Premessa
In questo primo di una serie di post, che spero di completare quanto prima, tenterò, immodestamente, di affrontare altrettanti luoghi comuni sulla scienza, o meglio sulle spiegazioni che questa fornisce e che, da tempo immemorabile, sono piuttosto diffusi, non solo tra negazionisti di ogni tipo, neoluddisti o legioni di imbecilli (cit. Umberto Eco), ma anche a volte avvalorati da molti filosofi e persino da eminenti scienziati.
Allo scopo di avviare una certa propedeuticità in questo primo post dovrò necessariamente introdurre qualcosa anche sul secondo e sul terzo luogo comune; per tutti comunque confutazioni, prove a sostegno e dettagli seguiranno negli altri post.
Tutti e tre sono spesso utilizzati polemicamente, in malafede, e fanno parte di quel gruppo di tesi che annoverano tra esse anche quelle che sostengono le domande come quelle a seguire e che sono state trattate recentemente anche su queste pagine. Se le teorie sono suscettibili di mutamenti anche radicali nel corso della loro storia, come pensare che possano essere definitivamente vere? E se sono solo approssimativamente vere, come giustificare l'idea che progrediscano verso la verità? E ancora, se anche le entità non osservabili postulate dalle teorie passate sono state a volte abbandonate nel corso dello sviluppo storico delle teorie, come possiamo essere sicuri che le entità postulate dalla scienza di oggi non verranno abbandonate domani?
Ma il metodo scientifico ha basi, ancorché fondate sul dubbio e su spirito antidogmatico, più che solide.
Il primo luogo comune. Cosa e come ma non perché.
Per affrontare l’argomento prenderò in prestito le parole di un filosofo italiano contemporaneo, Umberto Galimberti: «…la ragione, ormai abituata a spiegare il come delle cose, tace impotente di fronte al perché del loro accadimento». Ma così non è, come vedremo.
Questa affermazione, non di rado espressa anche da scienziati, ci dice in breve che la scienza ha a che fare solo con il come e non anche con il perché delle cose. Da Galilei in poi, storici e filosofi della scienza concordano nel ritenere che il metodo scientifico consista da una parte nel tentativo di formulare in modo matematicamente preciso alcuni significativi nessi tra i fenomeni (ciò che Galilei definiva «le certe dimostrazioni»), e dall’altra nel sottoporre le leggi così formulate alla prova delle osservazioni («le sensate esperienze» galileiane, gli esperimenti); il tutto fino ad arrivare ad estremismi tali da ribadire, come fece di recente uno dei più autorevoli studiosi di relatività generale nel mondo, che «la scienza non offre spiegazioni dei fenomeni ma solo leggi». Ancora, così non è.
All’origine di questo primo luogo comune c’è insomma la tesi, molto controversa, che le connessioni tra i fenomeni, i loro nessi causali, espressi dalle cosiddette leggi di natura, non siano sufficienti a farci comprendere perché gli eventi avvengano, o perché avvengano proprio così e non in altro modo. Paradossalmente affermazioni di questo tipo hanno lasciato credere, per lunghissimo tempo, che la biologia non fosse degna nel definirsi scienza, perché priva di leggi. Il nostro Zichichi affermò ad esempio che la teoria biologica dell’evoluzione non è scientifica, in quanto non è espressa da un’equazione matematica. Tra le tante critiche rivolte al lavoro di Darwin questa è una delle più disinformate, perché gli aspetti matematici dell’evoluzionismo esistono dal 1908, da quando Hardy e Weimberg, con la loro famosa legge, impostarono matematicamente le condizioni evolutive identificate empiricamente dai biologi; e potremmo anche ricordare un’altra famosa legge biologica, quella di Maynard Smith e Price, rimandando a questo post per un approfondimento.
