Imperfetti per fortuna

 

Giorni fa pubblicavo un post sulla potenza dell’anormalità. E come non scrivere anche dell’imperfezione, una delle caratteristiche della vita e motore dell’evoluzione?

Un ghepardo in corsa. Bellissimo, potente, velocissimo, nato per uccidere direbbe qualcuno. Una macchina da guerra perfetta. Perfetta? Mica tanto.

Trovate qualche documentario in cui mostrano, su un certo numero di tentativi di predazione, quante volte fallisce. Un minuto dopo ha il fiatone e deve sdraiarsi all’ombra: anche oggi si mangia domani.

Per cacciare il ghepardo si è specializzato sulla velocità immediata, trascurando altro. Specializzarsi significa anche rinunciare, fare un compromesso, purché funzioni.

Qualsiasi prodotto della natura non è finito: è un processo in corso. Perché gli scienziati non sono riusciti per lo meno ad imitare soluzioni naturali come la policromia del polpo o la fotosintesi clorofilliana? Perché quelli che ci appaiono, e lo sono, come prodigi, sono il risultato di miliardi di anni di tentativi ed errori.

Le caratteristiche di ogni specie, le variazioni individuali, si evolvono senza uno standard prefissato, esplorando le possibilità presenti innumerevoli, utilizzando il materiale a disposizione, riciclandolo e riadattandolo senza inventare dal nulla niente: purché funzioni, proprio come il compromesso del ghepardo.

L'imperfezione è ovunque

L'imperfezione è ovunque.

Rita Levi-Montalcini diceva che il nostro cervello è un accrocco di parti vecchie e nuove, riciclate e riadattate, altro che meraviglia dell’universo. I cloroplasti, organelli specializzati delle cellule vegetali all’interno dei quali avvengono le reazioni fotosintetiche, erano in origine batteri specializzati fagocitati e diventati parti simbionti di altri batteri. Il mal di schiena, i dolori del parto? Retaggi del bipedismo, riutilizzo di qualcosa che andava benissimo quando stavamo a quattro zampe come gli altri mammiferi. Persino il DNA, l’origine di tutto (più o meno) è un accrocco che contiene ridondanze e ripetizioni.

Sempre il solito (...) Charles Darwin scrisse che «la natura gronda di inutilità e l’imperfezione è il segno della storia». Ed è qui che il grande naturalista colse nel segno della sua rivoluzione: le specie non sono qualcosa a cui si mira idealmente, termine di processi finalistici, magari governati da entità metafisiche. Le specie sono popolazioni di individui concreti, ognuno diverso dagli altri, ciascuno portatore di piccole differenze che fanno la differenza. Inutile anelare a canoni ottimali di perfezione, di efficienza, di purezza, di bellezza formale.

Inutile e sbagliato, per quanto attraente per la maggior parte degli esseri umani. Se continuiamo a guardare il mondo, umano e non, attraverso la lente deformante dei tipi ideali, automaticamente salta fuori la diversità che assume connotati negativi, perché diverso viene inteso come deviazione dalla norma (ne ho scritto qui), qualcosa da interpretare come imperfetto rispetto al canone. Ciò comporta gerarchie di valori e persino in società apparentemente ugualitarie ci sarà qualcuno che si sentirà più uguale degli altri. 

Si è scritto come il mondo del web sia l’espressione prima del conformismo, dell’appiattimento, dell’omogeneizzazione, con tantissimi esempi di gruppi che nascono apposta per consentire a determinate individualità di sentirsi accolti: l’aspetto drammatico in tutto questo è che gli algoritmi e le piattaforme della rete, per nulla neutrali, sono progettati sulla base di precisi preconcetti che hanno come obiettivo quello di creare canoni di consenso, bolle di autoconvincimento e comunità digitali fondate sul pregiudizio, di modo che ogni «tribù» abbia un profilo sfruttabile commercialmente. Con l’aggravante che il tutto è ammantato da un’aura di libertà informativa e di democrazia dal basso. 

E così la mente umana, predisposta a certe scelte, fa sentire appagati coloro i quali si chiudono in queste comunità protettive, in piccoli e asfissianti «noi» digitali, ciascuno organizzato secondo standard propri di perfezione a cui conformarsi, nel look, negli idiomi, nei gusti o nei comportamenti.

La perfezione ha comunque un potere seduttivo notevole, e non è nemmeno corretto elogiare la morale o l’estetica dell’imperfezione perché, pur essendo naturale, non è positivo, né giusto di per sé, e men che meno piacevole.

Ciò che occorre, per evitare sofferenza, ansia, scarsa autostima e disagio da imperfezione, è sradicare gli stereotipi di perfezione socialmente indotti, vere e proprie fabbriche di pregiudizi e sensi di colpa, per eliminare una causa contestuale che aggrava quel disagio.

Non dovendo più corrispondere a pressioni esterne indebite ci sentiremmo consapevoli di essere diversi in molti modi. L’evoluzione si nutre sia delle differenze individuali ma anche delle diversità multiple: se gli altri seguono canoni di perfezione ognuno ha comunque il diritto di emanciparsene.

La natura non è un’autorità morale e non può essere invocata strumentalmente per condannare come «contro natura» tutto ciò che non piace.

Il nostro corpo imperfetto non è normale in quanto naturale. E non è solo un diritto da rivendicare contro pregiudizi e condanne sociali. È qualcosa di più profondo: è l’espressione della diversità individuale, che non può essere eliminata o soffocata nell’appiattimento sociale.

 Sono le ragioni evolutive di quell’imperfezione che ci hanno reso umani.

 


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