L'immagine della scienza: oltre i luoghi comuni

Premessa
Quale immagine della scienza hanno i filosofi, ammesso che sia così semplice ridurla in questo modo? E noi, che immagine ne abbiamo? Nell’elenco qui sotto riporto tra immagini comuni della scienza, ampiamente condivise da filosofi, scienziati e persone in generale:
  1. Scienza = Teoria + Esperimento
  2. In realtà è tutta fisica
  3. La scienza è deterministica: dice che ciò che accade dopo deriva inesorabilmente da ciò che è accaduto prima
L’ultima affermazione ricorda subito quanto ho affrontato nel mio precedente post, discutendo del libero arbitrio.

La prima immagine è praticamente onnipresente: ogni volta che i giornali riportano nuovi risultati scientifici, è nei manuali di scienze in uso nelle scuole, e non solo, è presente persino negli atti amministrativi che deliberano a seguito di richieste di finanziamento per la ricerca.

La seconda è ampiamente condivisa dai filosofi ed è sostenuta anche da alcuni scienziati, e anche se non sembra far parte dell’immaginario legato alla comune idea di scienza è fuori discussione che la fisica sia ritenuta, ovviamente non solo dai fisici, una sorta di regina della Scienza, con la S.

Infine, con l’eccezione dei tentativi di farci rientrare la meccanica quantistica che dimostra l’esistenza di fenomeni del tutto imprevedibili e al massimo definibili solo in termini probabilistici, la terza faccia parte dell’immaginario popolare della scienza, e dà origine a ogni sorta di domande e dubbi comuni sulla  possibilità concreta del libero arbitrio: estremizzando, i criminali sono davvero responsabili delle loro azioni? Ma, a questo punto, lo sono davvero anche i santi?

La tanto agognata “Teoria del tutto” ci permetterà di prevedere il futuro con certezza? E tanto per iniziare è difficile capire perché si dovrebbe sostenere l’immagine 3 se non si crede nella 2, che viene generalmente considerata il fondamento logico della 3.

Esaminiamole singolarmente.


Scienza = Teoria + Esperimento
La vignetta precedente mostra l’aspetto stereotipato che potrebbero avere gli scienziati, come fossero disegnati da bambini; le rappresentazioni femminili, purtroppo, scarseggiano. L’immagine più comune è quella del tizio al microscopio, gente con provette e, ovviamente, la caricatura di Einstein, tanto che si trovano immagini somiglianti ad Einstein con…una provetta in mano! Cosa che sono sicuro non sarà mai capitata all’originale. Anzi, lui di esperimenti non ne faceva affatto, a parte i suoi famosissimi “esperimenti mentali”. L’immagine comune è quindi: Scienza = Teoria + Esperimento. Visione che è anche quella della gran parte dei filosofi e di una parte consistente di scienziati.

In realtà è tutta fisica(?)
Come abbiamo avuto modo di vedere nel mio post precedente le posizioni sul rapporto tra scienza e libero arbitrio sono tali che un numero sempre più alto di scienziati e filosofi sostiene che il libero arbitrio è un’illusione. E la cosa viene motivata affermando che sono le Leggi, con la L, della fisica, ad escludere, definitivamente e semplicemente, l’esistenza del libero arbitrio. Ne segue una visione un po’ desolante della natura e del posto che occupiamo in essa, ma è perfettamente parallela a un’immagine della scienza profondamente radicata nel pensiero filosofico e che sottende la stessa cupa visione: la piramide delle scienze. Amaramente noto, ancora una volta, l’assenza della geologia e, con buona pace di Popper, la psicologia è invece inclusa.


In questa visione, indipendentemente dal tipo, tutte le scienze usano gli stessi mattoni della fisica, così come tutte ricadono sotto la fisica. Quest’ultima, si usa dire che sia la regina delle scienze. Una volta compresi l’oggetto di studio e il metodo della fisica, diventa immediato (…) capire i complicatissimi moti dei pianeti, la curvatura dello spaziotempo e anche tutto ciò che le altre scienze hanno da insegnare, dalla chimica alla biologia, dalla psicologia alla medicina; ammesso di essere abbastanza intelligenti. Questa è l’immagine che è stata promossa tanto dalla filosofia quanto dal pensiero di molti scienziati. Ernest Rutherford, il grande scienziato sperimentale vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo, spesso considerato il padre[1] della fisica nucleare; è famoso per aver osservato che «tutta la scienza o è fisica o è collezionismo di francobolli».

