Sul filo del rasoio

Abbiamo visto nel post precedente come nella modellizzazione un ruolo importante è svolto dalla semplicità. I modelli sono quasi sempre versioni semplificate di un sistema del mondo reale da cui possiamo togliere deliberatamente alcune parti non essenziali per capire. La semplificazione nei modelli è uno dei ruoli della semplicità nella scienza. Ma ce n’è un altro.

Ci sono numerosi esponenti di una scuola di pensiero che afferma che se dobbiamo scegliere tra teorie antagoniste, quelle semplici siano preferibili a quelle complesse. Parafrasando ancora una volta Tolstoj «Tutte le teorie semplici sono semplici allo stesso modo; ogni teoria complessa è complessa a modo suo». Ma cosa distingue una teoria complessa da una semplice? Un’onda sinusoidale è complicata perché la curva cambia direzione molto spesso, o è semplice perché segue una regola periodica?

Chiunque abbia un minimo di dimestichezza col metodo scientifico, con la scienza in genere avrà sicuramente sentito nominare il cosiddetto “rasoio di Occam”, chiamato in causa anche dal sottoscritto in altra occasione. Il modo più immediato per esprimere questa non monastica regola recita così: non postulare enti oltre la necessità. Ove possibile, dobbiamo eliminare la complessità eccessiva, dobbiamo essere parsimoniosi, e il rasoio di Occam a volte viene chiamato anche principio di parsimonia.

Il monaco Guglielmo di Occam (o meglio Ockham, dove nacque, in Inghilterra) era un teologo inglese vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo. Anche se non c’è chiarezza sembra che debba essere associato strettamente al principio. Ed è comunque in buona compagnia: Isaac Newton, nei suoi Principi (1687), presentò regole esplicite per fare scienza e la “Regola aurea”: «degli eventi naturali non si devono ammettere cause più numerose di quelle che sono vere e sono sufficienti a spiegare i fenomeni». Anche se il dibattito su cosa davvero intendesse Newton con causa “vera” è tutt’ora in corso.

Le spiegazioni filosofiche della conoscenza spesso assegnano un ruolo centrale alla semplicità.

Un famosissimo filosofo, Quine, da alcuni chiamato “il filosofo del filosofo”, considerava la totalità del nostro sistema di credenza una costruzione umana, che viene a contatto con l’esperienza solo marginalmente e, per mantenere questo “margine” del nostro sistema di credenze compatibile con l’esperienza della dobbiamo semplificare. Qualsiasi altro aggiustamento che facciamo al sistema «ha come obiettivo la semplicità delle leggi».

Ammettiamolo, ci sono famosissime leggi fisiche, illustrate dalla loro espressione matematica che sono ad un tempo eleganti e, per lo meno esteticamente, semplicissime. In che cosa consiste, di preciso, la semplicità che dovremmo cercare? Come qualcuno ha scritto devono essere anche…belle?

In primo luogo, in una teoria si possono usare più o meno entità e comunque potrebbe non avere importanza che queste siano in numero ridotto piuttosto che invece avere meno generi di cose: in una teoria della gravitazione semplificata aggiungere alla propria descrizione più pianeti, avendone già inseriti, potrebbe non avere importanza, dovendo fare il più possibile prima di aggiungere qualcos'altro. Terzo, potremmo preferire le organizzazioni causali meno complesse a quelle più complesse. Questo può entrare in conflitto con altri generi di semplicità; si potrebbe riuscire a raccontare una storia con un piccolo numero di fattori causali, ma solo se sono organizzati in modo molto elaborato. Infine, una teoria più semplice potrebbe essere più compatta da scrivere, anche se ciò dipenderà dal linguaggio scelto, ed è difficile considerarla una questione importante, se non come guida ad altri generi di semplicità.

La semplicità è stata valorizzata per molte ragioni. Forse, a parità di altre condizioni, e questa è già una semplificazione, dovremmo preferire le teorie più semplici perché è più plausibile che siano vere? O è possibile valorizzare la semplicità per altre ragioni, per esempio perché le teorie semplici sono più facili da utilizzare?

C'è una certa dose di artificiosità nel modo in cui questo problema viene presentato di solito. Spesso si dice che quando più teorie soddisfano i dati si dovrebbe scegliere la più semplice: ma è davvero così? La formulazione della teoria della gravitazione newtoniana è sicuramente più semplice di quella einsteniana ma non soddisfa né la spiegazione della misteriosa azione a distanza, né le velocità relativistiche e infine bastano tre corpi anziché due per ritrovarsi già con un bel problema.

