Scrivere una “storia culturale del clima”, specie se affronta le conseguenze culturali e sociali dei mutamenti climatici, vuol dire conoscere le premesse metodologiche della scienza della cultura e vuol dire prendere sul serio quei dati che non si ricavano dal ghiaccio o dal fango, ma dagli archivi della società. L’esperienza ci dice che è redditizio combinare i metodi storici con quelli propri delle scienze naturali. La storia culturale del clima ci insegna che il clima è sempre stato in trasformazione e che la società ha sempre dovuto fargli fronte. In ciò le prognosi apocalittiche non si sono mai rivelate utili. Per capirlo non c’è bisogno di risalire alla caccia alle streghe o al crollo delle dinastie dell’Antico Egitto. Basta confrontare i provvedimenti progettati negli anni Settanta per combattere il raffreddamento globale con quelli che vediamo discutere oggi contro il riscaldamento globale. E quindi opportuno invitare i climatologi alla moderazione quando parlano della storia del clima e alla cautela quando ne va della civiltà e della società.
E la combinazione di ricerca scientifica e storica confermano che l’umanità ha avuto continuamente fasi alterne di cambiamenti climatici importanti, ora molto più caldi ora molto più freddi di adesso. A volte per qualche decennio, se non anni, altre per secoli.
A partire dagli anni 90 il timore del riscaldamento globale ha rimpiazzato i precedenti, come quello per la “Moria dei Boschi” o quello per il buco nell’ozono. Per la prima volta, alla sbarra non è più solo l'industria, ma ogni consumatore finale.
In pratica ogni abitante della terra è colpevole: il boscimano sudafricano, che incendia la savana per cacciare o per guadagnare terreno coltivabile, e il fazendero argentino, i cui manzi producono metano, il coltivatore di riso a Bali e il banchiere cinese, che fa i suoi affari in uno studio dotato di aria condizionata. Alcune regioni in Italia vietano rigorosamente l’uso di caminetti a legna o stufe a pellet e centinaia di milioni di indiani, miliardi in tutto il mondo, utilizzano esclusivamente la legna per scaldarsi e cucinare.
Quando, in questo contesto, si parla di protezione del clima o dell'ambiente, occorre aver ben presente di che cosa si tratta. La Terra esiste da circa cinque miliardi di anni e ci sono molte buone ragioni per ritenere che essa continuerà a esistere indipendentemente da ciò che gli uomini le fanno. La scala dei possibili mutamenti va dal pianeta infernale e rovente (Adeano) fino allo scenario della palla di neve (Snowball Earth, argomento di cui ho scritto di recente). Negli ultimi miliardi di anni della sua esistenza, per la maggior parte del tempo sulla Terra ha fatto più caldo di adesso. Solo negli ultimi milioni di anni il clima è diventato più variabile, cioè a volte è molto più caldo di adesso, altre volte -e ciò avviene più spesso- è molto più freddo. E ogni mutamento climatico ha delle conseguenze per la vita sulla Terra. Ma la natura non è un sistema morale. Alcune specie di piante e di animali prosperano quando fa più caldo, altre quando fa più freddo; alcune hanno bisogno di maggiore umidità, altre di minore umidità. Rispetto alla natura tutti i cambiamenti dell'ecosistema sono neutrali, perché ciò che danneggia una specie offre dei vantaggi a un'altra. Chi vorrebbe ergersi al giudice su questo?
Il parolone “protezione del clima” serve solo a nascondere la paura di fronte al cambiamento. In realtà nelle regioni finora svantaggiate, come i Poli e i territori di alta montagna, si diffonderà un’enorme varietà di specie. Quelle iper specializzate, per contro, si estingueranno. Non è una questione di morale, ma di evoluzione.
Con ciò non si vuole contestare, si badi, la necessità di proteggere la natura. Ma bisogna chiarire che cosa deve essere protetto, e perché. Che la protezione delle specie debba avere una priorità maggiore rispetto alla loro scomparsa, dovrebbe risultare evidente a chiunque (quanto meno perché le specie coesistenti e coeve alla nostra fanno parte del nostro ambiente). Tuttavia è lecito chiedersi se gli orsi polari siano una specie a rischio a causa del riscaldamento o a causa dello sfruttamento dell'Artide da parte di attività umane come l’agricoltura, l’industria e la costruzione di insediamenti. Da lontano, stando al sicuro, è facile deplorare che non si possa impedire né l’una né l'altra cosa. Ma laggiù un orso polare che si aggira vicino ai cassonetti non è meno pericoloso dell’orso che nell'estate del 2006 girovagava per i boschi tra Germania e Austria suscitando rifiuti e paura nei diretti interessati. Gli animali dell’Artide saranno minacciati allo stesso modo degli animali dell’Africa o dell’Amazzonia. Per garantire la loro sopravvivenza fuori dai giardini zoologici, in coesistenza con insediamenti umani sempre più estesi, c’è bisogno di progetti seri e ben meditati.
Soprattutto per questo la comunità mondiale ha interessi a contenere i mutamenti climatici entro certi limiti. L’adattamento, volenti o nolenti, che le popolazioni umane subirono in passato, dal Neolitico alla Piccola Era Glaciale non è più attuabile.
Essa deve prepararsi a una grande trasformazione del clima (adaptation), ma al tempo stesso deve impedire che essa sia troppo grossa (mitigation). Non ha alcun senso voler contrapporre una strategia all’altra, come troppo spesso accade. Ma finora si sente quasi esclusivamente parlare di mitigation, spesso ignorando del tutto che dei due questo è l’obiettivo più difficile, apparentemente impossibile, da raggiungere.
(*) ricordo che, secondo i modelli di IPCC, il limite superiore da non superare è di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali. Ogni ulteriore aumento porterebbe alla catastrofe per l’umanità (…)
Nessun commento:
Posta un commento
L'Amministratore del blog rimuoverà a suo insindacabile giudizio ogni commento ritenuto inadeguato od inappropriato.
Per motivi tuttora ignoti anziché un account Google come da impostazione, ne viene richiesto uno Blogger. In altre parole, per ora non potete sottoporre commenti, a meno che non abbiate, appunto, un account Blogger. Spiacente.