Confutazione dei luoghi comuni sulla scienza – Secondo e terzo

Ultimo dei tre post della serie. Qui il primo e il secondo.

Comprensione

Comprendere o capire qualcosa. Qual è il suo significato? Per un primo tentativo di risposta rivolgiamoci all’etimologia della parola, che si riferisce all’atto concreto di prendere, afferrare, impossessarsi (dal latino capere). Non a caso «afferrare» è un sinonimo di capire, così come quando non riusciamo a com-prendere qualcosa, con un’idea concreta di prendere in mano, diciamo anche che «ci sfugge». E che dire allora, dell’inglese to see usato sia per «vedere» che per «capire»?

E sono le spiegazioni le azioni o i processi che contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo. Qualcuno ha detto che spiegare è trovare l’identico nel diverso, in un processo che unifica le cause comuni.

Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».

Argomenti questi trattati approfonditamente nel primo e nel secondo di questa serie. In quest’ultimo, considerando definitivamente confutato il primo luogo comune (la scienza è al massimo in grado di spiegare il come e il cosa dei fenomeni, ma non il perché), se qualcuno si ostinasse a volerlo difendere dovrebbe necessariamente ridurne la portata, introducendoci al secondo luogo comune (la scienza non spiega tutto).


Cercheremo quindi di capire come questo secondo luogo comune, usato per lo più in modo polemico e antiscientifico, per sminuire il valore della scienza, diventa invece uno dei punti di forza di questa.

clip_image002Se spiegare implica il ricorso a leggi o meccanismi causali prossimi o remoti che siano, e se i fenomeni delle scienze storiche e sociali o di quelle economiche non fossero inquadrabili in leggi o in tali meccanismi le conclusioni appaiono entrambe problematiche: i fenomeni storico-sociali non sono spiegabili o, per dirla in altro modo, nelle scienze umane la spiegazione non è consentita, oppure, che tali fenomeni sono sottratti dalle tecniche esplicative che valgono nelle scienze naturali. E perché mai non dovrebbe essere possibile trattare qualsiasi cosa con il metodo scientifico?

Spiegazione

Insomma i difensori del primo luogo comune sarebbero costretti ad ammettere che, se pure le scienze naturali spiegano tipi di eventi in base a leggi o meccanismi causali, quelle umane non sono passibili di spiegazioni di questo tipo perché hanno come scopo la comprensione o l’interpretazione di eventi o fatti individuali e irripetibili. Il termine interpretazione introduce subito soggettività, quindi relatività, cose poco affini con l’indagine scientifica.

Domanda: esiste una sorta di confine tra scienze naturali e scienze umane, secondo il quale le scienze umane avrebbero una loro autonomia metodologica rispetto a quelle naturali, perché tutt’al più interpretano e comprendono identificandosi con il loro oggetto di studio, anziché spiegare? Ma questo è un corollario del secondo luogo comune, che appunto le scienze non spiegano tutto.

Ovviamente, sapendo che compito principale dello storico è individuare le cause dei processi storici, la tesi procedente non implica affermare che i fenomeni umani o storico-sociali non siano spiegabili affatto.

Come affermato nell’introduzione spiegare innanzi tutto significa comprendere, e una comprensione dei fenomeni la si ottiene semplicemente rispondere ad un «perché?» e quindi non è giustificabile porre una differenza tra spiegare e comprendere o interpretare.

clip_image004Anche fosse vero che la nozione di spiegazione scientifica non può applicarsi alle discipline umane-sociali, o perché le scienze umane sono sottratte al metodo scientifico, non sarebbe comunque consentito di sostenere il luogo comune che la scienza non spiega tutto. Che sia il libro della natura o un passo di un antico manoscritto da interpretare si tratta in ogni caso di cercare di risolvere un problema attraverso una teoria, che poi verrà sottoposta a critica per vedere se regge alla prova dei fatti e se è coerente con le altre teorie o ipotesi considerate già accettate.

Qualcuno osserverà che il fatto che si possa sperimentare nelle scienze naturali e non in quelle storico-sociali rende i due ambiti di ricerca diversi; ma non è forse vero che ci sono ambiti scientifici dove ci si deve accontentare solo di osservazioni e non è possibile effettuare esperimenti diretti, quali l’astronomia per esempio? E forse che la biologia evoluzionistica o la cosmologia non studiano fenomeni storici unici e irripetibili? E ancora, la teoria geologica della tettonica a placche, che ha a corollario numerose evidenze, non è forse basata su altre asserzioni teoriche riguardanti lo stato della materia della e sotto la crosta terrestre? E infine, proprio la fisica viene in soccorso alla validità del metodo anche per le scienze umane e sociali, affermando che le spiegazioni scientifiche non implicano necessariamente l’inquadramento sotto leggi di natura di copertura. Lo stesso Einstein sosteneva che «nessun cammino logico conduce a queste leggi elementari: solo l’intuizione che si fonda sulla immedesimazione con l’esperienza ci può condurre ad esso». I famosi Gedankenexperiment del grande fisico tedesco.

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Nello spiegare, (si veda il post precedente), il perché della pioggia o la spiegazione funzionale dei riflessi pupillari, non abbiamo introdotto leggi, e benché in quest’ultimo caso esistono leggi elettro-chimiche precise legate alla contrazione dei muscoli, conoscerle non è affatto necessario per comprendere il fenomeno. Ovvio che in un contesto scientifico la parola «causa» presuppone l’esistenza di regolarità, ma la loro conoscenza non è necessaria per la comprensione dei fenomeni.

Così come, al contrario, la presenza di leggi non basta per una spiegazione. Nel caso della diffusione dei diversi tipi di luce è vero che la legge di Rayleigh, premessa che governa il fenomeno dello scattering, ci fa immediatamente capire che la luce blu è mediamente diffusa 12 volte più di quella rossa – (1/7604)/(1/3904) ≈ 12, dove 390 e 760 sono i valori delle lunghezze d’onda espresse in nanometri – ma senza una conoscenza adeguata del meccanismo causale di diffusione, non capiremmo perché ciò avviene.

È più importante capire che luce con lunghezza d’onda minore interagisce di più con le molecole di azoto e ossigeno e viene «sparpagliato» dappertutto, a differenza di quella rossa, con lunghezza d’onda maggiore che passa pressoché indisturbata. È questo il fenomeno che genera comprensione, la deduzione di una legge da sola non basta.

La scienza spiega, senza poter spiegare tutto.

Si può comprendere qualitativamente, così come è stato fatto per le interazioni delle diverse lunghezze d’onda con le componenti dell’atmosfera in analogia all’onda del mare con gli scogli, usata nel post precedente. Ma la comprensione quantitativa delle leggi non è sempre possibile, perché non sempre è possibile derivarle da altre leggi. Perché esiste una proporzionalità con la quarta potenza della lunghezza d’onda e non con la terza? Potrebbe semplicemente essere un fatto bruto (così si definiscono le cose che non possono essere spiegate, e qui potremmo aprire, ma non lo faremo, un dibattito sul perché alcune costanti fondamentali di natura hanno i valori che hanno…). Oppure un de facto, per ora non possiamo spiegarlo, o ancora un de iure, inspiegabile in linea di principio. Lo stesso potremmo fare con la legge di Newton della gravitazione: perché la forza diminuisce col quadrato e non come il cubo della distanza?

La scienza fornisce comprensione, anche se questa è limitata; ma non si può dire che finché non si è compreso tutto non si è compreso nulla.

Non esiste una teoria del tutto

clip_image008Usare il secondo luogo comune per difendere il primo non ha senso: se per comprendere un fenomeno come il congelamento dell’acqua dovessimo ogni volta comprendere la natura delle forze di coesione molecolare quando questa cambia di stato ma, al tempo stesso dovessimo retrocedere di perché in perché o di causa in causa, arrivare alla domanda delle domande, perché esiste l’universo, perché c’è qualcosa piuttosto che nulla, non comprenderemmo mai nulla e l’apprendimento sarebbe impossibile, in un riduzionismo inutile.

