioni il mestiere di taglialegna, riconvertiti con successo in altri
settori. Nelle altre zone non c’è più niente: nemmeno il lavoro per i
boscaioli.
L’unica possibilità per
contrastare questa ricerca polemica dell’antitesi tra uomo e natura è un cambio
radicale di paradigma. Un’economia giusta per tutti: per gli uomini e per la
natura. Le popolazioni devono poter vivere, almeno decentemente e in ciò mettiamoci
tutto ciò che ruota intorno ad un’economia agricola intensiva basata su
monocolture che sono nemiche della biodiversità, dallo sfruttamento dei
lavoratori migranti stagionali che per pochi euro a cassetta raccolgono ogni
anno sempre gli stessi prodotti dagli stessi campi, al mantenimento del filo
conduttore della storia di un territorio di un’economia che spesso ha
emancipato le popolazioni che ci vivevano. È la storia dell’Europa millenaria
il cui ecosistema è stato tanto umano quanto naturale.
Proteste
La Nature Restoration Law della Comunità Europea è un primo importante e coraggioso
passo verso questa visione globale del problema ambientale. I tentativi della coalizione di
destra che voleva affossare questa legge europea sono falliti.
Lo scorso 18 agosto la
"Nature Restoration Law" è entrata in vigore.
La speranza è che si possano
portare a termine la maggior parte degli ambiziosi obiettivi.
Una legge che dovrebbe imporre
agli Stati membri obiettivi di rigenerazione e di protezione degli ecosistemi
molto stringenti, che dovrebbero fermare e anzi invertire il drammatico degrado
che ha colpito la maggior parte degli habitat naturali europei negli ultimi
decenni. La legge è un pezzo fondamentale del Green Deal europeo e rappresenta
la politica ambientale più ambiziosa mai proposta a livello globale, perché
quelli ambientali sono problemi globali, e non si risolvono guardando ognuno il
proprio interesse.
La legge va oltre: marca il
passaggio da una visione ambientale spinta soprattutto dagli interessi
industriali (energie rinnovabili, tecnologie per la transizione ecologica,
nuova mobilità) ad una visione olistica. È una prospettiva che cerca di
affrontare la questione a tutto tondo che non pensa che i problemi ambientali
dell'Europa si risolveranno solo costruendo più impianti eolici o fotovoltaici;
l'idea di base di questa legge è che, se non si mettono limiti all'agricoltura
intensiva, se non si proteggono le ultime foreste naturali e gli ultimi
ecosistemi pristini d'Europa, se non si ferma lo sfruttamento indiscriminato
del mare, tutti gli sforzi per contrastare il cambiamento climatico saranno
comunque vani. È un'idea giusta e ambiziosa, che però si scontra con interessi
fortissimi a livello europeo che da anni rallentano o impediscono la riforma di
politiche chiave come quelle della politica agricola comune, per mantenere in
piedi un sistema di sussidi tanto distorto quanto distorcente.
Ecco perché la battaglia contro
la Nature Restoration Law è stata promossa da una serie di lobby del settore
agricolo ittico e forestale molto potenti e molto ricche, e la destra vi ha
trovato un'occasione valida per prepararsi alle elezioni europee del 2024.
Ripartizione dei seggi al parlamento europeo a seguito delle elezioni 2024 |
Mentre la legge veniva discussa,
col cambiamento climatico che sta già impattando brutalmente la produzione
agricola in tutto il continente europeo, dalla Spagna fino alla Polonia, gli
agricoltori se la prendono con la protezione della natura e con le decisioni
prese a Bruxelles, invadendo di trattori le strade e cospargendole di letame,
fomentati da una destra che comunque ha cavalcato l’onda e ha incassato
parecchi voti.
