Le emissioni di gas serra – dare i numeri, ma giusti.

Nota sulla terminologia

E’ noto che prendere a modello del riscaldamento dell’atmosfera quanto accade in una serra è solo una metafora approssimativa, ma è ormai da lungo tempo entrato nell’uso comune parlare di gas serra quando ci si riferisce ai gas che riescono a trattenere, in maniera consistente, una parte considerevole della componente infrarossa, in altri termini, del calore. Dopo tutto, come vedremo, l’equivalente termine anglosassone greenhouse gas, GHG è entrato nell’uso comune anche in ambito tecnico e scientifico.

clip_image002[9]Premessa

Accade spesso di incrociare, sui social, comunicati di vario tipo, per lo più in stile complottista, che fanno improbabili comparazioni associando elementi al cui confronto i famosi Non-overlapping magisteria del famoso biologo statunitense Stephen Jay-Gould diventano terreno di scambio fertile.

Ora, finché si tratta di giochetti divertenti come i tantissimi disponibili sul sito delle Spurious Correlations passi, ma quando si ha a che fare con argomenti seri la cosa può diventare pericolosa perché genera, oltre che disinformazione della peggiore, l’impressione che possa esserci dibattito aperto anche laddove si ha a che fare con un amplissimo consenso scientifico. E la velocità della luce, come disse Piero Angela, non si decide per alzata di mano, non è democratica.

clip_image004[8]Le comparazioni in questione somigliano un po’ tutte al grido scandalizzato “e le navi allora?”, o tipo “e allora quanto consumano gli aerei? Eh?” cercando di distrarre con uno scopo parecchio utilitaristico, in questo caso salvaguardare la categoria del trasporto su strada, soprattutto privato, spostando l’attenzione, quasi urlando, su tutt’altro. Atteggiamento tipico di chi non ha argomenti e, se preso in castagna, cambia soggetto. Insomma «Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito» recita un proverbio di discussa origine ma di chiaro significato: non fermarsi alla superficie delle cose, degli eventi, ma coglierne la profondità, la realtà.

A parte i calcoli sbagliati (i due aerei citati arrivano a meno di 400.000 litri insieme, ma non è questo il punto[1]) la malafede sta nel non presentare i dati più importanti: la percentuale di emissione complessiva dei gas serra rispetto ad altre forme di trasporto. Probabilmente perché questi improvvisati novelli ecologisti non saprebbero dove andare a prenderli, o meglio, pur mettendoglieli sotto il naso sottoforma di grafico non lo capirebbero e continuerebbero imperterriti a saltellare da un “e allora questo?” ad un “e allora quello?”.

Ovviamente non sto dicendo che una nave emetta aria di montagna al gelsomino. E’ noto che le navi sono abitualmente alimentate con olio combustibile della peggior specie: la maggior parte di queste utilizza carburanti fossili ad alto contenuto di zolfo, come il carbone e soprattutto il petrolio pesante, che sono altamente inquinanti. Né posso negare il ruolo del trasporto su gomma, come ben vedremo. Ma i numeri da soli non bastano, soprattutto se presentati con disonestà, vanno discussi e contestualizzati, perché sono gli unici che possono dare il quadro reale della situazione.

Sia chiaro che chi si mette anche a contestare questi ultimi, accusando le fonti di mentire o di falsare i dati non va preso nemmeno in considerazione: non c’è speranza che possa cambiare idea radicato e ingabbiato nella sua stessa stupidità.

Diamo i numeri

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I numeri ci sono tutti. Pubblici e pubblicati, aggiornati quasi in tempo reale. Sul sito Our World In Data, ad esempio, c’è la possibilità di ottenere dati e grafici su un’infinità di argomenti diversi, mappe geografiche, interpolazioni ed estrapolazioni, e se non bastasse ancora spesso la possibilità di scaricare direttamente i dati in comodi fogli di calcolo per farne quel che volete.

Ad esempio qui abbiamo la produzione mondiale del solo biossido di carbonio[2], CO2, che possiamo comparare qui con la produzione mondiale di tutti i gas serra, i GHG appunto, espressi anche in termini di “CO2 equivalente” CO2e (o anche eq) di cui ho parlato tempo fa.

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E’ importante distinguere tra CO2 da solo, il più comune e diffuso dei gas serra, e la somma di questo con metano e protossido di azoto, N2O. Il metano, CH4, è un gas serra dal potere riscaldante almeno cento volte più alto che non il biossido di azoto, ma ha un tempo di persistenza di circa un secolo, comparato con i tempi di permanenza del CO2: circa un quinto del biossido di carbonio emesso oggi sarà ancora lì tra 1.000 anni. Il N2O lo ha di qualche secolo. In altre parole, una molecola di CO2, una volta immessa in atmosfera, verrà riassorbita tempi lunghissimi, una di metano o di protossido d'azoto in tempi mediamente dieci volte minori.