Non siamo onniscienti, e quindi esistono limiti alla spiegabilità della natura, il che prova la nostra finitezza cognitiva. Ovvio che un determinato momento storico l’insieme dei fatti e di tutte le leggi esistenti è solo un piccolo sottoinsieme, ma potrebbero esistere anche fatti non spiegabili in linea di principio, a rendere difficile la vita ai sostenitori di un’eventuale teoria fisica del tutto, che ogni tanto riaffiora. Come spiegare le condizioni iniziali dell’Universo se queste sono la base per spiegare ciò che accadde dopo? Come spiegare la coscienza se per farlo altro non abbiamo che il nostro essere coscienti?

Privo di finalità polemiche, il luogo comune in base al quale la scienza non può spiegare tutto, è corretto, ed è uno dei suoi principi cardine.

Scire est scire per causas. Il terzo luogo comune
Conoscere è conoscere attraverso le cause. Se proviamo a spiegare, rivolgendoci alla scienza, ciò che maggiormente ci preme e ci interessa, della serie perché c’è vita, chi siamo, perché esistiamo, perché c’è qualcosa e non il nulla, questa non dà risposte e non spiega niente. Il secondo luogo comune dice che la scienza spiega qualche cosa ma non tutto, e questo tutto implica che la scienza non può nemmeno aspirare a spiegare o arrivare a sfiorare le domande che perché noi contano di più (noi?).

clip_image010Come abbiamo visto, se spiegare è rispondere a una domanda «perché?» dobbiamo innanzi tutto notare che i nostri «perché?» possono assumere significati diversi. Finora sembra siano stati tutti del tipo «a quale scopo?», ma già Aristotele aveva capito che non tutti i perché sottendono la ricerca della stessa causa.

La causa materiale
Innanzi tutto, diceva l’antico filosofo, c’è una causa materiale, che risponde alle domande che chiamano in causa la costituzione di un oggetto. Di cosa è fatto un certo ente fisico o un certo corpo? Reinterpretando il tutto in linguaggio contemporaneo sappiamo che la natura microscopica di un corpo spesso causa le sue proprietà macroscopiche: sappiamo ad esempio che la flessibilità di un filo di rame dipende dalla natura degli atomi di cui è composto e dalle loro interazioni. La meccanica quantistica ha aperto un mondo vastissimo nello stabilire collegamenti tra il mondo invisibile e ciò che appare. Estremizzando, anche il fenotipo di un essere vivente, ciò che appare, dipende dalla composizione microscopica del DNA, del codice genetico di cui è fatto.


La causa formale

clip_image011Aristotele avrebbe detto che se la causa materiale di una statua è il marmo di cui è fatta, la sua causa formale è la forma che ha, la sua…statuità. Un insieme di fenomeni potrà quindi, più modernamente, assumere la forma di un loro modello matematico ad essi riferito, un insieme di leggi che valgono perfettamente solo nel modello. La forma di una molla è condivisa da qualunque sistema meccanico reale rappresentabile da un modello matematico in cui esiste una forza di richiamo direttamente proporzionale alla distanza dal punto di equilibrio. I termini moderni della causa formale di cui parlava Aristotele sono quindi un modello definito da un’equazione matematica che descrive i rapporti tra le grandezze del fenomeno che sono importanti ai fini descrittivi, grandezze che definiscono in modo essenziale il modello matematico stesso. F=-kx è la forma matematica della molla, e una molla reale sarà spiegabile in quanto si avvicina alla forma matematica ideale dell’equazione (per una molla priva di attrito F, la forza di richiamo, k una costante di elasticità che dipende dal materiale e dal tipo di molla, x la distanza dal punto di equilibrio, per una molla a riposo x=0).

La causa efficiente
«Qual è la causa che muove ciò che è mosso?» oppure «Qual è la causa di ciò che è stato fatto e che contiene movimento?» si chiedeva Aristotele nel suo terzo «perché?».

La scienza moderna, dopo la causa materiale, ha conservato questo tipo di causa nella sua metodologia, nel senso che la parola «causa» ha nel linguaggio comune: «perché X si muove?», rimandando al meccanismo nascosto che è responsabile dell’evento da spiegare. Ma ciò vale anche per il batterio che causa la peste, è proprio la causa efficiente della malattia, o l’urto delle molecole sulle pareti interne del recipiente che lo contiene ci fa comprendere la causa efficiente della pressione o, per dirla con Aristotele, «causa di ciò che è stato fatto». Anche se la parola causa non interviene direttamente nel linguaggio della fisica contemporanea, quello in cui le teorie fisiche vengono scritte, è parte insostituibile del linguaggio descrittivo ed esplicativo in cui la teoria viene applicata. La causa efficiente ha infine spesso generato equivoci e scorrette interpretazioni nella teoria biologica dell’evoluzione, perché associata a finalismi o cause metafisiche di vario tipo.

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La causa finale

clip_image015L’uomo ha un atteggiamento teleologico nei confronti di moltissimi aspetti di ciò che osserva del mondo in cui vive. Uno dei «perché?» fondamentali è quindi, ancora con Aristotele, «a quale scopo?». E tutte le quattro cause degli altrettanti «perché?» erano di fondamentale importanza per il filosofo.

La causa finale per Aristotele è successiva all’effetto: è la salute che consente la passeggiata, ciò che la spiega. La causa qui è sinonimo di spiegazione: il fine della passeggiata è la salute, che per noi è un suo effetto. Ma tendiamo a rovesciare l’ordine esplicativo. Il precedente desiderio di star bene causa la passeggiata, che ha poi, come suo effetto successivo, la salute.

La causa finale è ormai definitivamente abbandonata, prima dal meccanicismo del XVII secolo, poi dalla scienza successiva. In particolare poi, darwinismo e neodarwinismo, corroborati dalla genetica molecolare, spiegano un certo grado di finalità nella natura per mezzo di un’azione combinata di caso e necessità.

Confutazione del terzo luogo comune

clip_image017Le spiegazioni che stanno a cuore ai sostenitori di questo luogo comune sono proprio quelle finalistiche, quelle che vanno alla ricerca di una causa finale, ultima, sollevando argomenti che sembrano rendere corretto anche il terzo luogo comune, come il secondo.

La scienza non ha a che fare con i fini, che sono soggettivi, umani, antropomorfici. Per dirla con le parole di un premio Nobel per la fisica, Steven Weinberg, autore del bellissimo libro “I primi tre minuti”, «quanto più l’Universo ci appare comprensibile, quanto più ci appare senza scopo», ed era il 1977 quando lo scriveva.

La scienza non potrà mai fornire risposta alle nostre esigenze di trovare un senso o un significato alla vita, o meglio, di dare risposta proprio a quei significati. Se la domanda «perché?» solleva le domande tipiche del terzo luogo comune ecco che mostra ambiguità. Allora la scienza ha solo due modi per affrontare, risolvere o dissolvere le domande che cercano le «cause finali»: o mettendo in luce che la domanda ha dei presupposti errati o evidenziando il meccanismo evolutivo che genera un qualche tipo di finalità nell’organismo vivente in questione.

Non è vero che la scienza non spieghi i perché che alludono a cause finali; spiega le ragioni delle nostre azioni identificandole con cause o meccanismi precisi. Il desiderio di bere, causato da precisi meccanismi fisiologici che coinvolgono l’ipotalamo, le mucose della bocca ed altro ancora, sono causa (efficiente) della sensazione della sete, la quale ci spinge ad agire per soddisfare il desiderio. Alla ricerca delle cause finali in questo caso le ragioni di un’azione sono identiche alle cause efficienti e materiali che ci portano in cucina ad aprire un rubinetto.

Se invece cerchiamo cause finali non riferite alle intenzioni di esser capaci di pianificare, la scienza dissolve le domande: quale sia lo «scopo» o il «senso» di un’epidemia o di un terremoto non avrà mai risposta perché la domanda è completamente priva di presupposti corretti, o meglio, si presuppone che dietro il fenomeno naturale ci sia il piano di un essere cosciente che usa il fenomeno come strumento o un mezzo per raggiungere un suo scopo, quale ad esempio la nostra punizione. Se esistesse un essere del genere, in grado di controllare uragani e pestilenze, la richiesta di causa finale sarebbe lecita; ma non esiste, e quindi tale richiesta è del tutto illegittima.

clip_image019E, per motivi analoghi, per assurdo se la vita non fosse il frutto di un disegno intelligente, di un essere onnipotente, ma si fosse originata per caso (ci sono alcuni miei post in proposito), sarebbero illegittime domande come «Qual è lo scopo della vita?» o «A quale scopo esistiamo?», perché presupponente un fatto non esistente, come chiedere ad un figlio unico perché ha picchiato sua sorella. E, ad oggi, la scienza, la più ragionevole delle ipotesi che ci propone sull’evoluzione delle specie esclude la presenza di un progetto o di un disegno intelligente. E probabilmente, in meno tempo del previsto, la scienza sarà in grado di fornire risposte sull’origine della vita (si vedano i post già citati).

