E come disse l'emiro, torneremo alle caverne (*)

Cambiamento climatico e global warming: c'è ancora chi sostiene che non tutto il male viene per nuocere? Direi che dopo lo scarso risultato (oserei dire un fiasco, nonostante le entusiastiche dichiarazioni, capolavoro di bizantinismo) ottenuto col documento di accordo dell'ultima COP, una trattazione del genere potrebbe anche diventare interessante.

Introduzione

Le voci negazioniste hanno forme molteplici, le forme della bugia, dell’imbroglio, della malafede e del complottismo. Senza ardire a proclamarne la verità assoluta per non incomodare lo spirito di Popper, di contro la voce scientifica, è una, chiarissima. La voce dei fatti incontrovertibili, delle evidenze sperimentali, dei risultati matematici della modellizzazione, dei confronti tra posizioni fino al consenso scientifico. Fortunatamente le prime sembrano avviarsi infine ad essere sempre più flebili e arroccate sulle loro posizioni sbagliate tanto quanto e tanto per iniziare, quanto quelle degli astrologi che credono che ancora oggi tra gennaio e febbraio la Terra sia in Acquario[1].

Proprio grazie al convincimento che è in atto un cambiamento climatico, in questo post, arriverò al paradosso della negazione o peggio, dell’accettazione che tutto sommato non è così grave, indirizziamo i nostri sforzi altrove, i problemi sono altri! Dopotutto, di paradossi ne ho già trattato.

Con cambiamento climatico intendo quanto ribadito nel documento UNFCC, Art. 1, punto 2, cambiamento con forzante antropogenica, distinguendolo dalla naturale variabilità climatica che ha segnato da sempre la storia della Terra, di cui ad esempio ho trattato qui.

Le certezze hanno origini antiche

Fin dai primi decenni dell’Ottocento c’erano scienziati interessati a capire i meccanismi del riscaldamento dell’atmosfera, ben consci che questa da un lato è a contatto con lo spazio esterno, gelido, e dall’altro con la superficie calda della Terra; e per capire i meccanismi delle dinamiche atmosferiche occorreva innanzi tutto capire come il calore venga assorbito e trasportato in due direzioni: dal Sole verso la Terra e dalla superficie terrestre verso lo spazio esterno.

Questa comprensione risultava inoltre necessaria per capire come fosse stato possibile che nel passato geologicamente anche recentissimo le ben note aree temperate europee ed americane avessero vissuto lunghissimi periodi glaciali, di decine di migliaia di anni ciascuno, ricoperte da migliaia di metri di ghiaccio e le cui prove andavano accumulandosi proprio in quel periodo[2]. La paura di un possibile ritorno di quei periodi era figlia di quei tempi, visto che il ricordo della piccola era glaciale, che aveva interessato l’Europa dalla metà del XIV secolo fino alla metà del XIX, nella memoria storica, era, freschissimo!



Si andava quindi alla ricerca delle prove che potessero giustificare un simile cambiamento climatico.
 

Entro le prime decadi del XIX secolo, Jean-Baptiste Fourier, notissimo, e il meno noto Claude Pouillet, erano giunti a comprendere a sufficienza i meccanismi della termodinamica dell’atmosfera, su basi analitiche, ed i relativi processi di irraggiamento, nel 1822 il primo e nel 1838 il secondo. Fourier arriverà a sviluppare strumenti matematici potentissimi, lo sviluppo in serie per le funzioni periodiche, e la trasformata che porta il suo nome, per normalizzare le funzioni non periodiche: strumenti che nascono proprio per rispondere ad una questione termodinamica relativa al clima terrestre, proprio come Newton, in lite con Leibnitz, inventò il calcolo infinitesimale per supportare la sua visione del mondo[3].

Pouillet va oltre: riprendendo l’opera di Fourier scopre che la temperatura superficiale della Terra è influenzata dal diverso grado di assorbimento che l’atmosfera ha nei confronti delle due fonti di calore, ovvero quello che viene essenzialmente dal Sole e quello che arriva invece dalla superficie stessa; allo scopo di comprendere i motivi di questa differenza si spinge a fare delle ipotesi sul ruolo che hanno il biossido di carbonio o il vapore acqueo.