Prendiamo adesso esempio da una delle più famose leggi di natura, che più o meno tutti abbiamo studiato a scuola: la legge di gravitazione universale scoperta da Isaac Newton. Questa esprime che la forza di attrazione F che attrae due masse qualunque (m1 e m2) nell’Universo è direttamente proporzionale al loro prodotto e inversamente proporzionale al quadrato della distanza (r) tra esse (a parte una costante, detta di gravitazione universale, G). In breve, tanto maggiori sono le masse tanto maggiore sarà la forza, e raddoppiando o triplicando la distanza tra esse, l’intensità della forza diminuirà di un quarto o di un nono rispettivamente.
Già al tempo di Newton, a cominciare dai seguaci della fisica di Cartesio, molti osservavano che questa elegante legge non ci dà nessuna informazione sul perché i corpi si attraggono, non fornisce, in altre parole, nessun meccanismo che spieghi come la forza agisca. Si potrebbe addirittura pensare che tra i corpi agisca un’azione a distanza istantanea, idea che già lo stesso Newton ripugnava. Certamente la scienza progredisce nel tempo e sappiamo oggi, col senno di poi, che abbiamo una spiegazione decisamente migliore di quella newtoniana sul perché, che comunque resta valida come caso particolare della Relatività Generale di Einstein. Ma, ai fini dell’argomento che stiamo trattando, approfondire oltre non ci interessa.
Fermandoci alla spiegazione newtoniana il primo luogo comune potrebbe essere descritto in questo modo: la scienza al massimo descrive, ma certamente non spiega. A tale proposito lo stesso Newton offre una mano ai sostenitori di questa tesi, visto che egli stesso si rifiutava di congetturare ipotesi per spiegare la gravità con meccanismi sconosciuti (hypotheses non fingo): non faccio ipotesi o, più onestamente un chiaro «non so» è sempre preferibile a facili spiegazioni prive di evidenze sperimentali. Già Galilei segnalava che ammettere di non sapere era piuttosto difficile per molti filosofi. Ricordo che prima che John Whewell coniasse la parola scienziato coloro che si occupavano di ricerca scientifica erano chiamati filosofi naturali e filosofia naturale il loro campo di ricerca.
Cause
Anticipando qualcosa di quanto vedremo nei post successivi a questo, per fornire spiegazioni ai fenomeni occorrono almeno tre livelli di ragionamento innescati da altrettante domande. La prima domanda dovrebbe essere: Che cos’è? Le risposte arrivano individuando strutture e funzioni che definiscono il fenomeno. Poi viene la domanda: Come è fatto? Ovvero che cosa ne determina l’esistenza, quali sono stati gli eventi responsabili delle condizioni della sua origine? Infine, il terzo e ultimo livello è: Perché? Perché, tanto per cominciare il fenomeno e le sue precondizioni esistono? E perché non immaginare una modalità diversa di evoluzione del fenomeno, perché non formulare ipotesi, al contrario di Newton?
Prendendo a prestito un esempio dalla biologia, scienza che già di suo dev’essere trattata con modalità spesso diversissime dalla fisica, i biologi sentono la necessità di cercare relazioni di causa ed effetto a tutti e tre i livelli. Le cause responsabili di un fenomeno vivente, come il volo di un uccello o la nostra percezione dei colori di un fiore, sono chiamate cause prossime. Gli eventi che governano l’evoluzione del fenomeno fino al suo stato attuale sono indicati come cause ultime.
Le cause prossime sono il cosa e il come di una spiegazione completa. Le cause ultime corrispondono al perché. Riassumendo il primo luogo comune, non si è spiegato il fenomeno se non ne è stato spiegato anche il perché e tutt’al più, in un impeto di riduzionismo estremo, si cerca di risalire all’indietro nella sequenza degli eventi, in una sorta di gioco del perché così caro ai bambini, fino a fermarsi al punto in cui appare necessario appellarsi ad una causa…divina! Perché è così e basta!
Il secondo luogo comune. La scienza non spiega tutto.
Anticipando quanto vedremo nei post successivi di questa serie introduciamo gli altri due luoghi comuni.