Ricordo che la scienza moderna ha pochi secoli di vita e il fatto che la scienza non spieghi quel che tutti noi o alcuni di noi vorrebbero spiegasse non implica che essa dovrebbe spiegare proprio queste cose; in assenza di un disegno intelligente, la ricerca di cause finali nell’evoluzione biologica sarebbe puramente illusoria. E a quanto sappiamo, l’evoluzione non mostra presenza di disegno intelligente, ma solo di modifiche casuali del patrimonio genetico e di necessità, per parafrasare Jacques Monod, che nel suo splendido saggio “Il caso e la necessità”, del 1970, scrive la sintesi perfetta di quanto meravigliosa possa essere la consapevolezza della nostra responsabilità e la grande umiltà che deve darci la consapevolezza dell’unicità e della preziosità della Vita.

«La probabilità a priori che, fra tutti gli avvenimenti possibili dell’universo, se ne verifichi uno in particolare è quasi nulla. Eppure l’universo esiste; bisogna dunque che si producano in esso certi eventi la cui probabilità (prima dell’evento) era minima. Al momento attuale non abbiamo alcun diritto di affermare, né di negare, che la vita sia apparsa una sola volta sulla Terra e che, di conseguenza, prima che essa comparisse le sue possibilità di esistenza erano pressoché nulle.

Quest’idea non solo non piace ai biologi in quanto uomini di scienza, ma urta anche contro la nostra tendenza a credere che ogni cosa reale nell’universo sia sempre stata necessaria, e da sempre. Dobbiamo tenerci sempre in guardia da questo senso così forte del destino. La scienza moderna ignora ogni immanenza. Il destino viene scritto nel momento in cui si compie e non prima. Il nostro non lo era prima della comparsa della specie umana, la sola specie dell’universo capace di realizzare un sistema logico di combinazione simbolica. Altro avvenimento unico che dovrebbe, proprio per questo, trattenerci da ogni forma di antropocentrismo. Se esso è stato veramente unico, come forse lo è stata la comparsa della vita stessa, ciò dipende dal fatto che prima di manifestarsi, le sue possibilità erano quasi nulle. L’universo non stava per partorire la vita, né la biosfera l’uomo. Il nostro numero è uscito alla roulette: perché dunque non dovremmo avvertire l’eccezionalità della nostra condizione, proprio allo stesso modo di colui che ha appena vinto un miliardo?»

E ancora:

«L'antica alleanza è infranta; l'uomo finalmente sa di essere solo nell'immensità indifferente dell'Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo. A lui la scelta tra il Regno e le tenebre.»

La domanda fondamentale della metafisica
Veloce e scherzosa dimostrazione del perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla, per gente moderna e parecchio impegnata.

«Supponiamo che non ci sia nulla.
Se non ci fosse nulla non esisterebbero le leggi: le leggi, in fin dei conti, sono qualcosa.
Se non ci fossero leggi, tutto sarebbe lecito.
Se tutto fosse lecito, nulla sarebbe proibito.
Quindi, se non ci fosse nulla, nulla sarebbe proibito.

  E dunque, se “nulla” è proibito, dev’esserci qualcosa.
CVD
»

Estratto da “Perché il mondo esiste” di Jim Holt.

La domanda fondamentale per il famoso filosofo Heidegger. Perché c’è qualcosa invece del nulla? Ancora una volta la domanda appare illegittima. In assenza di evidenza per un’ipotesi creazionistica sull’Universo, potrebbe essere illusorio pensare che l’«essere» abbia una finalità o un senso, soprattutto in vista del fatto che l’Universo è composto in prevalenza di idrogeno e, in misura minore di elio. La presupposizione è falsa e la domanda non ha senso quindi.

clip_image021Ma se cerchiamo spiegazioni non finalistiche, considerando soprattutto che ad oggi conosciamo appena il cinque percento di ciò che effettivamente costituisce l’Universo (le cosiddette materia ed energia oscure sono ancora…oscure!), non possiamo escludere che progressi importanti nella cosmologia ci condurranno presto, o quanto meno sempre più vicino, ad una risposta. E la cosa si fa molto interessante sapendo che per i fisici il vuoto, l’unico conosciuto, quello quantistico, è pieno di eventi interessanti, e non ha assolutamente nulla a che fare con il vuoto metafisico, quel horror vacui di cui avevano il terrore gli antichi tanto che Aristotele, sempre lui, soleva dire «natura abhorret a vacuo».

A quanto pare la domanda fondamentale della metafisica rimarrà inevasa sia dalla scienza che dalla filosofia, perché non esiste possibile risposta. Qualsiasi fattore introdotto per spiegare perché c’è qualcosa piuttosto che niente sarò esso stesso parte del qualcosa che deve essere spiegato, cosicché esso (o qualsiasi cosa lo utilizzi) non potrà spiegare tutto di quel qualcosa.

Non è un limite della scienza il non poter rispondere a domande di questo tipo, ma una conseguenza del modo in cui funziona qualunque tipo di spiegazione: dal nulla non si può generare nulla e l’ipotesi di un creatore che crei il mondo dal nulla pone il problema dell’origine del creatore, o del perché il creatore sia increato.

E infine, che vuol dire rispondere a «ciò che più conta per noi» del terzo luogo comune? Per alcuni potrebbe non essere così centrale cercare di capire perché c’è qualcosa invece che nulla e avere altre domande assai più importanti; altri potrebbero aver interessi ossessivi per altri argomenti e così via.

Il terzo luogo comune è comunque importante per ogni teoria della spiegazione scientifica. La scienza, diceva Popper, deve ricercare fatti interessanti e quindi anche la spiegazione deve essere una spiegazione di fatti interessanti per noi. Potremmo aprire una parentesi molto lunga sul concetto popperiano di interessante: ci sono ricercatori che hanno passato una vita a studiare muffe batteriche scoprendo per caso (per caso?) un algoritmo che ottimizza certi tipi di percorsi, con applicazioni notevoli nel campo del reindirizzamento delle comunicazioni di Internet.

Rispettando il pensiero di molti esseri umani che considerano interessante e non priva di senso la domanda fondamentale posta da Heidegger concluderei ricordando che per assicurare un qualche tipo di progresso nella comprensione del nostro posto nell’Universo, conviene certamente partire da domande meno ambiziose.

(s)Conclusione

clip_image023La scienza moderna è frammentata in dozzine di discipline diverse, ambito per ambito a cominciare dalla fisica, ma non meno per chimica, geologia, biologia, matematica, medicina e tanto altro ancora; hanno ambiti di operatività e ricerca tali che chi lavora in uno dei tantissimi settori non ha contezza di quello che fanno altri. Ma non per questo, a maggior ragione nell’era dell’interconnessione digitale, gli ambiti di cooperazione, quando necessario, ne sono limitati.

E per questo non è sbagliato affermare che, contestualizzando una singola teoria o una singola entità a specifici campi di ricerca, queste siano vere e su queste si possono con fiducia basare i calcoli e le applicazioni tecnologiche che portano a risultati concreti e funzionali.

La stessa filosofia della scienza è oggi spostata in ambiti più specialistici e settoriali della filosofia delle singole scienze, tra questi la filosofia della fisica quantistica, la filosofia della biologia o di questa addirittura quella dell’evoluzionismo come ulteriore fondamento. Le conoscenze del filosofo devono diventare molto tecniche.

Ma, per evitare il tecnicismo estremo, per ovviare al pericolo che la filosofia in quanto tale possa scomparire, resta importantissima la tradizione della filosofia della scienza in generale: per evitare una percezione settoriale e per fare da ponte tra le filosofie delle singole scienze e quella tout court.

