Nel post precedente abbiamo visto come vada diffondendosi, in gergo social si direbbe virale, una forma di pessimismo climatico, diffusa soprattutto tra i giovani. E come occorre mettere in campo una serie di iniziative in grado di sfidare la sfiducia, la disillusione, la perdita di ogni speranza che si possa invertire la rotta, diventa giorno dopo giorno fondamentale. Qui non si tratta di controbattere posizioni antiscientifiche o pseudoscientifiche, ma di convincere gli sfiduciati convinti che sia troppo tardi che non è vero. Opporsi al catastrofismo climatico quindi. Ma da dove nasce questa sorta di pessimismo che porta quasi automaticamente a tirare i remi in barca e smettere di agire?
Diamoci una mossa!
Che cosa porta un essere umano,
ancorché raziocinante ed in grado di capire, all’inazione,
a quell’apatia, direi piuttosto ignavia, che lo affligge in determinate
condizioni? Autodifesa. Qualcosa di atavico,
legato ai tempi in cui eravamo più facilmente prede che predatori, e dove ciò
che contava erano risposte e azioni immediate, spesso istintive, quelle che ti
salvavano la vita.
Origini Il sociologo norvegese Per Espen Stoknes,
esperto di economia e comunicazione ambientale, riassume questi ostacoli all’azione, in cinque D. Distance, Doom, Dissonance, Denial e iDentity.
Innanzi tutto i problemi del clima appaiono distanti, in senso spaziale e cronologico. Chi ci parla di gigatonnellate (miliardi di tonnellate) e misurazioni con relativi dati, annotati per decenni, secoli o millenni, non si rende sempre conto che il nostro cervello non è fatto per comprendere certi ordini di grandezza. E restando lontano da quanto siamo in grado di percepire ci fanno sentire del tutto irrilevanti. La nostra realtà è molto più limitata e ristretta ai problemi quotidiani. La questione climatica rimane quindi remota per la maggior parte di noi, per diversi motivi. Non possiamo vedere il cambiamento climatico. I ghiacciai che si sciolgono sono solitamente lontani, così come i luoghi sulla Terra che ora stanno subendo l'innalzamento del livello del mare, inondazioni più gravi, siccità, incendi e altri sconvolgimenti climatici. Potrebbe colpire altri, non me o i miei parenti. E gli impatti più gravi sono lontani nel tempo: nel prossimo secolo o più lontano. Nonostante alcuni affermino che il riscaldamento globale sia già in atto, sembra ancora lontano dalle preoccupazioni quotidiane.
Il catastrofismo, approfondito nel post precedente, è un’altra azione di difesa del cervello, ci fa apparire gli effetti
caotici del cambiamento climatico come un insieme di catastrofi, generando
assuefazione e la convinzione che qualsiasi cosa accadrà sarà inevitabile,
qualunque sia l’azione che potremmo intraprendere, sarà stato inutile. Sui
social gli hanno assegnato nome e hashtag: doomism e,
come non bastasse, spopola tra gli attivisti un novello «Ok Doomer!». Quando
il cambiamento climatico viene inquadrato come un disastro incombente che può
essere affrontato solo con perdite, costi e sacrifici, si crea il desiderio di
evitare l'argomento. Siamo prevedibilmente avversi alle perdite. In mancanza di
soluzioni pratiche, l'impotenza cresce e il messaggio di paura si ritorce
contro di noi. Abbiamo sentito dire «la fine è vicina» così tante
volte che ormai non ci rendiamo più conto di questo.
Un’altra difesa spontanea è
quella che tende ad evitare di farci sentire in dissonanza:
la discordanza tipica del predicatore che razzola male. Crediamo nella
rivoluzione ambientale, conosciamo gli effetti del cambiamento climatico a
lungo termine e ci preoccupiamo di figli e soprattutto nipoti, ma
continuiamo ad agire come se non ci fosse un domani. E allora accettiamo tutto
questo per evitare di sentirci a disagio cercando giustificazioni: cosa vuoi
che conti il singolo gesto della singola persona? Il clima è sempre cambiato (qui un approfondimento, e anche qui).
Narrazioni che ci gratificano e di fatto orientano le nostre azioni. Se ciò che
sappiamo (ad esempio, il nostro consumo di energia fossile contribuisce al
riscaldamento globale) è in conflitto con ciò che facciamo (guidare, volare,
mangiare carne di manzo o riscaldarci con combustibili fossili), allora si
instaura una dissonanza. Lo stesso accade se i miei atteggiamenti sono in
conflitto con quelli delle persone importanti per me. In entrambi i casi, la
mancanza di comportamenti appropriati e di sostegno sociale indebolisce gli
atteggiamenti climatici nel tempo. Ma mettendo in dubbio o minimizzando ciò che
sappiamo (i fatti), possiamo sentirci meglio riguardo al nostro modo di vivere.
Pertanto, il comportamento effettivo e le relazioni sociali determinano
l'atteggiamento a lungo termine.
Di errore in errore si arriva
infine alla negazione, anche inconscia.
Razionalmente si conosce la gravità di ciò che sappiamo, ma facciamo finta di
non saperlo, selezionando solo le informazioni (lo chiamano cherry picking, ne scrissi qui)
che fanno comodo (bias della
conferma), ignorando, e controbattendo all’occorrenza, tutto ciò e tutti coloro
che la smentiscono. Fino, come sappiamo, a creare anche teorie complottiste, millantando
presunte manipolazioni di scienziati o tecnici, e insinuando l’esistenza di
piani occulti dietro alle politiche per il clima. Quando neghiamo, ignoriamo o
evitiamo in qualche modo di riconoscere i fatti inquietanti sul cambiamento
climatico, troviamo rifugio dalla paura e dal senso di colpa. Unendoci al
negazionismo e alla presa in giro espliciti, possiamo vendicarci di coloro che,
a nostro avviso, criticano il nostro stile di vita, credono di saperne di più e
cercano di dirci come vivere. La negazione si basa sull'autodifesa, non
sull'ignoranza, sull'intelligenza o sulla mancanza di informazioni.
Persino l’identità culturaledi ciascuno di noi genera
autodifesa: nei più conservatori genera minor disponibilità ad accettare norme
stringenti da parte delle istituzioni governative, a ridicolizzare gli
attivisti del clima. Il rifiuto di subirle porta costoro a seppellire o calpestare
la realtà. Filtriamo le notizie attraverso la nostra identità professionale e
culturale. Cerchiamo informazioni che confermino i nostri valori e le nostre
idee, escludendo ciò che li mette in discussione. Se, ad esempio, chi ha valori
conservatori sente da un progressista che il clima sta cambiando, è meno
propenso a credere al messaggio. L'identità culturale prevale sui fatti. Se una
nuova informazione ci impone di cambiare noi stessi, è probabile che
l'informazione venga persa. Incontriamo resistenza alle richieste di
cambiamento della nostra identità.
Se a tutto ciò aggiungiamo due
nuovi fenomeni, il free
riding e l’ansia climatica (ecoansia) la
situazione si aggrava.
Nel primo caso, se sappiamo che
qualcuno fa o sta facendo qualcosa, possiamo stare tranquilli, se ne occuperà
qualcun altro di salvare il mondo! E, a quanto pare, a nulla sembra siano valsi
finora gli sforzi di costruire politiche collaborative in grado di ridurre gli
egoismi umani costruendo un’architettura di scelta in grado di limitare tale
rischio.