Nel 1908, gli fu assegnato il Nobel…per la chimica! L’avrà preso come una punizione…

Questa storia secondo cui tutto è costruito a partire dai mattoncini della fisica è spesso venduta sotto l’etichetta di “unità della scienza”, tanto che una monografia pubblicata dalla Cambridge University Press intitolata, appunto, The Unity of Science, recita:

«La nozione di unità della scienza è sistematicamente legata alla nozione di riduzione. […] Secondo questa concezione, unità della scienza significa semplicemente che tutto si basa sulla fisica; le altre scienze sono in qualche modo sue derivate.»

Secondo questa concezione, unità della scienza significa semplicemente che tutto si basa sulla fisica; le altre scienze sono in qualche modo sue derivate. Mi viene subito in mente il grande biologo evoluzionista Ernst Mayr e il suo libro, in cui con rigore e logiche inattaccabili, ci parla de L’unicità della biologia!

Determinismo radicale

Le leggi della fisica fissano gli accadimenti in modo deterministico. Quello che succede dopo deriva inesorabilmente da quello che è successo prima, o almeno così si suppone. La fisica governa tutto e le sue leggi sono deterministiche: per ogni input, le leggi della fisica ammettono uno e un solo output. Gli input descrivono ciò che è accaduto nel passato, dunque è ammesso un solo futuro. E dato che “in realtà è tutta fisica”, questo principio si applica a ogni evento che si verifichi in natura. Le proprietà chimiche, il ripiegamento delle proteine, l’aspetto e la consistenza delle cose, persino gli stati psicologici: il loro futuro è fissato una volta per tutte, poiché in ultima analisi è regolato dalle leggi della fisica. Vivremmo quindi in un mondo totalmente governato da leggi, un mondo in cui le cose accadono in maniera meccanica e persino prevedibile, conoscendo e comprendendo queste leggi. È così che funziona il mondo, ed è per questo che i filosofi e gli scienziati giungono alla conclusione che, per quanto si possa pensare il contrario, il libero arbitrio è un’illusione.

Ovviamente, e spero sia noto anche a chi legge, probabilmente sapete già che questa storia del determinismo e della fisica non è del tutto corretta. Prendiamo ad esempio il fenomeno del decadimento radioattivo. Il fatto che un atomo radioattivo decada o meno nell’ora successiva non è scontato: può accadere o meno, non è stabilito dal passato. Tuttavia, non ci sono molte possibilità: si suppone che la probabilità che decadrà sia interamente determinata dagli stati passati, e né noi né nessun altro possiamo influenzare il modo in cui decadrà. Come la vecchia canzone…Que sera, sera (Whatever Will Be, Will Be), volenti o nolenti. Un fatalismo che può fornire il conforto della certezza, ma al prezzo dell’impotenza, fino a mettere in crisi (logica) le fondamenta di molte religioni in cui dio è onnipotente e onnisciente.

Immagini sbagliate
Cosa c’è di sbagliato in queste tre immagini? L’idea di un mondo governato dalle leggi della fisica è ormai talmente radicata che è difficile fare un passo indietro e chiedersi come mai non coincida con il mondo per come lo vediamo e lo viviamo. Naturalmente le cose non sono sempre come sembrano, ma tra il mondo come lo conosciamo – un mondo in cui tutte le scienze che non sono la fisica fanno grandi scoperte e danno vita a straordinarie tecnologie, in cui riusciamo a far accadere le cose e in cui a volte le cose vanno come previsto, ma molto più spesso no – e un mondo perfettamente regolato, dal Big Bang in poi, dalle indiscutibili leggi della fisica e quindi al di fuori del nostro controllo, c’è una bella differenza.

