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Ghiacciai. Storie dal futuro annunciato.

Un paio di giorni fa è stato annunciato che il Venezuela è il primo paese al mondo a perdere completamente tutti i suoi ghiacciai. Quel che rimane è un residuo, declassificato in campo di ghiaccio, una macchia estesa per un paio di ettari e che inutilmente s’è tentato di salvare con delle coperture riflettenti.

Pochi anni fa il ghiacciaio del Pico Humboldt – a 4.940 metri di altezza -, che si trova, o meglio si trovava, nel Parco Nazionale della Sierra Nevada, era stato annunciato come l’ultimo ghiacciaio del Venezuela che sarebbe scomparso da lì a poco: facile e triste previsione. La crisi climatica ha accelerato il suo scioglimento che è diventato sempre più rapido durante l’ultima decade.

E intanto una nuova biodiversità ha già colonizzato le rocce rimaste nude.

C’era una volta…

clip_image004Viviamo in un periodo interglaciale, compreso tra due grandi glaciazioni, e i paesaggi glaciali sono tutt’altro che un qualcosa di statico se vengono visti nell’ottica di tempi molto lunghi. Stando ai dati a nostra disposizione ed in base allo studio delle tracce lasciate dai precedenti periodi interglaciali, è molto probabile che l’attuale interglaciale possa durare ancora per almeno 5.000 anni. Dopo di che inizierà una nuova fase di raffreddamento ed i ghiacci polari si espanderanno nuovamente, avanzeranno i ghiacciai continentali, le coltri si amplieranno anno dopo anno fino ad occupare aree di dimensioni confrontabili a quanto si verificò circa 18.000 anni fa, e conseguentemente all’aumento delle masse glaciali il livello medio dei mari tornerà ad abbassarsi.

In passato è andata così, diverse volte per altrettante fasi di alternanza glaciale-interglaciale, e ne abbiamo prove dirette e certe per lo meno per gli ultimi 800.000 anni.

I riflessi di queste oscillazioni furono notevoli e vari. Ne risentirono, in particolare, le diverse fasce di vegetazione che si spostarono verso l’equatore ad ogni espansione glaciale. In Europa, ad esempio, l’accurata interpretazione dei dati forniti dalla flora indica che la fascia della tundra eurasiatica venne occupata dai ghiacci delle calotte scandinava e siberiana occidentale. Così pure grandi zone un tempo ricoperte dalla foresta boreale, la taiga, e decidua furono invase dai ghiacci. Ben poco si salvò della foresta boreale, e dove nell’interglaciale si stendeva la foresta decidua si sviluppò una vegetazione tipica delle tundre.

Condizioni aride e ambienti tipici della steppa prevalsero su buona parte di Francia e Germania meridionale, e su vaste zone dell’Italia e della Spagna era diffuso l’ambiente della tundra arborata, dove boschetti di betulle, di querce, di pioppi e più vaste aree di pini e larici contribuivano a ridurre la monotonia del paesaggio.

Le temperature medie annue erano inferiori di almeno 10 °C su quasi tutta l’Europa e verso est, cioè più all’interno nel continente, la differenza fu certo maggiore.

Sovrapposte a queste oscillazioni climatiche misurabili con ordini di grandezza temporali di migliaia se non decine di migliaia di anni ci furono altre variazioni climatiche, meno decisive, ma comunque in grado di indurre notevoli cambiamenti ambientali con pesanti riflessi sugli esseri umani, che già da decine di migliaia di anni popolavano il continente Europeo, a volte con la convivenza di diverse specie (è noto che i Sapiens ebbero contatti ed episodi di incrocio anche con i Neandertal e i Denisovani). I dati ci permettono di riconoscere, all’interno della fase climatica interglaciale in cui viviamo, variazioni climatiche di piccola entità e hanno consentito di ipotizzare punte di clima più freddo delle medie precedenti con cicli di 2.500 anni ed un episodio recente circa 500 anni fa (la famosa Piccola Era Glaciale), durante il quale inverni particolarmente nevosi si succedettero nelle Alpi e in Scandinavia, con l’estensione delle aree con nevi perenni, con i ghiacciai che avanzando distruggevano pascoli e manufatti umani accompagnati da fenomeni meteorologici estremi che aumentarono notevolmente le portate dei corsi d’acqua con frequenti esondazioni. Avere fiumi e laghi congelati divenne una costante invernale per la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, la Germania e persino l’Italia: sul Tamigi congelato si teneva ogni anno una fiera, la laguna di Venezia appare congelata in numerose rappresentazioni dell’epoca, Casanova visse al freddo! Questa Piccola Era Glaciale durò circa 500 anni con ripercussioni notevoli: la popolazione islandese fu praticamente dimezzata, milioni di europei migrarono nel Nuovo Mondo.

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Ma che si stesse andando verso un generale incremento delle temperature o verso una diminuzione di ritorno ad un periodo più strettamente glaciale, ancor prima della fine di quel picco di freddo, le emissioni di gas serra di origine antropica hanno enormemente amplificato il riscaldamento, con immissione in atmosfera di quantitativi senza precedenti persino nella storia degli ultimi 800.000 anni (si veda un mio post precedente). E la correlazione tra quantità di biossido di carbonio e variazione delle temperature è un dato di fatto consolidato, noto fin dal XIX secolo e inequivocabilmente dovuto alle attività umane legate soprattutto all’utilizzo di combustibili fossili.

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Sul cucuzzolo della montagna, con ai piedi un paio di sci…

Cominciamo dal ghiacciaio dell’Adamello, il più grande d’Italia. Esteso per circa 18 kmq risulta già poca roba rispetto al più grande ghiacciaio delle Alpi, l’Aletsch in Svizzera, di circa 120 kmq; ancora meno, una macchiolina, rispetto al ghiacciaio Jostedalsbreen in Norvegia, che occupa una frastagliata ma vasta superficie di circa 800 kmq; ed è infine praticamente nulla in confronto agli 8.100 kmq di estensione del Varnajökull in Islanda.