L’ansia climatica che colpisce e
tocca in varie forme adulti e giovani, soprattutto questi ultimi, se si esclude
quella a breve termine che colpisce gli anziani che si apprestano all’arrivo dell’estate
seriamente preoccupati. Per quanto non sia ancora riconosciuta come condizione
diagnosticabile, ci sono chiare evidenze tali per cui avere a che fare con gli effetti del cambiamento
climatico aumenti il rischio di depressione, fiacchezza e, per chi ha già
problemi o è affetto da malattie mentali, anche profonda angoscia, disagio
mentale, disturbo post traumatico da stress, propensione al suicidio e
ulteriore deterioramento.
Nel 2020 un sondaggio in Inghilterra
ha evidenziato come il 57% tra giovani e bambini si definiscano angosciati per
la crisi climatica e lo stato di degrado dell’ambiente. Il fenomeno poi, sia
per adulti che ragazzi, si appesantisce anche perché tocca sempre più il
portafoglio: difendersi da un clima cattivo, significa dover progressivamente
spendere più soldi (mezzi privati da sostituire via via, case da efficientare e
certificare), oltre che patire limitazioni.
Contromisure Al fine di superare questi cinque
ostacoli e soprattutto la dissonanza cognitiva, Espen Stoknes offre altrettante
soluzioni, le cinque S, che sono le sue cinque soluzioni: Social network, Supportiveframings,
SimpleActions, Storytelling,
Signals.
Social
network. Dobbiamo usare il potere dei social network per far
arrivare i messaggi sul clima. La pressione dei pari è uno strumento potente.
In uno studio classico, i ricercatori hanno testato l'installazione di un
cartello in una camera d'albergo che informava che il 75% degli ospiti di
quella stanza aveva riutilizzato gli asciugamani. Il tasso di riutilizzo è
aumentato drasticamente, sebbene un cartello simile, che invitava le persone a
riutilizzare gli asciugamani per risparmiare acqua, abbia avuto scarso effetto.
Gli esseri umani vogliono essere come coloro che ci circondano. Pertanto,
dovremmo dare risalto alle persone popolari che stanno facendo la cosa giusta,
come ad esempio sta facendo la Green Sports Alliance. I pari sono anche i
migliori messaggeri per cambiare l'atteggiamento nei confronti del cambiamento
climatico attraverso conversazioni faccia a faccia.
Supportive
framings (inquadramenti di supporto). La maggior parte dei messaggi
sul clima è racchiusa in concetti di catastrofe, costi e sacrifici. Gli studi
hanno individuato inquadramenti che generano maggiore supporto per i temi
climatici. Tra questi, i più importanti sono quelli relativi a salute,
assicurazione e opportunità. Quindi: il clima è in realtà una questione di
salute, non di sacrifici. È ricco di opportunità piuttosto che di costi. E
dovrebbe essere considerato come una questione di gestione del rischio e di
assicurazione, più che come una catastrofe imminente.
Simple
Actions (azioni semplici). Prendere decisioni rispettose del
clima nella vita di tutti i giorni può essere difficile: siamo vincolati ad
automobili, centri commerciali e prodotti alimentari ad alta intensità di
combustibili fossili. Ma possiamo rendere le decisioni rispettose del clima per
energia, alimenti ed elettrodomestici la scelta più semplice e predefinita.
Disponibilità, rilevanza e promemoria tempestivi rendono le opzioni climatiche
convenienti. Rendendo più semplice per tutti vivere e fare acquisti green,
invertiamo la dissonanza e generiamo sostegno per le politiche.
Storytelling (narrazione). Siamo
stanchi della storia dell'apocalisse climatica, con orsi polari che annegano e
ci viene detto che abbiamo torto. L'inferno non vende. Servono storie di
imprenditori e scienziati che hanno successo con nuove soluzioni. Le visioni e
le narrazioni che dobbiamo raccontare descrivono una società in crescita verde
con migliori mezzi di sussistenza, città più intelligenti attorno alle quali la
natura si sta rinaturalizzando in modo resiliente.
Signals (Segnali). Infine, meno
attenzione agli indicatori globali sulla velocità con cui la CO2 si
accumula nell'atmosfera o sulla velocità con cui l'Antartide si sta
sciogliendo. Piuttosto, abbiamo bisogno di nuovi segnali e indicatori per
sapere che la nostra società sta facendo progressi nella risposta alla crisi.
Segnali personalizzati, che misurino quanto aziende, città, stati, amici e noi
stessi stiamo contribuendo – mensilmente o quotidianamente – alla grande svolta
ecologica.
Fortunatamente, esiste una
cornucopia di alternative e iniziative simili a queste cinque strategie, che
vengono sperimentate e testate oggi. Si tratta di strategie più positive,
poiché si collegano meglio ai bisogni umani di benessere e fluidità.
Riassumendo
Social, riuscire cioè a
portare nella nostra quotidianità le norme sociali per diffondere le buone
azioni creando comunicazioni che evidenziano i buoni comportamenti dei nostri
vicini. Quanto più si diffondono tanto più, per imitazione e desiderio di
essere come gli altri, le perseguiremo.
Supporto o Sostegnodelle buone azioni in modo che le scelte giuste
siano valorizzate come sane per ciascuno di noi, per la salute di ognuno ed
anche di tutti.
Semplicità, rendere le scelte virtuose facili, accessibili, congegnate
con cura.
Signal, fornire feedback
che motivano e generano anche attenzione diffusa intorno ai comportamenti virtuosi.
Storie, raccontare storie positive di chi è riuscito a cambiare, di chi
per esempio ha compiuto scelte con soddisfazione e senza pentimento. Le storie
positive sono infatti contagiose, la nostra innata preferenza per le storie a
lieto fine le rende memorabili, diventano fatti degni di essere condivisi anche
sui social: e torniamo così alla primaS.
All’inizio del XIX secolo la
maggior parte dei geologi apparteneva ai catastrofisti.
Molti naturalisti, in base alle evidenze fornite dalle rocce e più spesso dal
loro contenuto fossile, si convinsero che la storia della Terra aveva alternato
periodi di stabilità ad altri caratterizzati da episodi violenti, da cataclismi
diffusi ovunque, e ogni cataclisma avrebbe portato a profondi cambiamenti
nell’aspetto del pianeta e negli animali e vegetali che lo popolavano. I
geologi allora erano convinti che ogni cambiamento di stratificazione geologica
corrispondeva ad un evento catastrofico. Uno dei principali esponenti di questa
visione della storia della Terra fu il grande naturalista francese George Cuvier (a
sinistra nell’immagine precedente). In tal modo si potevano giustificare
scientificamente anche i diversi miti del cataclisma universale, presenti in
varie culture a cominciare dal racconto biblico del “diluvio universale”. Non
pensate però che Cuvier fosse uno sprovveduto: fu colui che creò la moderna
paleontologia, ed era in grado di ricostruire un intero animale a partire da
pochi resti!
Tutto ciò venne messo in
discussione da un giovane avvocato divenuto geologo, Charles Lyell (a destra),
che diventò l’esponente principale del movimento opposto, l’uniformitarismo, detto anche attualismo, che in poche parole voleva
sbarazzarsi, coraggiosamente per l’epoca,
dei cataclismi e della fede negli eventi soprannaturali come il diluvio
biblico: affermando che le cose in passato si sono svolte più o meno come vediamo
svolgerle adesso, nonostante l’attività geologica del pianeta anche intensa,
con linearità e uniformità. Lo studioso inglese contribuì alla nascita della
moderna geologia che aveva, tra i suoi principi fondanti, una visione della
lunghissima storia della Terra, spiegabile con l’osservazione di quanto avviene
tuttora[1].
Le sue teorie furono anche fonte di ispirazione per Charles
Darwin, il fondatore della biologia evoluzionistica.
Lo straordinario
disegno nella seconda di copertina dell'opera di Lyell "Principles of
geology",
in cui si illustra schematicamente l’origine e la trasformazione dei tipi di
roccia.
