Nel post precedente è stato affrontato il tema che vede alla base di molte posizioni antiscientifiche, la presenza di alcuni luoghi comuni sulla scienza e, prima ancora, sulle spiegazioni che questa fornisce.
Le spiegazioni scientifiche contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo. Qualcuno ha detto che spiegare è trovare l’identico nel diverso, in un processo che unifica le cause comuni.
Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».
Volendo riassumerli in estrema sintesi questi sono:
- la scienza è al massimo in grado di spiegare il come e il cosa dei fenomeni, ma non il perché
- la scienza non spiega tutto
- anche qualora spiegasse qualcosa non spiega ciò che per l’umanità è più importante
Premessa
Iniziamo a vedere come, tutto sommato, sia abbastanza semplice confutare queste asserzioni anche se, come lecito attendersi, esisteranno sempre posizioni scettiche, anche al limite della negazione dell’evidenza, dagli scettici globali e radicali ai negazionisti e ai complottisti di ogni epoca e genere.
Questi potranno sempre mettere in dubbio persino il significato dei dati che portano a pensare che una determinata teoria scientifica sia un «fatto»; ma questo tipo di scetticismo, tuttavia, sarebbe analogo a quello che conduce a dubitare dell’esistenza stessa del mondo esterno. E il dubbio sull’esistenza di un mondo presuppone la volontà di ricercare come stanno le cose, e quest’ultima presuppone che ci sia un modo in cui le cose sono che, per lo scettico radicale, o non possiamo conoscere o è completamente illusorio. Ma anche l’essere illusorio rispetto a noi, se le cose stessero così, sarebbe qualcosa, sarebbe appunto il modo di essere del mondo.
In definitiva, il dubbio radicale ha senso solo presupponendo uno sfondo, non necessariamente una particolare teoria, che implica che esista un mondo indipendente da noi che noi cerchiamo di conoscere o rappresentare. Affermare che le nostre percezioni possono sistematicamente ingannarci sulla natura di X implica comunque che X esista e che le nostre percezioni di X siano illusorie. Analogamente, asserire che un enunciato tratto da una teoria scientifica, «X ha la proprietà P», non è né vero né falso, ci obbliga comunque alla forza dell’asserzione in questione, ovvero al fatto che sia vero che l’enunciato in questione non è né vero né falso.
Scettici globali e radicali, complottisti e negazionisti, dovrebbero quindi coerentemente tacere, dato che non appena asseriamo qualcosa, ci impegniamo alla verità di ciò che asseriamo, come quando, per dire che la verità non esiste, ci dobbiamo impegnare almeno all’esistenza di una verità, quella che appunto afferma che la verità non esiste. Considerato che la base della conoscenza scientifica è il senso comune, lo scettico globale sulla scienza è come lo scettico sul senso comune che dubita di tutto. Il grande matematico, fisico e filosofo Henri Poincaré diceva «dubitare di tutto e credere a tutto sono due facce della stessa medaglia», perché ci risparmiano la fatica di pensare a che cosa in particolare dovremmo credere, e di che cosa dovremmo dubitare, cioè ci risparmiano la fatica di pensare, che è poi la fatica tipica di uno scettico «locale», ovvero di colui che dubita soltanto di particolari enunciati e proposizioni, anche se, va detto, in questo caso lo scettico locale si mette sullo stesso piano del miglior ricercatore, perché dubitare su alcune proposizioni della scienza è uno dei motori del progresso scientifico.
Dopo questa lunga premessa torniamo all’argomento principale: confutare i luoghi comuni.
La confutazione del primo luogo comune
La scienza moderna ha adottato come paradigma fondamentale di spiegazione del mondo naturale quello che fa risultare le proprietà macroscopiche e osservabili dei corpi che ci circondano come proprietà emergenti da meccanismi e proprietà microscopiche, troppo piccole per essere osservate a occhio nudo. E qualunque ramo della scienza, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alla geologia, fornisce spiegazioni mostrando proprio come il comportamento macroscopico emerga dai suoi costituenti microscopici. Tutto ciò pur considerando che molte leggi fisiche mettono in relazione proprietà idealizzate e misurabili dei fenomeni, senza spiegare perché esse stiano proprio in quella relazione, attenendosi ad un onesto «non so» piuttosto che tentare di spiegare introducendo ipotesi ad hoc (hypotheses non fingo, non faccio ipotesi, diceva Newton).
