Ultimo dei tre post della serie. Qui il primo e il secondo.
Comprensione
Comprendere o capire qualcosa. Qual è il suo significato? Per un primo tentativo di risposta rivolgiamoci all’etimologia della parola, che si riferisce all’atto concreto di prendere, afferrare, impossessarsi (dal latino capere). Non a caso «afferrare» è un sinonimo di capire, così come quando non riusciamo a com-prendere qualcosa, con un’idea concreta di prendere in mano, diciamo anche che «ci sfugge». E che dire allora, dell’inglese to see usato sia per «vedere» che per «capire»?
E sono le spiegazioni le azioni o i processi che contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo. Qualcuno ha detto che spiegare è trovare l’identico nel diverso, in un processo che unifica le cause comuni.
Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».
Argomenti questi trattati approfonditamente nel primo e nel secondo di questa serie. In quest’ultimo, considerando definitivamente confutato il primo luogo comune (la scienza è al massimo in grado di spiegare il come e il cosa dei fenomeni, ma non il perché), se qualcuno si ostinasse a volerlo difendere dovrebbe necessariamente ridurne la portata, introducendoci al secondo luogo comune (la scienza non spiega tutto).
Cercheremo quindi di capire come questo secondo luogo comune, usato per lo più in modo polemico e antiscientifico, per sminuire il valore della scienza, diventa invece uno dei punti di forza di questa.
Se spiegare implica il ricorso a leggi o meccanismi causali prossimi o remoti che siano, e se i fenomeni delle scienze storiche e sociali o di quelle economiche non fossero inquadrabili in leggi o in tali meccanismi le conclusioni appaiono entrambe problematiche: i fenomeni storico-sociali non sono spiegabili o, per dirla in altro modo, nelle scienze umane la spiegazione non è consentita, oppure, che tali fenomeni sono sottratti dalle tecniche esplicative che valgono nelle scienze naturali. E perché mai non dovrebbe essere possibile trattare qualsiasi cosa con il metodo scientifico?
Spiegazione
Insomma i difensori del primo luogo comune sarebbero costretti ad ammettere che, se pure le scienze naturali spiegano tipi di eventi in base a leggi o meccanismi causali, quelle umane non sono passibili di spiegazioni di questo tipo perché hanno come scopo la comprensione o l’interpretazione di eventi o fatti individuali e irripetibili. Il termine interpretazione introduce subito soggettività, quindi relatività, cose poco affini con l’indagine scientifica.
Domanda: esiste una sorta di confine tra scienze naturali e scienze umane, secondo il quale le scienze umane avrebbero una loro autonomia metodologica rispetto a quelle naturali, perché tutt’al più interpretano e comprendono identificandosi con il loro oggetto di studio, anziché spiegare? Ma questo è un corollario del secondo luogo comune, che appunto le scienze non spiegano tutto.
Ovviamente, sapendo che compito principale dello storico è individuare le cause dei processi storici, la tesi procedente non implica affermare che i fenomeni umani o storico-sociali non siano spiegabili affatto.
Come affermato nell’introduzione spiegare innanzi tutto significa comprendere, e una comprensione dei fenomeni la si ottiene semplicemente rispondere ad un «perché?» e quindi non è giustificabile porre una differenza tra spiegare e comprendere o interpretare.
Anche fosse vero che la nozione di spiegazione scientifica non può applicarsi alle discipline umane-sociali, o perché le scienze umane sono sottratte al metodo scientifico, non sarebbe comunque consentito di sostenere il luogo comune che la scienza non spiega tutto. Che sia il libro della natura o un passo di un antico manoscritto da interpretare si tratta in ogni caso di cercare di risolvere un problema attraverso una teoria, che poi verrà sottoposta a critica per vedere se regge alla prova dei fatti e se è coerente con le altre teorie o ipotesi considerate già accettate.
