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Confutazione dei luoghi comuni sulla scienza – Secondo e terzo

Ultimo dei tre post della serie. Qui il primo e il secondo.

Comprensione

Comprendere o capire qualcosa. Qual è il suo significato? Per un primo tentativo di risposta rivolgiamoci all’etimologia della parola, che si riferisce all’atto concreto di prendere, afferrare, impossessarsi (dal latino capere). Non a caso «afferrare» è un sinonimo di capire, così come quando non riusciamo a com-prendere qualcosa, con un’idea concreta di prendere in mano, diciamo anche che «ci sfugge». E che dire allora, dell’inglese to see usato sia per «vedere» che per «capire»?

E sono le spiegazioni le azioni o i processi che contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo. Qualcuno ha detto che spiegare è trovare l’identico nel diverso, in un processo che unifica le cause comuni.

Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».

Argomenti questi trattati approfonditamente nel primo e nel secondo di questa serie. In quest’ultimo, considerando definitivamente confutato il primo luogo comune (la scienza è al massimo in grado di spiegare il come e il cosa dei fenomeni, ma non il perché), se qualcuno si ostinasse a volerlo difendere dovrebbe necessariamente ridurne la portata, introducendoci al secondo luogo comune (la scienza non spiega tutto).


Cercheremo quindi di capire come questo secondo luogo comune, usato per lo più in modo polemico e antiscientifico, per sminuire il valore della scienza, diventa invece uno dei punti di forza di questa.

clip_image002Se spiegare implica il ricorso a leggi o meccanismi causali prossimi o remoti che siano, e se i fenomeni delle scienze storiche e sociali o di quelle economiche non fossero inquadrabili in leggi o in tali meccanismi le conclusioni appaiono entrambe problematiche: i fenomeni storico-sociali non sono spiegabili o, per dirla in altro modo, nelle scienze umane la spiegazione non è consentita, oppure, che tali fenomeni sono sottratti dalle tecniche esplicative che valgono nelle scienze naturali. E perché mai non dovrebbe essere possibile trattare qualsiasi cosa con il metodo scientifico?

Spiegazione

Insomma i difensori del primo luogo comune sarebbero costretti ad ammettere che, se pure le scienze naturali spiegano tipi di eventi in base a leggi o meccanismi causali, quelle umane non sono passibili di spiegazioni di questo tipo perché hanno come scopo la comprensione o l’interpretazione di eventi o fatti individuali e irripetibili. Il termine interpretazione introduce subito soggettività, quindi relatività, cose poco affini con l’indagine scientifica.

Domanda: esiste una sorta di confine tra scienze naturali e scienze umane, secondo il quale le scienze umane avrebbero una loro autonomia metodologica rispetto a quelle naturali, perché tutt’al più interpretano e comprendono identificandosi con il loro oggetto di studio, anziché spiegare? Ma questo è un corollario del secondo luogo comune, che appunto le scienze non spiegano tutto.

Ovviamente, sapendo che compito principale dello storico è individuare le cause dei processi storici, la tesi procedente non implica affermare che i fenomeni umani o storico-sociali non siano spiegabili affatto.

Come affermato nell’introduzione spiegare innanzi tutto significa comprendere, e una comprensione dei fenomeni la si ottiene semplicemente rispondere ad un «perché?» e quindi non è giustificabile porre una differenza tra spiegare e comprendere o interpretare.

clip_image004Anche fosse vero che la nozione di spiegazione scientifica non può applicarsi alle discipline umane-sociali, o perché le scienze umane sono sottratte al metodo scientifico, non sarebbe comunque consentito di sostenere il luogo comune che la scienza non spiega tutto. Che sia il libro della natura o un passo di un antico manoscritto da interpretare si tratta in ogni caso di cercare di risolvere un problema attraverso una teoria, che poi verrà sottoposta a critica per vedere se regge alla prova dei fatti e se è coerente con le altre teorie o ipotesi considerate già accettate.

Qualcuno osserverà che il fatto che si possa sperimentare nelle scienze naturali e non in quelle storico-sociali rende i due ambiti di ricerca diversi; ma non è forse vero che ci sono ambiti scientifici dove ci si deve accontentare solo di osservazioni e non è possibile effettuare esperimenti diretti, quali l’astronomia per esempio? E forse che la biologia evoluzionistica o la cosmologia non studiano fenomeni storici unici e irripetibili? E ancora, la teoria geologica della tettonica a placche, che ha a corollario numerose evidenze, non è forse basata su altre asserzioni teoriche riguardanti lo stato della materia della e sotto la crosta terrestre? E infine, proprio la fisica viene in soccorso alla validità del metodo anche per le scienze umane e sociali, affermando che le spiegazioni scientifiche non implicano necessariamente l’inquadramento sotto leggi di natura di copertura. Lo stesso Einstein sosteneva che «nessun cammino logico conduce a queste leggi elementari: solo l’intuizione che si fonda sulla immedesimazione con l’esperienza ci può condurre ad esso». I famosi Gedankenexperiment del grande fisico tedesco.

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Nello spiegare, (si veda il post precedente), il perché della pioggia o la spiegazione funzionale dei riflessi pupillari, non abbiamo introdotto leggi, e benché in quest’ultimo caso esistono leggi elettro-chimiche precise legate alla contrazione dei muscoli, conoscerle non è affatto necessario per comprendere il fenomeno. Ovvio che in un contesto scientifico la parola «causa» presuppone l’esistenza di regolarità, ma la loro conoscenza non è necessaria per la comprensione dei fenomeni.

Così come, al contrario, la presenza di leggi non basta per una spiegazione. Nel caso della diffusione dei diversi tipi di luce è vero che la legge di Rayleigh, premessa che governa il fenomeno dello scattering, ci fa immediatamente capire che la luce blu è mediamente diffusa 12 volte più di quella rossa – (1/7604)/(1/3904) ≈ 12, dove 390 e 760 sono i valori delle lunghezze d’onda espresse in nanometri – ma senza una conoscenza adeguata del meccanismo causale di diffusione, non capiremmo perché ciò avviene.

È più importante capire che luce con lunghezza d’onda minore interagisce di più con le molecole di azoto e ossigeno e viene «sparpagliato» dappertutto, a differenza di quella rossa, con lunghezza d’onda maggiore che passa pressoché indisturbata. È questo il fenomeno che genera comprensione, la deduzione di una legge da sola non basta.

La scienza spiega, senza poter spiegare tutto.

Si può comprendere qualitativamente, così come è stato fatto per le interazioni delle diverse lunghezze d’onda con le componenti dell’atmosfera in analogia all’onda del mare con gli scogli, usata nel post precedente. Ma la comprensione quantitativa delle leggi non è sempre possibile, perché non sempre è possibile derivarle da altre leggi. Perché esiste una proporzionalità con la quarta potenza della lunghezza d’onda e non con la terza? Potrebbe semplicemente essere un fatto bruto (così si definiscono le cose che non possono essere spiegate, e qui potremmo aprire, ma non lo faremo, un dibattito sul perché alcune costanti fondamentali di natura hanno i valori che hanno…). Oppure un de facto, per ora non possiamo spiegarlo, o ancora un de iure, inspiegabile in linea di principio. Lo stesso potremmo fare con la legge di Newton della gravitazione: perché la forza diminuisce col quadrato e non come il cubo della distanza?

La scienza fornisce comprensione, anche se questa è limitata; ma non si può dire che finché non si è compreso tutto non si è compreso nulla.

Non esiste una teoria del tutto

clip_image008Usare il secondo luogo comune per difendere il primo non ha senso: se per comprendere un fenomeno come il congelamento dell’acqua dovessimo ogni volta comprendere la natura delle forze di coesione molecolare quando questa cambia di stato ma, al tempo stesso dovessimo retrocedere di perché in perché o di causa in causa, arrivare alla domanda delle domande, perché esiste l’universo, perché c’è qualcosa piuttosto che nulla, non comprenderemmo mai nulla e l’apprendimento sarebbe impossibile, in un riduzionismo inutile.

Non siamo onniscienti, e quindi esistono limiti alla spiegabilità della natura, il che prova la nostra finitezza cognitiva. Ovvio che un determinato momento storico l’insieme dei fatti e di tutte le leggi esistenti è solo un piccolo sottoinsieme, ma potrebbero esistere anche fatti non spiegabili in linea di principio, a rendere difficile la vita ai sostenitori di un’eventuale teoria fisica del tutto, che ogni tanto riaffiora. Come spiegare le condizioni iniziali dell’Universo se queste sono la base per spiegare ciò che accadde dopo? Come spiegare la coscienza se per farlo altro non abbiamo che il nostro essere coscienti?

Privo di finalità polemiche, il luogo comune in base al quale la scienza non può spiegare tutto, è corretto, ed è uno dei suoi principi cardine.

Scire est scire per causas. Il terzo luogo comune
Conoscere è conoscere attraverso le cause. Se proviamo a spiegare, rivolgendoci alla scienza, ciò che maggiormente ci preme e ci interessa, della serie perché c’è vita, chi siamo, perché esistiamo, perché c’è qualcosa e non il nulla, questa non dà risposte e non spiega niente. Il secondo luogo comune dice che la scienza spiega qualche cosa ma non tutto, e questo tutto implica che la scienza non può nemmeno aspirare a spiegare o arrivare a sfiorare le domande che perché noi contano di più (noi?).

clip_image010Come abbiamo visto, se spiegare è rispondere a una domanda «perché?» dobbiamo innanzi tutto notare che i nostri «perché?» possono assumere significati diversi. Finora sembra siano stati tutti del tipo «a quale scopo?», ma già Aristotele aveva capito che non tutti i perché sottendono la ricerca della stessa causa.

La causa materiale
Innanzi tutto, diceva l’antico filosofo, c’è una causa materiale, che risponde alle domande che chiamano in causa la costituzione di un oggetto. Di cosa è fatto un certo ente fisico o un certo corpo? Reinterpretando il tutto in linguaggio contemporaneo sappiamo che la natura microscopica di un corpo spesso causa le sue proprietà macroscopiche: sappiamo ad esempio che la flessibilità di un filo di rame dipende dalla natura degli atomi di cui è composto e dalle loro interazioni. La meccanica quantistica ha aperto un mondo vastissimo nello stabilire collegamenti tra il mondo invisibile e ciò che appare. Estremizzando, anche il fenotipo di un essere vivente, ciò che appare, dipende dalla composizione microscopica del DNA, del codice genetico di cui è fatto.