 


Nel 1856 Eunice Newton Foote, la cui storia merita di essere conosciuta, degna figlia di un omonimo del grande Isaac, a seguito di esperimenti mirati[4], scopre che il biossido di carbonio provoca un riscaldamento maggiore dell’aria e scrive: «Un’atmosfera carica di gas acido carbonico[5] darebbe alla nostra Terra una temperatura elevata; e se, come alcuni suppongono, in un periodo della sua storia l'aria fosse stata mescolata con esso in una proporzione maggiore di quella attuale, ne sarebbe derivata una temperatura necessariamente più alta».

Verso la fine del XIX secolo, John Tyndall e Svante Arrhenius, rispettivamente nel 1861 e nel 1896, vanno oltre ed iniziano a misurare gli effetti concreti di alcuni componenti dell’atmosfera, componenti che Tyndall chiama radiativamente attivi e che da soli bastano a giustificare i cambiamenti climatici del passato della Terra. Rifà i calcoli centinaia di volte ma deve arrendersi di fronte all’evidenza: anche piccolissime quantità di biossido di carbonio hanno un fortissimo potere riscaldante.

Arrhenius, che era svedese e temeva particolarmente gli effetti di un periodo glaciale sul suo paese, già naturalmente esposto a climi freddi, riesce a calcolare gli effetti proporzionali tra presenza di biossido di carbonio e tasso di riscaldamento e si sofferma in particolare sugli aumenti della concentrazione di CO2 derivante dalle attività umane, sia come emissione diretta insieme ad altri cosiddetti “gas serra” (come vapore acqueo o metano) capendo che persino attività quali la deforestazione hanno l’effetto di incrementare il tasso di biossido di carbonio e ovviamente deducendone un aumento crescente delle temperature medie.

 




Guarda il lato positivo…

Ma quello che colpisce di più è ciò che emerge in Arrhenius a seguito delle sue ricerche: una visione tutto sommato positiva del futuro dell’umanità a seguito del riscaldamento dell’atmosfera. Se l’obiettivo è evitare un ritorno a periodi glaciali allora ben venga non tanto il ruolo naturale del CO2 in atmosfera ma soprattutto il ruolo dell’umanità nell’emetterne notevoli quantità addizionali, causare quindi un innalzamento globale delle temperature. Scrive:

«Spesso sentiamo lamentarci che il carbone immagazzinato nella terra è sprecato dalla generazione presente senza alcun pensiero per il futuro, e siamo terrorizzati dalla terribile distruzione di vite e proprietà che ha seguito le eruzioni vulcaniche dei nostri giorni. Possiamo trovare una sorta di consolazione nella considerazione che qui, come in ogni altro caso, c'è del bene mescolato al male. Per l'influenza della crescente percentuale di acido carbonico nell'atmosfera, possiamo sperare di godere di epoche con climi più equi e migliori, specialmente per quanto riguarda le regioni più fredde della Terra, epoche in cui la terra produrrà raccolti molto più abbondanti che nel presente, a beneficio di una rapida propagazione dell'umanità»

E ancora:

«Benché il mare, assorbendo l'acido carbonico, agisca come regolatore di grandi capacità, incorporando fino a 5/6 dell'acido carbonico prodotto dobbiamo riconoscere che la piccola percentuale di acido carbonico in atmosfera potrebbe, con l'avanzamento dell'industria, cambiare notevolmente nel corso di pochi secoli

Questa visione, molto comune e piuttosto diffusa fino ai primi decenni del XX secolo è, ribadiamolo, figlia del suo tempo, del timore del ritorno delle grandi glaciazioni.