Qualcuno osserverà che il fatto che si possa sperimentare nelle scienze naturali e non in quelle storico-sociali rende i due ambiti di ricerca diversi; ma non è forse vero che ci sono ambiti scientifici dove ci si deve accontentare solo di osservazioni e non è possibile effettuare esperimenti diretti, quali l’astronomia per esempio? E forse che la biologia evoluzionistica o la cosmologia non studiano fenomeni storici unici e irripetibili? E ancora, la teoria geologica della tettonica a placche, che ha a corollario numerose evidenze, non è forse basata su altre asserzioni teoriche riguardanti lo stato della materia della e sotto la crosta terrestre? E infine, proprio la fisica viene in soccorso alla validità del metodo anche per le scienze umane e sociali, affermando che le spiegazioni scientifiche non implicano necessariamente l’inquadramento sotto leggi di natura di copertura. Lo stesso Einstein sosteneva che «nessun cammino logico conduce a queste leggi elementari: solo l’intuizione che si fonda sulla immedesimazione con l’esperienza ci può condurre ad esso». I famosi Gedankenexperiment del grande fisico tedesco.
Nello spiegare, (si veda il post precedente), il perché della pioggia o la spiegazione funzionale dei riflessi pupillari, non abbiamo introdotto leggi, e benché in quest’ultimo caso esistono leggi elettro-chimiche precise legate alla contrazione dei muscoli, conoscerle non è affatto necessario per comprendere il fenomeno. Ovvio che in un contesto scientifico la parola «causa» presuppone l’esistenza di regolarità, ma la loro conoscenza non è necessaria per la comprensione dei fenomeni.
Così come, al contrario, la presenza di leggi non basta per una spiegazione. Nel caso della diffusione dei diversi tipi di luce è vero che la legge di Rayleigh, premessa che governa il fenomeno dello scattering, ci fa immediatamente capire che la luce blu è mediamente diffusa 12 volte più di quella rossa – (1/7604)/(1/3904) ≈ 12, dove 390 e 760 sono i valori delle lunghezze d’onda espresse in nanometri – ma senza una conoscenza adeguata del meccanismo causale di diffusione, non capiremmo perché ciò avviene.
È più importante capire che luce con lunghezza d’onda minore interagisce di più con le molecole di azoto e ossigeno e viene «sparpagliato» dappertutto, a differenza di quella rossa, con lunghezza d’onda maggiore che passa pressoché indisturbata. È questo il fenomeno che genera comprensione, la deduzione di una legge da sola non basta.
La scienza spiega, senza poter spiegare tutto.
Si può comprendere qualitativamente, così come è stato fatto per le interazioni delle diverse lunghezze d’onda con le componenti dell’atmosfera in analogia all’onda del mare con gli scogli, usata nel post precedente. Ma la comprensione quantitativa delle leggi non è sempre possibile, perché non sempre è possibile derivarle da altre leggi. Perché esiste una proporzionalità con la quarta potenza della lunghezza d’onda e non con la terza? Potrebbe semplicemente essere un fatto bruto (così si definiscono le cose che non possono essere spiegate, e qui potremmo aprire, ma non lo faremo, un dibattito sul perché alcune costanti fondamentali di natura hanno i valori che hanno…). Oppure un de facto, per ora non possiamo spiegarlo, o ancora un de iure, inspiegabile in linea di principio. Lo stesso potremmo fare con la legge di Newton della gravitazione: perché la forza diminuisce col quadrato e non come il cubo della distanza?
La scienza fornisce comprensione, anche se questa è limitata; ma non si può dire che finché non si è compreso tutto non si è compreso nulla.
Non esiste una teoria del tutto
Usare il secondo luogo comune per difendere il primo non ha senso: se per comprendere un fenomeno come il congelamento dell’acqua dovessimo ogni volta comprendere la natura delle forze di coesione molecolare quando questa cambia di stato ma, al tempo stesso dovessimo retrocedere di perché in perché o di causa in causa, arrivare alla domanda delle domande, perché esiste l’universo, perché c’è qualcosa piuttosto che nulla, non comprenderemmo mai nulla e l’apprendimento sarebbe impossibile, in un riduzionismo inutile.
Non siamo onniscienti, e quindi esistono limiti alla spiegabilità della natura, il che prova la nostra finitezza cognitiva. Ovvio che un determinato momento storico l’insieme dei fatti e di tutte le leggi esistenti è solo un piccolo sottoinsieme, ma potrebbero esistere anche fatti non spiegabili in linea di principio, a rendere difficile la vita ai sostenitori di un’eventuale teoria fisica del tutto, che ogni tanto riaffiora. Come spiegare le condizioni iniziali dell’Universo se queste sono la base per spiegare ciò che accadde dopo? Come spiegare la coscienza se per farlo altro non abbiamo che il nostro essere coscienti?