Come molte teorie scientifiche,
anche l'uniformitarismo è stato soggetto a critiche e revisioni. Una delle
principali critiche riguarda la visione radicale, che sostiene che i ritmi e
l'intensità dei processi geologici sono costanti nel tempo. In realtà oggi
sappiamo che sia i processi geologici superficiali, come l'erosione fluviale,
sia quelli endogeni, come i movimenti delle placche tettoniche, variano in
velocità e intensità attraverso le ere geologiche. Anche le fluttuazioni del
livello del mare hanno avuto, nel passato, ritmi e intensità diverse da epoca
ad epoca.
Altre critiche riguardano la
mancanza di considerazione dell'impatto umano sui processi naturali nella
formulazione originaria del principio dell'attualismo, nonché le difficoltà nel
trovare corrispondenze moderne per tutti i processi geologici del passato.
Tuttavia, l'uniformitarismo continua a essere uno dei fondamenti del pensiero e
del metodo geologico contemporaneo. Attualmente, sappiamo con certezza che,
sebbene i processi lenti e continui siano prevalenti nella modellazione della
vita e della superficie terrestre, ci sono stati anche eventi rari,
catastrofici e improvvisi, che ebbero un ruolo significativo, soprattutto in
termini di distruzione pressoché istantanea, in termini di tempo geologico,
della maggioranza, a volte la quasi totalità, delle specie animali e vegetali:
le cosiddette estinzioni di massa.
Una visione sbagliata che va
arginata E, dopo questo preambolo
ampolloso ma doveroso, di catastrofe in catastrofe si arriva ai giorni nostri,
tempi in cui dilaga la visione catastrofica del cambiamento climatico (così come inteso dal punto 2 dell’art. 1 del documento UNFCCC). Visione portata avanti da
catastrofisti, che sono convinti che il mondo abbia già perso la battaglia
contro il riscaldamento globale.
Questa idea è figlia illegittima
di un’altra posizione: l’adattamento. Fino ad
una trentina di anni fa la priorità era la mitigazione,
ridurre e contenere le emissioni di gas serra, decarbonizzare. Ma negli ultimi
tempi sembra che adattarsi al cambiamento climatico sia la panacea di ogni
male: ed è una posizione dettata da rassegnazione e opportunismo, che generano
ignavia ed inazione.
Le persone che hanno adottato
questa visione sono convinti che non si riuscirà mai a tagliare le emissioni di
gas serra del quantitativo necessario per invertire la tendenza, o per lo meno
per contenerla al di sotto dei limiti auspicati da IPCC, e allora tanto vale puntare
sull’adattamento. Come se il sovrappeso dovuto ad ingordigia di cibo pessimo
fosse curabile solo mettendosi a correre anziché farlo sì, ma
contemporaneamente all’adottare un’alimentazione sana.
Mitigazione
e adattamento devono andare di pari passo. Altrimenti sarà come un armiamoci
e partite ordinato dai paesi occidentali, che in teoria possono permettersi
e hanno i mezzi per adattarsi, a danno del resto del mondo abbandonato al suo
destino, ignari degli effetti collaterali, a cominciare da ondate di migrazione
massiva ad oggi inimmaginabili. E questo non è catastrofismo sociale.
Le soluzioni intelligenti affrontano i grandi problemi contemporaneamente.
Fermo restando quindi la
mitigazione dobbiamo iniziare anche a
prepararci, e dovremo farlo in fretta perché i tassi di cambiamento procedono
rapidi, a ritmi ormai inferiori a quelli dei cambi generazionali.
Dobbiamo rispondere al
cambiamento climatico con rapidità con una visione di medio-lungo periodo
perché, per quanto virtuosi si possa essere perseguendo gli obiettivi più
ambiziosi di riduzione delle emissioni, la temperatura media della Terra nei
prossimi decenni continuerà ad aumentare: la Terra non è, soltanto un sasso al Sole, che si raffredda se messo all’ombra!
E infine, per quanto mitigazione
e adattamento siano complementari e necessari, quest’ultimo dovrà essere visto
in termini di contenimento dei costi economici, sociali e ambientali causati
dal cambiamento climatico per mezzo di opere, infrastrutture, istituzioni e
pratiche di comportamento corrette.
Il cambiamento climatico è
innanzi tutto un problema di ordine sociale, con implicazioni
drammatiche per una parte gigantesca dell’umanità.
Quella parte da sempre ignorata dell’umanità.
Ciò che una volta veniva chiamato sud (globale) del Mondo e
che ora, a comprendere minoranze che non necessariamente vivono a sud
dell’Equatore ed altre comunità emarginate, è stato chiamato MAPA, Most Affected People and Areas.
Torniamo in tema
Anche se gli scienziati affermano
che sia sbagliato, la convinzione che ci sia poco o nulla che si possa fare per
invertire effettivamente il cambiamento climatico su scala globale, si va
diffondendo online, da posizioni tutto sommato razionali e ragionevoli fino a
punti di vista del tutto catastrofici che prevedono l’estinzione dell’umanità.
In molte testimonianze presenti
sulle piattaforme social più diffuse ci sono
posizioni di persone che si sentono sopraffatte, ansiose e addirittura depresse
(c’è un termine specifico, ecoansia), e molte di
queste contengono anche appelli agli attivisti ed agli scienziati affinché
diano speranza. Alla domanda frequente «Convincetemi che c'è qualcosa là
fuori per cui vale la pena lottare, che alla fine possiamo ottenere una
vittoria, anche se solo temporanea.» c’è chi sa rispondere, e lo fa nel
migliore dei modi.
Una tra i tanti è Alaina Wood, una scienziata
specializzata in sostenibilità che vive in Tennessee. Su TikTok è conosciuta
come thegarbagequeen,
e molti dei suoi interventi meritano di essere visti e ascoltati. Questa ragazza, da anni, fa comunicazione ambientale della miglior qualità. Il suo ruolo è soprattutto quello di dare speranza ad un numero enorme di giovani che, non solo per opportunismo e rassegnazione, si sentono sopraffatti dal cambiamento climatico, e arrivano a posizioni catastrofiste, convinti che non ci sia più nulla da fare. E' sbagliato. Ma va loro detto nel modo giusto.
La mission di Alaina è sfidare
il pessimismo climatico, ruolo che ha abbracciato con un certo senso di urgenza
perché in una parte consistente, e crescente, dell’opinione pubblica si
rinuncia perché si è convinti che sia troppo tardi: perché comportarsi in un
certo modo allora? E il pessimismo porta all'inazione sul clima, che è
l'opposto di ciò che dovremmo fare.
La posizione «ormai è troppo
tardi» è tra l’altro una delle caratteristiche posizioni negazioniste a cui
arriva o cerca di arrivare il negazionista tipico, o chi esprime scetticismo
radicale, qualunque sia la cosa che nega. L'ultima posizione, la più disperata
dopo averle tentate tutte. I negazionisti, che sia clima o virus, prima negano,
poi negano le responsabilità quando non possono più farlo con i fatti,
scaricano colpe altrove, poi minimizzano; quando non riescono più a fare tutto
questo cercano di salvaguardare il profitto il più possibile, se si parla di
regole iniziano a dire questo no, quest'altro nemmeno, non potete fermare tutto
ecc. E alla fine, disperati «tanto ormai è tardi» buttato lì. Il
negazionismo in cinque mosse.
Ma le indicazioni per
un’inversione della tendenza ci sono. Ancora una volta IPCC, nel suo rapporto
più recente, ha delineato un piano dettagliato che potrebbe aiutare il mondo a evitare gli effetti
peggiori dell'aumento delle temperature. Certo, i tagli delle emissioni di gas
serra dovrebbero essere «rapidi, profondi e immediati». E nel rapporto
emerge ancora una volta il binomio: adattamento & mitigazione.