I numeri sono presto detti: siamo oggi a circa 37 miliardi di tonnellate l’anno di biossido di carbonio e circa 55 miliardi di tonnellate di CO2e. Un miliardo di tonnellate si indica con la sigla Gt (giga tonnellata). In crescita.

La quantità di biossido di carbonio misura le emissioni fossili, ovvero quelle derivate dall’utilizzo di combustibili fossili e quanto direttamente prodotto da processi industriali delle acciaierie e dei cementifici. Il CO2 fossile include quindi le emissioni dirette e dovute alla combustione di carbone, petrolio e gas, oltre che conteggiare la produzione che ne deriva dallo scarto di combustione dei processi di produzione di acciaio e cemento o, in misura minore, altre fonti. Tra poco vedremo brevemente perché.

Le emissioni fossili non includono il cambiamento dell'uso del suolo, gli effetti della deforestazione, il suolo stesso o la vegetazione che lo ricopre. Sul sito citato si possono ottenere informazioni globali o soltanto riferite ad uno o più paesi. Le emissioni cosiddette nazionali sono calcolate in base a quanto effettivamente prodotto a cui si sommano le emissioni importate e si detraggono le esportate[3].

Nel dettaglio

Tornando a quanto si diceva in premessa iniziamo a vedere come i numeri, quelli reali, portino immediatamente a smentire quel che si sarebbe voluto dimostrare, con delle correlazioni spurie, ovvero contando i pieni di benzina equivalenti al pieno di combustibile avio, o paragonando le ore di fermo di una nave in porto con migliaia di macchine ferme al semaforo.

clip_image010[6]

Andiamo quindi a vedere da dove vengono realmente le emissioni, prendendo in considerazione il totale dei gas serra, ovvero quelle 55 Gt l’anno che oggi siamo arrivati a produrre[4]; attenzione a non perdervi tra i numeri e per non farlo consiglio di avere sempre il diagramma in vista.

Il bellissimo grafico sul solito sito al primo colpo d’occhio mette già in evidenza un dato: il 73,2% delle emissioni sono legate a ciò che viene definito Energy, ovvero tutto ciò che richiede energia e che per approvvigionarsene usa combustibili fossili. Il restante 26,8%, tutto ciò che non emette gas serra per utilizzo di fonti fossili ma che ne produce autonomamente; tutti questi comparti residuali, fatto 100 tutto il resto, vedono quasi il 70% legato alle emissioni del comparto agroforestale, come avremo modo di vedere in dettaglio più avanti: deforestazione, abbandono di praterie che degradando emettono carbonio, bruciatura dei raccolti o dei loro scarti, risicoltura, allevamento, in quest’ultimo caso soprattutto metano, e altro ancora. Il restante 30% di quel 26,8%, è invece imputabile alla produzione di CO2 diretta dalle industrie del cemento (ecco da dove arriva quanto dicevamo prima) e di taluni processi chimici e petrochimici di natura industriale.

Del cemento ne parleremo in dettaglio e anticipiamo qui che i gas serra possono essere prodotti come sottoprodotto da processi chimici: ad esempio, il CO2 può essere emesso durante la produzione ad esempio di ammoniaca, che viene utilizzata per purificare le forniture idriche, i prodotti per la pulizia e come refrigerante e utilizzata nella produzione di molti materiali, tra cui plastica, fertilizzanti, pesticidi e tessuti. Questi quantitativi non sono quindi produzione dovuta all’industria chimica in senso lato, ovvero a quei processi legati alla produzione di fertilizzanti, prodotti farmaceutici, refrigeranti, di supporto chimico all’estrazione di oli e gas e via discorrendo: non vanno insomma confusi con quel 3,6% indicato in Chemical & Petrochemical nel gruppone Energy del diagramma. Insomma, l’agroforestale ha il suo bell’impatto con quel quasi 20% ma il grosso è altrove, con buona pace dei rutti e dei peti di bovini, caprini e ovini e…affini.

Ma torniamo a concentrarci su quel 73,2 percento di Energy perché là dentro ci sono i trasporti, compreso le navi, da cui siamo partiti.