Ma nelle situazioni che coinvolgono le evidenze non ci sono soltanto posizioni in cui i dati escludono una teoria o si accordano a questa: una teoria, lo abbiamo visto quando scrissi sul consenso scientifico, può ottenere da un dato qualsiasi quantità di supporto, esprimibile in gradi. Spesso non serve proprio scegliere tra le teorie. Si possono tenere d'occhio le diverse possibilità, mantenendo diversi gradi di fiducia in esse, comprese teorie semplici e alcune più complicate.

Ma a parte tutto ciò perché preferire la semplicità? Qualcuno afferma che conviene attenersi ad essa per evitare complicazioni inutili. Ma questa non è una gran giustificazione anche se la preferenza per la semplicità sulla base della mera convenienza sarebbe una preferenza innocua. È possibile anche semplificare deliberatamente costruendo dei modelli ma questi non hanno nulla a che fare col “rasoio di Occam”: pur sapendo che un modello semplice non è in qualche modo anche accurato, possiamo comunque usarlo per capire alcuni aspetti di un sistema che rappresenta.

Preferire le teorie semplici perché è più plausibile che ci conducano alla verità? Se è così, perché? Perché il mondo dovrebbe essere semplice? Fino al XVII secolo le versione della preferenza per la semplicità si basavano spesso sull’assunto che se dio ha creato il mondo, possiamo aspettarci la semplicità perché è più adatta o più giusta. Ed è un pensiero ancora largamente diffuso, associato all’opinione, altrettanto diffusa, che la Natura (quella con la N), ci viene detto, non fa cose invano, non complica. Ma una volta che le divinità vengono escluse dal quadro, o che si introduca un po’ di caso, ne basta poco, questo assunto diventa del tutto infondato.

Torniamo a quella bellezza a cui abbiamo accennato. Einstein diceva che «il mistero più grande è la nostra capacità di conoscere l’universo, di afferrarne la misteriosa semplicità e bellezza». Semplicità e bellezza ancora una volta. Le teorie semplici che funzionano bene hanno un aspetto piacevole: ottenere molto da poco è piacevole. Ma il fatto che sarebbe bene che una teoria semplice funzionasse bene non significa che tale teoria funzionerà bene, ed a questo proposito ricordiamo le parole contrastanti di un fisico cinese, naturalizzato statunitense, Tai Tsun Wu: «Una teoria, in fisica, deve essere bella per poter ottenere più verità. La teoria della relatività generale di Einstein è così bella, così bella che l'ho trovata difficilissima da capire

A volte si è sostenuto pure che la storia della scienza favorisce una preferenza per la semplicità, ma di evidenze in tal senso non ce ne sono. Per esempio, pare che Michael Faraday, pioniere sperimentale dell'elettricità e del magnetismo nel XIX secolo, dubitasse della teoria degli elementi chimici di Dalton, con le sue decine di elementi (nelle versioni tarde), perché gli sembrava troppo complessa in confronto ad altre posizioni del tempo che avevano molte meno entità di base. Non fu una scelta molto buona e la teoria di Dalton fu un grosso passo in avanti.

In chimica, la semplicità dell'immagine del mondo ha avuto alti e bassi. Nelle teorie più antiche, c'erano spesso quattro o cinque elementi, mentre con Dalton e Mendeleev nel XIX secolo ce n'erano decine, che crebbero fino a diventare più di cento. In seguito, includendo la fisica, fu possibile spiegare tutti quegli elementi nei termini di tre particelle subatomiche: gli elettroni, i protoni e i neutroni. Quelle particelle vennero poi suddivise e se ne aggiunsero molte altre, raggiungendo oggi circa la trentina. La semplicità va e viene. Come andrà a finire?


Per prima cosa, ci sono alcuni casi speciali, cioè alcune aree della scienza, in cui una particolare semplicità è preferibile nelle ipotesi, per via del modo in cui pensiamo che funzioni quella parte del mondo. Nell'evoluzione biologica, per esempio, le mutazioni sono eventi piuttosto rari, ancor più rari le mutazioni vantaggiose. La maggior parte delle mutazioni o non fa nulla o è negativa per l'organismo. Quindi le ipotesi evoluzionistiche che richiedono numeri più piccoli di mutazioni vantaggiose sono generalmente preferibili a quelle che ne richiedono molte. Sono ipotesi più semplici perché richiedono che accadano meno eventi poco plausibili.

