15 novembre 2025

Il mito dell'oggettività. Il debunking è una battaglia persa

«se provi a far cambiare idea a qualcuno che ha già deciso cosa pensare, non solo non ci riesci, spesso lo irriti pure» (Walter Quattrociocchi)

Potete saltare a piè pari le citazioni seguenti, magari rilette alla fine risuoneranno ancora più intensamente.

Per quasi 400 milioni di anni moltissime specie animali di grandi dimensioni (indicativamente dai 10 chilogrammi in su) si sono evolute sulla terraferma e hanno finito per estinguersi venendo rimpiazzati dai loro discendenti. Quante di queste specie sono comparse e quante si sono estinte? Proviamo a fare una stima plausibile. Se, come si deduce dalla documentazione fossile, la durata media della vita di una specie sommata a quella delle sue specie sorelle è nell'ordine di un milione di anni e se, con un calcolo prudenziale, supponiamo che nello stesso periodo sia esistito un migliaio di specie di tali dimensioni, allora (forse!) possiamo dire che nel corso dell'intera storia della Terra è vissuto nel complesso circa mezzo miliardo di specie con queste caratteristiche. Ma soltanto la nostra specie, tra tutte, ha raggiunto il livello di intelligenza e organizzazione sociale che oggi ci contraddistingue. Questo evento singolare cambiò ogni cosa sul pianeta. Da quel momento non ci fu nessun altro candidato e nessun'altra ulteriore contesa. La specie vincitrice straordinariamente fortunata fu quella di un primate del Vecchio Mondo; il luogo d'origine l'Africa, orientale e meridionale; l'habitat una vasta fascia di savana tropicale, prateria e semideserto; il tempo da 300.000 a 200.000 anni fa.

Eccoci dunque qui a camminare e, qualche volta, a correre disordinatamente lungo una linea di discendenza lunga 3,8 miliardi di anni e priva di uno scopo certo al di là del continuare a portare avanti i capricci delle mutazioni e della selezione naturale, come fossimo grandi borse piene di acqua di mare, erette, bipedi, sostenute da ossa, guidate da sistemi la cui base ingegneristica risale all'età dei rettili. Molte delle sostanze chimiche e delle molecole che circolano nella nostra porzione liquida (che corrisponde all'80 percento in peso del corpo) sono indicativamente le stesse che esistevano nel mare primordiale. La nostra capacità di ragionare e di scrivere ciò che pensiamo però continua a trarre energia dalla convinzione diffusa per cui ogni tappa della Preistoria e della storia, inclusa ogni grande transizione, in qualche modo sia servita a metterci sulla Terra. Tutto, è stato affermato, fin dall'origine della vita 3,8 miliardi di anni fa, venne pensato per noi. La diffusione di Homo sapiens fuori dall'Africa e in tutto il mondo abitabile fu in qualche modo preordinata. Ogni cosa venne intesa per stabilire il nostro dominio sul pianeta con l'inalienabile diritto di trattarlo come più ci piace.


Questo è l'errore, sintesi perfetta della condizione umana. 
(Edward O. Wilson, 2019)



Ma il debunking serve davvero a fermare la diffusione delle fake news?

Forse un po’ col senno di poi, ma i risultati delle ricerche che Walter Quattrociocchi racconta in un suo post recente, non mi sorprendono più di tanto. Per esperienza diretta sostengo spesso che ci si ritrova a predicare ai convertiti, e che in una sorta di cherry picking al contrario, le persone che frequentiamo e che ci seguono sono quelle disposte non solo ad ascoltarci quanto a cambiare idea. Tutto sommato, anche la nostra, una tribù.

In un commento a quel post ho citato Edward O. Wilson, un gigante della biologia e dell'evoluzionismo, i cui lavori hanno contribuito a ridurre questa sorpresa. Ed ecco perché.

Uno dei suoi contributi maggiori è stato fornire una spiegazione biologica, condivisa dagli scienziati e di larghissimo consenso, dell'evoluzione della socialità, a partire dal concetto di specie eusociale (letteralmente che hanno una buona condizione sociale), a comprendere innanzi tutto chi lo è da decine se non centinaia di milioni di anni, come termiti, formiche, api e vespe (ma non solo!), fino ovviamente a noi, Homo sapiens, da appena qualche milione di anni se proprio vogliamo arrivare alla linea evolutiva che divise "homo" da gorilla, scimpanzé, oranghi e bonobo.