La causa formale

clip_image011Aristotele avrebbe detto che se la causa materiale di una statua è il marmo di cui è fatta, la sua causa formale è la forma che ha, la sua…statuità. Un insieme di fenomeni potrà quindi, più modernamente, assumere la forma di un loro modello matematico ad essi riferito, un insieme di leggi che valgono perfettamente solo nel modello. La forma di una molla è condivisa da qualunque sistema meccanico reale rappresentabile da un modello matematico in cui esiste una forza di richiamo direttamente proporzionale alla distanza dal punto di equilibrio. I termini moderni della causa formale di cui parlava Aristotele sono quindi un modello definito da un’equazione matematica che descrive i rapporti tra le grandezze del fenomeno che sono importanti ai fini descrittivi, grandezze che definiscono in modo essenziale il modello matematico stesso. F=-kx è la forma matematica della molla, e una molla reale sarà spiegabile in quanto si avvicina alla forma matematica ideale dell’equazione (per una molla priva di attrito F, la forza di richiamo, k una costante di elasticità che dipende dal materiale e dal tipo di molla, x la distanza dal punto di equilibrio, per una molla a riposo x=0).

La causa efficiente
«Qual è la causa che muove ciò che è mosso?» oppure «Qual è la causa di ciò che è stato fatto e che contiene movimento?» si chiedeva Aristotele nel suo terzo «perché?».

La scienza moderna, dopo la causa materiale, ha conservato questo tipo di causa nella sua metodologia, nel senso che la parola «causa» ha nel linguaggio comune: «perché X si muove?», rimandando al meccanismo nascosto che è responsabile dell’evento da spiegare. Ma ciò vale anche per il batterio che causa la peste, è proprio la causa efficiente della malattia, o l’urto delle molecole sulle pareti interne del recipiente che lo contiene ci fa comprendere la causa efficiente della pressione o, per dirla con Aristotele, «causa di ciò che è stato fatto». Anche se la parola causa non interviene direttamente nel linguaggio della fisica contemporanea, quello in cui le teorie fisiche vengono scritte, è parte insostituibile del linguaggio descrittivo ed esplicativo in cui la teoria viene applicata. La causa efficiente ha infine spesso generato equivoci e scorrette interpretazioni nella teoria biologica dell’evoluzione, perché associata a finalismi o cause metafisiche di vario tipo.

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La causa finale

clip_image015L’uomo ha un atteggiamento teleologico nei confronti di moltissimi aspetti di ciò che osserva del mondo in cui vive. Uno dei «perché?» fondamentali è quindi, ancora con Aristotele, «a quale scopo?». E tutte le quattro cause degli altrettanti «perché?» erano di fondamentale importanza per il filosofo.

La causa finale per Aristotele è successiva all’effetto: è la salute che consente la passeggiata, ciò che la spiega. La causa qui è sinonimo di spiegazione: il fine della passeggiata è la salute, che per noi è un suo effetto. Ma tendiamo a rovesciare l’ordine esplicativo. Il precedente desiderio di star bene causa la passeggiata, che ha poi, come suo effetto successivo, la salute.

La causa finale è ormai definitivamente abbandonata, prima dal meccanicismo del XVII secolo, poi dalla scienza successiva. In particolare poi, darwinismo e neodarwinismo, corroborati dalla genetica molecolare, spiegano un certo grado di finalità nella natura per mezzo di un’azione combinata di caso e necessità.

Confutazione del terzo luogo comune

clip_image017Le spiegazioni che stanno a cuore ai sostenitori di questo luogo comune sono proprio quelle finalistiche, quelle che vanno alla ricerca di una causa finale, ultima, sollevando argomenti che sembrano rendere corretto anche il terzo luogo comune, come il secondo.

La scienza non ha a che fare con i fini, che sono soggettivi, umani, antropomorfici. Per dirla con le parole di un premio Nobel per la fisica, Steven Weinberg, autore del bellissimo libro “I primi tre minuti”, «quanto più l’Universo ci appare comprensibile, quanto più ci appare senza scopo», ed era il 1977 quando lo scriveva.

La scienza non potrà mai fornire risposta alle nostre esigenze di trovare un senso o un significato alla vita, o meglio, di dare risposta proprio a quei significati. Se la domanda «perché?» solleva le domande tipiche del terzo luogo comune ecco che mostra ambiguità. Allora la scienza ha solo due modi per affrontare, risolvere o dissolvere le domande che cercano le «cause finali»: o mettendo in luce che la domanda ha dei presupposti errati o evidenziando il meccanismo evolutivo che genera un qualche tipo di finalità nell’organismo vivente in questione.

Non è vero che la scienza non spieghi i perché che alludono a cause finali; spiega le ragioni delle nostre azioni identificandole con cause o meccanismi precisi. Il desiderio di bere, causato da precisi meccanismi fisiologici che coinvolgono l’ipotalamo, le mucose della bocca ed altro ancora, sono causa (efficiente) della sensazione della sete, la quale ci spinge ad agire per soddisfare il desiderio. Alla ricerca delle cause finali in questo caso le ragioni di un’azione sono identiche alle cause efficienti e materiali che ci portano in cucina ad aprire un rubinetto.

Se invece cerchiamo cause finali non riferite alle intenzioni di esser capaci di pianificare, la scienza dissolve le domande: quale sia lo «scopo» o il «senso» di un’epidemia o di un terremoto non avrà mai risposta perché la domanda è completamente priva di presupposti corretti, o meglio, si presuppone che dietro il fenomeno naturale ci sia il piano di un essere cosciente che usa il fenomeno come strumento o un mezzo per raggiungere un suo scopo, quale ad esempio la nostra punizione. Se esistesse un essere del genere, in grado di controllare uragani e pestilenze, la richiesta di causa finale sarebbe lecita; ma non esiste, e quindi tale richiesta è del tutto illegittima.

clip_image019E, per motivi analoghi, per assurdo se la vita non fosse il frutto di un disegno intelligente, di un essere onnipotente, ma si fosse originata per caso (ci sono alcuni miei post in proposito), sarebbero illegittime domande come «Qual è lo scopo della vita?» o «A quale scopo esistiamo?», perché presupponente un fatto non esistente, come chiedere ad un figlio unico perché ha picchiato sua sorella. E, ad oggi, la scienza, la più ragionevole delle ipotesi che ci propone sull’evoluzione delle specie esclude la presenza di un progetto o di un disegno intelligente. E probabilmente, in meno tempo del previsto, la scienza sarà in grado di fornire risposte sull’origine della vita (si vedano i post già citati).

Ricordo che la scienza moderna ha pochi secoli di vita e il fatto che la scienza non spieghi quel che tutti noi o alcuni di noi vorrebbero spiegasse non implica che essa dovrebbe spiegare proprio queste cose; in assenza di un disegno intelligente, la ricerca di cause finali nell’evoluzione biologica sarebbe puramente illusoria. E a quanto sappiamo, l’evoluzione non mostra presenza di disegno intelligente, ma solo di modifiche casuali del patrimonio genetico e di necessità, per parafrasare Jacques Monod, che nel suo splendido saggio “Il caso e la necessità”, del 1970, scrive la sintesi perfetta di quanto meravigliosa possa essere la consapevolezza della nostra responsabilità e la grande umiltà che deve darci la consapevolezza dell’unicità e della preziosità della Vita.

«La probabilità a priori che, fra tutti gli avvenimenti possibili dell’universo, se ne verifichi uno in particolare è quasi nulla. Eppure l’universo esiste; bisogna dunque che si producano in esso certi eventi la cui probabilità (prima dell’evento) era minima. Al momento attuale non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle.

Quest’idea non solo non piace ai biologi in quanto uomini di scienza, ma urta anche contro la nostra tendenza a credere che ogni cosa reale nell’universo sia sempre stata necessaria, e da sempre. Dobbiamo tenerci sempre in guardia da questo senso così forte del destino. La scienza moderna ignora ogni immanenza. Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana, la sola specie dell’universo capace di realizzare un sistema logico di combinazione simbolica. Altro avvenimento unico che dovrebbe, proprio per questo, trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Se esso è stato veramente unico, come forse lo è stata la comparsa della vita stessa, ciò dipende dal fatto che prima di manifestarsi, le sue possibilità erano quasi nulle. L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?»

E ancora:

«L'antica alleanza è infranta; l'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente dell'Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre.»

La domanda fondamentale della metafisica
Veloce e scherzosa dimostrazione del perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla, per gente moderna e parecchio impegnata.

«Supponiamo che non ci sia nulla.
Se non ci fosse nulla non esisterebbero le leggi: le leggi, in fin dei conti, sono qualcosa.
Se non ci fossero leggi, tutto sarebbe lecito.
Se tutto fosse lecito, nulla sarebbe proibito.
Quindi, se non ci fosse nulla, nulla sarebbe proibito.

  E dunque, se “nulla” è proibito, dev’esserci qualcosa.
CVD
»

Estratto da “Perché il mondo esiste” di Jim Holt.

La domanda fondamentale per il famoso filosofo Heidegger. Perché c’è qualcosa invece del nulla? Ancora una volta la domanda appare illegittima. In assenza di evidenza per un’ipotesi creazionistica sull’Universo, potrebbe essere illusorio pensare che l’«essere» abbia una finalità o un senso, soprattutto in vista del fatto che l’Universo è composto in prevalenza di idrogeno e, in misura minore di elio. La presupposizione è falsa e la domanda non ha senso quindi.

clip_image021Ma se cerchiamo spiegazioni non finalistiche, considerando soprattutto che ad oggi conosciamo appena il cinque percento di ciò che effettivamente costituisce l’Universo (le cosiddette materia ed energia oscure sono ancora…oscure!), non possiamo escludere che progressi importanti nella cosmologia ci condurranno presto, o quanto meno sempre più vicino, ad una risposta. E la cosa si fa molto interessante sapendo che per i fisici il vuoto, l’unico conosciuto, quello quantistico, è pieno di eventi interessanti, e non ha assolutamente nulla a che fare con il vuoto metafisico, quel horror vacui di cui avevano il terrore gli antichi tanto che Aristotele, sempre lui, soleva dire «natura abhorret a vacuo».

A quanto pare la domanda fondamentale della metafisica rimarrà inevasa sia dalla scienza che dalla filosofia, perché non esiste possibile risposta. Qualsiasi fattore introdotto per spiegare perché c’è qualcosa piuttosto che niente sarò esso stesso parte del qualcosa che deve essere spiegato, cosicché esso (o qualsiasi cosa lo utilizzi) non potrà spiegare tutto di quel qualcosa.