Uno dei più famosi filosofi della scienza, Karl Popper, ha contribuito alla filosofia della scienza in molti modi, ma uno dei più importanti e conosciuti è la sua visione della scienza, incentrata su una coppia di idee semplici, chiare e straordinarie. Innanzi tutto distinguere la Scienza, con la S, dalla pseudoscienza (non necessariamente priva di significato ma comunque non scienza[1]) per mezzo del falsificazionismo, il nome che il filosofo diede alla propria soluzione: un’ipotesi è scientifica se e solo se ha il potenziale di essere confutata da qualche possibile osservazione. Per essere scientifica, un'ipotesi deve correre un rischio, deve mettersi in gioco. Se una teoria non si assume alcun rischio perché è compatibile con ogni possibile osservazione, allora non è scientifica. E fin qui tutto bene. Ma Popper usava l'idea della falsificazione anche in modo più ambizioso. Sosteneva che tutte le verifiche nella scienza hanno la forma di tentativi di confutare delle teorie mediante l'osservazione. Cosa cruciale è che non è mai possibile confermare o dimostrare una teoria mostrando che si accorda con le osservazioni. La conferma è un mito. L'unica cosa che un test osservazionale può fare è mostrare che una teoria è falsa. Alcuni degli scienziati che considerano Popper un eroe non realizzano che egli credeva che non è mai possibile confermare una teoria nemmeno in parte, indipendentemente da quante osservazioni la teoria ci aiuta a prevedere con successo. Non sembra proprio di essere in tema di semplicità. Prendiamo la teoria proposta da qualcuno e deduciamo da essa una previsione osservazionale. Se le cose avvengono come da previsione, allora dobbiamo dire di non aver ancora falsificato la teoria. Per Popper, non possiamo concludere che la teoria è vera, né che è probabilmente vera e neppure che è più probabile che sia vera di quanto fosse prima del test. La teoria potrebbe essere vera, ma non possiamo dire più di questo: potrebbero passare anni senza riuscire a falsificare una teoria ma per Popper ciò significherebbe che è semplicemente sopravvissuta ai tentativi di falsificazione. Ciò non significa ovviamente che gli scienziati debbano trascorrere quasi tutto il loro tempo a tentare di falsificare una teoria, ma solo che dovremmo sempre mantenere un atteggiamento di cautela. E’ comunque la cattiva interpretazione, strumentale, del pensiero di Popper, che apre le porte ai negazionisti di ogni epoca.

Dopo questa interessante digressione torniamo al tema principale. Popper pensava che le teorie semplici, in molti casi, potessero essere falsificate facilmente se erano false. Quindi, è bene lavorarci perché si assumono dei rischi, come piaceva a lui. Non c'è motivo di pensare che una teoria semplice sia vera, ma è più semplice dimostrare che è falsa, se lo è, e questa è una virtù.

Un esempio usato da Popper e da altri è tratto dalla matematica. Supponiamo di ottenere dei dati nella forma di coordinate (x,y). Bastano pochi dati per falsificare l'ipotesi che la relazione sottostante ai dati abbia la forma di una linea retta, meno di quanti ne servano per falsificare l'ipotesi che quella funzione sia quadratica, o sia un'altra funzione con potenze di x ancora più alte.

Pare che l'ipotesi della linea retta sia più semplice e la teoria più semplice si assume anche maggiori rischi.[2]

Le teorie in cui le ipotesi che si assumono dei rischi, quelle che “vincolano i dati” parecchio, ottengono una spinta quando le cose si rivelano essere come loro imponevano. Le ipotesi semplici vincolano i dati più delle teorie complicate.

Aggiungo sulla semplicità un'ultima cosa, che considero una motivazione più informale per la preferenza per la semplicità, che richiama un po' l'idea di Popper. Se si parte da una teoria semplice, una teoria con pochi fattori causali, allora, quando arrivano delle osservazioni che contrastano con la posizione iniziale, si può essere in grado di spiegare che cosa succede più di quanto si potrebbe fare se si stesse lavorando con una teoria molto complessa. Quindi può essere ragionevole iniziare lavorando con idee semplici anche se ci si aspetta di essere sospinti verso posizioni più complesse. La “spinta” funziona meglio o più chiaramente se si lavora in questo modo.