Tornando alla peste, di cui s’è parlato anche nel post precedente, e per illustrare concretamente come i fenomeni visibili siano spesso spiegati da entità invisibili, oggi sappiamo che pestilenze che hanno falcidiato l’umanità soprattutto nei secoli passati, sono veicolate da un batterio, Yersinia pestis, che viene trasmesso da alcune pulci parassite sia dei topi che degli esseri umani (ecco spiegato perché l’arrivo della peste era spesso preceduto da morie di topi). Questo batterio è lungo circa 1-3 μm e largo 0,5-0,8 μm (μm = 1/1000 di millimetro): invisibile ad occhio nudo ma strumento di spiegazione degli aspetti macroscopici che la scienza cerca nel microscopico e che mina alla base quella «volontà di potenza» di cui parlava il filosofo tedesco Nietzsche, la colpa e il risentimento che davano un senso e una causa per il dolore dell’esistenza. Nulla di tutto ciò: la scienza, ancora una volta, offre modalità di controllo del mondo esterno più efficaci delle primitive e superstiziose reazioni emotive.
Vediamo ora come la scienza ha a che fare con il perché, e non solo con il come dei fenomeni.
Ad occhi ben aperti!
Iniziamo con un esempio preso dalla biologia, scienza purissima che, a differenza della fisica, non è sempre riconducibile al linguaggio e alle leggi della fisica, con teorie molto spesso descritte più qualitativamente che quantitativamente (una per tutti la teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Charles Darwin) e che è spesso causa di fraintendimenti perché per spiegare, o pur di spiegare, si è fatto in passato necessariamente a considerazioni più finalistiche e meno meccaniche. Kant diceva «è assurdo pensare che un giorno possa nascere un Newton che renda comprensibile anche solo la generazione di un filo d’erba secondo leggi naturali che non state ordinate da alcuna intenzione» (…)
Quando l’intensità della luce varia la nostra pupilla si restringe o si allarga a seconda che ci sia maggiore o minore luce, e se qualsiasi corpo si avvicina agli occhi scatta un riflesso automatico (in medicina è detto ammiccamento) che ci fa chiudere gli occhi prima ancora che la nostra volontà ordini al cervello di farlo. Come spiegare tutto ciò senza riferirsi al fine o alla funzione di questi riflessi? È così evidente: in ambienti non sufficientemente illuminati la pupilla si allarga per accogliere più luce, in presenza di fonti luminose intense invece si restringe per evitare danni alla retina e, ovviamente, il fine del meccanismo protettivo dato dalla chiusura della palpebra è talmente evidente che è inutile parlarne.
Quindi il primo luogo comune potrebbe essere riformulato passando dal considerare che la scienza non spiega i fenomeni biologici perché non è possibile spiegare, con leggi puramente meccaniche, i fenomeni finalistici negli organismi viventi, ovvero leggi che non facciano riferimento alla funzione che questi fenomeni svolgono dal punto di vista della sopravvivenza degli organismi.
Ma le spiegazioni causali ci sono e, come spesso accade soprattutto in biologia, sono relative sia a cause prossime, che a cause ultime, più remote nel tempo (ne scrissi nel post precedente).
La prima spiegazione fa riferimento a meccanismi di tipo causale mentre la seconda fa riferimento a quell’insieme di fenomeni storici chiamato «evoluzione naturale», ovvero al lento prodursi di sistemi di protezione dell’occhio in varie specie, che si sono replicati di generazione in generazione perché permettevano un adattamento maggiore.
Senza entrare nei dettagli anatomici e fisiologici della spiegazione è importante notare che la funzione di X (la chiusura delle palpebre) è Y (frapporre una barriera tra l’occhio e il corpo estraneo), ovvero che X causa Y; per completare la spiegazione dobbiamo anche far riferimento ai meccanismi evolutivi che nel corso del tempo geologico hanno dotato larga parte degli esseri viventi di organi che li aiutino nel compito di procacciarsi il cibo (gli occhi) e di barriere protettive naturali per quegli organi così importanti.
Qui non stiamo discutendo se la spiegazione evoluzionistica basti a giustificare la presenza di organi così complessi (e non dovrebbero esserci dubbi in proposito, nel suo libro “L’orologiaio cieco” il famoso biologo inglese Richard Dawkins dedica un intero capitolo all’evoluzione dell’occhio); ci concentriamo solo sul fatto che il meccanismo di ammiccamento è spiegabile alla stessa stregua di quello che spiega la chiusura di una tapparella con meccanismi elettici. Se poi la spiegazione evoluzionistica consiste nel supporre che la lenta mutazione casuale, seguita dall’eliminazione di individui che non arrivavano all’età riproduttiva, può spiegare la presenza del finalismo in natura, esula dalla spiegazione del fenomeno di ammiccamento (sul darwinismo ho scritto a lungo tempo fa).