Non è un limite della scienza il non poter rispondere a domande di questo tipo, ma una conseguenza del modo in cui funziona qualunque tipo di spiegazione: dal nulla non si può generare nulla e l’ipotesi di un creatore che crei il mondo dal nulla pone il problema dell’origine del creatore, o del perché il creatore sia increato.

E infine, che vuol dire rispondere a «ciò che più conta per noi» del terzo luogo comune? Per alcuni potrebbe non essere così centrale cercare di capire perché c’è qualcosa invece che nulla e avere altre domande assai più importanti; altri potrebbero aver interessi ossessivi per altri argomenti e così via.

Il terzo luogo comune è comunque importante per ogni teoria della spiegazione scientifica. La scienza, diceva Popper, deve ricercare fatti interessanti e quindi anche la spiegazione deve essere una spiegazione di fatti interessanti per noi. Potremmo aprire una parentesi molto lunga sul concetto popperiano di interessante: ci sono ricercatori che hanno passato una vita a studiare muffe batteriche scoprendo per caso (per caso?) un algoritmo che ottimizza certi tipi di percorsi, con applicazioni notevoli nel campo del reindirizzamento delle comunicazioni di Internet.

Rispettando il pensiero di molti esseri umani che considerano interessante e non priva di senso la domanda fondamentale posta da Heidegger concluderei ricordando che per assicurare un qualche tipo di progresso nella comprensione del nostro posto nell’Universo, conviene certamente partire da domande meno ambiziose.

(s)Conclusione

clip_image023La scienza moderna è frammentata in dozzine di discipline diverse, ambito per ambito a cominciare dalla fisica, ma non meno per chimica, geologia, biologia, matematica, medicina e tanto altro ancora; hanno ambiti di operatività e ricerca tali che chi lavora in uno dei tantissimi settori non ha contezza di quello che fanno altri. Ma non per questo, a maggior ragione nell’era dell’interconnessione digitale, gli ambiti di cooperazione, quando necessario, ne sono limitati.

E per questo non è sbagliato affermare che, contestualizzando una singola teoria o una singola entità a specifici campi di ricerca, queste siano vere e su queste si possono con fiducia basare i calcoli e le applicazioni tecnologiche che portano a risultati concreti e funzionali.

La stessa filosofia della scienza è oggi spostata in ambiti più specialistici e settoriali della filosofia delle singole scienze, tra questi la filosofia della fisica quantistica, la filosofia della biologia o di questa addirittura quella dell’evoluzionismo come ulteriore fondamento. Le conoscenze del filosofo devono diventare molto tecniche.

Ma, per evitare il tecnicismo estremo, per ovviare al pericolo che la filosofia in quanto tale possa scomparire, resta importantissima la tradizione della filosofia della scienza in generale: per evitare una percezione settoriale e per fare da ponte tra le filosofie delle singole scienze e quella tout court.

La speranza è che gli studiosi, ambo i lati, approfittino del periodo in corso, tra i migliori, per realizzare un’auspicata interazione feconda tra scienza e filosofia. Personalmente, in questo, vedo dei limiti: ci sono materie scientifiche affrontabili e comprensibili perché molto più qualitative, e queste non dovrebbero rappresentare un problema per un “filosofo” che voglia aumentare le sue conoscenze, ma altri ambiti in cui le difficoltà sarebbero quasi insormontabili, a meno che questi non volesse cambiar lavoro. Di contro, uno “scienziato”, nonostante la maggior semplicità incontrata nell’affrontare studi filosofici con successo, potrebbe non avere interesse alcuno ad approfondire o ad ascoltare punti di vista non necessari alle sue ricerche se non, appunto, per fare un po’ di filosofia. E sbaglierebbe. Il biologo Ernst Mayr, da tutti considerato un moderno Darwin, sosteneva l’inadeguatezza di una filosofia della scienza generalista, e di coloro che credono che abbia priorità la logica su ogni approccio empirico per risolvere problemi genuini nell’ambito della filosofia della scienza. Scrisse una volta, a proposito di un saggio di filosofia della biologia:

«Il libro (…) è molto più di un lavoro sulla selezione naturale. Non solo si sforza di chiarire anche altri problemi della biologia evoluzionistica, ma si è guadagnato la gratitudine dei biologi per la dettagliata analisi filosofica condotta sui concetti di forza, causalità, caso, spiegazione e correlazione. Questi sono termini che i non-filosofi impiegano di frequente, interpretandoli tuttavia in maniera superficiale, e talvolta errata. (…) dimostra ancora una volta quanto semplice sia cadere in errore in assenza di rigore terminologico».

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Riferimenti bibliografici
Ernst Mayr - L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, 2005
Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007
Samir Okasha - Il primo libro di filosofia della scienza, 2006

Tre luoghi comuni sulla spiegazione scientifica. Parte prima: il come ma non il perché

Premessa

In questo primo di una serie di post, che spero di completare quanto prima, tenterò, immodestamente, di affrontare altrettanti luoghi comuni sulla scienza, o meglio sulle spiegazioni che questa fornisce e che, da tempo immemorabile, sono piuttosto diffusi, non solo tra negazionisti di ogni tipo, neoluddisti o legioni di imbecilli (cit. Umberto Eco), ma anche a volte avvalorati da molti filosofi e persino da eminenti scienziati.

Allo scopo di avviare una certa propedeuticità in questo primo post dovrò necessariamente introdurre qualcosa anche sul secondo e sul terzo luogo comune; per tutti comunque confutazioni, prove a sostegno e dettagli seguiranno negli altri post.

Tutti e tre sono spesso utilizzati polemicamente, in malafede, e fanno parte di quel gruppo di tesi che annoverano tra esse anche quelle che sostengono le domande come quelle a seguire e che sono state trattate recentemente anche su queste pagine. Se le teorie sono suscettibili di mutamenti anche radicali nel corso della loro storia, come pensare che possano essere definitivamente vere? E se sono solo approssimativamente vere, come giustificare l'idea che progrediscano verso la verità? E ancora, se anche le entità non osservabili postulate dalle teorie passate sono state a volte abbandonate nel corso dello sviluppo storico delle teorie, come possiamo essere sicuri che le entità postulate dalla scienza di oggi non verranno abbandonate domani?

Ma il metodo scientifico ha basi, ancorché fondate sul dubbio e su spirito antidogmatico, più che solide.

Il primo luogo comune. Cosa e come ma non perché.

Per affrontare l’argomento prenderò in prestito le parole di un filosofo italiano contemporaneo, Umberto Galimberti: «…la ragione, ormai abituata a spiegare il come delle cose, tace impotente di fronte al perché del loro accadimento». Ma così non è, come vedremo.

Questa affermazione, non di rado espressa anche da scienziati, ci dice in breve che la scienza ha a che fare solo con il come e non anche con il perché delle cose. Da Galilei in poi, storici e filosofi della scienza concordano nel ritenere che il metodo scientifico consista da una parte nel tentativo di formulare in modo matematicamente preciso alcuni significativi nessi tra i fenomeni (ciò che Galilei definiva «le certe dimostrazioni»), e dall’altra nel sottoporre le leggi così formulate alla prova delle osservazioni («le sensate esperienze» galileiane, gli esperimenti); il tutto fino ad arrivare ad estremismi tali da ribadire, come fece di recente uno dei più autorevoli studiosi di relatività generale nel mondo, che «la scienza non offre spiegazioni dei fenomeni ma solo leggi». Ancora, così non è.

All’origine di questo primo luogo comune c’è insomma la tesi, molto controversa, che le connessioni tra i fenomeni, i loro nessi causali, espressi dalle cosiddette leggi di natura, non siano sufficienti a farci comprendere perché gli eventi avvengano, o perché avvengano proprio così e non in altro modo. Paradossalmente affermazioni di questo tipo hanno lasciato credere, per lunghissimo tempo, che la biologia non fosse degna nel definirsi scienza, perché priva di leggi. Il nostro Zichichi affermò ad esempio che la teoria biologica dell’evoluzione non è scientifica, in quanto non è espressa da un’equazione matematica. Tra le tante critiche rivolte al lavoro di Darwin questa è una delle più disinformate, perché gli aspetti matematici dell’evoluzionismo esistono dal 1908, da quando Hardy e Weimberg, con la loro famosa legge, impostarono matematicamente le condizioni evolutive identificate empiricamente dai biologi; e potremmo anche ricordare un’altra famosa legge biologica, quella di Maynard Smith e Price, rimandando a questo post per un approfondimento.

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Prendiamo adesso esempio da una delle più famose leggi di natura, che più o meno tutti abbiamo studiato a scuola: la legge di gravitazione universale scoperta da Isaac Newton. Questa esprime che la forza di attrazione F che attrae due masse qualunque (m1 e m2) nell’Universo è direttamente proporzionale al loro prodotto e inversamente proporzionale al quadrato della distanza (r) tra esse (a parte una costante, detta di gravitazione universale, G). In breve, tanto maggiori sono le masse tanto maggiore sarà la forza, e raddoppiando o triplicando la distanza tra esse, l’intensità della forza diminuirà di un quarto o di un nono rispettivamente.

clip_image003Già al tempo di Newton, a cominciare dai seguaci della fisica di Cartesio, molti osservavano che questa elegante legge non ci dà nessuna informazione sul perché i corpi si attraggono, non fornisce, in altre parole, nessun meccanismo che spieghi come la forza agisca. Si potrebbe addirittura pensare che tra i corpi agisca un’azione a distanza istantanea, idea che già lo stesso Newton ripugnava. Certamente la scienza progredisce nel tempo e sappiamo oggi, col senno di poi, che abbiamo una spiegazione decisamente migliore di quella newtoniana sul perché, che comunque resta valida come caso particolare della Relatività Generale di Einstein. Ma, ai fini dell’argomento che stiamo trattando, approfondire oltre non ci interessa.

Fermandoci alla spiegazione newtoniana il primo luogo comune potrebbe essere descritto in questo modo: la scienza al massimo descrive, ma certamente non spiega. A tale proposito lo stesso Newton offre una mano ai sostenitori di questa tesi, visto che egli stesso si rifiutava di congetturare ipotesi per spiegare la gravità con meccanismi sconosciuti (hypotheses non fingo): non faccio ipotesi o, più onestamente un chiaro «non so» è sempre preferibile a facili spiegazioni prive di evidenze sperimentali. Già Galilei segnalava che ammettere di non sapere era piuttosto difficile per molti filosofi. Ricordo che prima che John Whewell coniasse la parola scienziato coloro che si occupavano di ricerca scientifica erano chiamati filosofi naturali e filosofia naturale il loro campo di ricerca.