Il secondo, che in apparenza sembra concedere qualcosa al potere esplicativo delle teorie scientifiche, insiste sul ritornello noioso e abusato che la scienza non può spiegare tutto. Ovviamente, tale affermazione non implica negare che essa possa spiegare qualcosa, ma allora questo luogo comune entra in contraddizione col primo!
Per gli amanti delle tautologie e soprattutto per i negazionisti del di tutto un po’, a volte è proprio l’assai plausibile tesi che la scienza non possa spiegare tutto (il secondo luogo comune) che viene presa come evidenza a favore della tesi espressa dal primo, nonostante l’evidenza contraria.
Prima del 1915-16, periodo in cui Einstein formulò la teoria della Relatività Generale, la teoria della gravità di Newton spiegava la caduta della famosa aneddotica mela sulla testa del grande inglese. Ma non diceva nulla sul perché la mela cadesse, e allora, la caduta della mela è stata davvero spiegata?
Ma se applichiamo questo tipo di ragionamento a qualunque apparente spiegazione fisica dei fenomeni in soli termini di leggi avremmo una supercazzola! Se un fenomeno fisico f può essere spiegato in termini di una legge L, e se non riesco a spiegare L, posso concludere che non ho spiegato nemmeno f. Ergo, se la scienza non spiega tutto (secondo luogo comune), allora non spiega nulla (primo luogo comune).
La scienza e la sua ricerca, parafrasando Popper (che spesso abbiamo citato su queste pagine), sono antidogmatiche e aperte, non esistono né ammettono spiegazioni ultime e definitive di fenomeni, ovvero spiegazioni che a loro volta non possano essere spiegate. Ne consegue che è talmente evidente che la scienza non spieghi tutto che l’affermarlo non può che avere un intento polemico espresso in malafede: si vorrebbe far passare la tesi che esistono fenomeni che sfuggono alla limitata razionalità umana espressa dai due ingredienti del metodo galileiano: sensate esperienze e certe dimostrazioni. Fenomeni che invece sono analizzabili come qualsiasi altro di cui si occupi la scienza.
Fenomeni come quelli miracolosi, da guarigioni inspiegabili a statuette votive che lacrimano sangue, influssi astrologici, percezioni extrasensoriali, fenomeni di telecinesi, fantasmi, contatti con il mondo dell’aldilà e panacee ottenute da tecniche di guarigione alternative farebbero tutti parte di una specie di «terza dimensione» della realtà, quella detta «paranormale», che si aggiungerebbe alle due del senso comune e dell’immaginazione scientifica del mondo.
Ed è proprio per far posto a questa «terza dimensione» della realtà che si insiste sull’ovvia tesi che «la scienza non spiega tutto».
Anche chi è meno incline al paranormale, filosofi compresi, ricorre spesso a questo luogo comune; in questo caso lo fanno per sostenere che la scienza non potrà mai spiegare fenomeni ai quali abbiamo accesso solo in prima persona e tra questi spicca quello delle spiegazioni relative al rapporto tra mente e cervello, dei nessi causali tra materiale e immateriale, la coscienza e l’autocoscienza. C’è chi sostiene che gli esseri umani non capiranno mai davvero il loro cervello perché per studiarlo hanno disposizione soltanto il loro oggetto di studi!
Personalmente sono convinto che si tratti solo di attendere. La scienza moderna è relativamente giovane, ha appena quattro secoli, e pur frammentata oggi in centinaia di ambiti diversi ma, spesso inconsapevolmente connessi, col tempo condurrà ad un numero crescente di spiegazioni o al miglioramento delle esistenti, in una sorta di cammino aperto costellato di nuove domande per ognuna delle risposte fornite.
Il terzo luogo comune. La scienza non spiega tutto, figuriamoci l’essenziale!
Altre volte, con maggiore sobrietà, il secondo luogo comune viene difeso e chiamato a supporto del terzo che, in un certo modo, giustifica il secondo: la scienza non spiega tutto perché non è in grado di spiegare ciò che per noi è più importante. Perché esistiamo? Perché moriamo (a proposito, ne ho scritto da poco qui)? Perché le costanti universali, come la G vista in precedenza, hanno proprio il valore che hanno? E infine, la domanda delle domande: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla (molti anni fa ne scrivevo qui)?
