COP28 a Dubai. Dove?!?

 Premessa

A partire dal prossimo 30 novembre, e fino al 12 dicembre, avrà luogo a Dubai, capitale degli Emirati Arabi Uniti, la 28Conference of the Parties, (COP28); una COP è l’organo decisionale supremo di UNFCC. Tutti gli stati che fanno parte di quest’ultima sono rappresentati alla COP, evento durante il quale si esaminano l'attuazione degli atti della convenzione e di qualsiasi altro strumento giuridico adottato dalla COP, prendendo le decisioni necessarie per promuovere l'effettiva attuazione, comprese le disposizioni istituzionali e amministrative. Diciamo che ci provano e, per lo meno per alcuni tra i partecipanti, ovvero gli stati ed i loro governi più attenti, si danno da fare ottenendo qualche risultato apprezzabile pur in mancanza molto spesso di un quadro globale, elemento chiave indispensabile per affrontare il cambiamento climatico in atto, problema terrestre e non certo regionale.

Un compito fondamentale della COP è quello di rivedere le comunicazioni nazionali e gli inventari delle emissioni presentati dagli stati membri. Sulla base di queste informazioni, la COP valuta gli effetti delle misure adottate e i progressi compiuti nel raggiungimento dell’obiettivo finale della convenzione.

La COP si riunisce ogni anno, salvo diversa decisione. La prima riunione della COP si è tenuta a Berlino, in Germania, nel marzo 1995. Per chi volesse approfondire qui potrà trovare l’elenco di tutte le COP tenutesi finora ed accedere agli atti.

Mi sono già occupato di una COP, la COP26, e non credo che avrei molto da aggiungere se volessi commentare quella dell’anno scorso o, una volta terminata, quella in arrivo. Ma ciò che mi colpisce quest’anno è la sede prescelta, perché non ad Hong Kong allora? Certo, una sede vale l’altra, più o meno, visto il contributo notevole che le città apportano alle emissioni totali di gas serra, ma la scelta di Dubai rimane per me curiosa, così come, lo vedremo a breve, lo sarebbe stato o lo sarebbe un domani, Cina permettendo, scegliere Hong Kong. 

E, tanto per tornare in tema di COP28 aggiungo che questa parte già abbastanza in salita: innanzi tutto all’ombra dello sfarzo della città e dei suoi cittadini, 43.000 €/anno di reddito pro capite, le notizie che giungono sul trattamento dei lavoratori immigrati, soprattutto quelli all’opera sul cantiere degli edifici che ospiteranno la conferenza e, più in generale, i piani che i singoli stati membri, persino i più virtuosi, hanno intenzione di attuare per contenere le emissioni di gas serra sono decisamente insufficienti, e questo è un argomento scottante del quale si parla da parecchio tempo. [ironia on]Però ci sarà il Papa.[ironia off](*)

Per il resto nulla da segnalare sul fronte delle notizie sul cambiamento climatico in atto. Persino la prestigiosa rivista inglese “The Lancet” non fa altro che confermare, sottolineare e ribadire i rischi, dell’inarrestabile processo in corso; e lo fa mettendoci, come si dice, il carico, trattandosi tutto sommato di una rivista di estrazione medica e clinica, sottolineando inoltre i rischi per la salute dell’umanità.

Dubai

Come noto, gli edifici residenziali e quelli commerciali sono presenti soprattutto nelle aree urbane, nelle città che, ad oggi, vedono risiedere circa il 55% degli esseri umani e, secondo stime ONU, nel 2050 si arriverà al 70%. Questi ecosistemi artificiali contribuiscono al 75% delle emissioni di gas serra e 25 mega città da sole producono oltre il 52 percento delle emissioni mondiali. Le città hanno quindi un'impronta ecologica enorme: complessivamente occupano solamente circa il 3 percento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse globali e rilasciano i tre quarti del totale dei climalteranti.

Le città contribuiscono alle emissioni bruciando ad esempio combustibili fossili prodotti altrove; oppure, proprio come nel caso degli Emirati, possono anche essere un fiore profumato dal punto di vista delle emissioni ma i loro prodotti, esportati nel mondo e consumati, contribuiscono alle emissioni.


Proprio recentemente si parlava di impronta ecologica, vi viene in mente qualcosa di più innaturale o, se volete, totalmente artificiale, di una città nel deserto? E “The Line”? 170 chilometri di città lineare nel deserto saudita: ci dovremmo credere? Probabilmente sì.

Gli Emirati Arabi Uniti sono il settimo produttore di petrolio al mondo e tra i principali esportatori, e le previsioni per il 2050 vedono il Medio Oriente in testa alla classifica mondiale dei produttori.