Le origini dell’apatia
Un sondaggio,
ancora molto attuale, condotto su migliaia di cittadini provenienti da 17
nazioni, ha messo in evidenza che la stragrande maggioranza degli intervistati è
disposta a cambiare il proprio stile di vita per affrontare il problema del
cambiamento climatico.
Ma, quando è stato chiesto loro
quanto fossero sicuri che un'azione per il clima avrebbe ridotto
significativamente gli effetti del riscaldamento globale, più della metà ha
risposto di avere poca o nessuna fiducia.
Il grado di sfiducia inoltre, dato importante, cresce col diminuire dell'età del campione esaminato. Più si è giovani più si tende a manifestare preoccupazione per gli effetti del cambiamento climatico: c'è quindi convinzione e consapevolezza che questi saranno proporzionalmente più evidenti e intensi col passare degli anni.
Il pessimismo attinge a quel
senso di mancanza di speranza, esagerandolo.
Non si tratta di avere a che fare
o di confrontarsi con negazionisti del cambiamento climatico, o di qualsiasi
altra forma di disinformazione diffusa sui social media, non si deve rispondere
alla negazione, ad esempio, di chi dice che i combustibili fossili non causano
il cambiamento climatico; si tratta invece di affrontare chi dice che sia
troppo tardi.
Trattandosi del mondo dei social
media occorre inoltre tenere conto che moltissimi video che creano disinformazione che può causare danni, con contenuti pseudo o antiscientifici, nonostante la dichiarazione
d’intenti dei gestori delle varie piattaforme, non vengono rimossi perché,
laconicamente non violano le regole di pubblicazione, e la cosa più
paradossale è che piattaforme come TikTok o Facebook affermano di collaborare
con fact-checker accreditati per «limitare la diffusione di informazioni
false o fuorvianti sul clima». Non pervenuto!
Il pessimismo è particolarmente
diffuso tra i giovani, proprio la generazione che inizierà ad avvertire
sensibilmente gli effetti peggiori del cambiamento climatico. Ci sono attivisti
per il clima che sono molto preoccupati e pur volendo cambiare le cose, sentono
il bisogno di diffondere contenuti basati sulla paura per riuscirci.
Poi ci sono persone che sanno che
la paura in generale diventa virale e si limitano a seguire le tendenze, senza necessariamente
capirne i contenuti scientifici.
E ciò conferma che la diffusione
e il rilancio di contenuti come quelli di Alaina Wood diventa ancora più
urgente e doveroso. Ad evitare sia le posizioni scettiche, che considerano le
affermazioni dei climatologi delle esagerazioni grossolane, sia quelle
catastrofiste che vivono il presente perché, secondo loro, a nulla serve
pianificare qualcosa di diverso. E non aiuta nemmeno l’umorismo fatalista,
piuttosto diffuso su quelle piattaforme.
E tutto ciò al netto della
sistematica e programmata diffusione di notizie false e pessimismo preconfezionato,
una vera e propria propaganda pro negazionisti.
Speranza Ma la
speranza, c’è? Sì.
Non manca assolutamente nulla per
agire, e non solo. Dal mondo arrivano dozzine di esempi grandi e piccoli, che
dimostrano benefici concreti e tangibili, ambientali, sociali ed economici: è
attraverso queste esperienze, ancora troppo poco note, che si alimenta e si
amplifica la speranza per il futuro. Molte di queste esperienze sono raccontate
sia sul libro di Lorenzo Colantoni “Lungo la corrente” che su quello di Giulio Betti “Ha sempre fatto caldo!”, entrambi da me recensiti sulla rubrica “La scienza e la tecnica raccontate”
ospitata sulle pagine della Sigea. E, per
gli amanti dei video brevi tipici dei social, per i giovani (!), la solita
Alaina ne racconta a dozzine sul suo canale dedicato alle “Good Climate News” o, come punto di partenza, l’iniziativa di WWF e Nazioni
Unite del “World Restoration Flagship”.
Segnalo anche la Nature Restoration Law, legge della Comunità Europea, recentemente approvata, di
cui ho parlato in questo mio post.
La mitigazione e l’adattamento, i
due modi per attenuare e poi risolvere il problema del cambiamento climatico,
contengono numerose tecniche e indicazioni operative affinché diventino
efficaci. Occorre quindi investire sia nella mitigazione che nell’adattamento,
e quindi in un futuro dove la lotta al cambiamento climatico diventa
un’opportunità irripetibile per costruire un mondo migliore.
______________________________________________________ Nota: come seguito quasi naturale di questo post, nel successivo verranno esaminate le cause che portano dal pessimismo climatico, quasi automaticamente, a tirare i remi in barca e smettere di agire.
[1] Per
dovere di cronaca va detto che Lyell estese ed ampliò i principi generali
dell’uniformitarismo già dettati da un altro grande geologo del passato: James Hutton.
Premessa Quale immagine della scienza
hanno i filosofi, ammesso che sia così semplice ridurla in questo modo? E noi,
che immagine ne abbiamo? Nell’elenco qui sotto riporto tra immagini comuni
della scienza, ampiamente condivise da filosofi, scienziati e persone in
generale:
Scienza = Teoria + Esperimento
In realtà è tutta fisica
La scienza è deterministica: dice che ciò che
accade dopo deriva inesorabilmente da ciò che è accaduto prima
L’ultima affermazione ricorda
subito quanto ho affrontato nel mio precedente
post, discutendo del libero arbitrio.
La prima immagine è praticamente onnipresente: ogni volta che i giornali
riportano nuovi risultati scientifici, è nei manuali di scienze in uso nelle scuole, e non solo, è presente persino negli atti amministrativi che deliberano a seguito
di richieste di finanziamento per la ricerca.
La seconda è ampiamente condivisa
dai filosofi ed è sostenuta anche da alcuni scienziati, e anche se non sembra
far parte dell’immaginario legato alla comune idea di scienza è fuori
discussione che la fisica sia ritenuta, ovviamente non solo dai fisici, una
sorta di regina della Scienza, con la S.
Infine, con l’eccezione dei
tentativi di farci rientrare la meccanica quantistica che dimostra l’esistenza
di fenomeni del tutto imprevedibili e al massimo definibili solo in
termini probabilistici, la terza faccia parte dell’immaginario popolare della
scienza, e dà origine a ogni sorta di domande e dubbi comuni sulla possibilità concreta del libero arbitrio:
estremizzando, i criminali sono davvero responsabili delle loro azioni? Ma, a
questo punto, lo sono davvero anche i santi?
La tanto agognata “Teoria del tutto” ci
permetterà di prevedere il futuro con certezza? E tanto per iniziare è
difficile capire perché si dovrebbe sostenere l’immagine 3 se non si crede
nella 2, che viene generalmente considerata il fondamento logico della 3.
Esaminiamole singolarmente.
Scienza = Teoria + Esperimento La vignetta precedente mostra
l’aspetto stereotipato che potrebbero avere gli scienziati, come fossero
disegnati da bambini; le rappresentazioni femminili, purtroppo, scarseggiano. L’immagine
più comune è quella del tizio al microscopio, gente con provette e, ovviamente,
la caricatura di Einstein, tanto che si trovano immagini somiglianti ad
Einstein con…una provetta in mano! Cosa che sono sicuro non sarà mai capitata
all’originale. Anzi, lui di esperimenti non ne faceva affatto, a parte i suoi famosissimi
“esperimenti mentali”. L’immagine comune è quindi: Scienza = Teoria
+ Esperimento. Visione che è anche quella della gran parte dei filosofi
e di una parte consistente di scienziati.