Privo di finalità polemiche, il luogo comune in base al quale la scienza non può spiegare tutto, è corretto, ed è uno dei suoi principi cardine.
Scire est scire per causas. Il terzo luogo comune
Conoscere è conoscere attraverso le cause. Se proviamo a spiegare, rivolgendoci alla scienza, ciò che maggiormente ci preme e ci interessa, della serie perché c’è vita, chi siamo, perché esistiamo, perché c’è qualcosa e non il nulla, questa non dà risposte e non spiega niente. Il secondo luogo comune dice che la scienza spiega qualche cosa ma non tutto, e questo tutto implica che la scienza non può nemmeno aspirare a spiegare o arrivare a sfiorare le domande che perché noi contano di più (noi?).
Come abbiamo visto, se spiegare è rispondere a una domanda «perché?» dobbiamo innanzi tutto notare che i nostri «perché?» possono assumere significati diversi. Finora sembra siano stati tutti del tipo «a quale scopo?», ma già Aristotele aveva capito che non tutti i perché sottendono la ricerca della stessa causa.
La causa materiale
Innanzi tutto, diceva l’antico filosofo, c’è una causa materiale, che risponde alle domande che chiamano in causa la costituzione di un oggetto. Di cosa è fatto un certo ente fisico o un certo corpo? Reinterpretando il tutto in linguaggio contemporaneo sappiamo che la natura microscopica di un corpo spesso causa le sue proprietà macroscopiche: sappiamo ad esempio che la flessibilità di un filo di rame dipende dalla natura degli atomi di cui è composto e dalle loro interazioni. La meccanica quantistica ha aperto un mondo vastissimo nello stabilire collegamenti tra il mondo invisibile e ciò che appare. Estremizzando, anche il fenotipo di un essere vivente, ciò che appare, dipende dalla composizione microscopica del DNA, del codice genetico di cui è fatto.
La causa formale
Aristotele avrebbe detto che se la causa materiale di una statua è il marmo di cui è fatta, la sua causa formale è la forma che ha, la sua…statuità. Un insieme di fenomeni potrà quindi, più modernamente, assumere la forma di un loro modello matematico ad essi riferito, un insieme di leggi che valgono perfettamente solo nel modello. La forma di una molla è condivisa da qualunque sistema meccanico reale rappresentabile da un modello matematico in cui esiste una forza di richiamo direttamente proporzionale alla distanza dal punto di equilibrio. I termini moderni della causa formale di cui parlava Aristotele sono quindi un modello definito da un’equazione matematica che descrive i rapporti tra le grandezze del fenomeno che sono importanti ai fini descrittivi, grandezze che definiscono in modo essenziale il modello matematico stesso. F=-kx è la forma matematica della molla, e una molla reale sarà spiegabile in quanto si avvicina alla forma matematica ideale dell’equazione (per una molla priva di attrito F, la forza di richiamo, k una costante di elasticità che dipende dal materiale e dal tipo di molla, x la distanza dal punto di equilibrio, per una molla a riposo x=0).
La causa efficiente
«Qual è la causa che muove ciò che è mosso?» oppure «Qual è la causa di ciò che è stato fatto e che contiene movimento?» si chiedeva Aristotele nel suo terzo «perché?».
La scienza moderna, dopo la causa materiale, ha conservato questo tipo di causa nella sua metodologia, nel senso che la parola «causa» ha nel linguaggio comune: «perché X si muove?», rimandando al meccanismo nascosto che è responsabile dell’evento da spiegare. Ma ciò vale anche per il batterio che causa la peste, è proprio la causa efficiente della malattia, o l’urto delle molecole sulle pareti interne del recipiente che lo contiene ci fa comprendere la causa efficiente della pressione o, per dirla con Aristotele, «causa di ciò che è stato fatto». Anche se la parola causa non interviene direttamente nel linguaggio della fisica contemporanea, quello in cui le teorie fisiche vengono scritte, è parte insostituibile del linguaggio descrittivo ed esplicativo in cui la teoria viene applicata. La causa efficiente ha infine spesso generato equivoci e scorrette interpretazioni nella teoria biologica dell’evoluzione, perché associata a finalismi o cause metafisiche di vario tipo.