Il gruppone Energy

Rappresenta dunque, come si diceva, la produzione energetica e il suo consumo: elettricità, calore e trasporti. A sinistra è possibile vedere la ripartizione complessiva delle fonti di emissioni mentre a destra sono elencate le principali categorie di quel 73,2%. Nei grafici a torta a seguire i valori indicati sono assoluti, relativi al totale delle emissioni dei gas serra su base annuale [5].

 clip_image012[6]clip_image014[6]

La produzione industriale, com’è lecito aspettarsi, la fa da padrone e questo porta subito un’incognita futura legata soprattutto non alla capacità di ridurre le emissioni, pagandone ovviamente il sovrapprezzo ma a fronte di migliorate condizioni ambientali, quanto alla volontà di farlo da parte dei cosiddetti paesi energivori in forte crescita da qualche decennio, Cina ed India in primo luogo, e da parte di quei paesi, soprattutto in America Latina e nell’Africa subsahariana, che stanno crescendo grazie anche alla possibilità data da fonti energetiche abbondanti e disponibili. In altre parole, i paesi occidentali hanno finora consumato ed emesso migliaia di miliardi di tonnellate di gas serra da fonti fossili a costi relativamente bassi, e pur con una maggiore attenzione alla riduzione stanno continuando a farlo, perché mai la Nigeria o l’India dovrebbero privarsene?

Condividono il podio del non così onorevole secondo posto, con emissioni comparabili, il settore dei consumi energetici, essenzialmente raffrescamento e riscaldamento, degli edifici residenziali e non, e del trasporto e, da notare, ci sono anche emissioni legate alle fuoriuscite o alle perdite di combustibile non direttamente utilizzato nella produzione di energia o nell’energia necessaria a limitarle. Quel 7,8% di cosiddetta Produzione Non Fossile sono emissioni legate alla produzione di energia da altri combustibili, tra cui elettricità e calore da biomassa, geotermico e fonti di calore in loco; produzione combinata di calore ed elettricità (CHP), industria nucleare e stoccaggio idroelettrico mediante pompaggio. Infine, l’energia della sezione Agricoltura&Pesca è quella legata alle emissioni derivanti dall'uso di macchinari nell'agricoltura e nella pesca, così come per il carburante per macchine agricole e pescherecci.

Energia per l’industria, i trasporti e gli edifici

clip_image016[6]Accertato con una facile proporzione che dell’energia consumata per gli edifici più del 60% è destinata a quelli residenziali e quasi il 40% a quelli commerciali focalizziamo i dettagli dei due comparti.

L’industria siderurgica e quella petrolchimica prendono quasi la metà delle emissioni del comparto industriale. E’ possibile distinguere quell’1% di quella agroalimentare, ovvero la trasformazione alimentare, la conversione di prodotti agricoli grezzi nei loro prodotti finali, come la conversione del grano in pane, od emissioni associate ai tabacchifici e altri settori, come l’industria dei metalli non ferrosi, della carta, quella manufatturiera hanno ognuno percentuali intorno allo 0,5%. Il resto è altro, ovvero emissioni legate all’energia e derivanti dalla produzione in altri settori, tra cui l'estrazione mineraria, l'edilizia, il tessile, i prodotti in legno e le attrezzature di trasporto, come ad esempio la produzione automobilistica.

clip_image018[6]Ed eccoci finalmente arrivati ai trasporti, da cui siamo partiti. Aviazione? 1,9%, con l’81% di questa fettina dovuto al trasporto passeggeri, aumentato in maniera considerevole negli ultimi decenni, e il restante 19% dal trasporto merci; inoltre ad esser precisi il 60% è frutto di collegamenti internazionali mentre il 40% va imputato ai voli nazionali. Navigazione? 1,7%, passeggeri e merci: quindi, a conti fatti davvero, delle 55 Gt prodotte ad oggi ogni anno circa 1 Gt (0,935) è dovuta al traffico marittimo internazionale.

Conteggiando anche quanto imputabile al trasporto su rotaia e quanto necessario a pompare carburanti da un punto all’altro del pianeta resta quell’importante 11,9% di trasporto su strada, su un totale di 16,2% del gruppone Energy: ovvero il 73% delle emissioni di gas serra dell’intero comparto trasporti è dovuto al trasporto su strada.

Emissioni derivanti dalla combustione di benzina e gasolio da tutte le forme di trasporto stradale, urbano e non, che comprendono automobili, camion, motocicli e autobus. Il 60% delle emissioni del trasporto stradale provengono dai viaggi dei passeggeri (automobili, motociclette e autobus) e il restante 40% dal trasporto merci su strada (camion, autotreni, furgoni).