In maniera non dissimile nel 1938 Guy Callendar calcola molto accuratamente gli effetti del riscaldamento. Con delle proiezioni fino al 2200 (!) l’ingegnere ed inventore inglese stima le emissioni umane di biossido di carbonio pari a circa 5 miliardi di tonnellate l’anno (Gt); siamo in realtà quasi a 40! Calcola per l’anno 2000 335 parti per milione (ppm) di CO2 e per il 2100 fino a 400 ppm; siamo a 420 (anno 2023), in anticipo di quasi un secolo. E, considerando inequivocabile il rapporto causa-effetto della concentrazione di CO2 sul riscaldamento, scrive:

«Si può supporre che la produzione artificiale di questo gas incrementerà considerevolmente nei prossimi secoli. E’ probabile che si dimostrerà benefico per l'umanità in molti modi, oltre che per la produzione di calore elettricità. Ma in ogni caso, grazie all'incremento delle temperature, il ritorno dei mortali ghiacciai dovrebbe essere ritardato indefinitamente.» 

La paura del raffreddamento globale torna ancora, e riecheggia fino gli anni ’70 del XX secolo, quando c’era una certa tendenza, nel mondo accademico, a prevedere un forte raffreddamento della temperatura media nonostante, fin dal 1958, le ricerche (vedi il più recente post) di Charles D. Keeling (nella foto a sinistra, lo abbiamo già incontrato, qui), chimico e pioniere della nascente climatologia, avesse raccolto dati che dimostravano che la quantità di CO2 in atmosfera varia notevolmente nel tempo e da luogo a luogo[6] con cicli periodici di varia natura, influenzandone direttamente gli assorbimenti di calore e con una netta tendenza ad aumentare nel tempo.
 
E ancora nel 1975, Wallace Smith Broecker, (a destra) da molti considerato il padre della terminologia global warming[7], apparsa allora per la prima volta in una rivista scientifica, pubblica un articolo in cui mette nero su bianco che «entro un decennio, l’attuale tendenza al raffreddamento, lascerà il posto ad un pronunciato riscaldamento indotto dal biossido di carbonio (…) Una volta che ciò accadrà l’aumento esponenziale del biossido di carbonio atmosferico tenderà a diventare un fattore significativo e all’inizio del prossimo secolo avrà portato la temperatura planetaria media oltre i limiti sperimentati negli ultimi mille anni.»[8]




Meglio caldo che freddo?

Ma torniamo a quella visione benevola, quella di Arrhenius che appunto da buon svedese, era oltremodo preoccupato da un ritorno di climi freddi, anzi freddissimi. Visione condivisa da molti suoi contemporanei. 

È paradossale, e di paradossi tratteremo adesso, ma i negazionisti, in malafede, ricordano a volte e da vicino talune posizioni di quei primi ricercatori, che già a cavallo tra XIX e XX secolo, avevano provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il rapporto diretto di causa-effetto tra concentrazione di gas serra, in particolare biossido di carbonio, e aumento delle temperature. Un punto di vista per nulla preoccupato e anzi benevolo, perché si sosteneva che tutto sommato un aumento delle temperature medie avrebbe evitato il ritorno ad un periodo glaciale come nei millenni passati. Meglio caldo che freddo insomma.

Con riferimento alle popolazioni che vivono in quella fascia del pianeta che ricade nella cosiddetta “zona temperata boreale”, o poco più a nord, (più o meno la fascia verde nell’immagine), questo ragionamento potrebbe anche andar bene. E a ben vedere è quella fascia del pianeta che ha assistito per prima alla nascita dell’agricoltura e delle prime civiltà, spandendosi in seguito a macchia d’olio ed impiegando per farlo qualche millennio, restando sempre più o meno alle stesse latitudini, dai territori della Mezzaluna Fertile fino agli estremi occidentali dell’Europa e a quelli orientali del continente asiatico, come ci racconta Jared Diamond nel suo bel libro “Armi, acciaio e malattie”. Tuttavia, quando si tratta di civiltà umane, non ci si può accontentare delle sole cause climatiche per giustificare determinate evoluzioni. L’esempio dell’ascesa e del declino dei vichinghi in Groenlandia tra X e XIII secolo è uno dei tanti; quando il clima si fece più freddo la cosa non diede particolarmente fastidio alle popolazioni indigene degli inuit, che provenivano da nord. Questi traevano sussistenza da una cultura basata su caccia e pesca, ed erano usi a vestire di pelliccia; i vichinghi erano agricoltori e pastori, non abbandonarono mai la tradizione di vestire di stoffe, inadatte al clima artico. Un altro esempio di imprevedibilità dovuta all’adattamento umano ci viene da un recente studio del CNR. 