Cause

clip_image005Anticipando qualcosa di quanto vedremo nei post successivi a questo, per fornire spiegazioni ai fenomeni occorrono almeno tre livelli di ragionamento innescati da altrettante domande. La prima domanda dovrebbe essere: Che cos’è? Le risposte arrivano individuando strutture e funzioni che definiscono il fenomeno. Poi viene la domanda: Come è fatto? Ovvero che cosa ne determina l’esistenza, quali sono stati gli eventi responsabili delle condizioni della sua origine? Infine, il terzo e ultimo livello è: Perché? Perché, tanto per cominciare il fenomeno e le sue precondizioni esistono? E perché non immaginare una modalità diversa di evoluzione del fenomeno, perché non formulare ipotesi, al contrario di Newton?

Prendendo a prestito un esempio dalla biologia, scienza che già di suo dev’essere trattata con modalità spesso diversissime dalla fisica, i biologi sentono la necessità di cercare relazioni di causa ed effetto a tutti e tre i livelli. Le cause responsabili di un fenomeno vivente, come il volo di un uccello o la nostra percezione dei colori di un fiore, sono chiamate cause prossime. Gli eventi che governano l’evoluzione del fenomeno fino al suo stato attuale sono indicati come cause ultime.

Le cause prossime sono il cosa e il come di una spiegazione completa. Le cause ultime corrispondono al perché. Riassumendo il primo luogo comune, non si è spiegato il fenomeno se non ne è stato spiegato anche il perché e tutt’al più, in un impeto di riduzionismo estremo, si cerca di risalire all’indietro nella sequenza degli eventi, in una sorta di gioco del perché così caro ai bambini, fino a fermarsi al punto in cui appare necessario appellarsi ad una causa…divina! Perché è così e basta!

Il secondo luogo comune. La scienza non spiega tutto.

clip_image006Anticipando quanto vedremo nei post successivi di questa serie introduciamo gli altri due luoghi comuni.

Il secondo, che in apparenza sembra concedere qualcosa al potere esplicativo delle teorie scientifiche, insiste sul ritornello noioso e abusato che la scienza non può spiegare tutto. Ovviamente, tale affermazione non implica negare che essa possa spiegare qualcosa, ma allora questo luogo comune entra in contraddizione col primo!

Per gli amanti delle tautologie e soprattutto per i negazionisti del di tutto un po’, a volte è proprio l’assai plausibile tesi che la scienza non possa spiegare tutto (il secondo luogo comune) che viene presa come evidenza a favore della tesi espressa dal primo, nonostante l’evidenza contraria.

Prima del 1915-16, periodo in cui Einstein formulò la teoria della Relatività Generale, la teoria della gravità di Newton spiegava la caduta della famosa aneddotica mela sulla testa del grande inglese. Ma non diceva nulla sul perché la mela cadesse, e allora, la caduta della mela è stata davvero spiegata?

Ma se applichiamo questo tipo di ragionamento a qualunque apparente spiegazione fisica dei fenomeni in soli termini di leggi avremmo una supercazzola! Se un fenomeno fisico f può essere spiegato in termini di una legge L, e se non riesco a spiegare L, posso concludere che non ho spiegato nemmeno f. Ergo, se la scienza non spiega tutto (secondo luogo comune), allora non spiega nulla (primo luogo comune).

La scienza e la sua ricerca, parafrasando Popper (che spesso abbiamo citato su queste pagine), sono antidogmatiche e aperte, non esistono né ammettono spiegazioni ultime e definitive di fenomeni, ovvero spiegazioni che a loro volta non possano essere spiegate. Ne consegue che è talmente evidente che la scienza non spieghi tutto che l’affermarlo non può che avere un intento polemico espresso in malafede: si vorrebbe far passare la tesi che esistono fenomeni che sfuggono alla limitata razionalità umana espressa dai due ingredienti del metodo galileiano: sensate esperienze e certe dimostrazioni. Fenomeni che invece sono analizzabili come qualsiasi altro di cui si occupi la scienza.

clip_image008Fenomeni come quelli miracolosi, da guarigioni inspiegabili a statuette votive che lacrimano sangue, influssi astrologici, percezioni extrasensoriali, fenomeni di telecinesi, fantasmi, contatti con il mondo dell’aldilà e panacee ottenute da tecniche di guarigione alternative farebbero tutti parte di una specie di «terza dimensione» della realtà, quella detta «paranormale», che si aggiungerebbe alle due del senso comune e dell’immaginazione scientifica del mondo.

Ed è proprio per far posto a questa «terza dimensione» della realtà che si insiste sull’ovvia tesi che «la scienza non spiega tutto».

Anche chi è meno incline al paranormale, filosofi compresi, ricorre spesso a questo luogo comune; in questo caso lo fanno per sostenere che la scienza non potrà mai spiegare fenomeni ai quali abbiamo accesso solo in prima persona e tra questi spicca quello delle spiegazioni relative al rapporto tra mente e cervello, dei nessi causali tra materiale e immateriale, la coscienza e l’autocoscienza. C’è chi sostiene che gli esseri umani non capiranno mai davvero il loro cervello perché per studiarlo hanno disposizione soltanto il loro oggetto di studi!

Personalmente sono convinto che si tratti solo di attendere. La scienza moderna è relativamente giovane, ha appena quattro secoli, e pur frammentata oggi in centinaia di ambiti diversi ma, spesso inconsapevolmente connessi, col tempo condurrà ad un numero crescente di spiegazioni o al miglioramento delle esistenti, in una sorta di cammino aperto costellato di nuove domande per ognuna delle risposte fornite.

 




Il terzo luogo comune. La scienza non spiega tutto, figuriamoci l’essenziale!

clip_image010Altre volte, con maggiore sobrietà, il secondo luogo comune viene difeso e chiamato a supporto del terzo che, in un certo modo, giustifica il secondo: la scienza non spiega tutto perché non è in grado di spiegare ciò che per noi è più importante. Perché esistiamo? Perché moriamo (a proposito, ne ho scritto da poco qui)? Perché le costanti universali, come la G vista in precedenza, hanno proprio il valore che hanno? E infine, la domanda delle domande: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla (molti anni fa ne scrivevo qui)?

Per non parlare dei due famosi magisteri non sovrapponibili, religione e scienza. Perché, come giustamente ha scritto il famoso biologo inglese Richard Dawkins, e ribadito dal nostro Piergiorgio Odifreddi, non dovrebbe essere possibile trattare la religione col metodo scientifico come qualsiasi altro fenomeno della citata «terza dimensione»?

Queste domande esulano e rimarranno sempre estranee alla ricerca scientifica?

Ancora una volta, anche in questo luogo comune, troviamo un collegamento col primo: può essere utilizzato per affermare che la scienza non spiega nulla che sia davvero significativo, dato che se pure essa «spiega» qualcosa, riesce solo a darci le «cause meccaniche» dei fenomeni, mentre le spiegazioni di ciò che più ci sta a cuore, quelle con la S maiuscola, sfuggiranno per sempre al suo dominio, e a nulla vale ricordare che le spiegazioni metafisiche, come i diversi miti sulla creazione delle diverse religioni, sono assunti dogmatici ognuno dei quali identifica un diverso credo, influenzando negativamente la capacità di comprendere la condizione umana.

 

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L’ossessione per il controllo

clip_image014I tre luoghi comuni si alimentano alla stessa fonte che dà origine al sapere scientifico: il nostro più o meno consapevole bisogno di controllare il mondo che ci circonda, soprattutto nei suoi aspetti più ostili. Persino ipotizzando, ammettendo, o persino sapendo, che questo controllo è demandato all’esito di azioni altrui, che siano i dei di Omero o altri esseri umani. Ovviamente l’esistenza di quest’unica radice non implica affatto che gli argomenti a favore dell’uno o dell’altro luogo comune siano tutti ugualmente forti.

La ricerca scientifica, soprattutto in campo biologico, ha ormai ampiamente fornito le prove che non c’è nulla di già scritto e di predeterminato; parafrasando il poeta spagnolo Antonio Machado, l'evoluzione ci insegna che il «non esiste il sentiero, il sentiero si fa camminando», il percorso lo si definisce nell’andare. E questo dà profondamente fastidio alla nostra mente tendenzialmente teleologica, a cui piacciono le spiegazioni che abbiano uno scopo, istintivamente rifiutando l’idea stessa che questo possa mancare e soprattutto, come i racconti che amava lo stesso Darwin, ci piacciono le storie a lieto fine.

Il più delle volte però, alla base di tutti e tre questi luoghi comuni c’è l’intento, più o meno esplicito, di attaccare il sapere scientifico: in tal caso l’idea che li ispira tutti è che solo la metafisica o la religione spieghino i fenomeni, mentre la scienza può al massimo predirne il corso. In altri casi, la difesa più o meno convinta del primo e del terzo luogo comune non intende affatto esaltare forme non scientifiche di comprensione, ma si pone solo in posizione scettica, tentando di limitare le pretese del sapere scientifico e ricondurlo negli ambiti che gli sono più propri.

All'alba dell'era nucleare, negli anni '50, Hannah Arendt ad esempio osservò che un mondo che relega questioni esistenziali al solo linguaggio tecnico e scientifico - definendolo dominio esclusivo di donne e uomini in camice bianco che dicono «fidatevi di noi» - rischia di essere un mondo in cui le persone hanno perso la capacità di essere artefici della propria vita. Una preoccupazione per lo stato tecnocratico estrema, questa della Arendt, dettata dalla sua esperienza di vita e frutto dei tempi in cui viveva, giustificabile in parte allora ma del tutto anacronistica oggi.

La colpa e la causa

clip_image016Per quanto le motivazioni delle varie tesi debbano sempre e comunque essere distinte dalle argomentazioni a loro supporto (fini nobili ma argomentati con fragilità o argomentazioni forti a sostegno di motivazioni poco apprezzabili) la radice comune resta quella suddetta: il controllo del mondo.

E ancora una volta sono le religioni e i miti che traggono da qui la loro motivazione più forte, la nostra «naturale» tendenza a credere a spiegazioni – nonostante la scoperta di modi spesso illusori - che ci facciano sentire più in grado di dominare il mondo che ci circonda, e quindi di giustificare o provare a controllare l’esistenza del male e della sofferenza.