La speranza è che gli studiosi, ambo i lati, approfittino del periodo in corso, tra i migliori, per realizzare un’auspicata interazione feconda tra scienza e filosofia. Personalmente, in questo, vedo dei limiti: ci sono materie scientifiche affrontabili e comprensibili perché molto più qualitative, e queste non dovrebbero rappresentare un problema per un “filosofo” che voglia aumentare le sue conoscenze, ma altri ambiti in cui le difficoltà sarebbero quasi insormontabili, a meno che questi non volesse cambiar lavoro. Di contro, uno “scienziato”, nonostante la maggior semplicità incontrata nell’affrontare studi filosofici con successo, potrebbe non avere interesse alcuno ad approfondire o ad ascoltare punti di vista non necessari alle sue ricerche se non, appunto, per fare un po’ di filosofia. E sbaglierebbe. Il biologo Ernst Mayr, da tutti considerato un moderno Darwin, sosteneva l’inadeguatezza di una filosofia della scienza generalista, e di coloro che credono che abbia priorità la logica su ogni approccio empirico per risolvere problemi genuini nell’ambito della filosofia della scienza. Scrisse una volta, a proposito di un saggio di filosofia della biologia:

«Il libro (…) è molto più di un lavoro sulla selezione naturale. Non solo si sforza di chiarire anche altri problemi della biologia evoluzionistica, ma si è guadagnato la gratitudine dei biologi per la dettagliata analisi filosofica condotta sui concetti di forza, causalità, caso, spiegazione e correlazione. Questi sono termini che i non-filosofi impiegano di frequente, interpretandoli tuttavia in maniera superficiale, e talvolta errata. (…) dimostra ancora una volta quanto semplice sia cadere in errore in assenza di rigore terminologico».

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Riferimenti bibliografici
Ernst Mayr - L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, 2005
Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007
Samir Okasha - Il primo libro di filosofia della scienza, 2006

Confutazione dei luoghi comuni sulla scienza – Primo

Nel post precedente è stato affrontato il tema che vede alla base di molte posizioni antiscientifiche, la presenza di alcuni luoghi comuni sulla scienza e, prima ancora, sulle spiegazioni che questa fornisce.

Le spiegazioni scientifiche contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo. Qualcuno ha detto che spiegare è trovare l’identico nel diverso, in un processo che unifica le cause comuni.

Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».

Volendo riassumerli in estrema sintesi questi sono:

- la scienza è al massimo in grado di spiegare il come e il cosa dei fenomeni, ma non il perché
- la scienza non spiega tutto
- anche qualora spiegasse qualcosa non spiega ciò che per l’umanità è più importante

Premessa
Iniziamo a vedere come, tutto sommato, sia abbastanza semplice confutare queste asserzioni anche se, come lecito attendersi, esisteranno sempre posizioni scettiche, anche al limite della negazione dell’evidenza, dagli scettici globali e radicali ai negazionisti e ai complottisti di ogni epoca e genere.

Questi potranno sempre mettere in dubbio persino il significato dei dati che portano a pensare che una determinata teoria scientifica sia un «fatto»; ma questo tipo di scetticismo, tuttavia, sarebbe analogo a quello che conduce a dubitare dell’esistenza stessa del mondo esterno. E il dubbio sull’esistenza di un mondo presuppone la volontà di ricercare come stanno le cose, e quest’ultima presuppone che ci sia un modo in cui le cose sono che, per lo scettico radicale, o non possiamo conoscere o è completamente illusorio. Ma anche l’essere illusorio rispetto a noi, se le cose stessero così, sarebbe qualcosa, sarebbe appunto il modo di essere del mondo.

In definitiva, il dubbio radicale ha senso solo presupponendo uno sfondo, non necessariamente una particolare teoria, che implica che esista un mondo indipendente da noi che noi cerchiamo di conoscere o rappresentare. Affermare che le nostre percezioni possono sistematicamente ingannarci sulla natura di X implica comunque che X esista e che le nostre percezioni di X siano illusorie. Analogamente, asserire che un enunciato tratto da una teoria scientifica, «X ha la proprietà P», non è né vero né falso, ci obbliga comunque alla forza dell’asserzione in questione, ovvero al fatto che sia vero che l’enunciato in questione non è né vero né falso.

Scettici globali e radicali, complottisti e negazionisti, dovrebbero quindi coerentemente tacere, dato che non appena asseriamo qualcosa, ci impegniamo alla verità di ciò che asseriamo, come quando, per dire che la verità non esiste, ci dobbiamo impegnare almeno all’esistenza di una verità, quella che appunto afferma che la verità non esiste. Considerato che la base della conoscenza scientifica è il senso comune, lo scettico globale sulla scienza è come lo scettico sul senso comune che dubita di tutto. Il grande matematico, fisico e filosofo Henri Poincaré diceva «dubitare di tutto e credere a tutto sono due facce della stessa medaglia», perché ci risparmiano la fatica di pensare a che cosa in particolare dovremmo credere, e di che cosa dovremmo dubitare, cioè ci risparmiano la fatica di pensare, che è poi la fatica tipica di uno scettico «locale», ovvero di colui che dubita soltanto di particolari enunciati e proposizioni, anche se, va detto, in questo caso lo scettico locale si mette sullo stesso piano del miglior ricercatore, perché dubitare su alcune proposizioni della scienza è uno dei motori del progresso scientifico.

Dopo questa lunga premessa torniamo all’argomento principale: confutare i luoghi comuni.

La confutazione del primo luogo comune
La scienza moderna ha adottato come paradigma fondamentale di spiegazione del mondo naturale quello che fa risultare le proprietà macroscopiche e osservabili dei corpi che ci circondano come proprietà emergenti da meccanismi e proprietà microscopiche, troppo piccole per essere osservate a occhio nudo. E qualunque ramo della scienza, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alla geologia, fornisce spiegazioni mostrando proprio come il comportamento macroscopico emerga dai suoi costituenti microscopici. Tutto ciò pur considerando che molte leggi fisiche mettono in relazione proprietà idealizzate e misurabili dei fenomeni, senza spiegare perché esse stiano proprio in quella relazione, attenendosi ad un onesto «non so» piuttosto che tentare di spiegare introducendo ipotesi ad hoc (hypotheses non fingo, non faccio ipotesi, diceva Newton).

clip_image002Tornando alla peste, di cui s’è parlato anche nel post precedente, e per illustrare concretamente come i fenomeni visibili siano spesso spiegati da entità invisibili, oggi sappiamo che pestilenze che hanno falcidiato l’umanità soprattutto nei secoli passati, sono veicolate da un batterio, Yersinia pestis, che viene trasmesso da alcune pulci parassite sia dei topi che degli esseri umani (ecco spiegato perché l’arrivo della peste era spesso preceduto da morie di topi). Questo batterio è lungo circa 1-3 μm e largo 0,5-0,8 μm (μm = 1/1000 di millimetro): invisibile ad occhio nudo ma strumento di spiegazione degli aspetti macroscopici che la scienza cerca nel microscopico e che mina alla base quella «volontà di potenza» di cui parlava il filosofo tedesco Nietzsche, la colpa e il risentimento che davano un senso e una causa per il dolore dell’esistenza. Nulla di tutto ciò: la scienza, ancora una volta, offre modalità di controllo del mondo esterno più efficaci delle primitive e superstiziose reazioni emotive.

Vediamo ora come la scienza ha a che fare con il perché, e non solo con il come dei fenomeni.

Ad occhi ben aperti!

clip_image004Iniziamo con un esempio preso dalla biologia, scienza purissima che, a differenza della fisica, non è sempre riconducibile al linguaggio e alle leggi della fisica, con teorie molto spesso descritte più qualitativamente che quantitativamente (una per tutti la teoria dell’evoluzione per selezione naturale di Charles Darwin) e che è spesso causa di fraintendimenti perché per spiegare, o pur di spiegare, si è fatto in passato necessariamente a considerazioni più finalistiche e meno meccaniche. Kant diceva «è assurdo pensare che un giorno possa nascere un Newton che renda comprensibile anche solo la generazione di un filo d’erba secondo leggi naturali che non state ordinate da alcuna intenzione» (…)

Quando l’intensità della luce varia la nostra pupilla si restringe o si allarga a seconda che ci sia maggiore o minore luce, e se qualsiasi corpo si avvicina agli occhi scatta un riflesso automatico (in medicina è detto ammiccamento) che ci fa chiudere gli occhi prima ancora che la nostra volontà ordini al cervello di farlo. Come spiegare tutto ciò senza riferirsi al fine o alla funzione di questi riflessi? È così evidente: in ambienti non sufficientemente illuminati la pupilla si allarga per accogliere più luce, in presenza di fonti luminose intense invece si restringe per evitare danni alla retina e, ovviamente, il fine del meccanismo protettivo dato dalla chiusura della palpebra è talmente evidente che è inutile parlarne.

