Introduzione
Nel precedente post
abbiamo visto che, per buona parte della lunga storia dell’evoluzione delle
specie che ha portato fino a noi, almeno 5 dei 7 milioni di anni a partire
dall’antenato comune che abbiamo con le scimmie antropomorfe, la massa
cerebrale non subì particolari incrementi. A partire da circa 2 milioni di anni
fa, con la comparsa delle cosiddette habiline, le forme preumane come Homo
abilis, le dimensioni del cervello iniziano ad aumentare in maniera
pressoché esponenziale, la trasformazione morfologica più rapida nella
complessità di un organismo.
Perché?
Sembra ormai assodato che il processo venne innescato da una modalità di evoluzione di tipo esclusivo, che prende il nome di coevoluzione genetico-culturale, nella quale, da un lato, l’innovazione culturale determinò un incremento della velocità di diffusione dei geni che favorivano intelligenza e cooperazione, mentre, dall’altro, il cambiamento genetico risultante aumentò la probabilità che si realizzare un’evoluzione culturale.
Qui occorre fare una doverosa precisazione. I cambiamenti genetici avvenivano, e avvengono, nelle modalità che conosciamo, a causa delle mutazioni casuali dovute soprattutto agli errori di copiatura del codice genetico, e che hanno portato alla comparsa di caratteri abilitanti quali la possibilità di opporre il pollice alle altre dita, la modifica anatomica della scatola cranica ad ospitare un cervello di maggiori dimensioni, lo spostamento delle vertebre ileo-sacrali a favorire la postura eretta, il bipedismo ed altro ancora: passo dopo passo nel corso di decine o centinaia di migliaia di anni.
Ma la coevoluzione bio-culturale ha fatto sì che la componente genetica preparasse gli organismi a cambiare abitudini culturali mentre, in parallelo, l’evoluzione culturale favoriva la diffusione di questi cambiamenti dando ai loro portatori maggiori possibilità di sopravvivenza e riproduzione; grazie anche alle caratteristiche emergenti di cooperazione e interazione sociale tra individui del gruppo.
E qui occorre aprire un’altra parentesi.
L’evoluzione
per selezione naturale avviene continuamente in tutte le popolazioni di ogni
specie, sia cambiando la frequenza dei geni sia mantenendola stabile. Ad un
estremo, la frequenza è talmente veloce da produrre una nuova specie in una
singola generazione e, all’estremo opposto, l’evoluzione è così lenta che
alcune caratteristiche delle specie si mantengono simili a quelle degli
antenati che vivevano decine se non centinaia milioni di anni prima (i
cosiddetti fossili
viventi).
Riducendo ai minimi elementi la teoria dell’evoluzione abbiamo che l’unità ereditaria interessata dalla mutazione è il gene ed il bersaglio della selezione naturale da parte dell’ambiente è il carattere determinato dal gene (semplificando, sappiamo che in realtà è sempre un pool di geni a determinare l’espressione del carattere, o meglio, del fenotipo).
Ma cosa ha a che fare tutto ciò con gruppi di individui geneticamente pressoché identici? Tra un essere umano e l’altro meno dello 0,1 percento di DNA varia.
Tra
selezione a livello di individuo e selezione a livello di gruppo è stata fatta
spesso un’inutile confusione. Dovuta spesso ad alcuni divulgatori
scientifici che parlano di evoluzione rivolgendosi ad un pubblico generico.
Il problema deriva dall’errore commesso nella distinzione tra unità ereditaria e oggetto della selezione.
La selezione a livello di gruppo influenza invece le caratteristiche che prevedono l’interazione con i compagni, in modo che il successo dei geni di un individuo dipende almeno in parte dal successo della società cui appartiene. Faccio notare che ciò è riscontrabile in qualsiasi organizzazione sociale progredita, come ad esempio in quelle caratterizzate da caste di individui sterili (api, termiti, formiche…) dove la selezione di gruppo scavalca quasi interamente quella individuale.
La selezione di gruppo nell’evoluzione sociale è coerente con la genetica delle popolazioni e la sua presenza in tutto il regno animale (studi recentissimi ne intravedono qualcosa persino tra i vegetali) è sostenuta da prove consistenti sia raccolte sul campo che in laboratorio.
Negli anni Sessanta del XX secolo si fece strada una teoria alternativa, quella della cosiddetta fitness inclusiva, alla base della nascente sociobiologia. Dopo anni, decenni, di discussioni, è ormai acclarato che non esiste nulla del genere: nessuno è mai riuscito a “misurarla” e le equazioni elaborate (ad hoc) per dimostrarla presentano problemi matematici notevoli. Non esiste alcuna prova che sia il singolo individuo, e non il gene, ad essere considerato unità della selezione e non serve quest’idea per spiegare il comportamento sociale complesso oggi abbondantemente dimostrato anche nei nostri parenti più prossimi come scimpanzè e bonobo.