 

 

clip_image017Prendiamo ad esempio i fenomeni naturali catastrofici, le epidemie, le disastrose alluvioni, tsunami o terremoti devastanti. Spiegare i fenomeni naturali come questi partendo dalla nozione di colpa, propria o altrui, implica il vantaggio di poter imputare a sé o agli altri le cause del dolore, donandoci l’illusione di poter soggiogare o almeno placare le soverchianti forze naturali che ci sono ostili. Non a caso il termine «causa», inteso come ciò che anticipa l’«effetto», nel mondo ellenistico era in origine legato alla «colpa» che provoca la pena come suo «effetto».

Le plebi medievali, infervorate da predicatori o politici spesso in malafede, addossavano la causa della peste alla loro stessa cattiveria, alla loro indegna espressione di fede o, spesso in contemporanea, agli ebrei che avvelenavano i pozzi. In tal modo generavano l’illusione di poter controllare morte e sofferenza improvvise e insensate, soprattutto se colpiscono chi è evidentemente innocente, come un bambino. Questo dipende da noi, in modo che piaccia a dio, non appartiene soltanto al passato, chi non ricorda che l’AIDS viene tutt’ora «spiegato» come una punizione divina per comportamenti sessuali ritenuti devianti?

Ancora oggi ho spesso sentito persone molto religiose anche se non necessariamente bigotte addossare al comportamento cattivo dell’umanità le cause di catastrofi naturali come effetto della volontà di un dio punitivo o del suo dolore. E a nulla valgono indicazioni provocatorie a ricordare la morte di innocenti in tutto ciò.

Nell’essere umano esiste dunque una tendenza, prescientifica e naturale, tendenza a confondere colpa morale e causa fisica, parte di quella profonda evoluzione culturale e dalle radici ultramillenarie, intrecciata con quella biologica, di cui abbiamo parlato qui e qui.

clip_image019Va ribadito che tutto ciò non è soltanto tipico delle fasi iniziali o primitive dello sviluppo culturale dell’umanità: le spiegazioni di fenomeni naturali che fanno uso della nozione di colpa prevalgono anche, e ancora, nel mondo contemporaneo, soprattutto laddove il sapere scientifico non è abbastanza diffuso, ma non solo: nelle moderne società, amplificate dalla cassa di risonanza dei social media, i complottismi di varia natura - terrapiattisti, negazionisti climatici, novax, fino a coloro i quali credono che siano in atto esperimenti di controllo del clima, dalle cosiddette scie chimiche alla provocazione di nubifragi, inondazioni e terremoti - sono all’ordine del giorno, posizioni antiscientifiche che danno colpa ad altri di quanto invece è spiegabile scientificamente, sia per confutarlo che per dimostrarlo.

Le spiegazioni scientifiche sono una conquista relativamente recente del nostro sviluppo culturale, una conquista che può essere perduta in ogni momento se dovessimo regredire a forme di pensiero tribali e superstiziose. Spesso anche con meno: si pensi alla regressione scientifica e tecnologica che numerosi paesi nel mondo hanno e stanno sperimentando se sottoposti a regimi totalitari di varia natura, sia in presenza che in assenza di dogmatismi religiosi al potere.

Le spiegazioni scientifiche contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo.

Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».

Come ebbe a dire il filosofo stoico Epitteto (50-125 ev circa), nella traduzione di Giacomo Leopardi: «È proprio di chi non ha educazione filosofica, ritenere gli altri causa delle proprie sventure; di chi ha cominciato ad educarsi, accusare se stesso; di chi è educato nella filosofia, non accusare né gli altri né se stesso».

A seguire la seconda e la terza ed ultima parte di questa serie di post.

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Riferimenti bibliografici

Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007

La fabbrica dei dubbi

Karl Popper

Spiccioli di filosofia...della scienza!

Più volte sulle pagine di questo blog il famoso filosofo della scienza Karl Popper è stato citato e si è raccontato qualcosa delle sue idee.

Uno dei contributi più importanti e conosciuti è la sua visione della scienza, incentrata su una coppia di idee semplici, chiare e straordinarie.

Innanzi tutto distinguere la Scienza, con la S, dalla pseudoscienza, qualcosa che si spaccia per scienza ma non lo è. Diciamo subito che per Popper la pseudoscienza non era necessariamente priva di significato ma comunque non considerabile come scienza: due esempi di pseudoscienza a lui cari erano la psicologia di Freud e la visione marxista della società e della storia. Sulla prima va detto che le critiche del filosofo nascevano dalla metodologia allora in uso nella psicanalisi, troppo legata al solo comportamento umano in risposta ad uno stimolo e priva di prove empiriche. Scienza purissima per Popper era d’altro canto il lavoro di Einstein.
Per mezzo del falsificazionismo, il nome che il filosofo diede alla propria soluzione, venne definita dunque la Scienza: un’ipotesi è scientifica se e solo se ha il potenziale di essere confutata da qualche possibile osservazione. Per essere scientifica, un'ipotesi deve correre un rischio, deve mettersi in gioco. Se una teoria non si assume alcun rischio perché è compatibile con ogni possibile osservazione, allora non è scientifica. E fin qui tutto bene. E questo concetto di rischio, legato ad aspetti probabilistici, lo troviamo anche in quel che comunemente è definito come consenso scientifico, di cui s’è scritto tempo fa.

Ma Popper usava l'idea della falsificazione anche in modo più ambizioso. Sosteneva che tutte le verifiche nella scienza hanno la forma di tentativi di confutare delle teorie mediante l'osservazione. L’aspetto cruciale è che non è mai possibile confermare o dimostrare una teoria mostrando che si accorda con le osservazioni. La conferma è un mito. L'unica cosa che un test osservazionale può fare è mostrare che una teoria è falsa. Alcuni degli scienziati che considerano Popper un eroe non realizzano che egli credeva che non è mai possibile confermare una teoria nemmeno in parte, indipendentemente da quante osservazioni la teoria ci aiuta a prevedere con successo. Prendiamo la teoria proposta da qualcuno e deduciamo da essa una previsione osservabile. Se le cose avvengono come da previsione, allora dobbiamo dire di non aver ancora falsificato la teoria. Ma, per Popper, non possiamo concludere che la teoria è vera, né che è probabilmente vera e neppure che è più probabile che sia vera di quanto fosse prima del test. La teoria potrebbe essere vera, ma non possiamo dire più di questo: potrebbero passare anni senza riuscire a falsificare una teoria ma per Popper ciò significherebbe che è semplicemente sopravvissuta ai tentativi di falsificazione.

Ciò non significa ovviamente che gli scienziati debbano trascorrere quasi tutto il loro tempo a tentare di falsificare una teoria, ma solo che dovremmo sempre mantenere un atteggiamento di cautela. Devono continuamente, in un certo qual modo, generare dubbi, persino sul loro stesso operato, evitando di cadere nella trappola, cosa che accade più frequentemente di quel che si pensi, di vedere evidenze che confermano le loro ipotesi anche quando non ce ne sono: e, che lo si creda o meno, molti scienziati riescono ad essere particolarmente vanitosi nei confronti delle loro idee.

La cattiva interpretazione, strumentale, del pensiero di Popper, apre le porte ai negazionisti di ogni epoca. Infine Popper pensava che le teorie semplici, (trattammo l’argomento qui) in molti casi, potessero essere falsificate facilmente ed è bene lavorarci perché si assumono dei rischi, cosa ad egli gradita. Non c'è motivo di pensare che una teoria semplice sia vera, ma è più semplice dimostrare che è falsa, e se lo è, e questa è una virtù. Un vero e proprio estremista quindi.

E sono queste, tra le altre, le idee che agiscono come motore della scienza e del suo progresso.

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Un altro grande filosofo della scienza che ha fornito strumenti interessanti è stato Thomas Kuhn, soprattutto con il suo concetto di cambiamento di paradigma (qui). Personalmente, come molti, non ritengo che la scienza subisca delle rivoluzioni con dei passaggi epocali, anche se il termine è stato spesso utilizzato a cominciare dalla cosiddetta rivoluzione galileiana; ma, soprattutto in epoca moderna ed ancor di più da quando l’interconnessione e la comunicazione tra scienziati è globalizzata, che la scienza possa presentare nel tempo teorie completamente dirompenti col passato è un evento assai improbabile. Kuhn sosteneva che siamo in presenza di una rivoluzione scientifica quando gli scienziati incontrano anomalie che non possono essere spiegate alla luce dei modelli, delle ipotesi, dei paradigmi insomma, vigenti.

imageIndipendentemente dal necessario cambiamento, ritengo che la scienza proceda con continuità e ciò che appare rivoluzionario dipende esclusivamente dal tipo di visione e dalla scala temporale utilizzata. Anche se, usando il termine in modo tradizionale, tra il 1550 e il 1700 circa, abbiamo avuto un “rivoluzione” scientifica questo non deve far pensare che esistano dei confini netti tra un periodo assolutamente straordinario e il resto della storia.

In breve: ai dubbi seguono nuove ipotesi, nuovi modelli, nuove verifiche e, laddove necessario, un cambio di paradigma.

Errare...scientificum est!

Quindi la scienza e/o gli scienziati sbagliano? Certo che sì, e per fortuna, anche se non si tratta di errori propriamente detti quale potrebbe essere un errore di calcolo…e non che anche i migliori non ne commettano!

Purtroppo, così come Popper viene citato a vanvera da complottisti e negazionisti per inculcare l’idea che quelle scientifiche sono chiacchiere che prima o poi verranno smentite, ecco che la quantificazione dei possibili errori nelle affermazioni scientifiche, il cambiamento di posizione (o paradigma che sia) da parte del mondo scientifico di fronte a fatti nuovi che falsificano le teorie precedenti, ecco che tutto questo viene strumentalmente preso come segno di debolezza della scienza e del suo metodo.

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Si potrebbero fare dozzine di esempi di casi in cui parte della comunità scientifica si oppone al gruppone maggioritario del consenso che, non certamente per alzata di mano, ritiene una determinata ipotesi, una teoria, un modello, validi ed in grado di soddisfare tutti i requisiti del metodo.

Lo spinoso tema del cambiamento climatico che, come evidente dai miei post, mi sta molto a cuore, è uno dei più ricchi di questo tipo di casi, ed è tra l’altro paradossale osservare, quasi esclusivamente sui social, potenti amplificatori della grancassa della falsa informazione, come nessuno si azzardi a smentire sofisticatissime teorie scientifiche, quali quelle cosmologiche, o di fisica quantistica, mentre ogni qual volta c’è un post in tema di cambiamento climatico a centinaia si buttano ad irriderlo (nella figura seguente osservate il diverso numero di commenti tra un post in tema di global warming ed uno che parla di vita marziana).