Quindi il primo luogo comune potrebbe essere riformulato passando dal considerare che la scienza non spiega i fenomeni biologici perché non è possibile spiegare, con leggi puramente meccaniche, i fenomeni finalistici negli organismi viventi, ovvero leggi che non facciano riferimento alla funzione che questi fenomeni svolgono dal punto di vista della sopravvivenza degli organismi.

clip_image006Ma le spiegazioni causali ci sono e, come spesso accade soprattutto in biologia, sono relative sia a cause prossime, che a cause ultime, più remote nel tempo (ne scrissi nel post precedente).

La prima spiegazione fa riferimento a meccanismi di tipo causale mentre la seconda fa riferimento a quell’insieme di fenomeni storici chiamato «evoluzione naturale», ovvero al lento prodursi di sistemi di protezione dell’occhio in varie specie, che si sono replicati di generazione in generazione perché permettevano un adattamento maggiore.

Senza entrare nei dettagli anatomici e fisiologici della spiegazione è importante notare che la funzione di X (la chiusura delle palpebre) è Y (frapporre una barriera tra l’occhio e il corpo estraneo), ovvero che X causa Y; per completare la spiegazione dobbiamo anche far riferimento ai meccanismi evolutivi che nel corso del tempo geologico hanno dotato larga parte degli esseri viventi di organi che li aiutino nel compito di procacciarsi il cibo (gli occhi) e di barriere protettive naturali per quegli organi così importanti.

Qui non stiamo discutendo se la spiegazione evoluzionistica basti a giustificare la presenza di organi così complessi (e non dovrebbero esserci dubbi in proposito, nel suo libro “L’orologiaio cieco” il famoso biologo inglese Richard Dawkins dedica un intero capitolo all’evoluzione dell’occhio); ci concentriamo solo sul fatto che il meccanismo di ammiccamento è spiegabile alla stessa stregua di quello che spiega la chiusura di una tapparella con meccanismi elettici. Se poi la spiegazione evoluzionistica consiste nel supporre che la lenta mutazione casuale, seguita dall’eliminazione di individui che non arrivavano all’età riproduttiva, può spiegare la presenza del finalismo in natura, esula dalla spiegazione del fenomeno di ammiccamento (sul darwinismo ho scritto a lungo tempo fa).

Inoltre, la necessità di una «causa prossima» per tutti i fenomeni biologici rende evidente, pur se controverso, ritenere che le regolarità naturali siano allo stesso tempo leggi di natura, al pari dell’equazione della gravità newtoniana, pur se con un grado di universalità decisamente minore, considerando che le regolarità biologiche valgono per gli esseri viventi che conosciamo, ed a quanto ci è dato sapere, la Terra è, per ora, l’unico pianeta su cui la Vita, con la V, è apparsa e si è evoluta. Anche se, a prima vista, non hanno una formulazione quantitativa come le tipiche leggi fisiche, hanno comunque una base fisica, quale per esempio quella che correla la quantità di luce in ingresso con le reazioni elettrochimiche che controllano i muscoli pupillari: correlazione dovuta ad effetti causali, il perché ricercato.

Sicuramente in biologia il modello deduttivo non si applica o per lo meno richiede punti di vista qualitativi: ciò non toglie che è il modello esplicativo che deve essere cambiato, non occorre abbandonare la tesi che i fenomeni biologici siano spiegabili nella loro interezza senza ricorrere a dei omerici o alla metafisica kantiana.

Perché? Perché? Il libro del perché finì in mare e si…perdè!

clip_image008Torniamo alla fisica, scienza certamente molto più iconica e simbolica delle scienze biologiche, anche se questo suo essere Scienza, con la S, ha dato parecchio filo da torcere al valore scientifico, si perdoni il gioco di parole, delle altre scienze, come nel caso della corrente filosofica del fisicalismo.

Nel suo “Il libro dei perché” Gianni Rodari scrive: «Perché piove?» - «Perché c’è il Sole». Ora, per un bambino o per chi ignori il ciclo dell’acqua, o le nozioni elementari di termodinamica o meteorologia, questa risposta va benissimo. E può essere arricchita e ulteriormente precisata, resa via via più rigorosa, chiamando in causa le aree di bassa pressione, le leggi di cambiamento di stato dell’acqua, e via discorrendo.

Ogni spiegazione è, in prima battuta, una risposta ad una domanda contenente «perché?» e la qualità di una spiegazione, la sua maggiore o minore capacità di farci capire, dipende dal livello culturale e dalla quantità di informazioni di cui dispone chi richiede spiegazioni alzando la mano e chiedendo «perché?». E, come vedremo nel post successivo, esistono diversi tipi di perché?

Sempre Rodari, a suo modo, racconta del perché il cielo sia blu di giorno e si arrossi al tramonto e all’alba, e lo fa chiamando in causa raggi del Sole con le gambe lunghe ed altri con le gambe corte, piccoletti azzurri e violetti e spilungoni rossi ed arancio che si contendono la giornata.

Notate il contesto della spiegazione: ottima per un bambino ma del tutto inadeguata per un adulto, anche dotato delle basi minime, e men che mai per uno scienziato. Ma i bambini, specialisti del perché reiterato potrebbero chiedere come mai gli spilungoni arrivano al tramonto e di giorno i piccoletti.

Per rispondere a questa domanda non ci basta più Rodari e dobbiamo ricorrere ad una spiegazione scientifica che innanzi tutto ci permetta di capire cosa si intende per lungo e corto, non più una valutazione qualitativa riferito alle gambe ma una scientificamente precisa e misurabile quantitativamente: la lunghezza d’onda della luce, ovvero della radiazione elettromagnetica. L’immagine seguente ci aiuta nella comprensione.

Onda su onda

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Il tempo che impiega l’onda a fare un’intera oscillazione, il periodo, generalmente indicato con T, è l’inverso della frequenza, f=1/T, che indica quante volte si completa un periodo nell’unità di tempo, cioè in un secondo. O, volendo, immaginate che possiate vedere attraverso un fenditura soltanto una parte dell’onda, e il tempo che passa tra la comparsa di una cresta e quella successiva sarà il periodo T. Dato che lo spazio è comunque s=vt, e sapendo che la luce si propaga con la velocità della luce c, se la moltiplichiamo per il periodo T otteniamo la lunghezza d’onda, λ=cT, ma dato che 1/T=f, allora è λ=c/f.

Lunghezza d’onda e frequenza sono quindi inversamente proporzionali e al crescere dell’una diminuisce la seconda e viceversa.

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La figura precedente illustra il cosiddetto spettro elettromagnetico, ovvero l’intera gamma delle radiazioni elettromagnetiche, dai raggi gamma alle onde radio. La luce cosiddetta bianca, quella che comunemente è generata dal Sole o da una lampadina tradizionale, quella che non altera i colori, è costituita da lunghezze d’onda diverse, corrispondenti ai vari colori visibili di un arcobaleno. E al centro della figura c’è proprio una sorta di arcobaleno che rappresenta come la luce visibile, quanto percepisce l’occhio umano, è solo una minima parte dello spettro completo: ecco i piccoletti di Rodari, il violetto per capirci, ha una lunghezza d’onda di 390 nm, (nm sta per nanometri, 10-9, ovvero miliardesimi di metro), mentre i gambalunga arrivano col rosso a 760 nm.

Scattering

clip_image013Quando la luce attraversa l’atmosfera incontra ovviamente molti tipi di componenti diverse, corpuscoli o molecole di vario tipo, da quelle del vapore acqueo a quelle dei componenti gassosi dell’atmosfera.

L’incontro genera quel che in inglese è chiamato scattering, diffusione: la luce viene in parte diffusa ed in parte deviata, con delle modalità che dipendono dalle dimensioni (d) di ciò che la luce incontra attraversando l’atmosfera.