La crescente tensione che sta scuotendo il Medio Oriente a partire dallo scorso ottobre, sebbene latente da tempo, dovrebbe fungere da monito per tutti i principali consumatori, soprattutto per coloro che importano idrocarburi, affinché accelerino il passo nella transizione energetica. Questo imperativo non solo risponde alla necessità di contrastare il cambiamento climatico, ma anche di garantire la sicurezza energetica e l'autonomia strategica.

 

I Paesi del Golfo, guidati dall'Arabia Saudita, stanno pianificando un aumento significativo della capacità di estrazione e raffinazione di petrolio nei prossimi dieci anni, pari a circa il 10%. Questo è lo scenario concretamente vero mentre altre potenze, come l'Europa, gli Stati Uniti promettono di ridurre gli investimenti nel settore petrolifero, lo stesso dicasi per la Cina, dipinta sempre a tinte fosche, ha un piano e un obiettivo: le emissioni di carbonio dovranno raggiungere il picco tra il 2025 e il 2030 e la domanda totale di energia inizierà a diminuire intorno al 2035.

La strategia dei paesi arabi invece mira chiaramente a massimizzare lo sfruttamento delle considerevoli riserve petrolifere, rappresentanti oltre la metà delle risorse globali, finché il mercato del greggio mantiene la sua rilevanza e prima che sia gradualmente sostituito.

Analogamente, il Qatar sta perseguendo una strategia simile nel settore del gas naturale, prevedendo un aumento del 60% nella capacità di liquefazione ed esportazione entro il 2027. L'obiettivo è chiaro: capitalizzare sulle risorse di idrocarburi disponibili, finanziando allo stesso tempo il percorso verso la transizione energetica ed economica. Questo percorso li renderà progressivamente autonomi dagli introiti derivanti dai combustibili fossili. Un esempio tangibile di questa visione è rappresentato dagli ingenti investimenti in tecnologia, servizi, turismo e, più recentemente, nel settore calcistico.

Questa dipendenza persistente dal petrolio e dal gas potrebbe portare gli stati che non riescono o non intendono liberarsi da tale dipendenza a trovarsi in un mercato degli idrocarburi ancor più oligopolistico rispetto a quanto lo sia attualmente. Secondo le proiezioni dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA), anche nello scenario più ottimistico necessario per raggiungere l’ambizioso obiettivo di net zero emissions e entro il 2050, il Medio Oriente aumenterà la sua quota di produzione globale di petrolio e gas dal 25% attuale al 40% nel 2050, sebbene su volumi inferiori. Ricordo che la terminologia zero netto si applica a una situazione in cui le emissioni globali di gas serra derivanti dall'attività umana sono in equilibrio con la riduzione delle emissioni.

Guardando alle esportazioni, le percentuali diventano ancor più allarmanti, con la fetta di mercato dei Paesi del Golfo e dell'Iran destinata a salire fino al 65% entro la metà del secolo. Secondo l'Agenzia, a pagarne le spese saranno soprattutto i Paesi più vulnerabili e meno preparati per affrontare la transizione energetica. Mentre l'Europa sta procedendo verso un futuro più sostenibile, seppur non abbastanza rapidamente, e gli Stati Uniti hanno riserve interne di petrolio e gas, saranno principalmente i Paesi emergenti dell’Asia orientale a diventare sempre più dipendenti dalle esportazioni del Medio Oriente.

Ciò comporterebbe una crescente dipendenza da rischi geopolitici caratteristici di quella regione, rischi che oggi appaiono evidenti, come è accaduto molte volte dal 1973 in avanti. In questo contesto, è essenziale che i paesi esplorino e investano in alternative energetiche sostenibili per garantire la propria sicurezza energetica e ridurre la vulnerabilità agli eventi geopolitici nel lungo termine. 

Appare quindi abbastanza evidente che la COP28 a Dubai parte davvero male: a meno che non sia stata provocatoriamente voluta, la scelta della sede somiglia molto ad un convegno di pomposi accademici…nel paese dei Balocchi di Collodi, visto che spesso questa città è stata definita un Luna Park per ricchi. In questo caso però a nessuno spunteranno le orecchie d’asino. L'allungamento del naso stando a quel fanno rispetto a quel che promettono sarà evidente per molti.



Hong Kong

Facciamo un po’ di fiction. Un'ipotetica conferenza plenaria chiude i lavori dell’ennesimo incontro internazionale: poco importa che sia una COP, un congresso scientifico o la riunione di un gruppo di premi Nobel, sul cambiamento climatico, sulla biodiversità, sulla tutela del paesaggio, sugli ambiziosi e quasi utopici obiettivi da rispettare (è in agenda!). Al termine uno dei partecipanti si concede una passeggiata serale che gli consente di godere di uno dei più affascinanti skyline del mondo. Quando, negli anni Trenta del XIX secolo gli inglesi occuparono quello che era poco più di un villaggio di pescatori e un presidio militare sul delta del Fiume delle Perle, mai avrebbero potuto immaginare quel che sarebbe diventata.