I membri di un gruppo eusociale appartengono a generazioni multiple e si dividono il lavoro in un modo che, almeno esteriormente, sembra altruistico. Occorre che una serie di eventi dominati da percorsi contingenti si verifichi affinché ciò possa verificarsi, ecco perché i processi che hanno portato alla comparsa di specie eusociali sono avvenuti dopo moltissimo tempo e sono estremamente rari. Uno di questi è dato dalla comparsa di caratteristiche tali da favorire la condivisione di luoghi e/o risorse. Un nido, ad esempio, quale potrebbe essere un alveare o un formicaio per api, vespe e formiche o un accampamento, una grotta, magari intorno ad un fuoco, per i primati ominini già a partire da almeno un milione di anni.

Il tribalismo è un tratto umano fondamentale. Formare gruppi, ricavandone conforto viscerale e orgoglio dallo spirito cameratesco che s’instaura, e difendere a spada tratta il proprio gruppo dal gruppo di rivali. Sono tratti universali della natura umana, e quindi della cultura.
Psicologicamente i gruppi moderni equivalgono alle tribù della storia antica e della preistoria e in questo senso discendono in linea diretta dalle bande dei pre-umani primitivi. L’istinto che li unisce è il prodotto della selezione di gruppo.

La gente deve avere una tribù. In un mondo caotico la tribù le assegna un nome in aggiunta al proprio e le assegna un ruolo sociale. L’umano moderno vive in un sistema di tribù interdipendenti. Moderni esperimenti sociali hanno dimostrato che le persone si dividono rapidamente e decisamente in gruppi, e poi parteggiano per quello che scelgono. Persino quando i ricercatori creavano gruppi arbitrari e con interazioni prescritte banali il pregiudizio prende piede in fretta. Addirittura quando i soggetti venivano informati che il gruppo “esterno” e quello “interno” erano stati scelti arbitrariamente, che si giocasse a tombola o si parteggiasse per un pittore piuttosto che un altro!

La tendenza potente e universale a formare gruppi ha il marchio dell’istinto. E “istinto” è biologia, frutto di evoluzione per selezione naturale. Apprendimento predisposto, come il linguaggio, l’acquisizione di talune fobie e il tabù dell’incesto.

La pulsione elementare a modellare un’appartenenza di gruppo e a ricavarne piacere si trasforma facilmente a livello superiore in tribalismo. La gente è naturalmente portata al cosiddetto “etnocentrismo”. È sconsolante, ma anche quando possono scegliere senza sentirsi in colpa gli individui preferiscono la compagnia di altri individui della stessa razza, nazione, tribù, religione. Si fidano di più, si accompagnano più volentieri a loro sul lavoro e nel tempo libero e li preferiscono quasi sempre come sposi. Si arrabbiano più facilmente quando è evidente che un gruppo esterno si comporta slealmente o riceve vantaggi immeritati, e osteggiano ogni gruppo esterno che sconfini nel territorio del proprio gruppo d'appartenenza o ne insidi le risorse. Letteratura e storia sono piene di esempi.

Sintetizzando parecchio, ciò è avvenuto grazie all’opera della selezione naturale a più livelli, selezione multilivello, e già lo stesso Darwin lo aveva genialmente intuito. La selezione multilivello è fatta dall’interazione fra le forze selettive che prendono di mira i tratti dei singoli membri di una popolazione e quelle che riguardano i tratti di tutto il gruppo. Una teoria che ha rimpiazzato quella basata sulla parentela o su una sorta di “egoismo” del gene e che ha dimostrato, anche con modelli matematici oltre che osservazioni sul campo, che nei gruppi la parentela stretta non precede, ma segue, la formazione del gruppo, ne è conseguenza.