 

clip_image015Se λ<<d (il simbolo << significa molto minore), come ad esempio nel caso del passaggio della luce attraverso le goccioline d’acqua che compongono le nuvole, allora la luce viene diffusa allo stesso modo per tutte le lunghezze d’onda, dal rosso al violetto, cosicché le nuvole nelle belle giornate ci appaiono bianche.

Ma se λ>>d (viceversa >> sta per molto maggiore), come quando la luce impatta con le molecole di gas dell’atmosfera, che sono enormemente più piccole della lunghezza d’onda, allora interviene un altro fenomeno: la quantità di luce diffusa dalle molecole di un gas è inversamente proporzionale alla quarta potenza di λ, ovvero a λ4, o inversamente proporzionale a 1/ λ4 (legge di Rayleigh): le cose si complicano un po’, ma non molto. Significa che maggiore è la lunghezza d’onda della luce associata ad uno dei componenti della luce bianca, il rosso per esempio, e minore sarà la quantità di luce di quel colore che si diffonderà, perché 1/ λ4 è più piccolo. Al contrario, minore è la lunghezza d’onda, come nel caso del blu e del violetto, e più se ne diffonderà perché 1/ λ4 è relativamente più grande. In altre parole, intuitivamente, la componente rossa, più grande, tende a passare relativamente indisturbata come farebbe un’onda del mare alta due metri se incontrasse uno scoglio di mezzo metro (omettendo per la radiazione elettromagnetica il comportamento corpuscolare scoperto con la meccanica quantistica, i meccanismi di onde elettromagnetiche, sismiche, sonore e di liquidi come le onde del mare sono descritti da leggi equivalenti), mentre le componenti a lunghezza d’onda meno elevata risentono delle dimensioni di ciò che incontrano: con la stessa analogia di prima si pensi ad un’onda liquida di mezzo metro che incontri uno scoglio alto due metri.

Nota: il violetto, che ha una lunghezza d’onda minore dell’azzurro o del blu, non è presente perché viene assorbito prima ma soprattutto perché l’occhio umano è più sensibile al rosso, al verde e al blu.

Il cielo è sempre più blu

clip_image017Ma tutto questo cosa ha a che fare col perché il cielo di giorno è azzurro mentre all’alba e al tramonto è rosso?

All’alba o al tramonto, la luce che viene direttamente dal Sole deve attraversare uno strato di atmosfera assai maggiore di quando il Sole è alto nel cielo, e dovrà incontrare una quantità di ostacoli maggiore: in tal caso la luce non viene diffusa e passa attraverso il gas soprattutto nelle componenti dal giallo al rosso, con lunghezza d’onda maggiore, meno influenzate dalla presenza di gas e corpuscoli. Infatti, quanto più gas viene urtato dalla luce, tanto più, a causa della legge di Rayleigh, viene rimbalzata altrove (diffusa) la componente a lunghezza d’onda minore (blu), restando dunque visibile la luce meno diffusa, che è appunto quella arancio-rossa che colora il cielo all’inizio e alla fine delle giornate limpide. E viceversa quando il Sole è alto nel cielo le componenti a minore lunghezza d’onda saranno diffuse in quantità molto minore colorando d’azzurro il cielo limpido.

 




clip_image018Credo sia abbastanza evidente la stretta connessione tra l’utilizzo di una legge di natura, come quella di Rayleigh, e le relative spiegazioni, un classico esempio di deduzione in cui, vere le premesse, sono vere le conclusioni. Ma altrettanta importanza rivestono le condizioni iniziali, o al contorno. La legge suddetta spiega il colore del cielo, ma occorre anche tener conto della composizione della nostra atmosfera e dalla posizione relativa della Terra rispetto al Sole. Il cielo marziano ha colorazioni significativamente diverse dalle nostre.

 

Conclusione essenziale
Le condizioni iniziali permettono di applicare le leggi, che sono schemi generali, al caso particolare che ci interessa.

A questo punto, credo che gli esempi portati bastino a confutare la tesi che vede la scienza non in grado di spiegare ma soltanto descrivere i fenomeni, rimandando al post successivo una discussione sul secondo e sul terzo luogo comune.

Ma i problemi non sono finiti, e rimandiamo al post seguente.

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Riferimenti bibliografici

Ernst Mayr - L’unicità della biologia. Sull’autonomia di una disciplina scientifica, 2005
Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007
Samir Okasha - Il primo libro di filosofia della scienza, 2006

Tre luoghi comuni sulla spiegazione scientifica. Parte prima: il come ma non il perché

Premessa

In questo primo di una serie di post, che spero di completare quanto prima, tenterò, immodestamente, di affrontare altrettanti luoghi comuni sulla scienza, o meglio sulle spiegazioni che questa fornisce e che, da tempo immemorabile, sono piuttosto diffusi, non solo tra negazionisti di ogni tipo, neoluddisti o legioni di imbecilli (cit. Umberto Eco), ma anche a volte avvalorati da molti filosofi e persino da eminenti scienziati.

Allo scopo di avviare una certa propedeuticità in questo primo post dovrò necessariamente introdurre qualcosa anche sul secondo e sul terzo luogo comune; per tutti comunque confutazioni, prove a sostegno e dettagli seguiranno negli altri post.

Per gli ansiosi qui la seconda e la terza ed ultima parte di questa serie di post.

Tutti e tre sono spesso utilizzati polemicamente, in malafede, e fanno parte di quel gruppo di tesi che annoverano tra esse anche quelle che sostengono le domande come quelle a seguire e che sono state trattate recentemente anche su queste pagine. Se le teorie sono suscettibili di mutamenti anche radicali nel corso della loro storia, come pensare che possano essere definitivamente vere? E se sono solo approssimativamente vere, come giustificare l'idea che progrediscano verso la verità? E ancora, se anche le entità non osservabili postulate dalle teorie passate sono state a volte abbandonate nel corso dello sviluppo storico delle teorie, come possiamo essere sicuri che le entità postulate dalla scienza di oggi non verranno abbandonate domani?

Ma il metodo scientifico ha basi, ancorché fondate sul dubbio e su spirito antidogmatico, più che solide.

Il primo luogo comune. Cosa e come ma non perché.

Per affrontare l’argomento prenderò in prestito le parole di un filosofo italiano contemporaneo, Umberto Galimberti: «…la ragione, ormai abituata a spiegare il come delle cose, tace impotente di fronte al perché del loro accadimento». Ma così non è, come vedremo.

Questa affermazione, non di rado espressa anche da scienziati, ci dice in breve che la scienza ha a che fare solo con il come e non anche con il perché delle cose. Da Galilei in poi, storici e filosofi della scienza concordano nel ritenere che il metodo scientifico consista da una parte nel tentativo di formulare in modo matematicamente preciso alcuni significativi nessi tra i fenomeni (ciò che Galilei definiva «le certe dimostrazioni»), e dall’altra nel sottoporre le leggi così formulate alla prova delle osservazioni («le sensate esperienze» galileiane, gli esperimenti); il tutto fino ad arrivare ad estremismi tali da ribadire, come fece di recente uno dei più autorevoli studiosi di relatività generale nel mondo, che «la scienza non offre spiegazioni dei fenomeni ma solo leggi». Ancora, così non è.

All’origine di questo primo luogo comune c’è insomma la tesi, molto controversa, che le connessioni tra i fenomeni, i loro nessi causali, espressi dalle cosiddette leggi di natura, non siano sufficienti a farci comprendere perché gli eventi avvengano, o perché avvengano proprio così e non in altro modo. Paradossalmente affermazioni di questo tipo hanno lasciato credere, per lunghissimo tempo, che la biologia non fosse degna nel definirsi scienza, perché priva di leggi. Il nostro Zichichi affermò ad esempio che la teoria biologica dell’evoluzione non è scientifica, in quanto non è espressa da un’equazione matematica. Tra le tante critiche rivolte al lavoro di Darwin questa è una delle più disinformate, perché gli aspetti matematici dell’evoluzionismo esistono dal 1908, da quando Hardy e Weimberg, con la loro famosa legge, impostarono matematicamente le condizioni evolutive identificate empiricamente dai biologi; e potremmo anche ricordare un’altra famosa legge biologica, quella di Maynard Smith e Price, rimandando a questo post per un approfondimento.