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Ricorderete certamente la famosa lettera dei 500, o le posizioni del Nobel John Clauser che definì quella sul clima “pseudoscienza giornalistica”. Pseudoscienza?

Ecco, in questo caso trovai molto curiosa l’attenzione che si rivolse a un Nobel per la fisica premiato per i suoi lavori sulla Meccanica Quantistica nel 2022, ma che non ha mai lavorato su nulla relativo al clima o alla fisica dell’atmosfera, mentre si è talvolta preferito ignorare i Nobel del 2021, sempre in fisica, conferiti a tre climatologi proprio per aver correttamente previsto e modellizzato il riscaldamento globale antropogenico.

Tutti scienziati...
L’opinione non suffragata di un singolo, per quanto illustre, non conta nulla a fronte dei tre pilastri principali del consenso scientifico: i dati, le equazioni e i modelli
. La stragrande maggioranza di coloro che si occupano di climatologia è soddisfatta dalla spiegazione antropogenica del riscaldamento globale, a fronte dei dati, delle equazioni e dei modelli a nostra disposizione, e nessuna delle ipotesi alternative, e men che meno le ‘opinioni alternative’, soddisfa questi criteri. E, accontentando Popper, aggiungo: al momento attuale.
Dopo tutto anche Lawrence Krauss (l’assonanza dei cognomi spesso li confonde!) è un fisico teorico, eppure le sue posizioni sono diametralmente opposte, per fortuna!

Tutto questo viene, ripeto, strumentalmente utilizzato per denigrare il più delle volte pur contemplando anche casi in cui, in buona fede, il dubbio della scienza genera incertezza e sfiducia: durante la pandemia ne abbiamo viste delle belle in proposito, causate soprattutto da una pessima attitudine alla comunicazione ed alla divulgazione da parte di molti addetti ai lavori.

I cambiamenti di posizione quindi, a volte considerati “frequenti” sulla base di una non chiara metrica temporale, trasformano la conoscenza scientifica in qualcosa di astratto, e fallace: questa idea di scienza in continua evoluzione e perennemente incompleta, caratteristiche virtuose, portano a pensare che la scienza sia soltanto un edificio intellettuale, una “spiegazione del mondo” come un’altra, come quelle di millenni di filosofia priva di prove, di empirismo, di conferme sperimentali.

Come spesso si sente dire, è solo una teoria, vera oggi e falsa domani. Perbacco! Lo dice anche Popper!...

Ci sono altresì esempi che espongono il lato debole in modo tale da giustificare, in un certo qual modo, le posizioni scettiche? Sì, e moltissimi vengono dal campo della medicina, della farmacologia. Quanti farmaci, prodotti certamente con metodo (scientifico) e frutto di ricerca, si è in seguito scoperto essere dannosi se non letali? Quante terapie hanno subito confutazioni pesanti? Ma è questa scienza o pseudoscienza? Qual è infine la differenza?

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Solo i cretini non cambiano mai idea...
Generare nuove domande da ogni risposta ricevuta
. Così procede il metodo scientifico. Quel che sembra un difetto agli occhi di chi, spesso in malafede, fonda la sfiducia nella scienza su presupposti errati, è invece il pregio che rende il metodo scientifico, e la tecnologia che ne deriva, migliore di qualsiasi altro metodo si usi per osservare e descrivere il mondo, ben oltre il limite fisiologico dei nostri sensi: il principale vantaggio del metodo scientifico e della conoscenza che scaturisce dalla sua applicazione è proprio precisamente quello che ingenuamente si indica come il suo difetto: la capacità di saper tornare sui propri passi per progredire.

Gli scienziati, in presenza di nuovi dati o di una spiegazione più efficace, cambiano idea: e la conoscenza si perfeziona nel tempo rendendo l’interpretazione, la spiegazione, la previsione che dato x allora y, migliori di qualsiasi altra cosa si adotti. L’edificio della conoscenza viene riadattato, se necessario fin dalle fondamenta, o come più spesso accade, quanto si pensava prima diventa un caso particolare di quanto oggi è dato sapere.

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La fede, di qualsiasi tipo, con i suoi dogmi, e la pseudoscienza, restano invece inamovibili nel tempo, prive di qualsiasi confronto con la realtà, statiche e incapaci di evolvere nel tempo.

Tautologie...omeopatiche
Un esempio eclatante di pseudoscienza è dato dall’omeopatia.

L’omeopatia ha avuto fortune incostanti nei suoi due secoli di storia: nasce infatti ai primi dell’Ottocento ad opera di Samuel Hahnemann, un medico tedesco disilluso dall’impotenza della medicina del tempo, che si affidava principalmente a salassi, clisteri, purghe e sanguisughe. Come dargli torto, considerando l’epoca e gli usi?

Da allora alti e bassi si sono alternati in contrapposizione alla minore o maggiore fiducia dell’opinione pubblica nella medicina tradizionale. L’omeopatia si è quindi adattata, cambiando il modo di proporsi secondo le obiezioni ricevute e le convenienze del momento.

  • Le alte dosi originariamente usate nei preparati omeopatici procuravano più fastidi che guarigioni? Ecco le diluizioni estreme.
  • Le diluizioni lasciavano nient’altro che acqua? Ecco l’idea surreale della memoria dell’acqua.
  • Questa ipotesi stravagante e un’esperienza clinica coronata di successi non reggevano alle prove scientifiche? Ecco l’ipotesi di un effetto placebo.
  • L’omeopatia come “medicina alternativa” a quella tradizionale era messa al bando come un rischio per la salute pubblica? Ecco l’idea di una “medicina complementare” che accompagna quella tradizionale, senza sostituirla.

Insomma, come direbbe qualcuno, se la suonavano e se la cantavano, spinti soprattutto dagli enormi interessi delle case farmaceutiche che vendevano, e vendono, letteralmente acqua e zucchero, a peso d’oro.

Ma a parte queste scuse pronte all’occorrenza per autogiustificarsi, per secoli, la visione degli omeopati poneva alla base della loro teoria del funzionamento dei farmaci omeopatici, alcuni principi che sono rimasti gli stessi, inalterati: mai un dubbio, impossibilitati a migliorare né a fornire giustificazioni, che non fossero delle inutili e banali tautologie: il principio del similia similibus curantur, dovuta ad Hahnemann, e che, tradotta letteralmente, significa «i simili si curino coi simili», il principio dell’estrema diluizione o dei necessaria scuotimento, agitazione, mescolamento…la succussione (!) nella preparazione dei composti.

Ippocrate, padre fondatore della medicina, invece diceva contraria contrariis curentur, i contrari sono curati dai contrari. Ma tu guarda un po'!

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Confrontiamo i progressi della medicina nello stesso periodo, soprattutto da quando il metodo scientifico è entrato in campo. Si pensi a come, dalle sanguisughe e dai salassi, o dalle teorie che fossero i miasmi ad uccidere la gente negli ospedali, o di colera per la strada, si sia passati ai vaccini, interrompendo le vere e proprie stragi di popolazioni fino a tempi recentissimi, all’insulina per il diabete, o alla chemio e radioterapia in campo oncologico. Se progresso c’è stato, ed è fuor di dubbio e provato dall’aumento dell’aspettativa di vita, è perché, di fronte a fatti nuovi e sempre più dettagliati, gli scienziati hanno abbandonato teorie più grossolane, imprecise o banalmente false, in favore di qualcosa di meglio, hanno cioè cambiato idea. Ecco ciò che rende la medicina moderna scienza e l’omeopatica pseudoscienza. Gli scienziati, nel loro insieme, cambiano anche radicalmente la propria teoria sul funzionamento del mondo, gli pseudoscienziati sono invece ancorati ad una fede che, non essendo supportata da fatti, è difesa per principio e dogmaticamente, invariabile nei secoli.

Zitto e calcola!
Ma allora, ci si chiederà, se le teorie sono suscettibili di mutamenti anche radicali nel corso della loro storia, come pensare che possano essere definitivamente vere? E se sono solo approssimativamente vere, come giustificare l'idea che progrediscano verso la verità? E ancora, se anche le entità non osservabili postulate dalle teorie passate sono state a volte abbandonate nel corso dello sviluppo storico delle teorie, come possiamo essere sicuri che le entità postulate dalla scienza di oggi non verranno abbandonate domani?

Domande lecite. Ma è così che funziona.

Imparando dai fatti, sempre ed in ogni campo, gli scienziati modificano le proprie idee e con esse la scienza; ciarlatani, pseudoscienziati e i fedeli di ogni credo nelle medicine alternative o in teorie pseudoscientifiche similari si aggrappano invece alle idee di secoli fa. Ma in questo caso antico equivale a vecchio, da buttare.

E non è infine nemmeno vero, né ha senso, affermare che, a causa dell’evoluzione del pensiero scientifico, ciò che oggi è dichiarato vero, domani risulterà falso, e che ciò che oggi appare inspiegabile e incompatibile con la conoscenza scientifica, domani lo sarà, dando un velo mistico ed esoterico alle affermazioni pseudoscientifiche e cialtrone.

È falso, perché spesso la conoscenza scientifica acquisita in passato non è stata cancellata come falsa, ma invece inglobata in quella moderna come caso meno esteso e come approssimazione particolare. Pur essendoci state teorie, nelle quali persino scienziati illustri credevano (le Teorie sull’Etere ad esempio) che sono state smentite dai fatti, e per cui quegli stessi scienziati hanno cambiato posizione, ce ne sono altre, come la meccanica newtoniana o, andando ancora più indietro nel tempo, la teoria idrostatica di Archimede, o ancora la descrizione della Terra come di un corpo approssimativamente sferico, che hanno resistito nei secoli, valide ancora oggi pur se rifinite o diventate casi particolari, approssimazioni di teorie più dettagliate e complete.

E l’affermazione è persino illogica, priva di senso, proprio perché la scienza moderna non fa affermazioni di verità assolute, ma approssima nel modo migliore quello che riscontriamo dall’esperienza diretta o attraverso i nostri strumenti; questa approssimazione può migliorare nel tempo, ma, e torniamo a Popper con cui abbiamo iniziato, non vi può essere garanzia né di un grado infinito di precisione né di una infinita completezza né infine di un’assoluta accuratezza in nessuna affermazione che uno scienziato fa.