Pensiamo adesso al modo di operare degli scienziati nella realtà: rispetto al canonico processo strutturato teoria > esperimento > conferma (o smentita) è semplicemente molto più disordinato ed eterogeneo. Tale processo consiste nello scoprire le leggi preesistenti, ma non ancora identificate, che governano l’universo. Concepire la scienza in questo modo richiede un’immaginazione inventiva che va ben al di là di ciò che vediamo nella quotidianità, visibile a noi come agli scienziati mentre cercano di capire come funziona il mondo. Se guardiamo a quello che fanno gli scienziati per produrre quei loro meravigliosi prodotti della scienza che tanto ammiriamo (laser, GPS, vaccini, e chi più ne ha…) non sembra che stiano scoprendo delle leggi per poi ricavarne dei risultati. Quello che fanno è molto più simile a quello che si fa quando si gioca con il Meccano: si impara come mettere insieme i pezzi e si costruisce, facendo un sacco di tentativi ed errori. Ma ciò che la scienza produce, e soprattutto perché lo produce, che siano vaccini o stazioni orbitanti, ha poco a che fare con quello che le immagini di cui sopra suggeriscono. L’eterogeneità di punti di vista è grandissimo persino tra i filosofi e tra gli scienziati, gruppi formati da persone diversissime tra loro. Quello che personalmente si può vedere guardando alla scienza non è quello che vedono i filosofi, né forse quello che vede la maggior parte dei filosofi, ma è quello che vedono molti di noi che osservano i dettagli della scienza per come viene praticata.

Non c’è nulla di controverso nelle caratteristiche e nelle pratiche: nessuno nega il loro ruolo nella prassi scientifica. Queste tre immagini così popolari astraggono da questi dettagli e, naturalmente, qualsiasi immagine della scienza che non sia un esatto duplicato deve farlo. Lo scopo di astrazioni come queste non è quello di fornire un riassunto accurato dei dettagli, ma di sostituire queste immagini perché queste fanno l’opposto, ovvero nascondono ciò che rende la scienza così efficace.

Se si osserva la scienza e il suo modo di procedere, si possono vedere gli apporti di tantissime discipline, sotto-discipline e sotto-sotto-discipline, un miscuglio di pezzi finemente lavorati e brillantemente assemblati in modi diversi per produrre la miriade di risultati meravigliosi che essa ci offre, dalla comprensione alla tecnologia, e che proietta dietro di sé un mondo ricco di diversità, di sfumature e in cui molto è ancora possibile. Un’immagine della natura in cui c’è spazio per la realtà della contingenza e per il nostro potere di cambiamento.

1. Teoria + Esperimento non fanno una scienza - Non si tratta solo di teoria ed esperimenti. Tutti i prodotti della scienza giocano un ruolo fondamentale nel conseguimento dei suoi successi: modelli, misure, procedure e strumenti; sviluppo e convalida dei concetti; raccolta, analisi e cura dei dati; studi non sperimentali; tecniche statistiche; metodi di approssimazione; casi di studio; narrazioni e così via. E il loro complesso intreccio è altrettanto importante.

2. La regina giù dal trono - Sappiamo tutti, tranne forse i fisici, che in realtà è tutto fisica non è assolutamente vero. Tra l’altro, l’idea che tutto derivi dagli elementi costitutivi della regina delle scienze smentisce in linea di principio la varietà e la diversità sia della scienza sia della natura, e può portarci su strade di ricerca sbagliate. Per quanto riguarda l’unità, ci sono molti altri modi per raggiungerla che non siano quello di costruire tutto con i mattoni della fisica.

3. Una natura più negoziabile - Non è in alcun modo certo che i principi cui la scienza ricorre per produrre le sue meraviglie rappresentino delle leggi di natura che governano con mano ferrea. Spesso siamo noi a creare le circostanze giuste dove nulla interviene a sconvolgere le condizioni iniziali, così che ciò che accade al loro interno sia fisso e prevedibile, mi riferisco per esempio ai modelli, di cui ho scritto tempo fa: «sia data una mucca...» disse il professore tracciando un cerchio alla lavagna...Come ebbe a dire lo statistico George Box «tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni sono utili». A volte tali circostanze si verificano anche in natura, e allora quello che accade è davvero fisso e prevedibile, ma nella vita non funziona quasi mai così, ed è sbagliato pensare che la realtà sia come uno strano e gigantesco orologio, che sia tale (c’è chi usa termini come creata, progettata, personalmente mi dissocio da immagini teleologiche) per dare un senso a quegli insiemi così precisi e rigorosi che osserviamo, o per farci capire perché a volte sia possibile trovarli o costruirli. Salvo inoltre cercare applicare leggi rigorose alla più controintuitiva delle discipline scientifiche, la meccanica quantistica, o comprendere davvero la teoria darwiniana dell’evoluzione e dei suoi sviluppi, altrettanto controintuitiva nella sua essenza.