In realtà è tutta fisica Come abbiamo avuto modo di vedere
nel mio post precedente le posizioni sul rapporto tra scienza e libero arbitrio sono
tali che un numero sempre più alto di scienziati e filosofi sostiene che il
libero arbitrio è un’illusione. E la cosa viene motivata affermando che sono le
Leggi, con la L, della fisica, ad escludere, definitivamente e semplicemente,
l’esistenza del libero arbitrio. Ne segue una visione un po’ desolante della
natura e del posto che occupiamo in essa, ma è perfettamente parallela a
un’immagine della scienza profondamente radicata nel pensiero filosofico e che
sottende la stessa cupa visione: la piramide delle scienze. Amaramente noto, ancora una volta,
l’assenza della geologia e, con buona pace di Popper, la
psicologia è invece inclusa.
In questa visione, indipendentemente
dal tipo, tutte le scienze usano gli stessi mattonidella fisica, così come tutte ricadono sottola fisica. Quest’ultima,
si usa dire che sia la regina delle scienze. Una
volta compresi l’oggetto di studio e il metodo della fisica, diventa immediato
(…) capire i complicatissimi moti dei pianeti, la curvatura dello spaziotempo e
anche tutto ciò che le altre scienze hanno da insegnare, dalla chimica alla biologia,
dalla psicologia alla medicina; ammesso di essere abbastanza intelligenti.
Questa è l’immagine che è stata promossa tanto dalla filosofia quanto dal
pensiero di molti scienziati. Ernest Rutherford,
il grande scienziato sperimentale vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo,
spesso considerato il padre[1]
della fisica nucleare; è famoso per aver osservato che «tutta la scienza o è fisica o è collezionismo di francobolli».
Nel 1908, gli fu assegnato il
Nobel…per la chimica! L’avrà preso come una punizione…
Questa storia secondo cui tutto è
costruito a partire dai mattoncini della fisica è spesso venduta sotto
l’etichetta di “unità della scienza”, tanto che
una monografia pubblicata dalla Cambridge University Press intitolata, appunto,
The Unity of Science, recita:
«La nozione
di unità della scienza è sistematicamente legata alla nozione di riduzione. […] Secondo questa concezione, unità della
scienza significa semplicemente che tutto si basa sulla fisica; le altre
scienze sono in qualche modo sue derivate.»
Secondo questa concezione, unità
della scienza significa semplicemente che tutto si basa sulla fisica; le altre
scienze sono in qualche modo sue derivate. Mi viene subito in mente il grande
biologo evoluzionista Ernst Mayr e il suo libro, in cui con rigore e logiche inattaccabili, ci parla de
L’unicità della biologia!
Determinismo radicale
Le leggi
della fisica fissano gli accadimenti in modo deterministico. Quello che
succede dopo deriva inesorabilmente da quello che è successo prima, o almeno
così si suppone. La fisica governa tutto e le sue leggi sono deterministiche:
per ogni input, le leggi della fisica ammettono uno e un solo output. Gli input
descrivono ciò che è accaduto nel passato, dunque è ammesso un solo futuro. E
dato che “in realtà è tutta fisica”,
questo principio si applica a ogni evento che si verifichi in natura. Le
proprietà chimiche, il ripiegamento delle proteine, l’aspetto e la consistenza
delle cose, persino gli stati psicologici: il loro futuro è fissato una volta
per tutte, poiché in ultima analisi è regolato dalle leggi della fisica. Vivremmo
quindi in un mondo totalmente governato da leggi, un mondo in cui le cose
accadono in maniera meccanica e persino prevedibile, conoscendo e comprendendo queste leggi. È così che funziona il mondo, ed è per questo che i filosofi e gli
scienziati giungono alla conclusione che, per quanto si possa pensare il
contrario, il libero arbitrio è un’illusione.
Ovviamente, e spero sia noto anche a chi legge, probabilmente sapete già che
questa storia del determinismo e della fisica non è del tutto corretta. Prendiamo
ad esempio il fenomeno del decadimento radioattivo.
Il fatto che un atomo radioattivo decada o meno nell’ora successiva non è
scontato: può accadere o meno, non è stabilito dal passato. Tuttavia, non ci
sono molte possibilità: si suppone che la probabilità che decadrà sia
interamente determinata dagli stati passati, e né noi né nessun altro possiamo influenzare
il modo in cui decadrà. Come la vecchia canzone…Que
sera, sera (Whatever Will Be, Will Be), volenti o nolenti. Un fatalismo
che può fornire il conforto della certezza, ma al prezzo dell’impotenza, fino a
mettere in crisi (logica) le fondamenta di molte religioni in cui dio è
onnipotente e onnisciente.
Immagini sbagliate Cosa c’è
di sbagliato in queste tre immagini?L’idea di un mondo governato
dalle leggi della fisica è ormai talmente radicata che è difficile fare un passo indietro e chiedersi come
mai non coincida con il mondo per come lo vediamo e lo viviamo. Naturalmente le
cose non sono sempre come sembrano, ma tra il mondo come lo conosciamo – un
mondo in cui tutte le scienze che non sono la fisica fanno grandi scoperte e
danno vita a straordinarie tecnologie, in cui riusciamo a far accadere le cose
e in cui a volte le cose vanno come previsto, ma molto più spesso no – e un mondo
perfettamente regolato, dal Big Bang in poi, dalle indiscutibili leggi della
fisica e quindi al di fuori del nostro controllo, c’è una bella differenza.
Pensiamo adesso al modo di
operare degli scienziati nella realtà: rispetto al canonico processo
strutturato teoria > esperimento > conferma (o smentita)
è semplicemente molto più disordinato ed eterogeneo. Tale processo consiste
nello scoprire le leggi preesistenti, ma non ancora identificate, che governano
l’universo. Concepire la scienza in questo modo richiede un’immaginazione
inventiva che va ben al di là di ciò che vediamo nella quotidianità, visibile a
noi come agli scienziati mentre cercano di capire come funziona il mondo. Se
guardiamo a quello che fanno gli scienziati per produrre quei loro meravigliosi
prodotti della scienza che tanto ammiriamo (laser, GPS, vaccini, e chi più ne
ha…) non sembra che stiano scoprendo delle leggi per poi ricavarne dei
risultati. Quello che fanno è molto più simile a quello che si fa quando si
gioca con il Meccano: si
impara come mettere insieme i pezzi e si costruisce, facendo un sacco di
tentativi ed errori. Ma ciò che la scienza produce, e soprattutto perché lo
produce, che siano vaccini o stazioni orbitanti, ha poco a che fare con quello che
le immagini di cui sopra suggeriscono. L’eterogeneità di punti di vista è
grandissimo persino tra i filosofi e tra gli scienziati, gruppi formati da
persone diversissime tra loro. Quello che personalmente si può vedere guardando
alla scienza non è quello che vedono i filosofi, né forse quello che vede la
maggior parte dei filosofi, ma è quello che vedono molti di noi che osservano i
dettagli della scienza per come viene praticata.
Non c’è nulla di controverso
nelle caratteristiche e nelle pratiche: nessuno nega il loro ruolo nella prassi
scientifica. Queste tre immagini così popolari astraggono da questi dettagli e,
naturalmente, qualsiasi immagine della scienza che non sia un esatto duplicato
deve farlo. Lo scopo di astrazioni come queste non è quello di fornire un
riassunto accurato dei dettagli, ma di sostituire queste immagini perché queste
fanno l’opposto, ovvero nascondono ciò che rende la scienza così efficace.