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Affermazioni di questo tipo, per definizione, non possono trovare riscontro nei fatti, non fosse altro perché non abbiamo strumenti di misura o percezione della realtà a precisione infinita. D’altra parte, è proprio nella pseudoscienza che troviamo affermazioni che si dichiarano di grado di verità assoluto, ingannando e creando le trappole che servono per la sua diffusione: così come spesso, in assenza di prove, si sbatte il mostro in prima pagina sull’onda emozionale e irrazionale, la certezza attira, e si preferisce affidarsi a sistemi di pensiero assoluti, a bassa complessità e che non richiedono lo sforzo di accettare margini di errore intrinseci ad ogni singola parola pronunciata, come è tipico del discorso scientifico.

La grandezza del metodo scientifico sta invece proprio nel seguire le migliori misure effettuate e nel quantificare il grado d’errore, creando incertezza e spingendo a cambiare idea ogni qual volta sia evidente e necessario. Selezionando ogni volta le idee migliori nel progresso da plausibile a possibile, fino a probabile e molto probabile.

Ed è qui che va riposta la nostra fiducia, non nelle parole di chi secoli o millenni fa fece una scelta assoluta.

Archimede avrà pure gridato “Eureka!” qualche volta, ma non è così che procede la scienza.

Per sopravvivere all’ignoranza ci vuole metodo. Scientifico.

Introduzione

Non ci chiediamo per quale utile scopo gli uccelli cantino: lo trovano piacevole, perché sono stati creati per cantare. Similmente, non dovremmo chiederci perché la mente umana si preoccupi di comprendere i segreti dell'universo; la diversità dei fenomeni naturali è così grande, e i tesori nascosti nel cielo così ricchi, proprio perché non venga mai a mancarle fresco nutrimento. (Keplero, Mysterium Cosmographicum, 1596)

Sorvolando sulla vena creazionista, erano altri tempi, Keplero per spiegare quanto la scienza sia parte della natura umana, la paragona ad un’attività artistica quale il canto, forse inutile in senso pratico ma innata. Ci facciamo domande sul mondo perché è parte della nostra natura, non possiamo farne a meno. Ed è la curiosità che muove ogni scienziato, di insaziabile appetito e che ad ogni risposta ottenuta vede aprirsi altre domande.

Non so come potrò apparire al mondo, ma a me sembra di essere stato soltanto un bambino che, giocando sulla riva, si sia divertito a trovare ogni tanto una pietra più liscia o una conchiglia più bella del solito, intanto, il grande oceano della verità si spalanca ancora completamente inesplorato di fronte a me. (Isaac Newton)

Nonostante i successi raggiunti, le straordinarie scoperte, Newton, da vecchio, si descrisse con quella frase vedendosi ancora come uno che guardava il mondo con curiosità, interrogava la natura, trovava cose meravigliose e le ordinava, le interpretava, cercava di capirle e di spiegarle, ben sapendo che non sarebbe mai riuscito a rispondere a tutte le domande. Nessuno può riuscirci.

E allora perché in molti, troppi, esseri potenzialmente dotati di poteri razionali, si scatena il processo contrario, quello del dubbio, della negazione?

Uno degli aspetti paradossali sono i campi di azione in cui questi si cimentano in grottesche imitazioni di dibattito, laddove dibattito non c’è, se non in affermazioni talmente ridicole da scatenare l’ilarità generale della peggior specie. Per esempio, nonostante una buona parte dell’umanità abbia accettato senza battere ciglio teorie scientifiche molto più complesse e spesso controintuitive quali quelle della Relatività Generale e Speciale, o le conclusioni apparentemente assurde della Meccanica Quantistica, sono bersagli preferiti il campo biologico, soprattutto quello darwiniano, quello medico, climatologico e persino paleoantropologico e paleontologico.

Per motivi del tutto diversi da quel che ci si potrebbe attendere, sono persino disposto a prendere sul serio alcune voci di complottismo sul clima, che hanno ragioni sociologiche non trascurabili, ma tollero molto male tutto il resto. Le voci negazioniste hanno forme molteplici, le forme della bugia, dell’imbroglio, della malafede e del complottismo. Senza ardire a proclamarne la verità assoluta, di contro, la voce scientifica, è una, chiarissima. La voce dei fatti incontrovertibili, delle evidenze sperimentali, dei risultati matematici della modellizzazione, dei confronti tra posizioni, fino al consenso scientifico.

E, contrariamente a quanto ci si possa attendere, spalancate le porte a legioni di imbecilli, come ebbe a dire Umberto Eco, queste voci urlate dell’ignoranza, non diminuiscono e si amplificano grazie proprio alla cassa di risonanza dei social, arroccate sulle loro posizioni sbagliate.

Frequento sui social molte pagine dedicate alla divulgazione scientifica. E su certe tematiche, tra l’altro molto meno ostiche, come scrivevo poc’anzi, della meccanica quantistica o della matematica dei sistemi complessi, è un fiorire continuo e ripetuto di commenti che ripetono a pappagallo, negazioni e critiche sterili, che saltano di palo in frasca senza criterio e che, se messi all’angolo, cambiano sapientemente argomento dimostrandosi campioni di conoscenza delle leggi sulla stupidità. Persone prive di qualsiasi base cognitiva minima che tentano di aprire dibattiti auto-elevandosi al livello di chi ne sa molto di più, più di persone che ovviamente, prima di aprire un social qualsiasi hanno aperto libri, e parecchi. A volte mi chiedo per quale motivo queste persone frequentino pagine di divulgazione scientifica: masochismo forse? Non credo, la maggior parte sono animati solo da un idiota bastiancontrarismo incurabile.

Ma se masochismo c’è, è il mio, che mi ostino a tentare di spiegare, di commentare costruttivamente, di aggiungere elementi all’argomento, di fornire indicazioni a volte di approfondimento altre volte di semplificazione, di indicare libri o siti in appoggio. E finisco quasi sempre a scontrarmi con terrapiattisti de noantri, negazionisti, neoluddisti, complottisti e ancora altri -isti di ogni tipo e provenienza.


L’argomento più gettonato è la negazione stessa della scienza, quella con la S, e le sue teorie. Lasciamo stare il frequentissimo «è solo una teoria…» espresso da persone che si sentono filosofi della scienza autorizzati a dir la loro; persone che non immaginano nemmeno lontanamente -come potrebbero?- che quegli stessi filosofi (della scienza, gli altri non sono, nella pratica per lo meno, nemmeno presi in considerazione[1]) sono tuttora guardati con un certo sospetto dagli addetti ai lavori e qualche volta tacitati con qualcosa di simile allo «zitto e calcola!» o, peggio ancora, con battute del tipo «La filosofia della scienza è utile agli scienziati più o meno quanto l’ornitologia lo è agli uccelli».


Oppure, in risposta ad un breve excursus storico del progresso scientifico, di qualsiasi argomento, i novelli precursori criticano con affermazioni tipo questa: «La scienza dell’Ottocento si sbagliava su questo, a metà Novecento si scopre che si sbagliava su quello, prima o poi verrà fuori che anche quel che si afferma qui è sbagliato…».

Senza tirare in ballo, per ora, il solito Karl Popper, è ovvio che qualunque affermazione (e già sul termine affermazione potremmo fare nottata a discuterne) può essere errata ma non si tratta di questo. Non è così che vanno le cose nel mondo scientifico. Il punto fondamentale è: non ha affatto senso pensare che tutto ciò che sappiamo oggi è da buttare perché domani salterà fuori qualcosa di nuovo. Anche se plausibile che il progresso scientifico e tecnologico non si accompagnino automaticamente a un avanzamento sociale, il progresso scientifico esiste, e ne faccio un solo esempio tra i tantissimi che lo dimostra: l'allungamento della vita media dall'Ottocento ad oggi[2].

La scienza, ripeto un concetto fondamentale, non può dirci con certezza cosa è vero ma ha un metodo sicuro per dirci cosa è falso.

Questione di metodo

Il metodo scientifico, da Galileo in poi, è piuttosto semplice e lineare: si fanno ipotesi sui motivi che sono alla base di una certa osservazione; queste sono seguite da esperimenti per verificarle e, cosa importante, gli esperimenti sono ripetibili praticamente da chiunque; si accettano, momentaneamente, le ipotesi che sono coerenti con i risultati degli esperimenti, perché potrebbero essere vere, e si scartano quelle che non sono in accordo con i risultati sperimentali, perché sono sicuramente false. Procedendo in questo modo il margine di incertezza si assottiglia rendendo via via più valida la teoria scientifica alla base di tutto ciò.

Ovvio che qualsiasi teoria può essere col tempo abbandonata in favore di una teoria che spieghi meglio un maggior numero di fenomeni. Un paio di esempi: la teoria della gravitazione di Newton è risultato essere un caso particolare di quella della Relatività Generale di Einstein; la genetica ha una spiegazione migliore della trasmissione dei caratteri ereditari che non quella che fornì Lamarck. E così via.

Ed è questo il modo per correggere, un passo alla volta, errori e manchevolezze e si procede sempre verso una maggior comprensione del mondo e dei suoi fenomeni.

Ma nessuna nuova scoperta potrà rendere vera una teoria che si è dimostrata falsa.

Nessuna persona sana di mente tornerà a credere che sia il Sole a ruotare intorno alla Terra nonostante le ricerche in astronomia procedano sempre verso un maggior grado di conoscenza.

Ancora un esempio. Per quanto la ricerca in un determinato settore possa portare dati via via più recenti e diversi, è innegabile l’origine africana dell’umanità: lo provano i dati di cui disponiamo, e di diverso tipo: fossili, archeologici e genetici, e diversificare le fonti contribuisce a ridurre al minimo il rischio di sbagliarsi, tanto più grande quanto più ci si affida ad una sola fonte di informazioni.

 

E per tornare ai social, riporto le parole aneddotiche di un noto genetista italiano, Guido Barbujani, che in appendice ad un suo libro, scrive:

«Vorrei spiegare perché non partecipo alle discussioni sui social. Negli anni Ottanta, una catena americana di fast food, la A&W, decise di fare concorrenza all'hamburger più famoso della McDonald's: il quarter-pounder, ovvero quello con un quarto di libbra di carne (un po’ più di un etto; in Italia si chiama DeLuxe). Avrebbero offerto, per lo stesso prezzo, il third-pound, cioè un panino che conteneva 1/3 di libbra di carne. Fu un fiasco. Un'indagine di mercato scoprì che per la maggioranza degli intervistati siccome 3 è meno di 4, 1/3 è meno di 1/4. Ecco perché non partecipo alle discussioni sui social.»