Sono valori importanti, notevoli se vogliamo. Ma non voglio adesso prendere nessuna posizione su ciò e soprattutto quanto comporterebbe elettrificare completamente il settore dei trasporti stradali. Innanzi tutto c’è un evidente limite tecnologico e logistico dell’impossibilità di mandare a batterie i mezzi pesanti, gli autotreni, per lo meno non con le batterie attuali[6]; inoltre anche se, matematicamente, elettrificare l’intero comparto ridurrebbe le emissioni del 10-12% gli studi sull’impatto diretto della produzione di batterie, sulla disponibilità di fonti di ricarica anch’esse rinnovabili[7] e sull’impatto ambientale sono tuttora contrastanti e le direttrici maggiori puntano alla riqualificazione soprattutto del comparto industriale e sulla sostituzione delle fonti laddove possibile. Certo sarebbe stato bello in numerosi paesi che i governanti fossero stati più accorti e lungimiranti favorendo il trasporto ferroviario a quello su strada, lo si dice da decenni, ma è anche oggettivamente vero che ci sono moltissime realtà dove le infrastrutture sono carenti o assenti, e addirittura condizioni geomorfologiche tali da rendere impensabile realizzare una rete ferroviaria moderna. Per i trasporti molte voci suggeriscono di puntare sui biocarburanti o sull’alimentazione ad idrogeno che però, ancora oggi, ha gravi carenze di produzione per via dei costi elevati, ed una rete di distribuzione pressoché inesistente.

Acciaio

Un’acciaieria genera emissioni dirette ed indirette. Le prime sono quelle derivanti dall’energia necessaria ad alimentare i giganteschi impianti, a portare gli altoforni alla giusta temperatura o semplicemente a tenere le luci accese negli uffici amministrativi; le seconde quelle derivanti dalla produzione stessa dell’acciaio.

Per fare l’acciaio occorre legare il ferro al carbonio. Il ferro in natura è abbondante ma non si trova quasi mai da solo bensì sottoforma di minerali come la magnetite o l’ematite (Fe3O4 o Fe2O3), il carbonio necessario viene per lo più dal carbone. Per produrre l’acciaio occorre separare il ferro dall’ossigeno fondendo il minerale di ferro a temperature di 1700 °C in presenza di ossigeno e di un tipo particolare di carbone, il coke.

A queste temperature, il minerale ferroso rilascia l’ossigeno e il coke rilascia carbonio che in parte si lega al ferro, formando l’acciaio voluto, e il resto del carbonio si lega all’ossigeno: ed ecco il sottoprodotto indesiderato, il CO2, parecchio biossido di carbonio, addirittura in rapporto 1:1,8, ovvero per 1 tonnellata di acciaio prodotto vengono rilasciate 1,8 t di CO2. Purtroppo è il modo più economico di produrre acciaio ed è stato calcolato che entro la metà di questo secolo la produzione di acciaio arriverà a 2,8 miliardi di tonnellate (Gt) l’anno, ovvero 5 Gt di CO2 l’anno, circa il 10 percento della emissione attuale di tutti i gas serra. Purtroppo, le ricerche per produrre acciaio a minor impatto sulle emissioni indicano tutte costi molto maggiori e persino dei rischi, costi che andrebbero a scaricarsi sul consumatore finale e i maggiori produttori di acciaio, Cina, India e Giappone, che hanno superato gli Stati Uniti, non sembra si stiano avviando verso processi più virtuosi. Riuscite ad immaginare un mondo senza acciaio?

Cemento

E un mondo senza calcestruzzo?

Un cementificio produce emissioni più o meno nello stesso modo di un’acciaieria: dirette, e sono quelle della sezione Other Industries del gruppo Energy e quelle legate alla produzione. Il cemento, costituente fondamentale del calcestruzzo, proviene dal calcare, una roccia sedimentaria che in sostanza è formata da un minerale, la calcite, ovvero carbonato di calcio, CaCO3, ovvero da calcio, carbonio e ossigeno: avrete già capito dove finiremo. Si brucia il calcare e si ottiene quel che si cercava, il calcio per il cemento e il solito indesiderato biossido di carbonio e l’unico modo per produrlo è sottostare a questa reazione chimica, calcare + calore -> ossido di calcio + biossido di carbonio, o meglio ancora CaCO3 + calore -> CaO + CO2.

Ovviamente il calcestruzzo è pressoché sempre associato all’acciaio nel cosiddetto calcestruzzo armato.