Se si osserva la scienza e il suo
modo di procedere, si possono vedere gli apporti di tantissime discipline,
sotto-discipline e sotto-sotto-discipline, un miscuglio di pezzi finemente
lavorati e brillantemente assemblati in modi diversi per produrre la miriade di
risultati meravigliosi che essa ci offre, dalla comprensione alla tecnologia, e
che proietta dietro di sé un mondo ricco di diversità, di sfumature e in cui
molto è ancora possibile. Un’immagine della natura in cui c’è spazio per la
realtà della contingenza e per il nostro potere di cambiamento.
1. Teoria + Esperimento non fanno una scienza - Non si tratta solo di
teoria ed esperimenti. Tutti i prodotti della scienza giocano un ruolo
fondamentale nel conseguimento dei suoi successi: modelli, misure, procedure e
strumenti; sviluppo e convalida dei concetti; raccolta, analisi e cura dei
dati; studi non sperimentali; tecniche statistiche; metodi di approssimazione;
casi di studio; narrazioni e così via. E il loro complesso intreccio è
altrettanto importante.
2. La regina giù dal trono - Sappiamo tutti, tranne
forse i fisici, che in realtà è tutto fisica non è assolutamente vero.
Tra l’altro, l’idea che tutto derivi dagli elementi costitutivi della regina
delle scienze smentisce in linea di principio la varietà e la diversità sia
della scienza sia della natura, e può portarci su strade di ricerca sbagliate. Per
quanto riguarda l’unità, ci sono molti altri modi per raggiungerla che non
siano quello di costruire tutto con i mattoni della fisica.
3. Una natura più negoziabile - Non è in alcun
modo certo che i principi cui la scienza ricorre per produrre le sue meraviglie
rappresentino delle leggi di natura che governano con mano ferrea.
Spesso siamo noi a creare le circostanze giuste dove nulla interviene a
sconvolgere le condizioni iniziali, così che ciò che accade al loro interno sia
fisso e prevedibile, mi riferisco per esempio ai modelli,
di cui ho scritto tempo fa: «sia data una mucca...» disse il professore
tracciando un cerchio alla lavagna...Come ebbe a dire
lo statistico George Box «tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni
sono utili». A volte tali circostanze si verificano anche in natura,
e allora quello che accade è davvero fisso e prevedibile, ma nella vita non
funziona quasi mai così, ed è sbagliato pensare che la realtà sia come uno
strano e gigantesco orologio, che sia tale (c’è chi usa termini come creata,
progettata, personalmente mi dissocio da immagini teleologiche) per dare un
senso a quegli insiemi così precisi e rigorosi che osserviamo, o per farci
capire perché a volte sia possibile trovarli o costruirli. Salvo inoltre
cercare applicare leggi rigorose alla più controintuitiva delle discipline
scientifiche, la meccanica quantistica, o comprendere davvero la teoria
darwiniana dell’evoluzione e dei suoi sviluppi, altrettanto controintuitiva
nella sua essenza.
Per dirla con le parole di Nancy Cartwright, a cui di recente ho dedicato la recensione
del suo ultimo libro, «…vedo una scienza che naviga, con sforzo e dedizione,
tra la Cariddi di un’arroganza che presuppone che i nostri successi scientifici
siano dovuti al fatto di aver strappato eroicamente alla natura i suoi segreti,
e la Scilla della diffidenza, che ci spinge a dire che non sappiamo nulla e che
dovremmo procedere sempre e solo con estrema cautela.»
Ciò non significa affatto che la
scienza non sia un’impresa razionale, non più di quanto la filosofia non sia
un’impresa razionale. Ciò che comporta, tuttavia, è che il
confine tra scienza e filosofia è molto meno netto di quanto comunemente si
supponga. Gran parte di ciò che oggi si presume sia scientifico –
il rifiuto di approvare spiegazioni irriducibilmente teleologiche, la
distinzione di qualità primaria/secondaria, e così via – sono in realtà solo
ipotesi filosofiche controverse mascherate da risultati empirici. E
non è possibile fare scienza senza fare ipotesi filosofiche di qualche tipo,
che sono destinate ad essere controverse.
Nel film “L’esercito delle 12 scimmie” si dice «la scienza non è una
scienza esatta» e, se dovessimo limitarci al modo di procedere del
metodo scientifico, di dubbio in dubbio, potremmo anche concordare. Ma a dire il vero,
c’è un’esattezza nei suoi aspetti puramente matematici, ma questo è dato dal
fatto che le rappresentazioni matematiche semplicemente lasciano fuori tutti
gli aspetti della realtà che non si adattano a quella esatta modalità di
rappresentazione – e non è poca roba. «Ci
son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia»
fa dire Shakespeare ad Amleto, ma non è solo quel che gli scienziati sognano,
ma ci sono anche più cose nella scienza stessa di quanto essi
sognino, fino a quelle cose note incognite, quelle
che non sappiamo di non sapere. Argomento questo, parzialmente accennato in un precedente post dedicato
all’interessantissimo concetto della serendipità, stupendamente trattato
da Telmo Pievani in un suo libro dal titolo omonimo, e più recentemente ripreso
a proposito della comunicazione della scienza.
Molte istituzioni scientifiche
potrebbero migliorare adottando un approccio più umile e impegnandosi a
comprendere meglio le proprie culture, norme e pratiche. Questo include le
università, i laboratori di ricerca, l'industria scientifica e gli enti finanziatori.
È importante iniziare da una comunicazione della scienza più efficace.
Un’eccessiva sicurezza può
bloccare la ricerca di nuovi metodi e teorie, con conseguenze potenzialmente
deplorevoli. Con un’eccessiva diffidenza invece, le pratiche che hanno molto da
offrire sprecheranno il loro talento; applicata ai metodi, alle pratiche e ai
risultati della scienza può farci arrivare a negare verità spiacevoli ma
scientificamente fondate, cosa che accade per esempio per il cambiamento
climatico, negato non solo dagli scettici radicali a cui nulla serve per far
cambiare loro idea, ma anche da parte di
persone che hanno gli strumenti cognitivi per accettarlo in tutta la sua
evidenza comprovata da decenni di ricerca. Tutto ciò può impedirci di ricorrere
alla scienza per migliorare le cose. Di pseudoscienza e antiscienza ne ho
scritto qui.
L’arroganza è purtroppo
alimentata da un’immagine diffusa della scienza e del suo mondo che andrebbe
respinta: quella che dipinge la scienza come la scoperta dei segreti più
profondi della natura, la messa in evidenza della grandezza di queste scoperte,
teorie grandiose ed esperimenti brillanti, realizzati da uomini di grande
genio, intuizione e finezza.
Ma la
scienza opera in maniera diversa: produce risultati affidabili non
scoprendo i segreti più profondi
della natura, ma imparando, faticosamente, a produrre quei risultati in modo
affidabile. Ogni prodotto della scienza – che si tratti di una tecnologia, di
una teoria fisica, di un modello economico o di un metodo di ricerca sul campo –
dipende da un enorme groviglio di attività diverse che lo comprendono e lo
supportano. Non esiste una gerarchia in termini di
importanza. Tutte queste attività, lavorando insieme, sono importanti. Ogni lavoro è degno del suo impiego: così come ogni
pezzo del Meccano concorre all’insieme.
Laddove molti vedono, o
desiderano vedere, omogeneità semplicità, andrebbe invece visto un mondo
scientifico variegato, fatto di una miriade di pezzi diversi e particolari,
realizzati con cura, ognuno con un ruolo da svolgere in una circostanza o
nell’altra, un mondo dove nessun pezzo può funzionare senza un’abile
cooperazione di una miriade di altri. A maggior ragione nell’attuale mondo
iperconnesso.
Nessuna immagine, né quella di chiunque, né quelle più standard, né del mondo, e
tanto meno della scienza che lo studia, è imposta dalle prove scientifiche.