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Prendiamo adesso esempio da una delle più famose leggi di natura, che più o meno tutti abbiamo studiato a scuola: la legge di gravitazione universale scoperta da Isaac Newton. Questa esprime che la forza di attrazione F che attrae due masse qualunque (m1 e m2) nell’Universo è direttamente proporzionale al loro prodotto e inversamente proporzionale al quadrato della distanza (r) tra esse (a parte una costante, detta di gravitazione universale, G). In breve, tanto maggiori sono le masse tanto maggiore sarà la forza, e raddoppiando o triplicando la distanza tra esse, l’intensità della forza diminuirà di un quarto o di un nono rispettivamente.

clip_image003Già al tempo di Newton, a cominciare dai seguaci della fisica di Cartesio, molti osservavano che questa elegante legge non ci dà nessuna informazione sul perché i corpi si attraggono, non fornisce, in altre parole, nessun meccanismo che spieghi come la forza agisca. Si potrebbe addirittura pensare che tra i corpi agisca un’azione a distanza istantanea, idea che già lo stesso Newton ripugnava. Certamente la scienza progredisce nel tempo e sappiamo oggi, col senno di poi, che abbiamo una spiegazione decisamente migliore di quella newtoniana sul perché, che comunque resta valida come caso particolare della Relatività Generale di Einstein. Ma, ai fini dell’argomento che stiamo trattando, approfondire oltre non ci interessa.

Fermandoci alla spiegazione newtoniana il primo luogo comune potrebbe essere descritto in questo modo: la scienza al massimo descrive, ma certamente non spiega. A tale proposito lo stesso Newton offre una mano ai sostenitori di questa tesi, visto che egli stesso si rifiutava di congetturare ipotesi per spiegare la gravità con meccanismi sconosciuti (hypotheses non fingo): non faccio ipotesi o, più onestamente un chiaro «non so» è sempre preferibile a facili spiegazioni prive di evidenze sperimentali. Già Galilei segnalava che ammettere di non sapere era piuttosto difficile per molti filosofi. Ricordo che prima che John Whewell coniasse la parola scienziato coloro che si occupavano di ricerca scientifica erano chiamati filosofi naturali e filosofia naturale il loro campo di ricerca.

Cause

clip_image005Anticipando qualcosa di quanto vedremo nei post successivi a questo, per fornire spiegazioni ai fenomeni occorrono almeno tre livelli di ragionamento innescati da altrettante domande. La prima domanda dovrebbe essere: Che cos’è? Le risposte arrivano individuando strutture e funzioni che definiscono il fenomeno. Poi viene la domanda: Come è fatto? Ovvero che cosa ne determina l’esistenza, quali sono stati gli eventi responsabili delle condizioni della sua origine? Infine, il terzo e ultimo livello è: Perché? Perché, tanto per cominciare il fenomeno e le sue precondizioni esistono? E perché non immaginare una modalità diversa di evoluzione del fenomeno, perché non formulare ipotesi, al contrario di Newton?

Prendendo a prestito un esempio dalla biologia, scienza che già di suo dev’essere trattata con modalità spesso diversissime dalla fisica, i biologi sentono la necessità di cercare relazioni di causa ed effetto a tutti e tre i livelli. Le cause responsabili di un fenomeno vivente, come il volo di un uccello o la nostra percezione dei colori di un fiore, sono chiamate cause prossime. Gli eventi che governano l’evoluzione del fenomeno fino al suo stato attuale sono indicati come cause ultime.

Le cause prossime sono il cosa e il come di una spiegazione completa. Le cause ultime corrispondono al perché. Riassumendo il primo luogo comune, non si è spiegato il fenomeno se non ne è stato spiegato anche il perché e tutt’al più, in un impeto di riduzionismo estremo, si cerca di risalire all’indietro nella sequenza degli eventi, in una sorta di gioco del perché così caro ai bambini, fino a fermarsi al punto in cui appare necessario appellarsi ad una causa…divina! Perché è così e basta!

Il secondo luogo comune. La scienza non spiega tutto.

clip_image006Anticipando quanto vedremo nei post successivi di questa serie introduciamo gli altri due luoghi comuni.

Il secondo, che in apparenza sembra concedere qualcosa al potere esplicativo delle teorie scientifiche, insiste sul ritornello noioso e abusato che la scienza non può spiegare tutto. Ovviamente, tale affermazione non implica negare che essa possa spiegare qualcosa, ma allora questo luogo comune entra in contraddizione col primo!

Per gli amanti delle tautologie e soprattutto per i negazionisti del di tutto un po’, a volte è proprio l’assai plausibile tesi che la scienza non possa spiegare tutto (il secondo luogo comune) che viene presa come evidenza a favore della tesi espressa dal primo, nonostante l’evidenza contraria.

Prima del 1915-16, periodo in cui Einstein formulò la teoria della Relatività Generale, la teoria della gravità di Newton spiegava la caduta della famosa aneddotica mela sulla testa del grande inglese. Ma non diceva nulla sul perché la mela cadesse, e allora, la caduta della mela è stata davvero spiegata?

Ma se applichiamo questo tipo di ragionamento a qualunque apparente spiegazione fisica dei fenomeni in soli termini di leggi avremmo una supercazzola! Se un fenomeno fisico f può essere spiegato in termini di una legge L, e se non riesco a spiegare L, posso concludere che non ho spiegato nemmeno f. Ergo, se la scienza non spiega tutto (secondo luogo comune), allora non spiega nulla (primo luogo comune).

La scienza e la sua ricerca, parafrasando Popper (che spesso abbiamo citato su queste pagine), sono antidogmatiche e aperte, non esistono né ammettono spiegazioni ultime e definitive di fenomeni, ovvero spiegazioni che a loro volta non possano essere spiegate. Ne consegue che è talmente evidente che la scienza non spieghi tutto che l’affermarlo non può che avere un intento polemico espresso in malafede: si vorrebbe far passare la tesi che esistono fenomeni che sfuggono alla limitata razionalità umana espressa dai due ingredienti del metodo galileiano: sensate esperienze e certe dimostrazioni. Fenomeni che invece sono analizzabili come qualsiasi altro di cui si occupi la scienza.

clip_image008Fenomeni come quelli miracolosi, da guarigioni inspiegabili a statuette votive che lacrimano sangue, influssi astrologici, percezioni extrasensoriali, fenomeni di telecinesi, fantasmi, contatti con il mondo dell’aldilà e panacee ottenute da tecniche di guarigione alternative farebbero tutti parte di una specie di «terza dimensione» della realtà, quella detta «paranormale», che si aggiungerebbe alle due del senso comune e dell’immaginazione scientifica del mondo.

Ed è proprio per far posto a questa «terza dimensione» della realtà che si insiste sull’ovvia tesi che «la scienza non spiega tutto».

Anche chi è meno incline al paranormale, filosofi compresi, ricorre spesso a questo luogo comune; in questo caso lo fanno per sostenere che la scienza non potrà mai spiegare fenomeni ai quali abbiamo accesso solo in prima persona e tra questi spicca quello delle spiegazioni relative al rapporto tra mente e cervello, dei nessi causali tra materiale e immateriale, la coscienza e l’autocoscienza. C’è chi sostiene che gli esseri umani non capiranno mai davvero il loro cervello perché per studiarlo hanno disposizione soltanto il loro oggetto di studi!

Personalmente sono convinto che si tratti solo di attendere. La scienza moderna è relativamente giovane, ha appena quattro secoli, e pur frammentata oggi in centinaia di ambiti diversi ma, spesso inconsapevolmente connessi, col tempo condurrà ad un numero crescente di spiegazioni o al miglioramento delle esistenti, in una sorta di cammino aperto costellato di nuove domande per ognuna delle risposte fornite.

 




Il terzo luogo comune. La scienza non spiega tutto, figuriamoci l’essenziale!

clip_image010Altre volte, con maggiore sobrietà, il secondo luogo comune viene difeso e chiamato a supporto del terzo che, in un certo modo, giustifica il secondo: la scienza non spiega tutto perché non è in grado di spiegare ciò che per noi è più importante. Perché esistiamo? Perché moriamo (a proposito, ne ho scritto da poco qui)? Perché le costanti universali, come la G vista in precedenza, hanno proprio il valore che hanno? E infine, la domanda delle domande: perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla (molti anni fa ne scrivevo qui)?