Altri prodotti

Troppi per essere trattati. In maggioranza ci sarebbero le materie plastiche, ma in termini di emissioni per la loro produzione non sono molto preoccupanti, fanno già abbastanza danni di ogni genere disperse nell’ambiente, talmente dure a deteriorarsi che il carbonio in esse contenute resta intrappolato a lungo. Amara consolazione.

Ancora, riuscite ad immaginare un mondo senza acciaio o senza cemento? E senza plastiche?

Io no[8].

Le città

clip_image020[6]Come noto, gli edifici residenziali e quelli commerciali sono presenti soprattutto nelle aree urbane, nelle città, che, ad oggi, vedono risiedere circa il 55% degli esseri umani e, secondo stime ONU, nel 2050 si arriverà al 70% e, cosa ancor più eclatante, il 75% delle emissioni di gas serra ha origine urbana con soltanto 25 mega città che da sole producono oltre il 52 percento delle emissioni mondiali. Le città hanno quindi un'impronta ecologica enorme: complessivamente occupano solamente circa il 3 percento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse globali e rilasciano i tre quarti del totale dei GHG. Un momento: ma se il gruppo Energy è responsabile del 73,2% delle emissioni come è possibile che le sole città ne producano per il 75%? Semplicemente perché la maggioranza dell’energia prodotta viene poi consumata in aree urbane, ed è da queste che dipendono le emissioni, aggravate dal fatto che numerose città ospitano complessi industriali notevoli.

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Quanto mangiamo

clip_image026[6]clip_image024[6]Ma torniamo un momento a quel 26,8% di, ancora una volta, altro, non Energy. Come abbiamo visto nel dettaglio l’industria del cemento genera emissioni dalla produzione stessa, 3%, il chimico e petrolchimico il 2,2% producendo prodotti vari come refrigeranti, detergenti, solventi, vernici e chi più ne ha più ne metta e un altro pezzetto quel 3% dovuto alle emissioni di gas serra, in maggior parte CH4, generate dal trattamento soprattutto da discariche e acque reflue; ripensando al ruolo delle città, che sono i luoghi dove viene prodotta la maggior parte dei rifiuti del mondo, abbiamo un altro elemento per capire come le città da sole contribuiscano per il 75% del totale dei GHG. Le emissioni dovute alle acque reflue (1,3%) derivano dalla materia organica e dai residui di animali o vegetali, soprattutto dagli esseri umani che accumulano prodotti di scarto nei sistemi di acque reflue; i residui decomponendosi producono metano e protossido di azoto. Un altro 1,9% viene dalle discariche che sono spesso ambienti a basso contenuto di ossigeno; in questi ambienti, la materia organica genera metano quando si decompone. Ma, fatto 100 il totale del gruppo siamo al 30%, il restante 70% delle emissioni, come anticipato, è direttamente dovuto, in varia misura, a comparti del settore agricolo e zootecnico, all’uso del suolo e ai processi di deforestazione o riforestazione: e cosa fa questo settore quasi esclusivamente? Produce cibo. L’agricoltura, la silvicoltura e l’uso del territorio rappresentano direttamente quindi il 18,4% delle emissioni di gas serra. Ma il sistema alimentare nel suo insieme, compreso quindi elementi accessori come la refrigerazione, la lavorazione degli alimenti, l’imballaggio e il trasporto, è responsabile di circa un quarto delle emissioni di gas serra. Nel diagramma sono riportati i dettagli. Di seguito i dati in cui questo 18,4% viene suddiviso e ci saranno parecchie sorprese, come ad esempio il settore della risicultura che nonostante rappresenti il 20% delle calorie consumate nel mondo e cibo di base per miliardi di persone, produce emissioni davvero contenute legate soprattutto agli elementi accessori di cui s’è detto.

Praterie (0,1%): quando le praterie si degradano, questi terreni possono perdere carbonio, convertendosi nel processo in anidride carbonica. Al contrario, quando i pascoli vengono ripristinati (ad esempio, dai terreni coltivati), il carbonio può essere sequestrato. Le emissioni in questo caso si riferiscono quindi al saldo netto di queste perdite e guadagni di carbonio derivanti dalla biomassa dei pascoli e dai suoli.

Terreni coltivati ​​(1,4%): a seconda delle pratiche di gestione utilizzate sui terreni coltivati, il carbonio può essere perso o sequestrato nel suolo e nella biomassa. Ciò influisce sull'equilibrio delle emissioni di anidride carbonica: la CO2 può essere emessa quando i terreni coltivati ​​sono degradati; o sequestrati quando vengono restaurati. La variazione netta delle scorte di carbonio viene catturata nelle emissioni di anidride carbonica. Ciò non include i pascoli per il bestiame.