Per dirla con le parole di Nancy Cartwright, a cui di recente ho dedicato la recensione del suo ultimo libro, «…vedo una scienza che naviga, con sforzo e dedizione, tra la Cariddi di un’arroganza che presuppone che i nostri successi scientifici siano dovuti al fatto di aver strappato eroicamente alla natura i suoi segreti, e la Scilla della diffidenza, che ci spinge a dire che non sappiamo nulla e che dovremmo procedere sempre e solo con estrema cautela.»

Ciò non significa affatto che la scienza non sia un’impresa razionale, non più di quanto la filosofia non sia un’impresa razionale.  Ciò che comporta, tuttavia, è che il confine tra scienza e filosofia è molto meno netto di quanto comunemente si supponga. Gran parte di ciò che oggi si presume sia scientifico – il rifiuto di approvare spiegazioni irriducibilmente teleologiche, la distinzione di qualità primaria/secondaria, e così via – sono in realtà solo ipotesi filosofiche controverse mascherate da risultati empirici.  E non è possibile fare scienza senza fare ipotesi filosofiche di qualche tipo, che sono destinate ad essere controverse.

Nel film “L’esercito delle 12 scimmie” si dice «la scienza non è una scienza esatta» e, se dovessimo limitarci al modo di procedere del metodo scientifico, di dubbio in dubbio, potremmo anche concordare.  Ma a dire il vero, c’è un’esattezza nei suoi aspetti puramente matematici, ma questo è dato dal fatto che le rappresentazioni matematiche semplicemente lasciano fuori tutti gli aspetti della realtà che non si adattano a quella esatta modalità di rappresentazione – e non è poca roba.  «Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia» fa dire Shakespeare ad Amleto, ma non è solo quel che gli scienziati sognano, ma ci sono anche più cose nella scienza stessa di quanto essi sognino, fino a quelle cose note incognite, quelle che non sappiamo di non sapere. Argomento questo, parzialmente accennato in un precedente post dedicato all’interessantissimo concetto della serendipità, stupendamente trattato da Telmo Pievani in un suo libro dal titolo omonimo, e più recentemente ripreso a proposito della comunicazione della scienza.

Molte istituzioni scientifiche potrebbero migliorare adottando un approccio più umile e impegnandosi a comprendere meglio le proprie culture, norme e pratiche. Questo include le università, i laboratori di ricerca, l'industria scientifica e gli enti finanziatori. È importante iniziare da una comunicazione della scienza più efficace.

Un’eccessiva sicurezza può bloccare la ricerca di nuovi metodi e teorie, con conseguenze potenzialmente deplorevoli. Con un’eccessiva diffidenza invece, le pratiche che hanno molto da offrire sprecheranno il loro talento; applicata ai metodi, alle pratiche e ai risultati della scienza può farci arrivare a negare verità spiacevoli ma scientificamente fondate, cosa che accade per esempio per il cambiamento climatico, negato non solo dagli scettici radicali a cui nulla serve per far cambiare loro idea, ma anche  da parte di persone che hanno gli strumenti cognitivi per accettarlo in tutta la sua evidenza comprovata da decenni di ricerca. Tutto ciò può impedirci di ricorrere alla scienza per migliorare le cose. Di pseudoscienza e antiscienza ne ho scritto qui.

L’arroganza è purtroppo alimentata da un’immagine diffusa della scienza e del suo mondo che andrebbe respinta: quella che dipinge la scienza come la scoperta dei segreti più profondi della natura, la messa in evidenza della grandezza di queste scoperte, teorie grandiose ed esperimenti brillanti, realizzati da uomini di grande genio, intuizione e finezza.