Per non parlare dei due famosi magisteri non sovrapponibili, religione e scienza. Perché, come giustamente ha scritto il famoso biologo inglese Richard Dawkins, e ribadito dal nostro Piergiorgio Odifreddi, non dovrebbe essere possibile trattare la religione col metodo scientifico come qualsiasi altro fenomeno della citata «terza dimensione»?

Queste domande esulano e rimarranno sempre estranee alla ricerca scientifica?

Ancora una volta, anche in questo luogo comune, troviamo un collegamento col primo: può essere utilizzato per affermare che la scienza non spiega nulla che sia davvero significativo, dato che se pure essa «spiega» qualcosa, riesce solo a darci le «cause meccaniche» dei fenomeni, mentre le spiegazioni di ciò che più ci sta a cuore, quelle con la S maiuscola, sfuggiranno per sempre al suo dominio, e a nulla vale ricordare che le spiegazioni metafisiche, come i diversi miti sulla creazione delle diverse religioni, sono assunti dogmatici ognuno dei quali identifica un diverso credo, influenzando negativamente la capacità di comprendere la condizione umana.

 

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L’ossessione per il controllo

clip_image014I tre luoghi comuni si alimentano alla stessa fonte che dà origine al sapere scientifico: il nostro più o meno consapevole bisogno di controllare il mondo che ci circonda, soprattutto nei suoi aspetti più ostili. Persino ipotizzando, ammettendo, o persino sapendo, che questo controllo è demandato all’esito di azioni altrui, che siano i dei di Omero o altri esseri umani. Ovviamente l’esistenza di quest’unica radice non implica affatto che gli argomenti a favore dell’uno o dell’altro luogo comune siano tutti ugualmente forti.

La ricerca scientifica, soprattutto in campo biologico, ha ormai ampiamente fornito le prove che non c’è nulla di già scritto e di predeterminato; parafrasando il poeta spagnolo Antonio Machado, l'evoluzione ci insegna che il «non esiste il sentiero, il sentiero si fa camminando», il percorso lo si definisce nell’andare. E questo dà profondamente fastidio alla nostra mente tendenzialmente teleologica, a cui piacciono le spiegazioni che abbiano uno scopo, istintivamente rifiutando l’idea stessa che questo possa mancare e soprattutto, come i racconti che amava lo stesso Darwin, ci piacciono le storie a lieto fine.

Il più delle volte però, alla base di tutti e tre questi luoghi comuni c’è l’intento, più o meno esplicito, di attaccare il sapere scientifico: in tal caso l’idea che li ispira tutti è che solo la metafisica o la religione spieghino i fenomeni, mentre la scienza può al massimo predirne il corso. In altri casi, la difesa più o meno convinta del primo e del terzo luogo comune non intende affatto esaltare forme non scientifiche di comprensione, ma si pone solo in posizione scettica, tentando di limitare le pretese del sapere scientifico e ricondurlo negli ambiti che gli sono più propri.

All'alba dell'era nucleare, negli anni '50, Hannah Arendt ad esempio osservò che un mondo che relega questioni esistenziali al solo linguaggio tecnico e scientifico - definendolo dominio esclusivo di donne e uomini in camice bianco che dicono «fidatevi di noi» - rischia di essere un mondo in cui le persone hanno perso la capacità di essere artefici della propria vita. Una preoccupazione per lo stato tecnocratico estrema, questa della Arendt, dettata dalla sua esperienza di vita e frutto dei tempi in cui viveva, giustificabile in parte allora ma del tutto anacronistica oggi.

La colpa e la causa

clip_image016Per quanto le motivazioni delle varie tesi debbano sempre e comunque essere distinte dalle argomentazioni a loro supporto (fini nobili ma argomentati con fragilità o argomentazioni forti a sostegno di motivazioni poco apprezzabili) la radice comune resta quella suddetta: il controllo del mondo.

E ancora una volta sono le religioni e i miti che traggono da qui la loro motivazione più forte, la nostra «naturale» tendenza a credere a spiegazioni – nonostante la scoperta di modi spesso illusori - che ci facciano sentire più in grado di dominare il mondo che ci circonda, e quindi di giustificare o provare a controllare l’esistenza del male e della sofferenza.

 

 

clip_image017Prendiamo ad esempio i fenomeni naturali catastrofici, le epidemie, le disastrose alluvioni, tsunami o terremoti devastanti. Spiegare i fenomeni naturali come questi partendo dalla nozione di colpa, propria o altrui, implica il vantaggio di poter imputare a sé o agli altri le cause del dolore, donandoci l’illusione di poter soggiogare o almeno placare le soverchianti forze naturali che ci sono ostili. Non a caso il termine «causa», inteso come ciò che anticipa l’«effetto», nel mondo ellenistico era in origine legato alla «colpa» che provoca la pena come suo «effetto».

Le plebi medievali, infervorate da predicatori o politici spesso in malafede, addossavano la causa della peste alla loro stessa cattiveria, alla loro indegna espressione di fede o, spesso in contemporanea, agli ebrei che avvelenavano i pozzi. In tal modo generavano l’illusione di poter controllare morte e sofferenza improvvise e insensate, soprattutto se colpiscono chi è evidentemente innocente, come un bambino. Questo dipende da noi, in modo che piaccia a dio, non appartiene soltanto al passato, chi non ricorda che l’AIDS viene tutt’ora «spiegato» come una punizione divina per comportamenti sessuali ritenuti devianti?

Ancora oggi ho spesso sentito persone molto religiose anche se non necessariamente bigotte addossare al comportamento cattivo dell’umanità le cause di catastrofi naturali come effetto della volontà di un dio punitivo o del suo dolore. E a nulla valgono indicazioni provocatorie a ricordare la morte di innocenti in tutto ciò.

Nell’essere umano esiste dunque una tendenza, prescientifica e naturale, tendenza a confondere colpa morale e causa fisica, parte di quella profonda evoluzione culturale e dalle radici ultramillenarie, intrecciata con quella biologica, di cui abbiamo parlato qui e qui.

clip_image019Va ribadito che tutto ciò non è soltanto tipico delle fasi iniziali o primitive dello sviluppo culturale dell’umanità: le spiegazioni di fenomeni naturali che fanno uso della nozione di colpa prevalgono anche, e ancora, nel mondo contemporaneo, soprattutto laddove il sapere scientifico non è abbastanza diffuso, ma non solo: nelle moderne società, amplificate dalla cassa di risonanza dei social media, i complottismi di varia natura - terrapiattisti, negazionisti climatici, novax, fino a coloro i quali credono che siano in atto esperimenti di controllo del clima, dalle cosiddette scie chimiche alla provocazione di nubifragi, inondazioni e terremoti - sono all’ordine del giorno, posizioni antiscientifiche che danno colpa ad altri di quanto invece è spiegabile scientificamente, sia per confutarlo che per dimostrarlo.

Le spiegazioni scientifiche sono una conquista relativamente recente del nostro sviluppo culturale, una conquista che può essere perduta in ogni momento se dovessimo regredire a forme di pensiero tribali e superstiziose. Spesso anche con meno: si pensi alla regressione scientifica e tecnologica che numerosi paesi nel mondo hanno e stanno sperimentando se sottoposti a regimi totalitari di varia natura, sia in presenza che in assenza di dogmatismi religiosi al potere.

Le spiegazioni scientifiche contribuiscono sia al nostro bisogno di controllare il mondo esterno nel modo più efficace possibile, predicendone in parte il corso, sia contemporaneamente a comprenderlo.

Né colpa verso se stessi né ostilità verso altri muovono il nostro tentativo di spiegare scientificamente il mondo naturale, ma solo il desiderio nobilissimo e fine a se stesso di capire perché «le cose sono come sono».

Come ebbe a dire il filosofo stoico Epitteto (50-125 ev circa), nella traduzione di Giacomo Leopardi: «È proprio di chi non ha educazione filosofica, ritenere gli altri causa delle proprie sventure; di chi ha cominciato ad educarsi, accusare se stesso; di chi è educato nella filosofia, non accusare né gli altri né se stesso».

A seguire la seconda e la terza ed ultima parte di questa serie di post.

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Riferimenti bibliografici

Edward O. Wilson – Le origini della creatività, 2017
Peter Godfrey-Smith – Teoria e realtà, 2021
Mauro Dorato – Cosa c’entra l’anima con gli atomi?, 2007