Sette milioni e cinquecentomila abitanti in 1000 chilometri quadrati, 7.500 abitanti per ogni chilometro quadrato. L'isola di Hong Kong, che dà il nome all'area, assieme a Kowloon, forma il cuore urbano di Hong Kong. Le loro aree, sommate, sono circa di 88,3 km² e la loro popolazione totale di circa 3.156.500 persone, che corrisponde ad una densità di popolazione di 35.700 abitanti per km²! Strade principali per quasi 2.000 km, 200 km di linee di metropolitana, un aeroporto che vede transitare 50 milioni di passeggeri l’anno e milioni di tonnellate di merci, ogni anno. Case alveare.

La produzione agricola è pressoché inesistente, le oltre 300.000 tonnellate di riso che accompagnano 30 kg di carne bovina, 70 kg di carne suina e più di 60 kg di pesce che ogni anno in media un abitante consuma, sono tutte di importazione. E’ uno dei più grandi centri commerciali e finanziari della Terra e, nonostante la digitalizzazione spinta, vengono consumate qualcosa come 600.000 tonnellate di carta l’anno.

 


Una macchina mostruosa nascosta dietro le visioni tutto sommato gradevoli dei grattacieli in acciaio, vetro e cemento, della baia.

L’impronta ecologica lasciata da ogni abitante di Hong Kong è gigantesca: 4 ettari ciascuno. Se tutti i terrestri avessero un simile impatto occorrerebbero due pianeti e mezzo per sostenere l’umanità: 4 ettari a fronte di una disponibilità di 0,04 ettari a testa, il che significa che il 99 percento di quel che occorre per il loro sostentamento è prodotto consumando risorse altrui, che poi, come abbiamo visto, è quello che accade normalmente per qualsiasi centro urbano. C’è di peggio: a Singapore siamo a 5,5 ettari di impronta.

Metà dell’impronta di Hong Kong è dovuta all’emissione di gas serra: il 26 percento di CO2 è prodotto localmente (milioni di condizionatori per consentire di vivere in un clima subtropicale tremendo, milioni di litri di carburante per veicoli e imbarcazioni…), il restante 74 percento viene emessa altrove, da qualche parte del mondo, per produrre quanto si vende o si commercia ad Hong Kong ogni anno. Totale, quasi 100 milioni di tonnellate di gas serra l’anno, un quinto di ciò che produce l’Italia.

Un paradossale ecosistema totalmente costruito dall’uomo, che ha sostituito foreste e praterie, insenature e rive frequentate fin da 40.000 anni fa.

E questo salto nel passato ci ricorda che ad Hong Kong non hanno inventato nulla: hanno esasperato quanto accadeva già nel Neolitico in una cittadina turca di 8.000 anni fa o nella Roma imperiale, che aveva già una densità di ben 5.000 persone per chilometro quadrato e che, al tempo del suo maggior splendore, importava quasi 4 milioni di tonnellate di frumento l’anno per sfamare i suoi abitanti. E per tornare al nostro tempo e al nostro paese abbiamo Napoli, riferendosi al solo territorio comunale, con ben 8.500 abitanti per chilometro quadro. Candido virtualmente Napoli come sede per la prossima COP29.

Conclusione

Mi ripongo e pongo le domande.

Una conferenza sul clima, una COP, che si tenesse ad Hong Kong, non scatena in voi, come in me, stridore di strumenti non accordati?

E quel che accadrà a Dubai non sarà mica quel che accade prima di un concerto, tra i suoi 90 elementi d’orchestra sinfonica, senza che intervenga un direttore a tacitare tutti con i famosi colpi di bacchetta?

Come quando commentai la COP26, assistendo alla realtà delle azioni rispetto ai programmi, attendo la prossima COP con il solito senso, tra seccatura ed amarezza, che si avverte quando si ha la certezza di essere presi in giro.

(*) il 28 novembre scorso è stato annunciato che, per motivi di salute, il Papa non sarà fisicamente presente alla COP28. Ma le vere assenze, ingiustificate e ingiustificabili, sono quelle di Stati Uniti e Cina.

Aggiornamento del 3 dicembre 2023. Le mie erano facili previsioni, realizzate con un'analisi davvero minima di ciò che tiene in piedi l'economia del paese ospitante. Ma oggi l'emiro ha tolto la maschera affermando: "Senza petrolio torniamo alle caverne". Ci sono alternative, costose, ma ci sono. Rileggerei la cosa in questo modo: "Senza vendere petrolio tornano alle caverne. Loro".

Articolo di riferimento qui.

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