Secondo i ricercatori, le comunità archeologiche della Mezzaluna Fertile erano molto più versatili di quanto si potesse immaginare; la variabilità climatica, che porta a un aumento dello stress o al miglioramento delle condizioni ambientali di fondo, sembra solo modulare le dinamiche culturali e di sussistenza esistenti, che tuttavia non sono direttamente attribuibili al cambiamento climatico stesso. Le variazioni climatiche giocano un ruolo limitato nel governare le dinamiche delle comunità complesse, che dimostrano capacità di adattamento e di reazione ai cambiamenti e con grandi abilità di resistere a condizioni apparentemente avverse. In altre parole, le variazioni climatiche agirebbero solo come spinta per accelerare processi culturali già in atto.

Alla via così…

E allora facciamo finta che non esistano eventuali (e certissime) turbative che il cambiamento climatico può indurre pressoché ovunque in termini di fenomeni estremi, causa diretta o indiretta del riscaldamento[9]; così facendo quella ristretta fascia di territorio potrebbe addirittura trarre beneficio dal riscaldamento, con buona pace dell’industria turistica dello sci ovviamente (…)[10]. Pensate su quanti milioni di ettari per nuove coltivazioni cerealicole potrebbero contare i russi dopo lo scioglimento del permafrost, e chi se ne frega (…) se centinaia di centri abitati dovranno essere ricostruiti chissà dove dopo il crollo delle fondamenta basate su terreni che si suppongono sempre gelati: accade già oggi. Anzi, il gas serra dieci volte più assorbente del CO2, il metano contenuto nei terreni gelati, verrebbe liberato in atmosfera con retroazione positiva (…) a riscaldare ulteriormente l’atmosfera di quelle zone. Ma tutto quel grano, a chi lo venderanno visto che gran parte della fascia compresa tra i due tropici sarà stata pressoché desertificata e spopolata (…)?
Il ricco Occidente ne uscirà tutto sommato ancora una volta vittorioso: dopo tutto abbiamo i mezzi e la tecnologia necessari per adattarci al cambiamento climatico e un riscaldamento è meglio di un raffreddamento; meno territorio sottoposto ai rigori di inverni sempre più rigidi. Quindi se il riscaldamento globale significa più terre da coltivare perché sottratte al ghiaccio o comunque a climi estremi, maggiori risorse, meno problemi di salute perché col caldo non ci si ammala come col freddo, ci si lava di più e si è meno soggetti ad epidemie[11], allora la cosa può anche giustificare certe posizioni negazioniste (…). E poi vuoi mettere quanta benzina e gasolio risparmiati in Yakutia d’inverno che oggi sono impiegati per tenere accesi i motori delle auto e dei camion 24 su 24 che altrimenti congelerebbero all’istante (…)?

Non facciamo dunque nulla perché tanto non c'è nessuna emergenza e al massimo andremo a star meglio (…). 

L’Italia, o la Grecia e persino la Spagna o il sud della Francia, meriterebbero un discorso a parte. Innanzi tutto la linea di costa dovrà essere spostata sempre più verso l’interno a causa dell’innalzamento del livello medio del Mediterraneo: crescita non compensata dall’aumentato tasso di evaporazione che renderà il mare sempre meno pescoso tra acidificazione e aumento della salinità complessiva. Non basta? 

Potremmo comunque adattarci? Ma sì, tutto sommato non abbiamo la potenza economica degli Emirati Arabi Uniti per trasformare Roma in una novella Abu Dhabi ma sicuramente il Grande Raccordo Anulare sopravviverebbe alla trasformazione della capitale in una città in stile marocchino. E nel frattempo il turismo rivierasco romagnolo si sarà spostato sui fiordi norvegesi (…).

 

Pronti all’accoglienza?