Deforestazione (2,2%): emissioni nette di anidride carbonica derivanti dai cambiamenti nella copertura forestale. Ciò significa che la riforestazione viene conteggiata come “emissioni negative” e la deforestazione come “emissioni positive”. La variazione netta del settore forestale è quindi la differenza tra la perdita e il guadagno di silvicoltura. Le emissioni si basano sulle riserve di carbonio perse dalle foreste e sui cambiamenti nelle riserve di carbonio nei suoli forestali. E’ stato ormai ampiamente dimostrato che una gestione attenta e ben programmata del patrimonio boschivo e forestale è un’ottima arma contro il cambiamento climatico anche se in misura inferiore a quanto previsto.

Bruciatura dei raccolti (3,5%): la combustione dei residui agricoli, residui vegetali di colture come riso, grano, canna da zucchero e altre colture, rilascia anidride carbonica, protossido di azoto e metano. Gli agricoltori spesso bruciano i residui colturali dopo il raccolto per preparare il terreno alla risemina dei raccolti.

Coltivazione del riso (1,3%): le risaie allagate producono metano attraverso un processo chiamato 'digestione anaerobica'. La materia organica nel suolo viene convertita in metano a causa dell’ambiente povero di ossigeno delle risaie sommerse dall’acqua. L’1,3% sembra sostanziale, ma è importante contestualizzarlo: il riso rappresenta circa un quinto della fornitura mondiale di calorie ed è un raccolto di base per miliardi di persone in tutto il mondo.

Suoli agricoli (4,1%): il protossido di azoto, come abbiamo detto un forte gas serra, viene prodotto quando i fertilizzanti[9] sintetici a base di azoto vengono applicati ai terreni. Ciò include le emissioni provenienti dai suoli agricoli per tutti i prodotti agricoli, compresi gli alimenti destinati al consumo umano diretto, i mangimi per animali, i biocarburanti e altre colture non alimentari (come tabacco e cotone).

Bestiame e letame (5,8%): gli animali (principalmente ruminanti, come bovini e ovini) producono gas serra attraverso un processo chiamato "fermentazione enterica": quando i microbi nel loro sistema digestivo scompongono il cibo, producono metano come sottoprodotto. Ciò significa che la carne di manzo e l’agnello tendono ad avere un’elevata impronta di carbonio e mangiarne meno è un modo efficace per ridurre le emissioni della propria dieta. Infine, Il protossido di azoto e il metano possono essere prodotti dalla decomposizione del letame animale in condizioni di basso ossigeno. Ciò si verifica spesso quando un gran numero di animali vengono gestiti in un'area ristretta (come allevamenti da latte, allevamenti di bovini e allevamenti di suini e pollame), dove il letame viene generalmente immagazzinato in grandi cumuli o smaltito in lagune e altri tipi di sistemi di gestione del letame. Le emissioni del “bestiame” in questo caso includono solo le emissioni dirette del bestiame e non considerano gli impatti del cambiamento dell’uso del suolo per pascoli o mangimi per animali.

Virtuosismi?

Vorrei chiudere le rappresentazioni grafiche dei dati con due immagini che evidenziano la situazione nel caro vecchio mondo a cui ho, deliberatamente aggiunto anche la Russia per confronto, perché in controtendenza e che, nonostante si senta arbitrariamente minacciata dai suoi vicini, considero a tutti gli effetti Europa e inoltre, nonostante la brexit, la Gran Bretagna. A scopo comparativo nel primo dei due grafici trovate anche l’Italia che, ovviamente, è dentro il gruppo dell’Unione Europea. Per meglio evidenziare l’andamento del nostro paese c’è il secondo grafico. Per molti sono sicuro che i dati saranno una sorpresa.

L’Unione Europea, che fino agli anni Ottanta produceva il 15% delle emissioni globali (allora erano circa 32 Gt/anno a livello mondiale) è passata dalle circa 5 Gt/anno alle attuali 3, e da allora ha iniziato un trend di riduzione notevole, partito prima ancora del primo accordo internazionale in tema di cambiamenti climatici, quello del Protocollo di Kyoto. Questa partenza anticipata, sicuramente virtuosa, nasce probabilmente a seguito della comparsa di nuove tendenze sociali e politiche che hanno contraddistinto l’Europa in tema di politiche ambientali e di azioni tese a mitigare l’inquinamento che, in alcune regioni del continente, soprattutto vaste aree della Germania e della Gran Bretagna, negli anni ’60 e ’70 aveva raggiunto livelli drammatici. E la tendenza c’è anche per l’Italia che, sebbene in ritardo, dal 2005 mostra una netta inversione passando da 0,5 a 0,3 Gt/anno.