Nel 1995, un noto geografo italiano, in un suo libro immaginava le Alpi nell’anno 3000, trasformate in un enorme «Parco Turistico Europeo», con sciatori dispersi su un fitto intreccio di piste che dall’Adamello, grazie anche all’innevamento artificiale, scendevano fino a valle per la gioia dei turisti provenienti da ogni dove sulla Terra ma anche dalle basi minerarie sparse nel sistema solare (…).

Nulla di tutto ciò è in vista, ed in molto meno tempo.

I modelli climatici utilizzanti scenari estremi di riscaldamento globale, bel al di sopra dei famosi 1,5°C dell’Accordo di Parigi, prevedono la fusione completa di tutte le superfici glacializzate delle Alpi entro il secolo. Il tasso di aumento del riscaldamento globale nei prossimi decenni determinerà la sorte delle masse glaciali sull’arco alpino. Ai ritmi degli ultimi 10 anni, perderemo il 65% del volume di ghiaccio nel giro di 25 anni. Con il ritiro del fronte glaciale dei ghiacciai principali fino a 3 km. Anche a quote elevate.

Uno studio condotto recentemente riporta che, anche se il riscaldamento globale si fermasse completamente oggi, la fusione dei ghiacciai alpini continuerebbe fino a far perdere il 34% del loro volume. Nel giro di 25 anni. Con un arretramento del fronte dei ghiacci dell’ordine di grandezza di chilometri, anche dei fronti glaciali più estesi: una perdita complessiva di superficie del 32% rispetto a oggi. Se, invece, continuiamo sulla traiettoria di global warming su cui ci troviamo oggi – che ci porterà verso +2,1-2,9°C entro fine secolo, ne scrissi qui – entro il 2050 le masse glaciali sulle Alpi si dimezzeranno. Fino a perdere 2/3 del volume se il tasso di riscaldamento aumenta in linea con quello registrato nell’ultimo decennio.

In poche parole l’analisi e il monitoraggio dello stato di avanzamento della fusione dei ghiacciai è un altro canarino del minatore, concetto di cui ho trattato tempo fa.
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Le montagne sono colpite in maniera particolarmente sensibile dal cambiamento climatico, ed è questo che le rende strumenti di monitoraggio, modellazione e previsione importanti. Paradossalmente subiscono inoltre una retroazione che ne compromette ulteriormente la tenuta in termini di ghiaccio: la fusione abbassa le quote, a quote inferiori fa mediamente più caldo, e ciò rinforza l’effetto del riscaldamento globale. Questo feedback positivo è ciò che ad esempio sta accelerando fortemente la fusione della calotta della Groenlandia.

Le Alpi in particolare stanno subendo un riscaldamento doppio rispetto a quello che si manifesta in altre aree, con un aumento di circa 2°C registrato nel corso del XX secolo, rispetto alla media che si è registrata nell’emisfero Nord, pari a circa la metà. Questa tendenza ha inoltre subito una tendenza accelerata negli ultimi 30 anni, accentuata alle quote più alte.

Tutti gli apparati glaciali alpini risultano in forte arretramento da almeno 30 anni, ancor più di quanto era successo nel periodo caldo precedente, tra il 1920 e il 1950. La sequenza di fotografie seguente, esposte nel Museo di Scienze Naturali di Vienna, è abbastanza eloquente, confrontando quattro ghiacciai austriaci con foto di inizio Novecento con la situazione dei primi anni 2000.

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Dati alla mano…

clip_image019Da diversi decenni il Comitato Glaciologico Italiano compila e tiene aggiornato un vero e proprio catasto dei ghiacciai italiani, presentando un quadro organico della situazione del glacialismo nelle montagne italiane: un quadro per nulla rassicurante. Nella figura seguente è riportata la distribuzione dei ghiacciai in Italia. Da segnalarne un altro, non in mappa, il più a sud d’Europa: il Calderone, sul versante nord del Corno Grande (Gran Sasso). Purtroppo pochi anni fa è stato declassato a glacionevato non avendo più nessuna delle caratteristiche di un ghiacciaio e ne rimane davvero poco.

 

 

 

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clip_image023Nel catasto si descrivono oltre 900 ghiacciai, compreso quello appenninico, per un totale di 368 kmq, più o meno 0,4 kmq per ghiacciaio: il dato relativo all’estensione media già da solo evidenzia quanto ridotta sia la superficie media e quindi l’estrema fragilità delle aree rimaste. I ghiacciai con area superiore a 1 kmq sono poco più del 9% del totale e da soli occupano quasi il 70% del totale. Gli ultimi a scomparire saranno gli unici tre ghiacciai con area superiore a 10 kmq che occupano circa il 10% dell’estensione glaciale complessiva: il già citato Adamello tra Lombardia e Trentino, il Forni in Lombardia e il Miage del gruppo del Monte Bianco in Val d’Aosta.

Rispetto al totale delle Alpi i 3770 ghiacciai del versante italiano rappresentano il 20% del totale del glacialismo e vanno dalle Alpi Marittime alle Alpi Giulie cambiando continuamente sia in dimensioni che tipologie: si passa da grandi estensioni omogenee, come l’Adamello, a ghiacciai di valle, a piccoli ghiacciai di pendio o ai piccolissimi glacionevati.

L’eterogeneità di tipi e distribuzione, dipendente da numerosi fattori, climatici e morfologici innanzi tutto, è ben rappresentata dall’elevata concentrazione tra Lombardia e Alto Adige, con oltre 400 corpi glaciali, 192 in Val d’Aosta, 115 in Trentino e 107 in Piemonte. D’altra parte la regione più glacializzata resta la Val d’Aosta col 36% della superficie totale, seguita dalla Lombardia (24%) e dall’Alto Adige (23%).

Sempre sul sito del Comitato Glaciologico Italiano è possibile confrontare i dati della rilevazione condotta nel periodo 1959-1962 con i dati di oltre 30 anni dopo.