Ma la scienza opera in maniera diversa: produce risultati affidabili non scoprendo i segreti più profondi
della natura, ma imparando, faticosamente, a produrre quei risultati in modo affidabile. Ogni prodotto della scienza – che si tratti di una tecnologia, di una teoria fisica, di un modello economico o di un metodo di ricerca sul campo – dipende da un enorme groviglio di attività diverse che lo comprendono e lo supportano. Non esiste una gerarchia in termini di importanza. Tutte queste attività, lavorando insieme, sono importanti. Ogni lavoro è degno del suo impiego: così come ogni pezzo del Meccano concorre all’insieme.

Laddove molti vedono, o desiderano vedere, omogeneità semplicità, andrebbe invece visto un mondo scientifico variegato, fatto di una miriade di pezzi diversi e particolari, realizzati con cura, ognuno con un ruolo da svolgere in una circostanza o nell’altra, un mondo dove nessun pezzo può funzionare senza un’abile cooperazione di una miriade di altri. A maggior ragione nell’attuale mondo iperconnesso.

Nessuna immagine, né quella di chiunque, né quelle più standard, né del mondo, e tanto meno della scienza che lo studia, è imposta dalle prove scientifiche. Forse alla fine la nostra migliore scienza sarà costituita principalmente da teoria ed esperimento, e tutto si ridurrà alla fisica e alle neuroscienze. Ma per ora quello che abbiamo per le mani in ambito scientifico, per aiutarci a capire e a cambiare il mondo, è un vasto e variegato set di Meccano. Ed è doveroso impegnarsi affinché ognuno di essi sia all’altezza del lavoro richiesto.

Nemmeno la fisica è tutta fisica
Partiamo da un altro luogo comune: quello che sostiene che la chimica è tutta fisica.

Non molto tempo dopo la nascita della meccanica quantistica, uno dei suoi padri fondatori, Paul Dirac, nel 1929 ebbe a dire qualcosa che rese legge standard il rapporto tra chimica e fisica:

«Le leggi fisiche di base necessarie per la teoria matematica di gran parte della fisica e di tutta la chimica sono completamente note. La difficoltà risiede nel fatto che l’applicazione esatta di queste leggi porta a equazioni troppo complicate per essere risolvibili.»

A parte la presunzione insita in quel completamente Dirac sosteneva l’affermazione, divenuta di uso comune, secondo cui la chimica può essere ridotta alla fisica, nonostante sia priva di buoni argomenti. Affermazione che è stata ancora recentemente contestata dai filosofi della chimica.

In tempi recenti si sono avute persino posizioni estremamente radicali che affermano che la vita stessa sia tutta fisica, con l’evoluzione vista come un processo fisico fondamentale, posizione sostenuta persino da un biologo di fama internazionale come Carl Woese, colui che definì l’esistenza del dominio degli Archaea e la teoria del “mondo a RNA” che ho trattato qui.

E che dire dei riduzionisti estremi di estrazione chimica? Questi pongono la loro disciplina al centro delle altre proprio perché in grado di connettere le scienze “fisiche”, che si occupano della materia non vivente, alle scienze “della vita”, a quelle farmaceutiche, mediche e via discorrendo.

Ho trovato un post molto interessante che approfondisce la cosa con argomentazioni condivisibili.

Nella figura a lato l’ordinamento delle scienze secondo Balaban & Klein

In generale esistono due approcci antiriduzionistici alla chimica. Il primo approccio nega del tutto che la chimica possa essere ridotta alla meccanica quantistica o a qualsiasi altra branca della fisica. Questo perché la chimica è una scienza che studia la trasformazione della materia, ha quindi le proprie caratteristiche classificatorie e metodologiche che la rendono irriducibile alla fisica. Il secondo approccio non nega del tutto la riduzione; al contrario, considera la questione della riduzione della chimica alla fisica come una questione empirica che non dev’essere né affermata né negata dogmaticamente, bensì determinata nella pratica. Riguardo questo secondo approccio, molti filosofi della chimica sostengono, contrariamente alla credenza popolare, che il successo della fisica quantistica nello spiegare certi fenomeni chimici non offra validi motivi per la riduzione della chimica alla fisica.