Per non parlare dei due famosi magisteri non sovrapponibili, religione e scienza. Perché, come giustamente ha scritto il famoso biologo inglese Richard Dawkins, e ribadito dal nostro Piergiorgio Odifreddi, non dovrebbe essere possibile trattare la religione col metodo scientifico come qualsiasi altro fenomeno della citata «terza dimensione»?
Queste domande esulano e rimarranno sempre estranee alla ricerca scientifica?
Ancora una volta, anche in questo luogo comune, troviamo un collegamento col primo: può essere utilizzato per affermare che la scienza non spiega nulla che sia davvero significativo, dato che se pure essa «spiega» qualcosa, riesce solo a darci le «cause meccaniche» dei fenomeni, mentre le spiegazioni di ciò che più ci sta a cuore, quelle con la S maiuscola, sfuggiranno per sempre al suo dominio, e a nulla vale ricordare che le spiegazioni metafisiche, come i diversi miti sulla creazione delle diverse religioni, sono assunti dogmatici ognuno dei quali identifica un diverso credo, influenzando negativamente la capacità di comprendere la condizione umana.
L’ossessione per il controllo
I tre luoghi comuni si alimentano alla stessa fonte che dà origine al sapere scientifico: il nostro più o meno consapevole bisogno di controllare il mondo che ci circonda, soprattutto nei suoi aspetti più ostili. Persino ipotizzando, ammettendo, o persino sapendo, che questo controllo è demandato all’esito di azioni altrui, che siano i dei di Omero o altri esseri umani. Ovviamente l’esistenza di quest’unica radice non implica affatto che gli argomenti a favore dell’uno o dell’altro luogo comune siano tutti ugualmente forti.
La ricerca scientifica, soprattutto in campo biologico, ha ormai ampiamente fornito le prove che non c’è nulla di già scritto e di predeterminato; parafrasando il poeta spagnolo Antonio Machado, l'evoluzione ci insegna che il «non esiste il sentiero, il sentiero si fa camminando», il percorso lo si definisce nell’andare. E questo dà profondamente fastidio alla nostra mente tendenzialmente teleologica, a cui piacciono le spiegazioni che abbiano uno scopo, istintivamente rifiutando l’idea stessa che questo possa mancare e soprattutto, come i racconti che amava lo stesso Darwin, ci piacciono le storie a lieto fine.
Il più delle volte però, alla base di tutti e tre questi luoghi comuni c’è l’intento, più o meno esplicito, di attaccare il sapere scientifico: in tal caso l’idea che li ispira tutti è che solo la metafisica o la religione spieghino i fenomeni, mentre la scienza può al massimo predirne il corso. In altri casi, la difesa più o meno convinta del primo e del terzo luogo comune non intende affatto esaltare forme non scientifiche di comprensione, ma si pone solo in posizione scettica, tentando di limitare le pretese del sapere scientifico e ricondurlo negli ambiti che gli sono più propri.
All'alba dell'era nucleare, negli anni '50, Hannah Arendt ad esempio osservò che un mondo che relega questioni esistenziali al solo linguaggio tecnico e scientifico - definendolo dominio esclusivo di donne e uomini in camice bianco che dicono «fidatevi di noi» - rischia di essere un mondo in cui le persone hanno perso la capacità di essere artefici della propria vita. Una preoccupazione per lo stato tecnocratico estrema, questa della Arendt, dettata dalla sua esperienza di vita e frutto dei tempi in cui viveva, giustificabile in parte allora ma del tutto anacronistica oggi.
La colpa e la causa
Per quanto le motivazioni delle varie tesi debbano sempre e comunque essere distinte dalle argomentazioni a loro supporto (fini nobili ma argomentati con fragilità o argomentazioni forti a sostegno di motivazioni poco apprezzabili) la radice comune resta quella suddetta: il controllo del mondo.