Si è passati da 526 a 368 kmq di copertura glaciale, con una riduzione del 30%. Questi dati, se confrontati con la banca dati del World Glacier Inventory, che segnala la perdita di 478 ghiacciai e una riduzione areale del 27% nello stesso periodo, mostrano una tendenza per la catena alpina allineata all’andamento generale. E non è affatto un bel segnale nemmeno che quello che i corpi glaciali siano aumentati di circa 70 unità nel periodo: è segno che i grandi ghiacciai si frammentano in apparati più piccoli.

clip_image025La quota media degli apparati è il differenziale principale. I ghiacciai di Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Trentino e Piemonte, a quote più basse, hanno perso fino a metà della loro superficie, mentre quelli di Lombardia e Val d’Aosta hanno subito riduzione mediamente del 20%. I ghiacciai più piccoli, che rappresentano circa l’80% del totale, sono ovviamente quelli che hanno subito le riduzioni maggiori, e sono purtroppo anche quelli che maggiormente contribuiscono alle risorse idriche e idroelettriche locali.

Dopo le cause, le conseguenze…

clip_image027La Marmolada è un ghiacciaio simbolo. Le allarmanti previsioni ne danno la scomparsa per il 2035, in soli 25 anni si è praticamente dimezzato.

Come predetto la tendenza di riduzione ha subito una notevole accelerazione negli ultimi trent’anni, passando dal 27% di superficie dell’intero arco alpino tra XIX e XX secolo all’attuale media del 30% fin dalla metà degli anni Ottanta, qualcosa come il 2% l’anno.

La perdita totale degli apparati glaciali alpini si avrebbe quindi in tempi estremamente ridotti, osservabili direttamente alla scala umana di un paio di generazioni con le foto dei ghiacciai scattate dai nonni più che evidenti rispetto a quelle fatte dai nipoti, come nelle due immagini della Marmolada qui a fianco.

Man mano che le masse glaciali scompariranno, oltre 100 miliardi di metri cubi di acqua, a livello locale la cosa avrà delle ripercussioni notevoli sulle temperature e sulla disponibilità d’acqua dolce, intesa anche come fattore di uniformazione delle portate degli apporti idrici stagionali: senza i ghiacciai a monte le portate invernali aumenteranno e quelle estive si ridurranno notevolmente, i fenomeni alluvionali del semestre invernale potrebbero triplicare rispetto a quanto accadeva all’inizio del XX secolo.

Quel che accadrà al settore turistico rispetto ai danni causati dai cambiamenti idrogeologici diventa in pratica un’inezia.

Il permafrost, il terreno perennemente ghiacciato, esiste anche in alta montagna, e sulle Alpi, in funzione anche dell’esposizione, lo abbiamo dai 2.600 m di quota in su. Ovviamente è destinato a ridursi e scomparire: è stata calcolata la sua riduzione compresa tra il 20 e il 30% entro il 2050. Ciò sta a significare un aumento sensibile dell’instabilità dei versanti con aumento dei crolli e dei fenomeni franosi (sempre sulla Marmolada, è nella memoria recente l’episodio del 2022), oltre che smottamenti diffusi e frequenti. La fusione del ghiaccio del permafrost in regioni come la Siberia, l’Alaska, il Canada o la Scandinavia, potrebbe liberare un gas serra estremamente potente: il metano. Con un feedback di rinforzo del fenomeno sul fenomeno stesso causato dall’ulteriore aumento delle temperature.

Ma è l’acqua l’elemento più a rischio. Le Alpi sono state definite “la colonna d’acqua” dell’Europa e saranno caratterizzate da una generale riduzione della disponibilità idrica che si ripercuoterà sull’intero bilancio idrico del continente europeo. Ogni aumento di un grado della temperatura riduce l’acqua dolce del 20% che è destinata ad interessare il 10% della popolazione mondiale distribuita per lo più in aree già a rischio.

Almeno fino ai 2000 metri di quota le previsioni climatiche segnalano una riduzione del numero di giornate in cui la temperatura resta al di sotto di 0°C, con qualità e stabilità del manto nevoso sempre più compromesse; ma anche a quote superiori si assisterà a riduzioni complessive del volume annuale di neve. Sulle montagne appenniniche andrà anche peggio a causa delle quote inferiori e delle latitudini più meridionali.

Addio allo sci? Sembra proprio di sì. Ma questo è il minimo. Alpi rocciose e senza neve per i secoli a venire, già di per sé dipingono uno scenario drammatico per molte economie locali legate ai destini della stagione sciistica, ma saranno soprattutto all’origine dell’intero arco alpino e del continente europeo sempre più poveri d’acqua.

Concludo con un’altra coppia di immagini di confronto estremamente eloquenti. Spesso ci si dimentica che i ghiacciai sono presenti, o dovrei dire erano, anche nel cuore dell’Africa equatoriale: il monte Kenya, il Kilimangiaro, e soprattutto le montagne del Ruwenzori. Nelle foto la situazione del Monte Stanley (5.109 m slm), gruppo del Ruwenzori, tra Congo ed Uganda, fotografato nel 1906, a sinistra, e nel 2022.

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Riferimento bibliografico: "Viaggio nell'Italia dell'Antropocene" di Telmo Pievani e Mauro Varotto.


E come disse l'emiro, torneremo alle caverne (*)

Cambiamento climatico e global warming: c'è ancora chi sostiene che non tutto il male viene per nuocere? Direi che dopo lo scarso risultato (oserei dire un fiasco, nonostante le entusiastiche dichiarazioni, capolavoro di bizantinismo) ottenuto col documento di accordo dell'ultima COP, una trattazione del genere potrebbe anche diventare interessante.

Introduzione

Le voci negazioniste hanno forme molteplici, le forme della bugia, dell’imbroglio, della malafede e del complottismo. Senza ardire a proclamarne la verità assoluta per non incomodare lo spirito di Popper, di contro la voce scientifica, è una, chiarissima. La voce dei fatti incontrovertibili, delle evidenze sperimentali, dei risultati matematici della modellizzazione, dei confronti tra posizioni fino al consenso scientifico. Fortunatamente le prime sembrano avviarsi infine ad essere sempre più flebili e arroccate sulle loro posizioni sbagliate tanto quanto e tanto per iniziare, quanto quelle degli astrologi che credono che ancora oggi tra gennaio e febbraio la Terra sia in Acquario[1].