Se è vera l’affermazione riduzionista secondo cui l’intera chimica è riducibile alla fisica, allora questo presuppone che esistano confini netti tra le due discipline. Non è un dettaglio perché, se stiamo sostenendo che un certo fenomeno che appartiene propriamente alla chimica è spiegato dalla fisica, e quindi, in quanto, tale è riducibile alla fisica, allora dobbiamo essere sicuri che tale fenomeno appartenga inizialmente alla chimica e non alla fisica. Ma una rapida occhiata alla storia della scienza rivela che i confini tra queste due discipline sono sempre stati molto sfumati.

Quando pensiamo alla riduzione della chimica alla fisica, sembriamo erroneamente assumere che la fisica stessa sia una scienza al suo interno organica e unita. Ma non è così. Pochi rami della fisica si riducono alla fisica fondamentale, e se la fisica non è riuscita a raggiungere il primato all’interno del suo stesso dominio, perché dovremmo pensare che potrebbe raggiungerlo in altri ambiti?

Persino in chimica quantistica, che può essere descritta a grandi linee come la branca della scienza che utilizza la meccanica quantistica per rispondere a domande di tipo chimico, la riduzione della chimica alla meccanica quantistica si compie attraverso l’uso che fa la meccanica quantistica dell’equazione di Schrödinger per descrivere le proprietà chimiche di atomi e molecole. Affinché la riduzione abbia luogo, dovremmo riuscire a ricavare le proprietà di atomi e molecole dall’equazione di Schrödinger che ne descrive le proprietà. Insomma, le approssimazioni che contribuiscono alla riduzione violano la stessa teoria a cui la chimica dovrebbe essere ridotta e, non ultimo, le equazioni non spiegano ad esempio il comportamento metallico o quello gassoso di atomi o molecole.

Ma torniamo adesso al titolo del paragrafo. In primo luogo, la fisica stessa è un miscuglio di teorie e pratiche diverse, e le sue numerose branche non si riducono alla fisica fondamentale. In secondo luogo, nemmeno quelle che sono considerate le teorie fondamentali della fisica sono unificate tra
loro. In terzo luogo, per produrre tecnologia, spiegazioni o previsioni su aspetti concreti del mondo reale che siano basate sulle sue leggi, la fisica deve collaborare con molte altre fonti di conoscenza. La fisica della materia condensata ad esempio, la branca della fisica che studia le proprietà microscopiche della materia, occupandosi in particolare delle fasi condensate, caratterizzate da un gran numero di costituenti del sistema e dalle loro interazioni - condensato, solido, liquido, superfluido, superconduttori ecc. – si svolge in un ambito si sovrappone alla chimica, alla scienza dei materiali, alla mineralogia, alla biologia molecolare e via dicendo è chiaro se ci sarà mai un corpus fondamentale di leggi in grado di catturare tutta la fisica della materia condensata. 

Se si pensa ad esempio a due delle più importanti teorie fisiche fondamentali, di grande successo, la meccanica quantistica e la relatività generale, esse sono incompatibili. L’incompatibilità deriva dal fatto che nella relatività generale la massa e l’energia sono trattate secondo le leggi della fisica classica, nel senso che quantità fisiche come le forze e le direzioni dei vari campi e le posizioni e le velocità delle particelle hanno un valore definito. Si dà il caso però che le nostre teorie fondamentali della materia e dell’energia siano tutte teorie quantistiche che includono il principio di indeterminazione di Heisenberg, che nega che tali grandezze abbiano valori definiti e che quindi rifiuta del tutto il quadro teorico classico offerto da molte teorie fisiche che usiamo ogni giorno con ottimi risultati, tra cui la teoria della relatività generale.

Se pur vero che i fisici da lungo tempo stanno cercando di risolvere questa incompatibilità con una teoria della gravità quantistica è altrettanto vero che si tratta ancora di un cantiere aperto; ne esiste più di una versione e tutte sono ben lungi dall’avere prove empiriche convincenti. Ciò ovviamente non significa che l’unificazione non sia possibile, ma anche se alla fine sarà raggiunto un risultato, positivo in tal senso, o negativo che sia allo stato attuale non ha senso affermare che la fisica sia un tutt’uno omogeneo. 