In tutto questo non si è compreso che toccare proprio quelle misure che, promuovendo il ritorno di ecosistemi in salute, proteggerebbero l'agricoltura da minacce come quelle che pendono sui campi della Gran Bretagna che, con la Brexit, si è allontanata sempre di più dalle stringenti normative di protezione ambientale in essere nella Comunità Europea, nonostante il paradosso della Scozia che nel 2022, dopo vent’anni di crescita, ha fatto registrare il 113% del fabbisogno energetico prodotta tutta da rinnovabili. Pur essendo comprensibili le proteste, per tanti agricoltori il lavoro è durissimo e il guadagno minimo, dovrebbero prendersela con altro: con la competizione insostenibile delle grandi multinazionali agricole che hanno troppo potere contrattuale, e si possono permettere prezzi ridicoli grazie allo sfruttamento insostenibile delle migliaia di ettari che disboscano in Brasile, in Mozambico, in Malesia; con i politici collusi che distribuiscono i 55 miliardi destinati alla politica agricola comune dell'UE, a coltivazioni intensive per guadagnare una manciata di voti; con gli agricoltori ricchi che sfruttano queste proteste a proprio vantaggio.
Cinque principi di comunicazione ambientale
1. Le questioni ambientali sono tutte interconnesse
Esempio. La crisi idrica del Lago Ciad
I
vasti territori incontaminati sono un sogno distante, tanto in Europa quanto
nel resto del mondo. L’uomo è ovunque: l’obiettivo dovrà essere trovare una
nuova via per la convivenza tra uomo e natura, e preservare la poca natura
ancora intatta nel mondo.
Esempio. La
Foresta Amazzonica
La Foresta
Amazzonica, spesso considerata il "polmone del pianeta", rappresenta
un esempio evidente di come l'uomo abbia profondamente alterato uno degli
ultimi grandi ecosistemi naturali. Nonostante la sua vastità e la biodiversità
unica, l'Amazzonia è costantemente minacciata dall'espansione dell'attività
umana, come la deforestazione per fare spazio ad attività agricole, estrazioni
minerarie e lo sviluppo infrastrutturale.
Questa
interazione tra uomo e natura sta distruggendo vaste porzioni di foresta ogni
anno, riducendo non solo la biodiversità, ma anche la capacità della foresta di
assorbire biossido di carbonio e contrastare il cambiamento climatico (si veda anche qui). Ciò dimostra che i
territori incontaminati sono sempre più rari e che la presenza dell'uomo è
ovunque, anche nelle aree più remote.
Tuttavia, esistono
iniziative che mirano a preservare ciò che rimane di queste aree naturali. Ad
esempio, progetti di conservazione e riforestazione in Amazzonia tentano di
ristabilire un equilibrio tra l'uomo e l'ambiente, puntando a un modello di
convivenza più sostenibile. Queste iniziative cercano di bilanciare lo sviluppo
economico delle popolazioni locali con la necessità di proteggere uno degli
ecosistemi più preziosi al mondo.
3. Non esistono (sempre) buoni e cattivi
Il
discorso ambientale è fatto di sfumature, non di contrapposizioni tra colpevoli
e benefattori. Esistono eccezioni, chiaramente, ma nella maggior parte dei casi
l’obiettivo non dovrà essere più accusare, ma prima di tutto comprendere.
Esempio. L'uso
della plastica nei paesi in via di sviluppo
La questione
ambientale legata all'uso della plastica mostra chiaramente che non esistono
sempre "buoni e cattivi" quando si tratta di temi ecologici. Da una
parte, la plastica è una delle maggiori fonti di inquinamento globale, con
enormi quantità di rifiuti che finiscono nei mari e negli oceani, causando
gravi danni agli ecosistemi marini. Dall'altra, però, nei paesi in via di
sviluppo, la plastica è spesso un materiale economico e accessibile che
garantisce vantaggi in termini di salute e sicurezza, come l'accesso all'acqua
potabile attraverso bottiglie di plastica o la protezione degli alimenti dalla
contaminazione.
Mentre le
campagne ambientaliste nei paesi ricchi spingono per l'eliminazione della
plastica monouso, nei paesi in via di sviluppo, dove mancano infrastrutture per
la gestione dei rifiuti e alternative sostenibili, la plastica è spesso una
risorsa necessaria per il benessere quotidiano delle persone. Qui non si tratta
semplicemente di identificare colpevoli (chi usa plastica) e benefattori (chi
combatte la plastica), ma piuttosto di comprendere le sfumature della
situazione: la plastica è un problema ambientale, ma può anche essere una
soluzione temporanea per altre sfide, come la povertà e la salute.