Proprio grazie al convincimento che è in atto un cambiamento climatico, in questo post, arriverò al paradosso della negazione o peggio, dell’accettazione che tutto sommato non è così grave, indirizziamo i nostri sforzi altrove, i problemi sono altri! Dopotutto, di paradossi ne ho già trattato.

Con cambiamento climatico intendo quanto ribadito nel documento UNFCCC, Art. 1, punto 2, cambiamento con forzante antropogenica, distinguendolo dalla naturale variabilità climatica che ha segnato da sempre la storia della Terra, di cui ad esempio ho trattato qui.

Le certezze hanno origini antiche

Fin dai primi decenni dell’Ottocento c’erano scienziati interessati a capire i meccanismi del riscaldamento dell’atmosfera, ben consci che questa da un lato è a contatto con lo spazio esterno, gelido, e dall’altro con la superficie calda della Terra; e per capire i meccanismi delle dinamiche atmosferiche occorreva innanzi tutto capire come il calore venga assorbito e trasportato in due direzioni: dal Sole verso la Terra e dalla superficie terrestre verso lo spazio esterno.

Questa comprensione risultava inoltre necessaria per capire come fosse stato possibile che nel passato geologicamente anche recentissimo le ben note aree temperate europee ed americane avessero vissuto lunghissimi periodi glaciali, di decine di migliaia di anni ciascuno, ricoperte da migliaia di metri di ghiaccio e le cui prove andavano accumulandosi proprio in quel periodo[2]. La paura di un possibile ritorno di quei periodi era figlia di quei tempi, visto che il ricordo della piccola era glaciale, che aveva interessato l’Europa dalla metà del XIV secolo fino alla metà del XIX, nella memoria storica, era, freschissimo!



Si andava quindi alla ricerca delle prove che potessero giustificare un simile cambiamento climatico.
 

Entro le prime decadi del XIX secolo, Jean-Baptiste Fourier, notissimo, e il meno noto Claude Pouillet, erano giunti a comprendere a sufficienza i meccanismi della termodinamica dell’atmosfera, su basi analitiche, ed i relativi processi di irraggiamento, nel 1822 il primo e nel 1838 il secondo. Fourier arriverà a sviluppare strumenti matematici potentissimi, lo sviluppo in serie per le funzioni periodiche, e la trasformata che porta il suo nome, per normalizzare le funzioni non periodiche: strumenti che nascono proprio per rispondere ad una questione termodinamica relativa al clima terrestre, proprio come Newton, in lite con Leibnitz, inventò il calcolo infinitesimale per supportare la sua visione del mondo[3].

Pouillet va oltre: riprendendo l’opera di Fourier scopre che la temperatura superficiale della Terra è influenzata dal diverso grado di assorbimento che l’atmosfera ha nei confronti delle due fonti di calore, ovvero quello che viene essenzialmente dal Sole e quello che arriva invece dalla superficie stessa; allo scopo di comprendere i motivi di questa differenza si spinge a fare delle ipotesi sul ruolo che hanno il biossido di carbonio o il vapore acqueo.

 


Nel 1856 Eunice Newton Foote, la cui storia merita di essere conosciuta, degna figlia di un omonimo del grande Isaac, a seguito di esperimenti mirati[4], scopre che il biossido di carbonio provoca un riscaldamento maggiore dell’aria e scrive: «Un’atmosfera carica di gas acido carbonico[5] darebbe alla nostra Terra una temperatura elevata; e se, come alcuni suppongono, in un periodo della sua storia l'aria fosse stata mescolata con esso in una proporzione maggiore di quella attuale, ne sarebbe derivata una temperatura necessariamente più alta».

Verso la fine del XIX secolo, John Tyndall e Svante Arrhenius, rispettivamente nel 1861 e nel 1896, vanno oltre ed iniziano a misurare gli effetti concreti di alcuni componenti dell’atmosfera, componenti che Tyndall chiama radiativamente attivi e che da soli bastano a giustificare i cambiamenti climatici del passato della Terra. Rifà i calcoli centinaia di volte ma deve arrendersi di fronte all’evidenza: anche piccolissime quantità di biossido di carbonio hanno un fortissimo potere riscaldante.

Arrhenius, che era svedese e temeva particolarmente gli effetti di un periodo glaciale sul suo paese, già naturalmente esposto a climi freddi, riesce a calcolare gli effetti proporzionali tra presenza di biossido di carbonio e tasso di riscaldamento e si sofferma in particolare sugli aumenti della concentrazione di CO2 derivante dalle attività umane, sia come emissione diretta insieme ad altri cosiddetti “gas serra” (come vapore acqueo o metano) capendo che persino attività quali la deforestazione hanno l’effetto di incrementare il tasso di biossido di carbonio e ovviamente deducendone un aumento crescente delle temperature medie.

 




Guarda il lato positivo…

Ma quello che colpisce di più è ciò che emerge in Arrhenius a seguito delle sue ricerche: una visione tutto sommato positiva del futuro dell’umanità a seguito del riscaldamento dell’atmosfera. Se l’obiettivo è evitare un ritorno a periodi glaciali allora ben venga non tanto il ruolo naturale del CO2 in atmosfera ma soprattutto il ruolo dell’umanità nell’emetterne notevoli quantità addizionali, causare quindi un innalzamento globale delle temperature. Scrive:

«Spesso sentiamo lamentarci che il carbone immagazzinato nella terra è sprecato dalla generazione presente senza alcun pensiero per il futuro, e siamo terrorizzati dalla terribile distruzione di vite e proprietà che ha seguito le eruzioni vulcaniche dei nostri giorni. Possiamo trovare una sorta di consolazione nella considerazione che qui, come in ogni altro caso, c'è del bene mescolato al male. Per l'influenza della crescente percentuale di acido carbonico nell'atmosfera, possiamo sperare di godere di epoche con climi più equi e migliori, specialmente per quanto riguarda le regioni più fredde della Terra, epoche in cui la terra produrrà raccolti molto più abbondanti che nel presente, a beneficio di una rapida propagazione dell'umanità»

E ancora:

«Benché il mare, assorbendo l'acido carbonico, agisca come regolatore di grandi capacità, incorporando fino a 5/6 dell'acido carbonico prodotto dobbiamo riconoscere che la piccola percentuale di acido carbonico in atmosfera potrebbe, con l'avanzamento dell'industria, cambiare notevolmente nel corso di pochi secoli

Questa visione, molto comune e piuttosto diffusa fino ai primi decenni del XX secolo è, ribadiamolo, figlia del suo tempo, del timore del ritorno delle grandi glaciazioni.