Fortunatamente la fisica non ha bisogno di questa fantomatica unità per mostrare di cosa è capace. A titolo di esempio si pensi al GPS, utilizzabile oggigiorno con qualsiasi smartphone: un’invenzione emersa da teorie diverse e a tratti incompatibili tra loro, come la meccanica newtoniana (per i satelliti), la meccanica quantistica (per l’orologio atomico) e le teorie della relatività speciale e generale (per correggere gli orologi atomici). Un risultato grandioso, ottenuto grazie, e non malgrado, alla disomogeneità di queste teorie. 

Infine, nella scienza reale, che studia sistemi reali nel mondo reale, la fisica deve collaborare con un insieme eterogeneo di altri ambiti del sapere (dalle altre discipline scientifiche all’ingegneria, dall’economia alla normalissima vita pratica) per produrre previsioni e spiegazioni anche dei suoi aspetti più puri. In altre parole le rigorose leggi della fisica, o di qualsiasi altro ambito, persino quello socioeconomico, non descrivono la «piena realtà empirica», il mondo in cui viviamo e che è, alla fine, l’unica realtà esistente. Piuttosto, ciò che descrivono sono relazioni esatte esistenti in una sorta di paradiso platonico – ricordate la metafora della caverna di Platone? – tra tipi chiari e ben definiti.

Non solo in fisica, non solo fisica
E la realtà modifica le condizioni dovendo venire a patti con molti altri aspetti anche nelle scienze economiche. Nell’economia classica la figura idealizzata dell’essere perfettamente razionale, o almeno capace di comportarsi in modo totalmente razionale, è stata presa a modello del comportamento umano relativamente alle scelte economiche. Lo chiamarono Homo oeconomicus, che prende le decisioni facendo un’analisi completa della situazione, di tutte le possibili alternative e delle loro conseguenze. Figura inesistente nella pratica ma nella quale ancora oggi molti economisti credono. Per fortuna, contrariamente ai primi, si è andato creando un gruppo di economisti che, a partire dagli anni Settanta del XX secolo, hanno iniziato a prendere nota di comportamenti, quasi generalizzati, diversi da quelli previsti dalla teoria economica classica: comportamenti anomali, non spiegabili fino a quando psicologi sperimentali ed economisti non si incontrarono facendo nascere la cosiddetta Economia Comportamentale. Che conta già qualche Nobel.

Divenne così sempre più evidente l’importanza degli aspetti psicologici nella previsione dei comportamenti economici delle persone nella vita reale. Per fare una analogia tra la teoria economica neoclassica e la fisica (…), si può affermare che per iniziare a capire i fenomeni fisici va bene immaginare che i movimenti avvengano nel vuoto e senza attriti, ma se si vuole mandare in orbita un razzo è bene tener conto dell’esistenza dell’atmosfera. Fuor di metafora si può studiare l’economia con il modello dell’homo oeconomicus per capirne alcune regole fondamentali, ma se si vogliono fare previsioni realistiche è bene tener conto dei comportamenti umani reali, laddove vivono scelte empiriche e molto meno teoriche, da considerare caso per caso.


In pratica
Sarebbe interessante approfondire la cosa parlando dell’esperimento “Gravity Probe B (GP-B)”, quarantaquattro anni di lavoro in cui, nonostante si sia affermato che tutto è fisica, sono stati coinvolti dozzine di altri elementi dalle discipline scientifiche e tecnologiche più disparate: rimando al video per chi volesse avere maggiori informazioni.

L’affermazione fatta dal team, che cioè sarebbero stati in grado di garantire che nulla di quello che non può essere modellato in un’equazione della fisica possa agire sullo spin del giroscopio, come poteva essere sostenuta e difesa senza coinvolgere vari altri modelli che impiegano molte caratteristiche non studiate dalla fisica? Per esempio: modelli di come i giroscopi sono stati perfezionati in modo da poter essere rappresentati adeguatamente in altri modelli come quasi perfettamente omogenei, e modelli
per dimostrare che la misurazione stessa non crea un momento meccanico in grado di influire sulla rotazione del giroscopio. Ma ingegneria, chimica e fisica non bastano. Anche l’economia e la psicologia sociale giocano un ruolo essenziale, e senza di esse non si possono fare previsioni. Lo stesso vale per la scienza manageriale: come realizzare, soprattutto oggi, qualsiasi percorso di ricerca, che preveda attrezzature e sperimentazione, senza una qualche forma di program management? Spesso si tende a ignorare l’importanza di queste discipline nella previsione dei risultati della fisica.