La causa finale
L’uomo ha un atteggiamento teleologico nei confronti di moltissimi aspetti di ciò che osserva del mondo in cui vive. Uno dei «perché?» fondamentali è quindi, ancora con Aristotele, «a quale scopo?». E tutte le quattro cause degli altrettanti «perché?» erano di fondamentale importanza per il filosofo.
La causa finale per Aristotele è successiva all’effetto: è la salute che consente la passeggiata, ciò che la spiega. La causa qui è sinonimo di spiegazione: il fine della passeggiata è la salute, che per noi è un suo effetto. Ma tendiamo a rovesciare l’ordine esplicativo. Il precedente desiderio di star bene causa la passeggiata, che ha poi, come suo effetto successivo, la salute.
La causa finale è ormai definitivamente abbandonata, prima dal meccanicismo del XVII secolo, poi dalla scienza successiva. In particolare poi, darwinismo e neodarwinismo, corroborati dalla genetica molecolare, spiegano un certo grado di finalità nella natura per mezzo di un’azione combinata di caso e necessità.
Confutazione del terzo luogo comune
Le spiegazioni che stanno a cuore ai sostenitori di questo luogo comune sono proprio quelle finalistiche, quelle che vanno alla ricerca di una causa finale, ultima, sollevando argomenti che sembrano rendere corretto anche il terzo luogo comune, come il secondo.
La scienza non ha a che fare con i fini, che sono soggettivi, umani, antropomorfici. Per dirla con le parole di un premio Nobel per la fisica, Steven Weinberg, autore del bellissimo libro “I primi tre minuti”, «quanto più l’Universo ci appare comprensibile, quanto più ci appare senza scopo», ed era il 1977 quando lo scriveva.
La scienza non potrà mai fornire risposta alle nostre esigenze di trovare un senso o un significato alla vita, o meglio, di dare risposta proprio a quei significati. Se la domanda «perché?» solleva le domande tipiche del terzo luogo comune ecco che mostra ambiguità. Allora la scienza ha solo due modi per affrontare, risolvere o dissolvere le domande che cercano le «cause finali»: o mettendo in luce che la domanda ha dei presupposti errati o evidenziando il meccanismo evolutivo che genera un qualche tipo di finalità nell’organismo vivente in questione.
Non è vero che la scienza non spieghi i perché che alludono a cause finali; spiega le ragioni delle nostre azioni identificandole con cause o meccanismi precisi. Il desiderio di bere, causato da precisi meccanismi fisiologici che coinvolgono l’ipotalamo, le mucose della bocca ed altro ancora, sono causa (efficiente) della sensazione della sete, la quale ci spinge ad agire per soddisfare il desiderio. Alla ricerca delle cause finali in questo caso le ragioni di un’azione sono identiche alle cause efficienti e materiali che ci portano in cucina ad aprire un rubinetto.
Se invece cerchiamo cause finali non riferite alle intenzioni di esser capaci di pianificare, la scienza dissolve le domande: quale sia lo «scopo» o il «senso» di un’epidemia o di un terremoto non avrà mai risposta perché la domanda è completamente priva di presupposti corretti, o meglio, si presuppone che dietro il fenomeno naturale ci sia il piano di un essere cosciente che usa il fenomeno come strumento o un mezzo per raggiungere un suo scopo, quale ad esempio la nostra punizione. Se esistesse un essere del genere, in grado di controllare uragani e pestilenze, la richiesta di causa finale sarebbe lecita; ma non esiste, e quindi tale richiesta è del tutto illegittima.
E, per motivi analoghi, per assurdo se la vita non fosse il frutto di un disegno intelligente, di un essere onnipotente, ma si fosse originata per caso (ci sono alcuni miei post in proposito), sarebbero illegittime domande come «Qual è lo scopo della vita?» o «A quale scopo esistiamo?», perché presupponente un fatto non esistente, come chiedere ad un figlio unico perché ha picchiato sua sorella. E, ad oggi, la scienza, la più ragionevole delle ipotesi che ci propone sull’evoluzione delle specie esclude la presenza di un progetto o di un disegno intelligente. E probabilmente, in meno tempo del previsto, la scienza sarà in grado di fornire risposte sull’origine della vita (si vedano i post già citati).