E ancora una volta sono le religioni e i miti che traggono da qui la loro motivazione più forte, la nostra «naturale» tendenza a credere a spiegazioni – nonostante la scoperta di modi spesso illusori - che ci facciano sentire più in grado di dominare il mondo che ci circonda, e quindi di giustificare o provare a controllare l’esistenza del male e della sofferenza.
Prendiamo ad esempio i fenomeni naturali catastrofici, le epidemie, le disastrose alluvioni, tsunami o terremoti devastanti. Spiegare i fenomeni naturali come questi partendo dalla nozione di colpa, propria o altrui, implica il vantaggio di poter imputare a sé o agli altri le cause del dolore, donandoci l’illusione di poter soggiogare o almeno placare le soverchianti forze naturali che ci sono ostili. Non a caso il termine «causa», inteso come ciò che anticipa l’«effetto», nel mondo ellenistico era in origine legato alla «colpa» che provoca la pena come suo «effetto».
Le plebi medievali, infervorate da predicatori o politici spesso in malafede, addossavano la causa della peste alla loro stessa cattiveria, alla loro indegna espressione di fede o, spesso in contemporanea, agli ebrei che avvelenavano i pozzi. In tal modo generavano l’illusione di poter controllare morte e sofferenza improvvise e insensate, soprattutto se colpiscono chi è evidentemente innocente, come un bambino. Questo dipende da noi, in modo che piaccia a dio, non appartiene soltanto al passato, chi non ricorda che l’AIDS viene tutt’ora «spiegato» come una punizione divina per comportamenti sessuali ritenuti devianti?
Ancora oggi ho spesso sentito persone molto religiose anche se non necessariamente bigotte addossare al comportamento cattivo dell’umanità le cause di catastrofi naturali come effetto della volontà di un dio punitivo o del suo dolore. E a nulla valgono indicazioni provocatorie a ricordare la morte di innocenti in tutto ciò.
Nell’essere umano esiste dunque una tendenza, prescientifica e naturale, tendenza a confondere colpa morale e causa fisica, parte di quella profonda evoluzione culturale e dalle radici ultramillenarie, intrecciata con quella biologica, di cui abbiamo parlato qui e qui.
Va ribadito che tutto ciò non è soltanto tipico delle fasi iniziali o primitive dello sviluppo culturale dell’umanità: le spiegazioni di fenomeni naturali che fanno uso della nozione di colpa prevalgono anche, e ancora, nel mondo contemporaneo, soprattutto laddove il sapere scientifico non è abbastanza diffuso, ma non solo: nelle moderne società, amplificate dalla cassa di risonanza dei social media, i complottismi di varia natura - terrapiattisti, negazionisti climatici, novax, fino a coloro i quali credono che siano in atto esperimenti di controllo del clima, dalle cosiddette scie chimiche alla provocazione di nubifragi, inondazioni e terremoti - sono all’ordine del giorno, posizioni antiscientifiche che danno colpa ad altri di quanto invece è spiegabile scientificamente, sia per confutarlo che per dimostrarlo.
Le spiegazioni scientifiche sono una conquista relativamente recente del nostro sviluppo culturale, una conquista che può essere perduta in ogni momento se dovessimo regredire a forme di pensiero tribali e superstiziose. Spesso anche con meno: si pensi alla regressione scientifica e tecnologica che numerosi paesi nel mondo hanno e stanno sperimentando se sottoposti a regimi totalitari di varia natura, sia in presenza che in assenza di dogmatismi religiosi al potere.
Le spiegazioni scientifiche contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo.
Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».
Come ebbe a dire il filosofo stoico Epitteto (50-125 ev circa), nella traduzione di Giacomo Leopardi: «È proprio di chi non ha educazione filosofica, ritenere gli altri causa delle proprie sventure; di chi ha cominciato ad educarsi, accusare se stesso; di chi è educato nella filosofia, non accusare né gli altri né se stesso».
A seguire la seconda e la terza ed ultima parte di questa serie di post.
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Riferimenti bibliografici
Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007
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