Per affrontare la
questione, non serve accusare chi utilizza la plastica in contesti dove è
essenziale, ma piuttosto cercare soluzioni che bilancino le esigenze ambientali
con le necessità umane, come investire in alternative accessibili o migliorare
i sistemi di riciclaggio in queste aree. Questo esempio dimostra che,
nell'ambito ambientale, il vero progresso spesso richiede comprensione e
cooperazione piuttosto che semplici divisioni tra "giusto" e
"sbagliato". Si veda anche qui.
4. La comunicazione ha bisogno di più scienza, la scienza di più comunicazione
La
complessità delle questioni rende necessario costruire un ponte tra chi
possiede gli strumenti di disseminazione e chi i dati e le informazioni,
creando occasioni e piattaforme per un dialogo che sia costante e duraturo.
Esempio. La
comunicazione della pandemia di COVID-19
Durante la
pandemia di COVID-19, la necessità di unire scienza e comunicazione è emersa in
modo evidente. Gli scienziati possedevano i dati, le informazioni e la
conoscenza riguardo al virus, i vaccini, le misure di contenimento e le cure.
Tuttavia, la loro capacità di diffondere tali conoscenze al grande pubblico era
spesso limitata da fattori come il linguaggio tecnico, la complessità dei dati
e il rapido evolversi delle scoperte scientifiche.
Dall'altra
parte, i media e le piattaforme di comunicazione avevano gli strumenti per
raggiungere miliardi di persone, ma non sempre possedevano l'esperienza
scientifica per interpretare correttamente e spiegare le informazioni. Questo
divario ha portato a disinformazione, panico, e confusione, con conseguenze
negative sulla salute pubblica.
Un esempio
positivo di come si possa costruire un ponte tra scienza e comunicazione è
stato il ruolo svolto da esperti come Anthony Fauci e da organizzazioni come
l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Questi attori hanno saputo
semplificare e divulgare informazioni scientifiche in modo chiaro e
accessibile, creando un dialogo costante con il pubblico e fornendo
aggiornamenti regolari attraverso conferenze stampa, social media e altre
piattaforme. In questo contesto, la comunicazione ha avuto bisogno di scienza
per essere accurata e fondata, mentre la scienza ha avuto bisogno di
comunicazione per essere efficace nel raggiungere il pubblico e influenzare
comportamenti su larga scala.
Questo esempio
dimostra l'importanza di un'interazione costante e duratura tra scienza e
comunicazione, specialmente in situazioni di crisi globali, dove la corretta
trasmissione delle informazioni può salvare vite. In questo post un esempio dal passato approfondisce il tema.
5. Ora o mai più
Le
minacce che non solo l’ambiente, ma il mondo nella sua interessa affronta, non
sono mai state così grandi – e sono già reali. Ma è anche un momento in cui
abbiamo ancora la possibilità di invertire o ridurre queste tendenze, perché
finalmente possediamo gli strumenti adeguati. Bisognerà agire adesso perché
abbiano successo: è l’ultima occasione che abbiamo.
Esempio. La lotta
contro il cambiamento climatico
Il cambiamento
climatico rappresenta una delle più grandi minacce globali, con impatti già
visibili in tutto il mondo: scioglimento dei ghiacciai, aumento dei livelli del
mare, eventi meteorologici estremi come uragani, ondate di calore e incendi
boschivi. Gli scienziati avvertono che, se non agiamo rapidamente, il
riscaldamento globale supererà il limite critico di 1,5 °C rispetto ai livelli
preindustriali, provocando danni irreversibili agli ecosistemi e alle società
umane.
Tuttavia,
abbiamo ancora la possibilità di agire per limitare questi impatti, e il
momento di farlo è adesso. Le tecnologie necessarie per la transizione verso
un'economia a basse emissioni di carbonio esistono già: energie rinnovabili
come solare ed eolico, infrastrutture per la mobilità elettrica, soluzioni per
l'efficienza energetica e nuove pratiche agricole sostenibili. Inoltre, la
crescente consapevolezza pubblica e politica sta spingendo verso l'adozione di
accordi internazionali come l'Accordo di Parigi, che mira a limitare il
riscaldamento globale.