Ricordo che la scienza moderna ha pochi secoli di vita e il fatto che la scienza non spieghi quel che tutti noi o alcuni di noi vorrebbero spiegasse non implica che essa dovrebbe spiegare proprio queste cose; in assenza di un disegno intelligente, la ricerca di cause finali nell’evoluzione biologica sarebbe puramente illusoria. E a quanto sappiamo, l’evoluzione non mostra presenza di disegno intelligente, ma solo di modifiche casuali del patrimonio genetico e di necessità, per parafrasare Jacques Monod, che nel suo splendido saggio “Il caso e la necessità”, del 1970, scrive la sintesi perfetta di quanto meravigliosa possa essere la consapevolezza della nostra responsabilità e la grande umiltà che deve darci la consapevolezza dell’unicità e della preziosità della Vita.
«La probabilità a priori che, fra tutti gli avvenimenti possibili dell’universo, se ne verifichi uno in particolare è quasi nulla. Eppure l’universo esiste; bisogna dunque che si producano in esso certi eventi la cui probabilità (prima dell’evento) era minima. Al momento attuale non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle.
Quest’idea non solo non piace ai biologi in quanto uomini di scienza, ma urta anche contro la nostra tendenza a credere che ogni cosa reale nell’universo sia sempre stata necessaria, e da sempre. Dobbiamo tenerci sempre in guardia da questo senso così forte del destino. La scienza moderna ignora ogni immanenza. Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana, la sola specie dell’universo capace di realizzare un sistema logico di combinazione simbolica. Altro avvenimento unico che dovrebbe, proprio per questo, trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Se esso è stato veramente unico, come forse lo è stata la comparsa della vita stessa, ciò dipende dal fatto che prima di manifestarsi, le sue possibilità erano quasi nulle. L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?»
E ancora:
«L'antica alleanza è infranta; l'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente dell'Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre.»
La domanda fondamentale della metafisica
Veloce e scherzosa dimostrazione del perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla, per gente moderna e parecchio impegnata.
«Supponiamo che non ci sia nulla.
Se non ci fosse nulla non esisterebbero le leggi: le leggi, in fin dei conti, sono qualcosa.
Se non ci fossero leggi, tutto sarebbe lecito.
Se tutto fosse lecito, nulla sarebbe proibito.
Quindi, se non ci fosse nulla, nulla sarebbe proibito.
E dunque, se “nulla” è proibito, dev’esserci qualcosa.
CVD»
Estratto da “Perché il mondo esiste” di Jim Holt.
La domanda fondamentale per il famoso filosofo Heidegger. Perché c’è qualcosa invece del nulla? Ancora una volta la domanda appare illegittima. In assenza di evidenza per un’ipotesi creazionistica sull’Universo, potrebbe essere illusorio pensare che l’«essere» abbia una finalità o un senso, soprattutto in vista del fatto che l’Universo è composto in prevalenza di idrogeno e, in misura minore di elio. La presupposizione è falsa e la domanda non ha senso quindi.
Ma se cerchiamo spiegazioni non finalistiche, considerando soprattutto che ad oggi conosciamo appena il cinque percento di ciò che effettivamente costituisce l’Universo (le cosiddette materia ed energia oscure sono ancora…oscure!), non possiamo escludere che progressi importanti nella cosmologia ci condurranno presto, o quanto meno sempre più vicino, ad una risposta. E la cosa si fa molto interessante sapendo che per i fisici il vuoto, l’unico conosciuto, quello quantistico, è pieno di eventi interessanti, e non ha assolutamente nulla a che fare con il vuoto metafisico, quel horror vacui di cui avevano il terrore gli antichi tanto che Aristotele, sempre lui, soleva dire «natura abhorret a vacuo».
A quanto pare la domanda fondamentale della metafisica rimarrà inevasa sia dalla scienza che dalla filosofia, perché non esiste possibile risposta. Qualsiasi fattore introdotto per spiegare perché c’è qualcosa piuttosto che niente sarò esso stesso parte del qualcosa che deve essere spiegato, cosicché esso (o qualsiasi cosa lo utilizzi) non potrà spiegare tutto di quel qualcosa.
Non è un limite della scienza il non poter rispondere a domande di questo tipo, ma una conseguenza del modo in cui funziona qualunque tipo di spiegazione: dal nulla non si può generare nulla e l’ipotesi di un creatore che crei il mondo dal nulla pone il problema dell’origine del creatore, o del perché il creatore sia increato.