Forse alla fine la nostra migliore scienza sarà costituita principalmente da
teoria ed esperimento, e tutto si ridurrà alla fisica e alle neuroscienze. Ma per ora quello che abbiamo per le mani in ambito scientifico,
per aiutarci a capire e a cambiare il mondo, è un vasto e variegato set di
Meccano. Ed è doveroso impegnarsi affinché ognuno di essi sia all’altezza del
lavoro richiesto.
Nemmeno la fisica è tutta
fisica Partiamo da un altro luogo
comune: quello che sostiene che la chimica è tutta
fisica.
Non molto tempo dopo la nascita
della meccanica quantistica, uno dei suoi padri fondatori, Paul Dirac, nel 1929 ebbe a
dire qualcosa che rese legge standard il rapporto tra chimica e fisica:
«Le leggi
fisiche di base necessarie per la teoria matematica di gran parte della fisica
e di tutta la chimica sono completamente note. La difficoltà risiede nel fatto
che l’applicazione esatta di queste leggi porta a equazioni troppo complicate
per essere risolvibili.»
A parte la presunzione insita in
quel completamente Dirac sosteneva
l’affermazione, divenuta di uso comune, secondo cui la chimica può essere
ridotta alla fisica, nonostante sia priva di buoni argomenti. Affermazione che è stata ancora recentemente contestata dai filosofi della chimica.
In tempi recenti si sono avute
persino posizioni estremamente radicali che affermano che la vita stessa sia
tutta fisica, con l’evoluzione vista come un processo fisico fondamentale,
posizione sostenuta persino da un biologo di fama internazionale come Carl Woese, colui che
definì l’esistenza del dominio degli Archaea e la teoria del “mondo
a RNA” che ho trattato qui.
E che dire dei riduzionisti
estremi di estrazione chimica? Questi pongono la loro disciplina al centro delle altre
proprio perché in grado di connettere le scienze “fisiche”, che si occupano
della materia non vivente, alle scienze “della vita”, a quelle farmaceutiche,
mediche e via discorrendo.
Ho trovato un post molto interessante che approfondisce la cosa con argomentazioni condivisibili.
In generale esistono due approcci
antiriduzionistici alla chimica. Il primo approccio nega del tutto che la chimica
possa essere ridotta alla meccanica quantistica o a qualsiasi altra branca della
fisica. Questo perché la chimica è una scienza che studia la trasformazione della materia, ha quindi le proprie
caratteristiche classificatorie e metodologiche che la rendono irriducibile
alla fisica. Il secondo approccio non nega del tutto la riduzione; al
contrario, considera la questione della riduzione della chimica alla fisica come
una questione empirica che non dev’essere né affermata né negata
dogmaticamente, bensì determinata nella pratica. Riguardo questo secondo
approccio, molti filosofi della chimica sostengono, contrariamente alla
credenza popolare, che il successo della fisica quantistica nello spiegare certi
fenomeni chimici non offra validi motivi per la riduzione della chimica alla
fisica.
Se è vera l’affermazione
riduzionista secondo cui l’intera chimica è riducibile alla fisica, allora questo
presuppone che esistano confini netti tra le due discipline. Non è un dettaglio
perché, se stiamo sostenendo che un certo fenomeno che appartiene propriamente
alla chimica è spiegato dalla fisica, e quindi, in quanto, tale è riducibile
alla fisica, allora dobbiamo essere sicuri che tale fenomeno appartenga
inizialmente alla chimica e non alla fisica. Ma una rapida occhiata alla storia
della scienza rivela che i confini tra queste due discipline sono sempre stati
molto sfumati.
Quando pensiamo alla riduzione
della chimica alla fisica, sembriamo erroneamente assumere che la fisica stessa sia una scienza al suo interno organica e unita. Ma non è
così. Pochi rami della fisica si riducono alla fisica fondamentale, e se la
fisica non è riuscita a raggiungere il primato all’interno del suo stesso
dominio, perché dovremmo pensare che potrebbe raggiungerlo in altri ambiti?
Persino in chimica quantistica,
che può essere descritta a grandi linee come la branca della scienza che
utilizza la meccanica quantistica per rispondere a domande di tipo chimico, la
riduzione della chimica alla meccanica quantistica si compie attraverso l’uso
che fa la meccanica quantistica dell’equazione di Schrödinger per descrivere le proprietà chimiche di atomi e molecole.
Affinché la riduzione abbia luogo, dovremmo riuscire a ricavare le proprietà di
atomi e molecole dall’equazione di Schrödinger che ne descrive le proprietà. Insomma,
le approssimazioni che contribuiscono alla riduzione
violano la stessa teoria a cui la chimica dovrebbe essere ridotta e, non
ultimo, le equazioni non spiegano ad esempio il comportamento metallico o
quello gassoso di atomi o molecole.
Ma torniamo adesso al titolo del
paragrafo. In primo luogo, la fisica stessa è un miscuglio di teorie e pratiche
diverse, e le sue numerose branche non si riducono alla fisica fondamentale. In
secondo luogo, nemmeno quelle che sono considerate le teorie fondamentali della
fisica sono unificate tra
loro. In terzo luogo, per produrre tecnologia, spiegazioni o previsioni su
aspetti concreti del mondo reale che siano basate sulle sue leggi, la fisica
deve collaborare con molte altre fonti di conoscenza. La fisica della materia
condensata ad esempio, la branca della fisica che studia le proprietà
microscopiche della materia, occupandosi in particolare delle fasi condensate,
caratterizzate da un gran numero di costituenti del sistema e dalle loro
interazioni - condensato, solido, liquido, superfluido, superconduttori ecc. –
si svolge in un ambito si sovrappone alla chimica, alla scienza dei materiali,
alla mineralogia, alla biologia molecolare e via dicendo è chiaro se ci sarà
mai un corpus fondamentale di leggi in grado di catturare tutta la fisica
della materia condensata.
Se si pensa ad esempio a due delle
più importanti teorie fisiche fondamentali, di grande successo, la meccanica
quantistica e la relatività generale, esse sono incompatibili.
L’incompatibilità deriva dal fatto che nella relatività generale la massa e
l’energia sono trattate secondo le leggi della fisica classica, nel senso che
quantità fisiche come le forze e le direzioni dei vari campi e le posizioni e
le velocità delle particelle hanno un valore definito. Si dà il caso però che
le nostre teorie fondamentali della materia e dell’energia siano tutte teorie quantistiche
che includono il principio di indeterminazione di
Heisenberg, che nega che tali grandezze abbiano valori definiti e che
quindi rifiuta del tutto il quadro teorico classico offerto da molte teorie
fisiche che usiamo ogni giorno con ottimi risultati, tra cui la teoria della
relatività generale.
Se pur vero che i fisici da lungo
tempo stanno cercando di risolvere questa incompatibilità con una teoria della gravità quantistica è altrettanto vero
che si tratta ancora di un cantiere aperto; ne esiste più di una versione e tutte sono ben lungi dall’avere prove empiriche
convincenti. Ciò ovviamente non significa che l’unificazione non sia possibile,
ma anche se alla fine sarà raggiunto un risultato, positivo in tal senso, o
negativo che sia allo stato attuale non ha senso affermare che la fisica sia un
tutt’uno omogeneo.
Fortunatamente la fisica non ha
bisogno di questa fantomatica unità per mostrare di cosa è capace. A titolo di
esempio si pensi al GPS,
utilizzabile oggigiorno con qualsiasi smartphone: un’invenzione emersa da
teorie diverse e a tratti incompatibili tra loro, come la meccanica newtoniana
(per i satelliti), la meccanica quantistica (per l’orologio atomico) e le
teorie della relatività speciale e generale (per correggere gli orologi
atomici). Un risultato grandioso, ottenuto grazie, e non malgrado,
alla disomogeneità di queste teorie.