Tuttavia, questo
è un "ora o mai più": se non riduciamo drasticamente le emissioni di
gas serra entro i prossimi anni, le opportunità di mitigare gli effetti più
devastanti del cambiamento climatico si ridurranno drasticamente. Il rapporto
del 2021 dell'IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha sottolineato
che le scelte fatte oggi determineranno le condizioni future del pianeta, e che
agire subito è l'unica possibilità per evitare conseguenze catastrofiche.
In sintesi, siamo
a un punto di svolta: possediamo gli strumenti, la tecnologia e la
consapevolezza, ma è cruciale agire immediatamente per invertire le tendenze
attuali e assicurare un futuro sostenibile.
In questa serie di tre post alcuni approfondimenti.
L’intangibilità del problema
del cambiamento climatico
Rispetto a molte altre questioni
ambientali, quelle che riguardano il cambiamento climatico spesso sembrano
intangibili, contemplando processi estremamente complessi rispetto ai quali la
mente umana fatica a confrontarsi, e soprattutto, le evidenze di
rapporti causa-effetto sono rare e difficili da tracciare. Se le acque reflue di una miniera di rame inquinano la
falda acquifera sarà comunque possibile tracciare una linea tra quello che è
successo e quello che ne è seguito. Col cambiamento climatico ciò è
praticamente impossibile, sia perché il fenomeno acuisce situazioni già
esistenti, portandole al limite, sia perché non è possibile ritenerlo causa di
una singola tempesta o di una singola siccità.
Di come funziona il clima sulla
Terra ne sappiamo davvero poco e dobbiamo soprattutto basarci su modelli
previsionali le cui variabili sono in numero così elevato che cambiare le
condizioni di partenza per ritrovarsi futuri completamente diversi è
estremamente probabile; e se sappiamo poco della circolazione atmosferica
ancora meno ne sappiamo degli oceani e del loro ruolo nella regolazione
climatica globale. Ma non per questo non ne sappiamo ormai abbastanza per sostenere alcune conclusioni consolidate.
Per fare un solo esempio il sistema di correnti di quella che i ricercatori
chiamano AMOC (Atlantic Meridional Overturning
Circulation (ne scrissi anche in questo post), un complesso sistema di correnti
marine di cui la Corrente del Golfo fa parte) è al suo minimo energetico da
1600 anni, in parte per cause naturali ma l’assurdo, rapidissimo riscaldamento
imposto dall’uomo alla Terra le sta dando il colpo di grazia: uno studio
recentissimo riporta che, se il livello di emissioni non cambia, il collasso potrebbe già avvenire nel corso
dei prossimi decenni, accelerato dallo scioglimento dei ghiacci della
Groenlandia e da un artico con estati sempre più vicine ad essere ice-free.
Con conseguenze inimmaginabili: quando accadde in passato, il collasso
dell’AMOC provocò variazioni di temperatura media dell’ordine di 10 gradi sopra
la media, ma non abbiamo dati a sufficienza per capire quanto il riscaldamento
globale antropogenico, enormemente più rapido rispetto ai cicli naturali, possa
causare sulle correnti. Sicuramente se il ruolo di questo sistema di correnti
termoaline (guidate cioè non solo da differenze di temperatura ma anche di
salinità) è quello di rinfrescare i climi tropicali più freschi o quelli
nordici più miti di quanto dovrebbero essere in base alla loro latitudine, un
collasso dell’AMOC porterebbe sicuramente a stravolgimenti climatici notevoli,
con la fine dell’Europa come la conosciamo oggi dal punto di vista climatico,
impatti sull’agricoltura sia in Africa che in India, sulle piogge amazzoniche e
sul livello del mare in Nord America. Il collasso dell’AMOC è uno dei tipping point già annunciati e che, qualsiasi cosa si faccia adesso, non servirà a
mutarne gli effetti futuri; al pari della scomparsa dell’Amazzonia o dello
scioglimento del permafrost.
Un affascinante viaggio lungo la corrente potrete farlo grazie alla lettura di questo libro che ho recentemente recensito sulle pagine della rubrica "La scienza e la tecnica raccontate" di Sigea-APS.