In maniera non dissimile nel 1938 Guy Callendar calcola molto accuratamente gli effetti del riscaldamento. Con delle proiezioni fino al 2200 (!) l’ingegnere ed inventore inglese stima le emissioni umane di biossido di carbonio pari a circa 5 miliardi di tonnellate l’anno (Gt); siamo in realtà quasi a 40! Calcola per l’anno 2000 335 parti per milione (ppm) di CO2 e per il 2100 fino a 400 ppm; siamo a 420 (anno 2023), in anticipo di quasi un secolo. E, considerando inequivocabile il rapporto causa-effetto della concentrazione di CO2 sul riscaldamento, scrive:

«Si può supporre che la produzione artificiale di questo gas incrementerà considerevolmente nei prossimi secoli. E’ probabile che si dimostrerà benefico per l'umanità in molti modi, oltre che per la produzione di calore elettricità. Ma in ogni caso, grazie all'incremento delle temperature, il ritorno dei mortali ghiacciai dovrebbe essere ritardato indefinitamente.» 

La paura del raffreddamento globale torna ancora, e riecheggia fino gli anni ’70 del XX secolo, quando c’era una certa tendenza, nel mondo accademico, a prevedere un forte raffreddamento della temperatura media nonostante, fin dal 1958, le ricerche (vedi il più recente post) di Charles D. Keeling (nella foto a sinistra, lo abbiamo già incontrato, qui), chimico e pioniere della nascente climatologia, avesse raccolto dati che dimostravano che la quantità di CO2 in atmosfera varia notevolmente nel tempo e da luogo a luogo[6] con cicli periodici di varia natura, influenzandone direttamente gli assorbimenti di calore e con una netta tendenza ad aumentare nel tempo.
 
E ancora nel 1975, Wallace Smith Broecker, (a destra) da molti considerato il padre della terminologia global warming[7], apparsa allora per la prima volta in una rivista scientifica, pubblica un articolo in cui mette nero su bianco che «entro un decennio, l’attuale tendenza al raffreddamento, lascerà il posto ad un pronunciato riscaldamento indotto dal biossido di carbonio (…) Una volta che ciò accadrà l’aumento esponenziale del biossido di carbonio atmosferico tenderà a diventare un fattore significativo e all’inizio del prossimo secolo avrà portato la temperatura planetaria media oltre i limiti sperimentati negli ultimi mille anni.»[8]




Meglio caldo che freddo?

Ma torniamo a quella visione benevola, quella di Arrhenius che appunto da buon svedese, era oltremodo preoccupato da un ritorno di climi freddi, anzi freddissimi. Visione condivisa da molti suoi contemporanei. 

È paradossale, e di paradossi tratteremo adesso, ma i negazionisti, in malafede, ricordano a volte e da vicino talune posizioni di quei primi ricercatori, che già a cavallo tra XIX e XX secolo, avevano provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il rapporto diretto di causa-effetto tra concentrazione di gas serra, in particolare biossido di carbonio, e aumento delle temperature. Un punto di vista per nulla preoccupato e anzi benevolo, perché si sosteneva che tutto sommato un aumento delle temperature medie avrebbe evitato il ritorno ad un periodo glaciale come nei millenni passati. Meglio caldo che freddo insomma.

Con riferimento alle popolazioni che vivono in quella fascia del pianeta che ricade nella cosiddetta “zona temperata boreale”, o poco più a nord, (più o meno la fascia verde nell’immagine), questo ragionamento potrebbe anche andar bene. E a ben vedere è quella fascia del pianeta che ha assistito per prima alla nascita dell’agricoltura e delle prime civiltà, spandendosi in seguito a macchia d’olio ed impiegando per farlo qualche millennio, restando sempre più o meno alle stesse latitudini, dai territori della Mezzaluna Fertile fino agli estremi occidentali dell’Europa e a quelli orientali del continente asiatico, come ci racconta Jared Diamond nel suo bel libro “Armi, acciaio e malattie”. Tuttavia, quando si tratta di civiltà umane, non ci si può accontentare delle sole cause climatiche per giustificare determinate evoluzioni. L’esempio dell’ascesa e del declino dei vichinghi in Groenlandia tra X e XIII secolo è uno dei tanti; quando il clima si fece più freddo la cosa non diede particolarmente fastidio alle popolazioni indigene degli inuit, che provenivano da nord. Questi traevano sussistenza da una cultura basata su caccia e pesca, ed erano usi a vestire di pelliccia; i vichinghi erano agricoltori e pastori, non abbandonarono mai la tradizione di vestire di stoffe, inadatte al clima artico. Un altro esempio di imprevedibilità dovuta all’adattamento umano ci viene da un recente studio del CNR. 

Secondo i ricercatori, le comunità archeologiche della Mezzaluna Fertile erano molto più versatili di quanto si potesse immaginare; la variabilità climatica, che porta a un aumento dello stress o al miglioramento delle condizioni ambientali di fondo, sembra solo modulare le dinamiche culturali e di sussistenza esistenti, che tuttavia non sono direttamente attribuibili al cambiamento climatico stesso. Le variazioni climatiche giocano un ruolo limitato nel governare le dinamiche delle comunità complesse, che dimostrano capacità di adattamento e di reazione ai cambiamenti e con grandi abilità di resistere a condizioni apparentemente avverse. In altre parole, le variazioni climatiche agirebbero solo come spinta per accelerare processi culturali già in atto.