Popper, ancora lui

A questo punto è doveroso richiamare il solito Popper, che abbiamo incontrato diverse volte e che ha contribuito alla filosofia della scienza in molti modi. Uno dei più importanti e conosciuti è la sua visione della scienza, incentrata su una coppia di idee semplici, chiare e straordinarie.

Innanzi tutto distinguere la Scienza, con la S, dalla pseudoscienza (non necessariamente priva di significato ma comunque non scienza[3]) per mezzo del falsificazionismo, il nome che il filosofo diede alla propria soluzione: un’ipotesi è scientifica se e solo se ha il potenziale di essere confutata da qualche possibile osservazione. Per essere scientifica, un'ipotesi deve correre un rischio, deve mettersi in gioco. Se una teoria non si assume alcun rischio perché è compatibile con ogni possibile osservazione, allora non è scientifica. E fin qui tutto bene. Ma Popper usava l'idea della falsificazione anche in modo più ambizioso. Sosteneva che tutte le verifiche nella scienza hanno la forma di tentativi di confutare delle teorie mediante l'osservazione. Cosa cruciale è che non è mai possibile confermare o dimostrare una teoria mostrando che si accorda con le osservazioni. La conferma è un mito per Popper. L'unica cosa che un test osservazionale può fare è mostrare che una teoria è falsa. Alcuni degli scienziati che considerano Popper un eroe non realizzano che egli credeva che non è mai possibile confermare una teoria nemmeno in parte, indipendentemente da quante osservazioni la teoria ci aiuta a prevedere con successo.

Se il risultato di un qualsiasi esperimento conferma la previsione, l’ipotesi fatta a proposito di una certa teoria, l’unica affermazione possibile è dire di non aver ancora falsificato la teoria. Per Popper, non possiamo concludere che la teoria è vera, né che è probabilmente vera e neppure che è più probabile che sia vera di quanto fosse prima del test. La teoria potrebbe essere vera, ma non possiamo dire più di questo: potrebbero passare anni senza riuscire a falsificare una teoria ma per Popper ciò significherebbe che è semplicemente sopravvissuta ai tentativi di falsificazione. Ciò non significa ovviamente che gli scienziati debbano trascorrere quasi tutto il loro tempo a tentare di falsificare una teoria, ma solo che dovremmo sempre mantenere un atteggiamento di cautela.

Un vero e proprio estremista quindi.

Purtroppo, la cattiva interpretazione, strumentale, del pensiero di Popper, apre le porte ai negazionisti di ogni epoca.

Popper distingueva inoltre le società essenzialmente in due categorie: «società aperta», ovvero una società nella quale è possibile l’esercizio della critica, e «società chiusa», dove questo non è possibile. Esercizio della critica che deve consentire alcune idee e ne soppiantino altre con queste ultime, che dovranno scomparire perché razionalmente si è dimostrato la loro inapplicabilità, la loro irrazionalità, la loro inutilità. Far scomparire le idee con l’esercizio della critica e non far scomparire gli uomini che le sostengono, sia chiaro, e sempre per dirla con Popper «Il metodo critico o razionale consiste nel far morire al nostro posto le nostre ipotesi»: una sorta di parafrasi di Winston Churchill che, quando il suo partito perse le elezioni per la prima volta, disse alla moglie che era contento perché si era battuto tutta la vita per consentire ad altri di imporre democraticamente altre idee alle sue.

L’atteggiamento riportato da Popper è la base stessa del metodo scientifico, della scienza moderna, che ancora una volta si dimostra non solo essere il più efficace metodo per accrescere la nostra conoscenza ma anche un contenitore di valori che personalmente vorrei continuamente vedere applicati anche in altre aree della vita civile. Se c’è un settore dove prevalgono sempre onestà e moralità è quello della ricerca scientifica proprio perché, è sempre Popper a dirlo, la scienza non è un insieme di predicati verificabili ma è al massimo un insieme di teorie complesse che possono essere, al più, falsificate globalmente. Ogni scienziato sa che ogni teoria ha come limite di validità il momento in cui il confronto con la realtà dovesse fornire elementi per ritenerla non più valida, ed è la teoria stessa che offre gli strumenti di verifica, di falsificabilità. Più onesto di chi, innocente, offre ai propri accusatori gli strumenti atti a cercare di dimostrarne la colpevolezza, chi altri? Ciò ricorda molto da vicino il grande Charles Darwin che dedicò un intero capitolo de “L’origine delle specie” a tentativi di confutazione e relative risposte, anticipando quanto avrebbero potuto fare i suoi critici ed oppositori.

Il fatto che le teorie scientifiche sono, anzi, devono essere criticabili, espresse con chiarezza ed indicanti in anticipo quali fatti potrebbero «falsificarle» è una lezione per la democrazia, per la politica, perché la politica democratica non è, contrariamente a quanto si pensi, il governo del popolo (alla faccia dell’etimologia), o della maggioranza, ma deve semplicemente essere la possibilità di eliminare idee sbagliate od un cattivo governo senza spargimenti di sangue, senza eliminare le persone che le sostengono.

Purtroppo la maggioranza irrazionale appare per ora troppa ed imbattibile, e come dice l’adagio, è inutile cercare di discutere con un idiota, per farlo dovresti abbassarti al suo livello e saresti battuto per inesperienza…

Conclusione

Esempio di metodo scientifico nella vita quotidiana: sorprendente! - Web  Leaders Srl

L'universo è un libro aperto, che racconta una storia che chiunque può leggere, con la preparazione adatta. Non ci sono insegnamenti segreti, non ci sono autorità intoccabili: tutti possiamo imparare la lingua della natura e decifrarne i messaggi. Ogni tanto può anche succedere di avere ragione per il motivo sbagliato ed è per questo che ci vuole un metodo affidabile, che funzioni indipendentemente dallo scienziato di turno.

La scienza, in definitiva, è questo: un metodo, un insieme di pratiche affidabili per costruire una mappa veritiera della realtà, una guida per selezionare tra tutte le storie possibili sul mondo, quelle che meglio si avvicinano a raccontare come stanno davvero le cose.

Senza nulla togliere al potere e all'importanza della riflessione, pensare non basta. Certo, col pensiero si possono fare cose meravigliose, inventare storie, mondi, cercare regolarità, ordinare i fatti, produrre astrazioni. Col solo pensiero sono state composte sinfonie, scritti racconti memorabili come l'Odissea, decidere tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, o meglio ancora tra ciò che è logico e ciò che non lo è. Col solo pensiero si dimostrano i teoremi. Ma se vogliamo capire come è fatto davvero il mondo, in base a quali meccanismi funziona, usando esclusivamente il pensiero non si arriva molto lontano. Occorre trovare un modo per decidere se quello che si è pensato ha a che fare con la realtà oppure no. Una delle cose più frustranti, ma al tempo stesso più eccitanti, per uno scienziato è rendersi conto che per ogni fenomeno naturale possono coesistere diverse interpretazioni alternative, anche perfettamente logiche e razionali, ma che sicuramente molte di esse, se non tutte, sono sbagliate.

Ed è per questo che a un certo, più o meno quattro secoli fa, la scienza si è separata dalla filosofia mantenendo un'origine comune: il tentativo di capire il mondo.

Questa è la potenza del metodo sperimentale, la sua novità assoluta. Quando esistano spiegazioni diverse è la Natura, che direttamente, attraverso l'esperienza empirica, l'esperimento, decide qual è quella giusta. Un antesignano della figura di scienziato, il filosofo Ruggero bacone, diceva, tre secoli prima di galileo: «Argomentando, possiamo giungere a una conclusione ed essere spinti ad ammetterla: ma questo non ci rende certi, né elimina il dubbio, così che la mente possa acquietarsi nell'intuizione della verità, a meno che essa non trovi tale certezza per mezzo dell'esperienza.»

È un po’ più complicato di quanto appare. Per chiedere alla natura di fare da arbitro, e soprattutto per sperare di avere una risposta sensata, occorrono esperienza e bravura. Va posta la domanda nel modo giusto. Vanno eliminate tutte le complicazioni non necessarie, va minimizzato il rischio che la domanda venga fraintesa. Il fenomeno va isolato da tutti gli altri che potrebbero interferire, ed occorre avere il controllo assoluto di tutti i suoi aspetti che si possano controllare, e contemporaneamente avere un'idea il più possibile accurata degli aspetti non controllabili. Va misurato con precisione quantitativamente tutto il misurabile. Occorre essere analitici e non analogici. Occorre rigore e ricontrollare il tutto milioni di volte. L'ipotesi preferita, la spiegazione logica e razionale che si è elaborata mentalmente e che si voglia mettere alla prova, deve essere formulata in maniera tale che qualsiasi esperimento possa dimostrar la falsa, nel caso essa lo sia. E dopo tutto ciò, ottenuta una risposta da un esperimento, quella risposta va interpretata nel modo corretto. È difficile, la scienza è difficile, ma è rigorosa. Rigore, precisione, metodo, controllo, senso critico, capacità di non ingannare se stessi e gli altri, ricerca spietata dell'errore. Sono solo alcuni dei requisiti richiesti per sperare di strappare qualche risposta alla natura.

È una strada senza scorciatoie ma una volta intrapresa, si arriva molto lontano.

E, per questo, fluctuat nec mergitur, non mollo, e continuerò incaponito, a cercare di contrastare le voci del dissenso ignorante, anche se il risultato fosse ricondurre sulla via della ragione, uno solo delle dozzine di inutili idioti che si incontrano quotidianamente.

Perché occorre fidarsi della scienza e del suo metodo, come già ebbi modo di scrivere.


[1] Lungi da me negare il ruolo fondamentale che la filosofia, nel corso della storia dell’umanità, ha avuto nel progresso culturale. Prima che un certo William Whewell inventasse il termine “scienziato”, nel 1834, persone come Galilei, Linneo, Lamarck, Curier, Newton, persino Darwin all’inizio, erano chiamati “filosofi”, naturali ma pur sempre filosofi.
[2] In entrambe le immagini proposte c’è un trucco, abilmente nascosto, ma c’è. Sono paradossi apparenti e possono essere prese ad esempio dell’ostinazione con cui si cerca di negare l’evidenza. Le spiegazioni dei triangoli qui, e qui quella del puzzle.
[3] Due esempi di pseudoscienza a lui cari: la psicologia di Freud e la visione marxista della società e della storia. Scienza purissima per Popper era d’altro canto il lavoro di Einstein.