Il carattere genetico, controllato dalle mutazioni, che influenza le interazioni, il comportamento di gruppo, fa emergere la selezione di gruppo. E ciò non vale solo per la scelta, governata dalla scelta femminile nella selezione sessuale, di un paio di occhi azzurri o nel taglio a mandorla, particolarmente graditi a favorirne la diffusione.
Charles Darwin, che raramente sbagliava, aveva correttamente anticipato e dedotto, nel suo “L’origine dell’uomo”, che la competizione tra gruppi di esseri umani ha rappresentato un contributo rilevante rispetto alla comparsa di caratteristiche considerate da tutti molto nobili: generosità manifesta, coraggio, sacrificio, giustizia, saggia autorità. In altre parole i lati migliori della nostra natura non hanno bisogno di essere inculcati a forza dentro di noi sotto la minaccia del castigo divino ma, al contrario, sono biologicamente ereditati: grazie ad una conseguenza fortuita derivata dai principi fondamentali della selezione naturale siamo molto più di semplici selvaggi istruiti. Siamo naturalmente buoni, rimandando alla lettura del bellissimo libro, proprio con questo titolo, del compianto Frans de Waal.
Cultura…genetica
La coevoluzione geni-cultura ha
determinato la diffusione dei geni che favorivano intelligenza e cooperazione e
la probabilità che ciò portasse ad un’innovazione culturale fu da questi geni
aumentata.
Fu cruciale il passaggio da una dieta vegetariana a una dieta ricca di carne cotta, probabilmente già in una delle specie australopitecine africane (forse già nella specie cui apparteneva la famosissima Lucy, oltre 3 milioni di anni fa). La carne cotta potrebbe, almeno all’inizio, esser stata consumata dopo il ritrovamento casuale di animali vittime di incendi.
Il passaggio si tradusse in una trasformazione ereditaria che interessò l’anatomia, la fisiologia e il comportamento. Il corpo si assottigliò, mandibola e dentatura divennero più piccole e leggere, il cranio aumentò di dimensioni assumendo una forma più sferica; anche la società cambiò, passando dal nomadismo puro alla creazione di punti di ritrovo geograficamente stabili ai quali tornare la sera. Le già citate habiline probabilmente impararono a procurarsi il fuoco dalle braci residuo di incendi, e a portarlo in quei siti controllandolo e mantenendolo vivo. Così come ancora oggi fanno, spostandolo da un accampamento all’altro, le tribù di cacciatori-raccoglitori che vivono tuttora in Sudafrica (le popolazioni più antiche del mondo!)
La condivisione della carne di prede più grandi, una ricostruzione corroborata dalle testimonianze fossili e dallo studio degli stili di vita dei cacciatori-raccoglitori contemporanei, preparò uno scenario pronto per lo sviluppo di cooperazione e divisione del lavoro. La selezione naturale, a livello di gruppo, favorì l’altruismo e la cooperazione con un meccanismo di rinforzo positivo tra evoluzione culturale e genetica. Ovviamente ciascuna delle due, da sola, avrebbe potuto determinare un incremento della velocità di crescita del volume cerebrale, ma insieme esercitarono il feedback tale da determinarne una crescita esponenziale, inizialmente lenta ma via via più rapida, fino al raggiungimento dei limiti fisici relativi alla dimensione del cranio.
Perché dobbiamo morire?
Il processo di invecchiamento è
quanto di più utile esista per comprendere le contemporanee evoluzione genetica
e culturale.
Tutte le specie,
indipendentemente dal loro maggiore o minore successo adattativo, hanno una
durata della vita caratteristica. Persino le piante hanno una durata della vita
programmata.
Tra i biologi evoluzionisti, la
teoria più diffusa per spiegare l’invecchiamento programmato e la morte, è che
in ogni organismo vivente si sia evoluto uno stile di vita caratterizzato dal
fatto che la maggior parte degli individui muore per cause esterne – malattia,
incidente, difetti congeniti, malnutrizione, omicidio, guerra – molto prima di
raggiungere la massima età possibile: situazione questa, che rappresentava la
regola quando tra gli esseri umani soltanto pochi individui riuscivano a
raggiungere i cinquant’anni!
La mortalità precoce, applicabile
ancora oggi alla maggioranza degli esseri umani pur essendo spostata in avanti,
ha comportato, per effetto della selezione naturale, un’anticipazione e un
potenziamento del vigore e della spinta riproduttiva. Ha cioè programmato nei
giovani una fisiologia e uno stato mentale più vivaci e vitali a svantaggio dei
più anziani preferendo investire nelle risorse più giovani anziché in quelle in
età media o avanzata.