E’ di queste ore la notizia che un miliardo e mezzo di persone sono pronte a migrare dal sud del mondo verso il nord del mondo, e questo siamo noi: l’Occidente di cui scrivevo. Anzi, entro la fine del secolo il cambiamento climatico potrebbe portare, tra siccità da un lato e paradossalmente inondazioni dall’altro, qualcosa come tre miliardi e mezzo di persone a migrare o cercare di farlo. Un quinto della superficie terrestre potrà subire un incremento significativo di gravi inondazioni della durata di settimane, costringendo gli abitanti a spostarsi; e in opposizione all’abbondanza d’acqua centinaia di milioni di persone che dipendono dall’acqua dei ghiacciai resteranno letteralmente a bocca asciutta.

 

Quindi, se tutto sommato il nord del mondo potrebbe adattarsi ad un cambiamento climatico così come già fecero le popolazioni europee durante la piccola era glaciale, con una bella sfoltita[12] dovuta a carestie, epidemie, malattie e chi più ne ha più ne metta, va ancora bene.

Ma è pronto il nord del mondo a riconoscere ed accettare le conseguenze di un cambiamento climatico di tale portata? Centinaia di milioni se non miliardi di esseri umani destinati a morire e miliardi di altri esseri umani in migrazione continua dal sud del mondo che diventerà sempre più arido e invivibile, verso il nord del mondo, ovvero noi.

L’atteggiamento che paesi come gli Stati Uniti e la pressoché totale compagine europea hanno nei confronti dei flussi migratori non promettono né premettono nulla di positivo; e proprio in questi giorni le richieste di essere accoglienti vengono respinte al mittente inequivocabilmente.

Siete disposti ad accettare uno scenario del genere? Se sì, accomodatevi perché il futuro è già qui.

Dimenticavo, l’Europa si scalda al doppio della velocità con cui lo fa il resto del mondo (…)

Bibliografia:

Gianluca Lentini. La Groenlandia non era tutta verde
Jared Diamond. Armi acciaio e malattie
Ian Stewart. Le 17 equazioni che hanno cambiato il mondo
Wolfgang Behringer. Storia culturale del clima


[1] E ci fanno persino calcoli!
[2] Già a metà Ottocento lo svizzero Louis Agassiz ne aveva fornito prove.
[3] Vedi qui.
[4] Un paio di tubi di vetro per contenere aria o suoi miscugli, una pompa per fare il vuoto, un giardino assolato od ombreggiato, un paio di termometri. E tanto ingegno.
[5] Acido carbonico era il nome dato allora al biossido di carbonio, CO2, (noto anche come anidride carbonica, definizione comunque non in linea con la nomenclatura chimica ufficiale).
[6] Si veda anche un mio precedente post.
[7] Essere così definito non gli fu mai cosa gradita. Personalmente non amo questa terminologia, quel warm potrebbe anche ricordare qualcosa di gradevole, un caminetto acceso, scene romantiche.
[8] Su questo blog ho scritto numerosi post in relazione alle evidenze del cambiamento climatico in atto: oltre a quanto indicato nella nota 4 ad esempio qui, e qui.
[9] Si pensi agli affetti de El Niño. Ne ho scritto qui.
[10] (…) indica ironia e paradosso.
[11] Il già citato Behringer lo racconta chiaramente: dato che col freddo ci si veste di più e l’igiene tende a scarseggiare, pulci e pidocchi stanno invece benissimo. I tedeschi il pidocchio del corpo umano lo chiamano Kleiderlaus, pidocchio dei vestiti.
[12] Nella tabella il grande collasso demografico a cavallo del XIV ha le sue origini dirette nelle epidemie e nella catastrofica carestia di quel periodo. Entrambi causati in parte anche dalle pessime condizioni climatiche.

(*) Il riferimento ironico è a quanto dichiarato dall'emiro Sultan Al Jaber, leader degli Emirati Arabi Uniti, paese ospitante la COP28.

Nessun commento:

Posta un commento

L'Amministratore del blog rimuoverà a suo insindacabile giudizio ogni commento ritenuto inadeguato od inappropriato.
Per motivi tuttora ignoti anziché un account Google come da impostazione, ne viene richiesto uno Blogger. In altre parole, per ora non potete sottoporre commenti. Spiacente.