E infine, che vuol dire rispondere a «ciò che più conta per noi» del terzo luogo comune? Per alcuni potrebbe non essere così centrale cercare di capire perché c’è qualcosa invece che nulla e avere altre domande assai più importanti; altri potrebbero aver interessi ossessivi per altri argomenti e così via.
Il terzo luogo comune è comunque importante per ogni teoria della spiegazione scientifica. La scienza, diceva Popper, deve ricercare fatti interessanti e quindi anche la spiegazione deve essere una spiegazione di fatti interessanti per noi. Potremmo aprire una parentesi molto lunga sul concetto popperiano di interessante: ci sono ricercatori che hanno passato una vita a studiare muffe batteriche scoprendo per caso (per caso?) un algoritmo che ottimizza certi tipi di percorsi, con applicazioni notevoli nel campo del reindirizzamento delle comunicazioni di Internet.
Rispettando il pensiero di molti esseri umani che considerano interessante e non priva di senso la domanda fondamentale posta da Heidegger concluderei ricordando che per assicurare un qualche tipo di progresso nella comprensione del nostro posto nell’Universo, conviene certamente partire da domande meno ambiziose.
(s)Conclusione
La scienza moderna è frammentata in dozzine di discipline diverse, ambito per ambito a cominciare dalla fisica, ma non meno per chimica, geologia, biologia, matematica, medicina e tanto altro ancora; hanno ambiti di operatività e ricerca tali che chi lavora in uno dei tantissimi settori non ha contezza di quello che fanno altri. Ma non per questo, a maggior ragione nell’era dell’interconnessione digitale, gli ambiti di cooperazione, quando necessario, ne sono limitati.
E per questo non è sbagliato affermare che, contestualizzando una singola teoria o una singola entità a specifici campi di ricerca, queste siano vere e su queste si possono con fiducia basare i calcoli e le applicazioni tecnologiche che portano a risultati concreti e funzionali.
La stessa filosofia della scienza è oggi spostata in ambiti più specialistici e settoriali della filosofia delle singole scienze, tra questi la filosofia della fisica quantistica, la filosofia della biologia o di questa addirittura quella dell’evoluzionismo come ulteriore fondamento. Le conoscenze del filosofo devono diventare molto tecniche.
Ma, per evitare il tecnicismo estremo, per ovviare al pericolo che la filosofia in quanto tale possa scomparire, resta importantissima la tradizione della filosofia della scienza in generale: per evitare una percezione settoriale e per fare da ponte tra le filosofie delle singole scienze e quella tout court.
La speranza è che gli studiosi, ambo i lati, approfittino del periodo in corso, tra i migliori, per realizzare un’auspicata interazione feconda tra scienza e filosofia. Personalmente, in questo, vedo dei limiti: ci sono materie scientifiche affrontabili e comprensibili perché molto più qualitative, e queste non dovrebbero rappresentare un problema per un “filosofo” che voglia aumentare le sue conoscenze, ma altri ambiti in cui le difficoltà sarebbero quasi insormontabili, a meno che questi non volesse cambiar lavoro. Di contro, uno “scienziato”, nonostante la maggior semplicità incontrata nell’affrontare studi filosofici con successo, potrebbe non avere interesse alcuno ad approfondire o ad ascoltare punti di vista non necessari alle sue ricerche se non, appunto, per fare un po’ di filosofia. E sbaglierebbe. Il biologo Ernst Mayr, da tutti considerato un moderno Darwin, sosteneva l’inadeguatezza di una filosofia della scienza generalista, e di coloro che credono che abbia priorità la logica su ogni approccio empirico per risolvere problemi genuini nell’ambito della filosofia della scienza. Scrisse una volta, a proposito di un saggio di filosofia della biologia:
«Il libro (…) è molto più di un lavoro sulla selezione naturale. Non solo si sforza di chiarire anche altri problemi della biologia evoluzionistica, ma si è guadagnato la gratitudine dei biologi per la dettagliata analisi filosofica condotta sui concetti di forza, causalità, caso, spiegazione e correlazione. Questi sono termini che i non-filosofi impiegano di frequente, interpretandoli tuttavia in maniera superficiale, e talvolta errata. (…) dimostra ancora una volta quanto semplice sia cadere in errore in assenza di rigore terminologico».
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Riferimenti bibliografici
Ernst Mayr - L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, 2005
Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007
Samir Okasha - Il primo libro di filosofia della scienza, 2006