L’evoluzione culturale, fin dal
Paleolitico, ridusse le cause di morte, aumentando via via l’aspettativa di
vita fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui l’età riproduttiva si è spostata
in avanti fino all’età della menopausa. La nascita delle prime civiltà,
l’avvento dell’agricoltura e la possibilità di immagazzinare cibo, insieme alla
riduzione delle cause estreme di mortalità, cambiarono le condizioni, spostando
la direzione della selezione naturale nel corso del ciclo vitale umano.
Un effetto inevitabile sulle
generazioni future potrebbe quindi essere il cambiamento genetico complessivo a
livello di popolazione, non solo quindi un allungamento della giovinezza e
della fertilità fin oltre la mezza età, con un inizio della menopausa sempre
più avanti negli anni marcando sia l’evoluzione culturale che quella genetica.
Tutto ciò ovviamente, al netto di implicazioni e motivazioni d’altra natura,
quali quelle geografiche o sociologiche.
E’ indubbio che la coevoluzione
geni-cultura abbia favorito la rivoluzione delle habiline, che compirono un
passo da gigante verso la condizione umana, spostando in avanti le lancette
dell’invecchiamento e della morte, anche contrariamente a quel che naturalmente
ci si aspetta da un sistema la cui efficienza è soltanto in apparenza in
violazione dei principi della termodinamica. Ogni tanto spunta fuori qualcuno
che afferma che gli esseri viventi violano il “Secondo principio della
termodinamica”: semplificando, e con riferimento alla riproduzione sessuata,
dalla fusione di un paio di cellule, maschile e femminile, organizzazione e
complessità vanno via via aumentando per tutto il corso della vita: ma un
organismo vivente non è un sistema chiuso, c’è all’origine del suo apparente
violare le leggi dell’entropia, la fruizione continua di energia. Un sistema
semplice formato da una pianta, dal Sole e dall’Universo tutto ne è la prova.
Ne parlammo qui.
(s)Conclusioni
Se non ci
fosse morte non ci sarebbe evoluzione. Quindi, per quanto auspicabile
che, in condizioni normali, si voglia rimandare il processo che si conclude con
la morte, questa la si comprende a partire dalla vita, di cui è funzione: non
si muore se non si è vivi. Se non si morisse, le generazioni non potrebbero
avvicendarsi. E ciò, nel caso della società umana, avrebbe conseguenze
evidenti.
La relazione tra evoluzione biologica e culturale è considerata la pietra filosofale dell’umanità che comprende se stessa. Siamo costruiti e ci comportiamo in questo modo o in un altro perché alcuni dei nostri comportamenti sono da considerare istinti programmati geneticamente, altri acquisiti in seguito all’apprendimento, anch’esso geneticamente predisposto, ed altri ancora come prodotto, vera e propria invenzione, dell’evoluzione culturale. Uno stadio della nostra evoluzione a lungo termine, e non il prodotto di quanto vediamo oggi.
Se la mia nascita è accidentale, la mia morte è una necessità (si veda anche qui).
L'aspettativa di vita in molti paesi si alza continuamente e abbiamo sfondato da poco gli 80; molti biologi credono esista comunque un limite strutturale di 120 anni. Inoltre vivere così a lungo dipende non solo dalla qualità della vita ma da chi pagherà le pensioni di così tanti vegliardi, sempre che, come ritengono i neurobiologi, non prevalgano comunque le degenerazioni cerebrali.
Comunque sia, morire non è una malattia da curare, ma una parte della vita, anche perché l'eternità ha un sacco di controindicazioni, a cominciare dal fatto che più si vive più si accumulano danni e mutazioni.
Fuor di metafora, la religione organizzata rappresenta per tutto questo il cosiddetto “elefante in salotto”. L’ingerenza che questa ha, con le sue storie che narrano di creazioni soprannaturali, ognuna delle quali identifica un diverso credo, influenza negativamente la capacità di comprendere la condizione umana.
Una cosa è possedere e condividere alcuni valori spirituali della religione in senso teologico, anche contemporaneamente ad una qualche fede nel divino e nell’esistenza di vita dopo la morte; ma ben altra cosa, completamente diversa, è scegliere di adottare una particolare storia soprannaturale della creazione. Anche se la fede in una di queste credenze garantisce ai membri di un credo religioso un senso di appartenenza confortante (personalmente non vedo appartenenza, empatia o altruismo dei fedeli una volta terminata la messa…), va detto che non tutte le storie della creazione possono essere vere allo stesso tempo, neppure due alla volta possono esserlo e, ragionando per assurdo, sono quindi tutte false. Ognuna è sostenuta dal dogma cieco della fede di appartenenza.
L'evoluzione, sottoposta al vaglio cieco della selezione naturale, è stata resa un po' meno cieca dall'evoluzione culturale, unicità delle specie Homo, grazie alla selezione di ciò che sappiamo far meglio: pensare.
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