Inoltre, la necessità di una «causa prossima» per tutti i fenomeni biologici rende evidente, pur se controverso, ritenere che le regolarità naturali siano allo stesso tempo leggi di natura, al pari dell’equazione della gravità newtoniana, pur se con un grado di universalità decisamente minore, considerando che le regolarità biologiche valgono per gli esseri viventi che conosciamo, ed a quanto ci è dato sapere, la Terra è, per ora, l’unico pianeta su cui la Vita, con la V, è apparsa e si è evoluta. Anche se, a prima vista, non hanno una formulazione quantitativa come le tipiche leggi fisiche, hanno comunque una base fisica, quale per esempio quella che correla la quantità di luce in ingresso con le reazioni elettrochimiche che controllano i muscoli pupillari: correlazione dovuta ad effetti causali, il perché ricercato.
Sicuramente in biologia il modello deduttivo non si applica o per lo meno richiede punti di vista qualitativi: ciò non toglie che è il modello esplicativo che deve essere cambiato, non occorre abbandonare la tesi che i fenomeni biologici siano spiegabili nella loro interezza senza ricorrere a dei omerici o alla metafisica kantiana.
Perché? Perché? Il libro del perché finì in mare e si…perdè!
Torniamo alla fisica, scienza certamente molto più iconica e simbolica delle scienze biologiche, anche se questo suo essere Scienza, con la S, ha dato parecchio filo da torcere al valore scientifico, si perdoni il gioco di parole, delle altre scienze, come nel caso della corrente filosofica del fisicalismo.
Nel suo “Il libro dei perché” Gianni Rodari scrive: «Perché piove?» - «Perché c’è il Sole». Ora, per un bambino o per chi ignori il ciclo dell’acqua, o le nozioni elementari di termodinamica o meteorologia, questa risposta va benissimo. E può essere arricchita e ulteriormente precisata, resa via via più rigorosa, chiamando in causa le aree di bassa pressione, le leggi di cambiamento di stato dell’acqua, e via discorrendo.
Ogni spiegazione è, in prima battuta, una risposta ad una domanda contenente «perché?» e la qualità di una spiegazione, la sua maggiore o minore capacità di farci capire, dipende dal livello culturale e dalla quantità di informazioni di cui dispone chi richiede spiegazioni alzando la mano e chiedendo «perché?». E, come vedremo nel post successivo, esistono diversi tipi di perché?
Sempre Rodari, a suo modo, racconta del perché il cielo sia blu di giorno e si arrossi al tramonto e all’alba, e lo fa chiamando in causa raggi del Sole con le gambe lunghe ed altri con le gambe corte, piccoletti azzurri e violetti e spilungoni rossi ed arancio che si contendono la giornata.
Notate il contesto della spiegazione: ottima per un bambino ma del tutto inadeguata per un adulto, anche dotato delle basi minime, e men che mai per uno scienziato. Ma i bambini, specialisti del perché reiterato potrebbero chiedere come mai gli spilungoni arrivano al tramonto e di giorno i piccoletti.
Per rispondere a questa domanda non ci basta più Rodari e dobbiamo ricorrere ad una spiegazione scientifica che innanzi tutto ci permetta di capire cosa si intende per lungo e corto, non più una valutazione qualitativa riferito alle gambe ma una scientificamente precisa e misurabile quantitativamente: la lunghezza d’onda della luce, ovvero della radiazione elettromagnetica. L’immagine seguente ci aiuta nella comprensione.
Onda su onda
Il tempo che impiega l’onda a fare un’intera oscillazione, il periodo, generalmente indicato con T, è l’inverso della frequenza, f=1/T, che indica quante volte si completa un periodo nell’unità di tempo, cioè in un secondo. O, volendo, immaginate che possiate vedere attraverso un fenditura soltanto una parte dell’onda, e il tempo che passa tra la comparsa di una cresta e quella successiva sarà il periodo T. Dato che lo spazio è comunque s=vt, e sapendo che la luce si propaga con la velocità della luce c, se la moltiplichiamo per il periodo T otteniamo la lunghezza d’onda, λ=cT, ma dato che 1/T=f, allora è λ=c/f.
Lunghezza d’onda e frequenza sono quindi inversamente proporzionali e al crescere dell’una diminuisce la seconda e viceversa.
La figura precedente illustra il cosiddetto spettro elettromagnetico, ovvero l’intera gamma delle radiazioni elettromagnetiche, dai raggi gamma alle onde radio. La luce cosiddetta bianca, quella che comunemente è generata dal Sole o da una lampadina tradizionale, quella che non altera i colori, è costituita da lunghezze d’onda diverse, corrispondenti ai vari colori visibili di un arcobaleno. E al centro della figura c’è proprio una sorta di arcobaleno che rappresenta come la luce visibile, quanto percepisce l’occhio umano, è solo una minima parte dello spettro completo: ecco i piccoletti di Rodari, il violetto per capirci, ha una lunghezza d’onda di 390 nm, (nm sta per nanometri, 10-9, ovvero miliardesimi di metro), mentre i gambalunga arrivano col rosso a 760 nm.