Infine, nella scienza reale, che
studia sistemi reali nel mondo reale, la fisica deve collaborare con un insieme
eterogeneo di altri ambiti del sapere (dalle altre discipline scientifiche
all’ingegneria, dall’economia alla normalissima vita pratica) per produrre previsioni
e spiegazioni anche dei suoi aspetti più puri.
In altre parole le rigorose leggi della
fisica, o di qualsiasi altro ambito, persino quello socioeconomico, non
descrivono la «piena realtà empirica», il mondo
in cui viviamo e che è, alla fine, l’unica realtà esistente. Piuttosto, ciò che
descrivono sono relazioni esatte esistenti in una sorta di paradiso platonico –
ricordate la metafora della caverna di Platone? – tra tipi chiari e ben
definiti.
Non solo in fisica, non solo
fisica E la realtà modifica le
condizioni dovendo venire a patti con molti altri aspetti anche nelle scienze
economiche. Nell’economia classica la figura idealizzata dell’essere
perfettamente razionale, o almeno capace di comportarsi in modo totalmente
razionale, è stata presa a modello del comportamento umano relativamente alle
scelte economiche. Lo chiamarono Homo oeconomicus,
che prende le decisioni facendo un’analisi completa della situazione, di tutte
le possibili alternative e delle loro conseguenze. Figura inesistente nella
pratica ma nella quale ancora oggi molti economisti credono. Per fortuna, contrariamente
ai primi, si è andato creando un gruppo di economisti che, a partire dagli anni
Settanta del XX secolo, hanno iniziato a prendere nota di comportamenti, quasi
generalizzati, diversi da quelli previsti dalla teoria economica classica: comportamenti
anomali, non spiegabili fino a quando psicologi sperimentali ed economisti
non si incontrarono facendo nascere la cosiddetta Economia
Comportamentale. Che conta già qualche Nobel.
Divenne così sempre più evidente
l’importanza degli aspetti psicologici nella previsione dei comportamenti
economici delle persone nella vita reale. Per fare una analogia tra la teoria
economica neoclassica e la fisica (…), si può affermare che per iniziare a
capire i fenomeni fisici va bene immaginare che i movimenti avvengano nel vuoto
e senza attriti, ma se si vuole mandare in orbita un razzo è bene tener conto
dell’esistenza dell’atmosfera. Fuor di metafora si può studiare l’economia con
il modello dell’homo oeconomicus per capirne alcune regole fondamentali, ma se
si vogliono fare previsioni realistiche è bene tener conto
dei comportamenti umani reali, laddove vivono scelte empiriche e molto meno teoriche, da considerare caso per caso.
In pratica Sarebbe interessante approfondire
la cosa parlando dell’esperimento “Gravity Probe B
(GP-B)”, quarantaquattro anni di lavoro in cui, nonostante si sia
affermato che tutto è fisica, sono stati coinvolti dozzine di altri
elementi dalle discipline scientifiche e tecnologiche più disparate: rimando al
video per chi volesse avere maggiori informazioni.
L’affermazione fatta dal team,
che cioè sarebbero stati in grado di garantire che
nulla di quello che non può essere modellato in un’equazione della fisica possa
agire sullo spin del giroscopio, come poteva essere sostenuta e difesa
senza coinvolgere vari altri modelli che impiegano molte caratteristiche
non studiate dalla fisica? Per esempio: modelli di come i giroscopi sono stati
perfezionati in modo da poter essere rappresentati adeguatamente in altri
modelli come quasi perfettamente omogenei, e modelli
per dimostrare che la misurazione stessa non crea un momento meccanico in grado
di influire sulla rotazione del giroscopio. Ma ingegneria, chimica e fisica non
bastano. Anche l’economia e la psicologia sociale giocano un ruolo essenziale, e
senza di esse non si possono fare previsioni. Lo stesso vale per la scienza
manageriale: come realizzare, soprattutto oggi, qualsiasi percorso di ricerca,
che preveda attrezzature e sperimentazione, senza una qualche forma di program
management? Spesso si tende a ignorare l’importanza di queste discipline
nella previsione dei risultati della fisica.
L’atteggiamento è quello che pur ammettendo
che ciò che accade dipende da cose che vengono studiate dalle scienze economiche e gestionali, ma dopo
tutto si tratta soltanto di dettagli pratici. Se solo si potessero togliere di
mezzo, tutto ciò che conterebbe davvero in linea di principio sarebbe solo Fisica,
con la F. Progettare un esperimento con una tale precisione da poter supporre
che ogni fattore che può influenzare il risultato,
ma che non può essere rappresentato nelle equazioni della fisica è stato
eliminato è quanto meno inusuale ma tutti i fattori secondari che
fanno scomparire quelle fastidiose possibili cause di interferenza sono
essenziali. Come essenziale è la scienza secondaria, che ci aiuta a dare la
giusta collocazione a queste cause. È evidente che, se si ha di fronte uno di
quei rari e astratti sistemi ingegnerizzati con estrema precisione, di cui sia
possibile creare un modello perfetto con equazioni della fisica, allora la
previsione dei risultati è in realtà tutta fisica. Ma questa ovvietà non porta
certo a concludere che “in realtà è tutta fisica”.
All’interno della complessità ciascuna scienza è fondamentale per tutte quelle a lei
correlate, e non può essere altrimenti. Tuttalpiù possono esserci scienziati
centrali, quelli che con le loro scoperte riescono a stimolare benefici
anche per le discipline adiacenti.
Volendo quantificare quel che
accade ormai in qualsiasi ambito di ricerca, prendiamo ad esempio ancora l’esperimento
GP-B. I volumi che descrivevano il progetto dell’esperimento occupavano sugli
scaffali circa quaranta metri, e solo una piccola parte delle conoscenze che racchiudevano
era fisica vera e propria.
Cercare la riduzione, che sia
radicale o più morbida, indipendentemente dai principi filosofici che la
negano, indipendentemente dalle proprietà emergenti, non
porta da nessuna parte e, come si è scritto, isolarsi nelle proprie aree in
competizione, non favorisce il progresso scientifico. Si perde la necessaria
visione d’insieme. Così come quando sentiamo dire di tizio o caio che sono
i padri di questa o quella disciplina si scopre sempre che
magari a due passi il padre di quella stessa materia è un
altro. Persino nei casi in cui va riconosciuta l’unicità o la genialità (che
so, Galileo, Einstein…) c’era dibattito, condivisione, confronto, e qualcuno
che stava per concludere le stesse cose su qualcosa.
I vari padri da soli
difficilmente possono partorire alcunché. E giocando con la metafora
delle madri, le uniche che partoriscono davvero, nella scienza
nessuno ne ha mai parlato, nemmeno quando sarebbe stato facile.
Ogni singola scienza è un
delicato e prezioso ingranaggio al servizio dell’uomo e della sua evoluzione
culturale, e la condivisione delle informazioni dovrebbe essere la vera energia
che genera progresso, ma anche un potente talismano che serve a mantenere la cattiva scienza (mi viene subito in mente la vicenda Lysenko e la fine tragica di Vavilov) confinata nel rango che le spetta,
cioè quell’esclusivo appannaggio di irriducibili masse di stolti e ingenui.
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Nota: nel luglio 2024 ho pubblicato tre post dedicati
alla descrizione ed alla confutazione di altrettanti luoghi comuni sulla
scienza. Liberamente ispirato al libro
di Nancy Cartwright, “La scienza vista da una filosofa”, Codice Edizioni, 2025
[1]
Su questo concetto di paternità (ma mai maternità!) è interessante leggere sia la recensione che, ovviamente, il bel libro di Silvia Bencivelli “Eroica, folle e visionaria. Storie di
medicina spericolata”