Già i nostri precursori formavano gruppi ben organizzati che si disputavano a vicenda territori e risorse. La competizione tra gruppi diversi ma formati da elementi della propria stessa specie, influenza l’adattamento genetico di ogni membro del gruppo, interagendo con la competizione che questi ha con coloro i quali formano il suo stesso gruppo.
Il risultato della competizione tra gruppi sarà in gran parte determinato di volta in volta dai dettagli del comportamento sociale in ogni gruppo. A cominciare dalla grandezza e dalla coesione del gruppo, dalla qualità della comunicazione e dalla divisione del lavoro fra i suoi membri.
Se per assurdo un gruppo fosse formato da soli egoisti e furbacchioni la competizione tra loro potrebbe paradossalmente permetterne la sopravvivenza a ranghi ridotti ma sarebbe certamente perdente nei confronti di altri gruppi socialmente cooperativi. La bontà della prestazione di un gruppo dipende dalla coesione dei suoi membri, indipendentemente dal grado in cui ogni membro del gruppo è individualmente sfavorito o favorito.

Anche se è la selezione naturale a livello individuale che ha prevalso e prevale in tutta la storia della vita, occorre tenere presente che l’adattamento genetico di un essere umano (o di qualsiasi altro appartenente a specie eusociali) dev’essere una conseguenza sia della selezione individuale sia di quella di gruppo. Ma l’unità ultima interessata è l’intero codice genetico dell’individuo. Se il vantaggio adattativo di appartenere a un gruppo è inferiore a quello di una vita solitaria, l’evoluzione favorirà l’allontanamento o il tradimento da parte di un individuo. Estremizzando, la società si disgregherà. Negli esseri umani, tutti potenzialmente in grado di riprodursi, c’è un eterno conflitto tra selezione naturale a livello di gruppo e selezione naturale a livello individuale.

Ma la competizione fra gruppi favorisce la permanenza nel proprio. L’uomo è così diventato un animale sociale, tribale, con un senso di appartenenza forte, sempre teso a distinguere il “noi” da “altro da noi”, rafforzato dalla diffusione di miti, soprattutto della creazione, credenze, imposizioni e adesioni di tipo religioso, di leggende o tabù di inviolabilità. In un continuo tumulto endemico radicato nei processi evolutivi che ci hanno portato ad essere ciò che siamo. Il peggio della nostra natura convive con il meglio, e sarà sempre così. Cancellare il lato peggiore, ammesso che sia possibile, ci renderebbe meno umani.

Le ricerche del team di Walter Quattrociocchi hanno dimostrato, forti della generalizzazione dei risultati, basata su modelli matematici alimentati da miliardi di dati (due spunti di lettura in tema potete trovarli qui e qui), che le informazioni non si diffondono in base a criteri di verità o di plausibilità, perché sono vere o false, ma solo perché sono in linea col credo delle tribù e delle loro degenerazioni, le cosiddette echo chambers. Il tribalismo, ancora una volta agisce come fa da centinaia di migliaia di anni, e determina la traiettoria di un contenuto, non il suo valore. Generando pregiudizi pronti a collidere, anche ferocemente, con quelli altrui.

Ricerche che hanno inoltre dimostrato che anche i modelli matematici di Wilson e di chi ha voluto verificarli adottandoli, corroborati da ricerche sul campo, avessero ragione.  Quanto oggi la recentissima data science mette a disposizione scientificamente, indica che i motivi per cui fare debunking, tutto sommato, sono una colossale perdita di tempo quando diretti a chi sostiene la menzogna, e si unisce a quanto la moderna biologia dimostra e indica da anni.

Ancora una volta, è la prova che le strade della ricerca scientifica, qualunque sia il settore da cui si parte, si ritroveranno sempre a incrociarsi da qualche parte.
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Il paragrafo a seguire, in chiusura, è solo un commento personale; forse stato meglio metterlo all’inizio. Se non l’ho fatto è per non distrarre dall’obiettivo che spero di aver centrato.

Come ho avuto modo di scrivere tempo fa, non mi rassegno comunque, a non confrontarmi nel solito stancante dibattito con taluni laddove dibattito non c’è. Citando me stessofluctuat nec mergitur, non mollo, e continuerò incaponito, a cercare di contrastare le voci del dissenso ignorante, anche se il risultato fosse ricondurre sulla via della ragione, uno solo delle dozzine di inutili idioti che si incontrano quotidianamente.

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