Scattering
Quando la luce attraversa l’atmosfera incontra ovviamente molti tipi di componenti diverse, corpuscoli o molecole di vario tipo, da quelle del vapore acqueo a quelle dei componenti gassosi dell’atmosfera.
L’incontro genera quel che in inglese è chiamato scattering, diffusione: la luce viene in parte diffusa ed in parte deviata, con delle modalità che dipendono dalle dimensioni (d) di ciò che la luce incontra attraversando l’atmosfera.
Se λ<<d (il simbolo << significa molto minore), come ad esempio nel caso del passaggio della luce attraverso le goccioline d’acqua che compongono le nuvole, allora la luce viene diffusa allo stesso modo per tutte le lunghezze d’onda, dal rosso al violetto, cosicché le nuvole nelle belle giornate ci appaiono bianche.
Ma se λ>>d (viceversa >> sta per molto maggiore), come quando la luce impatta con le molecole di gas dell’atmosfera, che sono enormemente più piccole della lunghezza d’onda, allora interviene un altro fenomeno: la quantità di luce diffusa dalle molecole di un gas è inversamente proporzionale alla quarta potenza di λ, ovvero a λ4, o inversamente proporzionale a 1/ λ4 (legge di Rayleigh): le cose si complicano un po’, ma non molto. Significa che maggiore è la lunghezza d’onda della luce associata ad uno dei componenti della luce bianca, il rosso per esempio, e minore sarà la quantità di luce di quel colore che si diffonderà, perché 1/ λ4 è più piccolo. Al contrario, minore è la lunghezza d’onda, come nel caso del blu e del violetto, e più se ne diffonderà perché 1/ λ4 è relativamente più grande. In altre parole, intuitivamente, la componente rossa, più grande, tende a passare relativamente indisturbata come farebbe un’onda del mare alta due metri se incontrasse uno scoglio di mezzo metro (omettendo per la radiazione elettromagnetica il comportamento corpuscolare scoperto con la meccanica quantistica, i meccanismi di onde elettromagnetiche, sismiche, sonore e di liquidi come le onde del mare sono descritti da leggi equivalenti), mentre le componenti a lunghezza d’onda meno elevata risentono delle dimensioni di ciò che incontrano: con la stessa analogia di prima si pensi ad un’onda liquida di mezzo metro che incontri uno scoglio alto due metri.
Nota: il violetto, che ha una lunghezza d’onda minore dell’azzurro o del blu, non è presente perché viene assorbito prima ma soprattutto perché l’occhio umano è più sensibile al rosso, al verde e al blu.
Il cielo è sempre più blu
Ma tutto questo cosa ha a che fare col perché il cielo di giorno è azzurro mentre all’alba e al tramonto è rosso?
All’alba o al tramonto, la luce che viene direttamente dal Sole deve attraversare uno strato di atmosfera assai maggiore di quando il Sole è alto nel cielo, e dovrà incontrare una quantità di ostacoli maggiore: in tal caso la luce non viene diffusa e passa attraverso il gas soprattutto nelle componenti dal giallo al rosso, con lunghezza d’onda maggiore, meno influenzate dalla presenza di gas e corpuscoli. Infatti, quanto più gas viene urtato dalla luce, tanto più, a causa della legge di Rayleigh, viene rimbalzata altrove (diffusa) la componente a lunghezza d’onda minore (blu), restando dunque visibile la luce meno diffusa, che è appunto quella arancio-rossa che colora il cielo all’inizio e alla fine delle giornate limpide. E viceversa quando il Sole è alto nel cielo le componenti a minore lunghezza d’onda saranno diffuse in quantità molto minore colorando d’azzurro il cielo limpido.
Credo sia abbastanza evidente la stretta connessione tra l’utilizzo di una legge di natura, come quella di Rayleigh, e le relative spiegazioni, un classico esempio di deduzione in cui, vere le premesse, sono vere le conclusioni. Ma altrettanta importanza rivestono le condizioni iniziali, o al contorno. La legge suddetta spiega il colore del cielo, ma occorre anche tener conto della composizione della nostra atmosfera e dalla posizione relativa della Terra rispetto al Sole. Il cielo marziano ha colorazioni significativamente diverse dalle nostre.
Conclusione essenziale
Le condizioni iniziali permettono di applicare le leggi, che sono schemi generali, al caso particolare che ci interessa.
A questo punto, credo che gli esempi portati bastino a confutare la tesi che vede la scienza non in grado di spiegare ma soltanto descrivere i fenomeni, rimandando al post successivo una discussione sul secondo e sul terzo luogo comune.
Ma i problemi non sono finiti, e rimandiamo al post seguente.
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Riferimenti bibliografici
Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007
Samir Okasha - Il primo libro di filosofia della scienza, 2006
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