Alla via così…

E allora facciamo finta che non esistano eventuali (e certissime) turbative che il cambiamento climatico può indurre pressoché ovunque in termini di fenomeni estremi, causa diretta o indiretta del riscaldamento[9]; così facendo quella ristretta fascia di territorio potrebbe addirittura trarre beneficio dal riscaldamento, con buona pace dell’industria turistica dello sci ovviamente (…)[10]. Pensate su quanti milioni di ettari per nuove coltivazioni cerealicole potrebbero contare i russi dopo lo scioglimento del permafrost, e chi se ne frega (…) se centinaia di centri abitati dovranno essere ricostruiti chissà dove dopo il crollo delle fondamenta basate su terreni che si suppongono sempre gelati: accade già oggi. Anzi, il gas serra dieci volte più assorbente del CO2, il metano contenuto nei terreni gelati, verrebbe liberato in atmosfera con retroazione positiva (…) a riscaldare ulteriormente l’atmosfera di quelle zone. Ma tutto quel grano, a chi lo venderanno visto che gran parte della fascia compresa tra i due tropici sarà stata pressoché desertificata e spopolata (…)?
Il ricco Occidente ne uscirà tutto sommato ancora una volta vittorioso: dopo tutto abbiamo i mezzi e la tecnologia necessari per adattarci al cambiamento climatico e un riscaldamento è meglio di un raffreddamento; meno territorio sottoposto ai rigori di inverni sempre più rigidi. Quindi se il riscaldamento globale significa più terre da coltivare perché sottratte al ghiaccio o comunque a climi estremi, maggiori risorse, meno problemi di salute perché col caldo non ci si ammala come col freddo, ci si lava di più e si è meno soggetti ad epidemie[11], allora la cosa può anche giustificare certe posizioni negazioniste (…). E poi vuoi mettere quanta benzina e gasolio risparmiati in Yakutia d’inverno che oggi sono impiegati per tenere accesi i motori delle auto e dei camion 24 su 24 che altrimenti congelerebbero all’istante (…)?

Non facciamo dunque nulla perché tanto non c'è nessuna emergenza e al massimo andremo a star meglio (…). 

L’Italia, o la Grecia e persino la Spagna o il sud della Francia, meriterebbero un discorso a parte. Innanzi tutto la linea di costa dovrà essere spostata sempre più verso l’interno a causa dell’innalzamento del livello medio del Mediterraneo: crescita non compensata dall’aumentato tasso di evaporazione che renderà il mare sempre meno pescoso tra acidificazione e aumento della salinità complessiva. Non basta? 

Potremmo comunque adattarci? Ma sì, tutto sommato non abbiamo la potenza economica degli Emirati Arabi Uniti per trasformare Roma in una novella Abu Dhabi ma sicuramente il Grande Raccordo Anulare sopravviverebbe alla trasformazione della capitale in una città in stile marocchino. E nel frattempo il turismo rivierasco romagnolo si sarà spostato sui fiordi norvegesi (…).

 

Pronti all’accoglienza?

E’ di queste ore la notizia che un miliardo e mezzo di persone sono pronte a migrare dal sud del mondo verso il nord del mondo, e questo siamo noi: l’Occidente di cui scrivevo. Anzi, entro la fine del secolo il cambiamento climatico potrebbe portare, tra siccità da un lato e paradossalmente inondazioni dall’altro, qualcosa come tre miliardi e mezzo di persone a migrare o cercare di farlo. Un quinto della superficie terrestre potrà subire un incremento significativo di gravi inondazioni della durata di settimane, costringendo gli abitanti a spostarsi; e in opposizione all’abbondanza d’acqua centinaia di milioni di persone che dipendono dall’acqua dei ghiacciai resteranno letteralmente a bocca asciutta.

 

Quindi, se tutto sommato il nord del mondo potrebbe adattarsi ad un cambiamento climatico così come già fecero le popolazioni europee durante la piccola era glaciale, con una bella sfoltita[12] dovuta a carestie, epidemie, malattie e chi più ne ha più ne metta, va ancora bene.

Ma è pronto il nord del mondo a riconoscere ed accettare le conseguenze di un cambiamento climatico di tale portata? Centinaia di milioni se non miliardi di esseri umani destinati a morire e miliardi di altri esseri umani in migrazione continua dal sud del mondo che diventerà sempre più arido e invivibile, verso il nord del mondo, ovvero noi.

L’atteggiamento che paesi come gli Stati Uniti e la pressoché totale compagine europea hanno nei confronti dei flussi migratori non promettono né premettono nulla di positivo; e proprio in questi giorni le richieste di essere accoglienti vengono respinte al mittente inequivocabilmente.

Siete disposti ad accettare uno scenario del genere? Se sì, accomodatevi perché il futuro è già qui.

Dimenticavo, l’Europa si scalda al doppio della velocità con cui lo fa il resto del mondo (…)

Bibliografia:

Gianluca Lentini. La Groenlandia non era tutta verde
Jared Diamond. Armi acciaio e malattie
Ian Stewart. Le 17 equazioni che hanno cambiato il mondo
Wolfgang Behringer. Storia culturale del clima


[1] E ci fanno persino calcoli!
[2] Già a metà Ottocento lo svizzero Louis Agassiz ne aveva fornito prove.
[3] Vedi qui.
[4] Un paio di tubi di vetro per contenere aria o suoi miscugli, una pompa per fare il vuoto, un giardino assolato od ombreggiato, un paio di termometri. E tanto ingegno.
[5] Acido carbonico era il nome dato allora al biossido di carbonio, CO2, (noto anche come anidride carbonica, definizione comunque non in linea con la nomenclatura chimica ufficiale).
[6] Si veda anche un mio precedente post.
[7] Essere così definito non gli fu mai cosa gradita. Personalmente non amo questa terminologia, quel warm potrebbe anche ricordare qualcosa di gradevole, un caminetto acceso, scene romantiche.
[8] Su questo blog ho scritto numerosi post in relazione alle evidenze del cambiamento climatico in atto: oltre a quanto indicato nella nota 4 ad esempio qui, e qui.
[9] Si pensi agli affetti de El Niño. Ne ho scritto qui.
[10] (…) indica ironia e paradosso.
[11] Il già citato Behringer lo racconta chiaramente: dato che col freddo ci si veste di più e l’igiene tende a scarseggiare, pulci e pidocchi stanno invece benissimo. I tedeschi il pidocchio del corpo umano lo chiamano Kleiderlaus, pidocchio dei vestiti.
[12] Nella tabella il grande collasso demografico a cavallo del XIV ha le sue origini dirette nelle epidemie e nella catastrofica carestia di quel periodo. Entrambi causati in parte anche dalle pessime condizioni climatiche.