L’atteggiamento è quello che pur ammettendo che ciò che accade dipende da cose che vengono studiate dalle scienze economiche e gestionali, ma dopo tutto si tratta soltanto di dettagli pratici. Se solo si potessero togliere di mezzo, tutto ciò che conterebbe davvero in linea di principio sarebbe solo Fisica, con la F. Progettare un esperimento con una tale precisione da poter supporre che ogni fattore che può influenzare il risultato, ma che non può essere rappresentato nelle equazioni della fisica è stato eliminato è quanto meno inusuale ma tutti i fattori secondari che fanno scomparire quelle fastidiose possibili cause di interferenza sono essenziali. Come essenziale è la scienza secondaria, che ci aiuta a dare la giusta collocazione a queste cause. È evidente che, se si ha di fronte uno di quei rari e astratti sistemi ingegnerizzati con estrema precisione, di cui sia possibile creare un modello perfetto con equazioni della fisica, allora la previsione dei risultati è in realtà tutta fisica. Ma questa ovvietà non porta certo a concludere che “in realtà è tutta fisica”.

All’interno della complessità ciascuna scienza è fondamentale per tutte quelle a lei correlate, e non può essere altrimenti. Tuttalpiù possono esserci scienziati centrali, quelli che con le loro scoperte riescono a stimolare benefici anche per le discipline adiacenti. 

Volendo quantificare quel che accade ormai in qualsiasi ambito di ricerca, prendiamo ad esempio ancora l’esperimento GP-B. I volumi che descrivevano il progetto dell’esperimento occupavano sugli scaffali circa quaranta metri, e solo una piccola parte delle conoscenze che racchiudevano era fisica vera e propria. 

Cercare la riduzione, che sia radicale o più morbida, indipendentemente dai principi filosofici che la negano, indipendentemente dalle proprietà emergenti, non porta da nessuna parte e, come si è scritto, isolarsi nelle proprie aree in competizione, non favorisce il progresso scientifico. Si perde la necessaria visione d’insieme. Così come quando sentiamo dire di tizio o caio che sono i padri di questa o quella disciplina si scopre sempre che magari a due passi il padre di quella stessa materia è un altro. Persino nei casi in cui va riconosciuta l’unicità o la genialità (che so, Galileo, Einstein…) c’era dibattito, condivisione, confronto, e qualcuno che stava per concludere le stesse cose su qualcosa.

I vari padri da soli difficilmente possono partorire alcunché. E giocando con la metafora delle madri, le uniche che partoriscono davvero, nella scienza nessuno ne ha mai parlato, nemmeno quando sarebbe stato facile.

Ogni singola scienza è un delicato e prezioso ingranaggio al servizio dell’uomo e della sua evoluzione culturale, e la condivisione delle informazioni dovrebbe essere la vera energia che genera progresso, ma anche un potente talismano che serve a mantenere la cattiva scienza (mi viene subito in mente la vicenda Lysenko e la fine tragica di Vavilov) confinata nel rango che le spetta, cioè quell’esclusivo appannaggio di irriducibili masse di stolti e ingenui.

Ovviamente senza dimenticare che i fisici, per loro natura, possono essere «talvolta in errore ma mai nel dubbio»! 

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Nota
: nel luglio 2024 ho pubblicato tre post dedicati alla descrizione ed alla confutazione di altrettanti luoghi comuni sulla scienza.
Liberamente ispirato al libro di Nancy Cartwright, “La scienza vista da una filosofa”, Codice Edizioni, 2025


[1] Su questo concetto di paternità (ma mai maternità!) è interessante leggere sia la recensione che, ovviamente, il bel libro di Silvia Bencivelli “Eroica, folle e visionaria. Storie di medicina spericolata”



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