clip_image028[6]clip_image030[6]

Conclusioni

Questi numeri, espressi con serietà e trasparenza nella ricerca e nelle fonti, dimostrano che volendo si può cambiare, si sta cambiando, nonostante alcuni eventi recenti, la recente pandemia di Covid-19, l’aggressione russa all’Ucraina, il momento economico infelice a livello globale che ha costretto molti paesi a dirottare i fondi originariamente destinati alle azioni di mitigazione del cambiamento climatico[10].

La strada è lunga e gli obiettivi dell’Agenda 2030 appaiono spesso piuttosto utopici se non decisamente imbarazzanti, se confrontati uno ad uno con la realtà.

clip_image032[6]Le azioni concrete da intraprendere, se non addirittura ancora da decidere e pianificare, sono molte e personalmente ritengo che l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 sia molto ambizioso, al limite dell’impossibile, ma è già importante averlo concordato. Molte delle voci autorevoli in tema di adattamento e mitigazione restano scettiche, uno scetticismo derivato soprattutto dall’incoscienza con cui l’umanità da sempre, tende ad ignorare il futuro, nemmeno quando è prossimo e riguarda al massimo due o tre generazioni a venire, e che non capisce né ritiene importanti eventuali benefici futuri di azioni compiute oggi; priva di lungimiranza, ancora oggi che ha mezzi e capacità scientifiche e tecnologiche per essere conscia del pericolo della strada tracciata (ne ho parlato qui di recente). Ma i numeri, non sparati a casaccio proprio come l’antico adagio del dare i numeri vorrebbe, ma contestualizzati, non mentono. I grafici attuali mostrano un picco di risalita relativo all’ultimo paio d’anni, dovuto probabilmente ad episodi locali e contingenti, ma la tendenza è in discesa, e su questo dobbiamo continuare ad impegnarci e non mollare né distrarsi, non esporre il fianco a reazioni lassaiz faire, ad estremismi che portano ad inutili blocchi stradali o criminali danneggiamenti di opere d’arte, controproducenti soprattutto per quella parte razionale dell’ambientalismo.

clip_image034[6]Purtroppo, va detto, il problema del cambiamento climatico non è un fenomeno locale, ma planetario. E basta guardare all’andamento della Russia, nostra vicina, negli ultimi decenni[11], od a Cina ed India che da sole contribuiscono al 36% delle emissioni globali, rispettivamente con 13,7 e 3,9 Gt/anno (dati 2021) e in crescita! E nemmeno recentemente, nemmeno a fronte di estremismi ambientali devastanti, di tassi di inquinamento mortali, la Cina sembra non voler prendere una nuova posizione dimostrando apertura, mentre l’India prosegue ignorando qualsiasi raccomandazione o indicazione reputando sostenibili i rischi in termini di salute e sicurezza ambientale, nonostante il sorpasso demografico rispetto alla Cina che l’ha portata a 1,5 miliardi di abitanti. E l'aspetto più preoccupante in tutto ciò è che l’aumento delle emissioni nei paesi emergenti supera di molto le faticose e costose riduzioni ottenute in Europa che, per farlo, ha inciso molto sulle economie europee.  L’altro grande paese energivoro per definizione, gli Stati Uniti, sembra aver preso la china delle riduzioni per lo meno dal 2000, anche se, osservando le emissioni pro capite, ogni cittadino degli USA consuma ed emette più del doppio di un cinese ed una decina di volte più di un indiano. Ma questo era noto e non cambierà.

Infine, in coda, ho inserito la possibilità di interagire direttamente con il grafico delle emissioni globali, che vi consentirà di realizzare rappresentazioni personalizzate, di trasformare le visualizzazioni in mappe o tabelle e persino di scaricare i dati sorgente affinché possiate generare dei grafici o, perché no, delle tabelle pivot che mostrino diversi punti di vista. E questo si noti, vale per tutto ciò che è riportato sul sito Our World In Data.

Aspettando un aggiornamento relativo ai dati 2023.