(*) Il riferimento ironico è a quanto dichiarato dall'emiro Sultan Al Jaber, leader degli Emirati Arabi Uniti, paese ospitante la COP28.

Cambiamento Climatico. Note perplesse, e profane, sull’efficacia e sull’utilità degli interventi.


Se i climatologi hanno ragione quando parlano di inerzia del sistema climatico globale, allora non possiamo aspettarci miracoli. La Terra continuerà a riscaldarsi anche qualora tutti i paesi del mondo si comportassero in maniera esemplare e riducessero drasticamente i gas di scarico. Questo potrà forse irritare qualcuno. Ma è una notizia migliore rispetto alle previsioni di un imminente glaciazione che circolavano all’inizio degli anni ’60. Ogni volta che la temperatura si abbassa di molto, la società è scossa alle radici. Per contro, il riscaldamento ha prodotto alcune fioriture culturali: se si può imparare qualcosa nella storia della civiltà, è questo: è vero che gli uomini sono “figli dell’era
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glaciale”, ma la civiltà è figlia dell’interglaciale. La rivoluzione neolitica e la nascita delle prime civiltà superiori ebbero luogo in periodo in cui faceva un po’ più caldo di oggi. Se le prognosi dell’IPCC sono corrette, nel corso di questo secolo raggiungeremo nuovamente quei valori. A quel punto i ghiacciai alpini si scioglieranno, ma non quelli dell’Antartide. È già successo più volte. Risparmieremo sul riscaldamento e bruceremo meno energia fossile. Che ne sarà dei deserti? Davvero si estenderanno? Durante il Periodo Atlantico, (tra 5.000 e 7.500 anni fa, con una temperatura media più alta di circa 2,5 °C)(*) nell’area circolava più acqua di adesso, il Sahara era fertile (come testimoniato anche da stratificazioni sedimentarie di origine lacustre risalenti all'inizio a quel periodo).

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Difficile prevedere il futuro. Gli scienziati seri dovrebbero guardarsi dal voler interpretare il ruolo di Nostradamus. Le simulazioni al computer non funzionano meglio delle premesse in base a cui i dati vengono forniti; descrivono delle attese, non il futuro. La storia delle scienze naturali è anche una storia fatta di teorie false e prognosi sbagliate. È interessante conoscere i margini di imprecisione dei metodi di datazione proposti dalle scienze naturali. Le datazioni stabilite col metodo del carbonio 14 o con altri procedimenti fisici, per poter essere utilizzabili devono essere “calibrate”. In concreto: solo grazie alle cronache storiche è possibile riportare le scienze esatte sul binario giusto. Gli umanisti non sono abituati a tanta imprecisione. Rispetto ai periodi su cui gli scienziati calcolano con un margine d’errore di cento anni in più o in meno, gli storici sanno indicare il giorno, l’ora, persino il minuto. Non bisognerebbe farsi troppe illusioni sull’esattezza delle scienze naturali.

Scrivere una “storia culturale del clima”, specie se affronta le conseguenze culturali e sociali dei mutamenti climatici, vuol dire conoscere le premesse metodologiche della scienza della cultura e vuol dire prendere sul serio quei dati che non si ricavano dal ghiaccio o dal fango, ma dagli archivi della società. L’esperienza ci dice che è redditizio combinare i metodi storici con quelli propri delle scienze naturali. La storia culturale del clima ci insegna che il clima è sempre stato in trasformazione e che la società ha sempre dovuto fargli fronte. In ciò le prognosi apocalittiche non si sono mai rivelate utili. Per capirlo non c’è bisogno di risalire alla caccia alle streghe o al crollo delle dinastie dell’Antico Egitto. Basta confrontare i provvedimenti progettati negli anni Settanta per combattere il raffreddamento globale con quelli che vediamo discutere oggi contro il riscaldamento globale. E quindi opportuno invitare i climatologi alla moderazione quando parlano della storia del clima e alla cautela quando ne va della civiltà e della società.

E la combinazione di ricerca scientifica e storica confermano che l’umanità ha avuto continuamente fasi alterne di cambiamenti climatici importanti, ora molto più caldi ora molto più freddi di adesso. A volte per qualche decennio, se non anni, altre per secoli.

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Il clima cambia. Il clima è sempre cambiato. Come vi reagiamo, è una questione di cultura. Il ciò conoscere la storia ci può aiutare. I mutamenti climatici sono stati spesso percepiti come delle minacce. I falsi profeti e gli imprenditori morali hanno tentato sempre di trarne dei vantaggi. Non lasciamo l'interpretazione dei mutamenti climatici nelle mani di chi non sa nulla della storia della civiltà. Gli uomini non sono come gli animali, che devono subire passivamente ogni trasformazione del loro mondo e nella storia recente il mutamento climatico ha avuto anche conseguenze positive. Se quello attuale dovesse rivelarsi di lunga durata, e così sembra il momento, non c'è che una cosa da fare: restare calmi. Il mondo non andrà a fondo. Se farà più caldo, ci prepareremo. Un classico adagio latino dice: tempora mutantur, et nos mutamur in illis. I tempi cambiano, e noi con loro.

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Le immagini che gli astronauti delle missioni Apollo, a cominciare da quella bellissima alba della Terra, mandavano del nostro pianeta ripreso dallo spazio ne evidenziarono per la prima volta agli occhi del mondo tutta la sua fragilità.

A partire dagli anni 90 il timore del riscaldamento globale ha rimpiazzato i precedenti, come quello per la “Moria dei Boschi” o quello per il buco nell’ozono. Per la prima volta, alla sbarra non è più solo l'industria, ma ogni consumatore finale.