John Maynard Smith, un biologo evoluzionista di spicco del XX secolo, aveva un atteggiamento di questo tipo. Qualche volta difende un'immagine dell'evoluzione estremamente semplice, basata sull'assunzione che la mutazione e la selezione naturale possano trovare in generale soluzioni quasi perfette ai problemi affrontati dagli organismi. Ma questa visione della teoria dell'evoluzione non tiene conto di molti fattori, tra i quali i vincoli che derivano dalle sequenze di sviluppo di un organismo. Maynard Smith non pensava che l'evoluzione fosse così semplice, ma pensava che, per riflettere su un caso particolare, fosse bene iniziare con una struttura semplice e usarla come base per riflettere su possibilità più complicate.

Questo modo di pensare è collegato all'uso di modelli (ancora loro) deliberatamente semplificati. In quel metodo di lavoro si semplifica deliberatamente per arrivare a comprendere alcune relazioni all'opera in sistemi complicati. Qui invece usiamo la semplicità come punto di partenza. I due approcci sono molto simili; si potrebbe dire: “Assumiamo prima che il sistema sia semplice e vediamo come va”, o “So che questo sistema non è semplice, ma fingerò che lo sia, perché questo mi aiuterà a capire alcune delle sue caratteristiche”.

Abbiamo affermato che la preferenza per la semplicità potrebbe dipendere dalla maggiore probabilità che le teorie siano vere: questo non è assolutamente corretto. Oppure perché più facili da utilizzare: anche qui, ci sono parecchi dubbi in proposito. Proviamo a mescolare i due concetti: “In molte situazioni è bene iniziare a lavorare con delle teorie semplici e vedere come se la cavano, perché è più plausibile che questo alla fine ci conduca alla verità”. Qualcosa del genere potrebbe essere corretto.

Vorrei concludere con un riferimento ancora una volta alla biologia, scienza unica. Nel mondo inanimato non esistono sistemi la cui complessità sia comparabile, in qualche modo, a quella dei sistemi biologici formati da macromolecole e da cellule. Tali sistemi possiedono una enorme quantità di proprietà emergenti, perché ad ogni livello di integrazione o di interazione, emergono continuamente una gran quantità di nuovi sistemi di proprietà. E' vero che questi sistemi possono essere ridotti in componenti meno complessi, quasi sempre migliorandone la comprensione, ma i sistemi biologici sono sistemi aperti, ampiamente dotati della capacità di riproduzione, metabolismo, replicazione, adattabilità, crescita e organizzazione gerarchica; non ultimo relazione con altri sistemi biologici e non e in evoluzione nel tempo. Nel mondo inanimato non c'è nulla di simile.

Dubito che la preferenza per la semplicità possa portare da qualche parte in biologia e, lasciatemelo dire, anche in geologia.


 

Nota bibliografica: Peter Godfrey-Smith. “Teoria e realtà. Introduzione alla filosofia della scienza.


[1] Due esempi di pseudoscienza a lui cari: la psicologia di Freud e la visione marxista della società e della storia. Scienza purissima per Popper era d’altro canto il lavoro di Einstein.
[2] Approfondimento sulla maggior falsificabilità della retta.


Ecco un approfondimento su un punto che ho introdotto brevemente nel paragrafo sulla semplicità, che ha a che fare con la relazione tra semplicità e falsificazione. All'inizio, sembra chiaro che l'ipotesi secondo la quale una funzione che collega due variabili è una linea retta sia più facile da falsificare (in linea di principio) rispetto all'ipotesi che la funzione è quadratica y = ax+ bx + c o con potenze di x ancora più alte. Tre punti possono essere sufficienti per mostrare che una curva non può essere una linea retta, ma ne servono quattro per mostrare che la curva non è quadratica e così via a salire. L'ipotesi che la curva sia una linea retta sembra anche più semplice. Tuttavia, si tratta di una situazione in cui l'ipotesi dell'aspetto più semplice (linea retta) è un caso speciale dell'ipotesi più complessa (quadratica), dato che la linea retta è una curva quadratica con il parametro a maggiore o uguale a zero. Quindi, in verità, l'ipotesi che la funzione sia quadratica è un'ipotesi più ampia ma meno specifica, che permette sia le opzioni che sembrano semplici (linee rette) sia opzioni di altro genere. L'ipotesi più ampia è anche più difficile da falsificare.

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