Appendice

Ci sarà ovviamente chi contesterà, altrettanto ovviamente senza produrne le prove, i dati stessi, per amor di complotto o semplice bastiancontrarismo, il dissidente e contraddicente per sistema. Dopo tutto ancora oggi ci sono dissidenti che, senza averne titolo alcuno, vorrebbero smentire il lavoro di centinaia (mi dicono quasi mille) di scienziati che lavorano per produrre i dati per IPCC, ed a questi mille aggiungiamo le diverse migliaia di collaboratori che con questi lavorano. Con questi c’è poco da fare: appartengono a quella categoria di persone a cui far entrare in testa un qualsiasi concetto è più difficile che farglielo entrare altrove (sic).

E’ vero che alcune, pochissime, voci di dissenso vengono da persone che appartengono al mondo scientifico, ma anche loro, o non hanno nulla a che fare[12] con la climatologia, perché di questo si tratta, o è altrettanto vero che, a ben guardare, vengono smentite e battute sul loro stesso terreno: quello del metodo scientifico.

La politica? Ci vorrebbe un post a sé per affrontare l’argomento della relazione tra negazionismo climatico ed orientamento politico e che, in linea di massima, vede governi conservatori se non reazionari schierati con il polo negazionista e, di conseguenza, i loro elettori, quelli non in grado di usare la propria testa perché privi dei minimi strumenti cognitivi, che si allineano in base a scelte di natura identity politics[13]. Rimando a questo bell’articolo di un paio d’anni fa che riesce a definirne gli aspetti salienti.

Grafico interattivo emissioni globali GHG

 


Note


[1] Un’auto con serbatorio da 65 litri che fa 20 km con 1 litro di carburante? Presa!

[2]Ho già avuto modo di scriverlo. Più conosciuta forse come “anidride carbonica” ma ormai da moltissimo tempo “biossido di carbonio” è il nome corretto negli standard di nomenclatura chimica.

[3] Per esempio un paese produttore di petrolio, che venga in seguito esportato e bruciato altrove, non deve conteggiare come proprie le relative emissioni.

[4] Il diagramma riporta i dati del 2016 quando furono registrate quasi 50 Gt.

[5] Si potrà osservare che le categorizzazioni ed i raggruppamenti potrebbero essere soggetti a cambiamenti dovuti a diversi punti di vista. Inserire od escludere dalle fette questo o quest’altro settore però non sposta il quadro complessivo e soprattutto porta a variazioni minime nelle percentuali qui attribuite.

[6] Il peso del complesso di batterie supererebbe di gran lunga il peso della quantità di merce trasportabile.

[7] Il famoso controsenso della colonnina di ricarica alimentata da centrali elettriche a combustibile fossile.

[8] Suggerisco il bel libro di Mark Miodownik, “La sostanza delle cose”, una storia appassionante dei materiali incredibili che hanno fatto il mondo, dall’acciaio alla carta, la schiuma, il vetro, la porcellana, le materie plastiche, ed altro, persino la cioccolata!

[9] L’argomento è vasto ma, prescindendo dalle posizioni estremiste e disinformate, è ormai appurato che l’agricoltura dev’essere intensiva perché la sua alternativa, quella estensiva, non ha più spazio ed acquisirne, a danno di boschi e foreste, avrebbe effetti negativi ancora più marcati. E la cosa dovrebbe comunque portare ad indagare a fondo sullo sbandierato concetto di agricoltura sostenibile.

[10] Punto 2 – Traduzione. Per "cambiamento climatico" si intende un cambiamento climatico attribuito direttamente o indirettamente all'attività umana che altera la composizione dell'atmosfera globale e che si aggiunge alla variabilità climatica naturale osservata in periodi di tempo comparabili.

[11] La domanda è lecita. Chissà perché la crescita nelle emissioni è ripartita da quando c’è Putin al potere, ma non vorrei fare io stesso correlazioni spurie.

[12] Chi ha detto che un eminente fisico, magari anche premio Nobel, possa sentenziare, o più spesso pontificare, in aree non sue?

[13] "Identity politics" che si traduce in italiano come "politica identitaria". Si riferisce ad una forma di partecipazione politica in cui le persone votano in base all'identità di gruppo a cui appartengono, come classe sociale, etnia, genere, orientamento sessuale, religione o altre caratteristiche identitarie, anziché basare la loro scelta su considerazioni individuali o politiche specifiche.

Bibliografia

Hannah Ritchie (2020) - "Sector by sector: where do global greenhouse gas emissions come from?". Published online at OurWorldInData.org. Retrieved from: 'https://ourworldindata.org/ghg-emissions-by-sector' [Online Resource]
Wolfgang Behringer (2010) - "Storia culturale del clima"
Gianluca Lentini (2023) - "La Groenlandia non era tutta verde"
Stella Levantesi (2021) - "I bugiardi del clima"

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