In pratica ogni abitante della terra è colpevole: il boscimano sudafricano, che incendia la savana per cacciare o per guadagnare terreno coltivabile, e il fazendero argentino, i cui manzi producono metano, il coltivatore di riso a Bali e il banchiere cinese, che fa i suoi affari in uno studio dotato di aria condizionata. Alcune regioni in Italia vietano rigorosamente l’uso di caminetti a legna o stufe a pellet e centinaia di milioni di indiani, miliardi in tutto il mondo, utilizzano esclusivamente la legna per scaldarsi e cucinare.

Quando, in questo contesto, si parla di protezione del clima o dell'ambiente, occorre aver ben presente di che cosa si tratta. La Terra esiste da circa cinque miliardi di anni e ci sono molte buone ragioni per ritenere che essa continuerà a esistere indipendentemente da ciò che gli uomini le fanno. La scala dei possibili mutamenti va dal pianeta infernale e rovente (Adeano) fino allo scenario della palla di neve (Snowball Earth, argomento di cui ho scritto di recente). Negli ultimi miliardi di anni della sua esistenza, per la maggior parte del tempo sulla Terra ha fatto più caldo di adesso. Solo negli ultimi milioni di anni il clima è diventato più variabile, cioè a volte è molto più caldo di adesso, altre volte -e ciò avviene più spesso- è molto più freddo. E ogni mutamento climatico ha delle conseguenze per la vita sulla Terra. Ma la natura non è un sistema morale. Alcune specie di piante e di animali prosperano quando fa più caldo, altre quando fa più freddo; alcune hanno bisogno di maggiore umidità, altre di minore umidità. Rispetto alla natura tutti i cambiamenti dell'ecosistema sono neutrali, perché ciò che danneggia una specie offre dei vantaggi a un'altra. Chi vorrebbe ergersi al giudice su questo?

Gli sforzi tesi a proteggere la natura sono di segno conservatore
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gli ambientalisti non vogliono preservare la “natura”, ma una forma abituale di natura, cioè una condizione ecologica che è “naturale” né più né meno di ogni altra. Quando si parla di “protezione della natura”, ciò che interessa davvero non è la natura, ma il benessere dell’uomo. Quando certi ambientalisti si riferiscono alla “natura” spesso stanno invece descrivendo il frutto di attività umane iniziate circa 10.000 anni fa e protrattesi fino ad oggi. In ciò c’è anche una certa incoerenza, come si può vedere dal fatto che la maggior parte degli abitanti dell’Europa centrale, pur temendo gli effetti del riscaldamento globale, decidono di trascorrere le vacanze in paesi caldi, per sfuggire al freddo e alla pioggia di casa propria. O peggio, e lo abbiamo visto quest’anno nonostante le raccomandazioni date anche dal conflitto in Ucraina, se fa caldo pochissimi sono disposti a rinunciare a tenere i climatizzatori al massimo, alla faccia delle conseguenze sul riscaldamento globale. E così, al contrario, sarà il prossimo inverno, in questa società che ci vede in maniche di camicia d’inverno negli uffici o nei centri commerciali e col golfino sulle spalle d’estate!

Il parolone “protezione del clima” serve solo a nascondere la paura di fronte al cambiamento. In realtà nelle regioni finora svantaggiate, come i Poli e i territori di alta montagna, si diffonderà un’enorme varietà di specie. Quelle iper specializzate, per contro, si estingueranno. Non è una questione di morale, ma di evoluzione.

Con ciò non si vuole contestare, si badi, la necessità di proteggere la natura. Ma bisogna chiarire che cosa deve essere protetto, e perché. Che la protezione delle specie debba avere una priorità maggiore rispetto alla loro scomparsa, dovrebbe risultare evidente a chiunque (quanto meno perché le specie coesistenti e coeve alla nostra fanno parte del nostro ambiente). Tuttavia è lecito chiedersi se gli orsi polari siano una specie a rischio a causa del riscaldamento o a causa dello sfruttamento dell'Artide da parte di attività umane come l’agricoltura, l’industria e la costruzione di insediamenti. Da lontano, stando al sicuro, è facile deplorare che non si possa impedire né l’una né l'altra cosa. Ma laggiù un orso polare che si aggira vicino ai cassonetti non è meno pericoloso dell’orso che nell'estate del 2006 girovagava per i boschi tra Germania e Austria suscitando rifiuti e paura nei diretti interessati. Gli animali dell’Artide saranno minacciati allo stesso modo degli animali dell’Africa o dell’Amazzonia. Per garantire la loro sopravvivenza fuori dai giardini zoologici, in coesistenza con insediamenti umani sempre più estesi, c’è bisogno di progetti seri e ben meditati.

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La lotta all'inquinamento dell'aria ha senso anche a prescindere della questione se i gas di scarico producono un effetto serra o gli aerosol contribuiscono al raffreddamento. Tuttavia, in presenza di una densità della popolazione molto alta, spostare questo o quell’insediamento non sarà facile come nel Neolitico. Anzi, non mancherà di provocare conflitti che peraltro sono palesemente già in atto se consideriamo la reazione media di fronte alla immane tragedia dei migranti climatici e/o economici.

Soprattutto per questo la comunità mondiale ha interessi a contenere i mutamenti climatici entro certi limiti. L’adattamento, volenti o nolenti, che le popolazioni umane subirono in passato, dal Neolitico alla Piccola Era Glaciale non è più attuabile.

Essa deve prepararsi a una grande trasformazione del clima (adaptation), ma al tempo stesso deve impedire che essa sia troppo grossa (mitigation). Non ha alcun senso voler contrapporre una strategia all’altra, come troppo spesso accade. Ma finora si sente quasi esclusivamente parlare di mitigation, spesso ignorando del tutto che dei due questo è l’obiettivo più difficile, apparentemente impossibile, da raggiungere.

(*) ricordo che, secondo i modelli di IPCC, il limite superiore da non superare è di 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali. Ogni ulteriore aumento porterebbe alla catastrofe per l’umanità (…)

Bibliografia
Wolfgang Behringer – Storia culturale del clima. Dall'era glaciale al riscaldamento globale.