La fabbrica dei dubbi

Karl Popper

Spiccioli di filosofia...della scienza!

Più volte sulle pagine di questo blog il famoso filosofo della scienza Karl Popper è stato citato e si è raccontato qualcosa delle sue idee.

Uno dei contributi più importanti e conosciuti è la sua visione della scienza, incentrata su una coppia di idee semplici, chiare e straordinarie.

Innanzi tutto distinguere la Scienza, con la S, dalla pseudoscienza, qualcosa che si spaccia per scienza ma non lo è. Diciamo subito che per Popper la pseudoscienza non era necessariamente priva di significato ma comunque non considerabile come scienza: due esempi di pseudoscienza a lui cari erano la psicologia di Freud e la visione marxista della società e della storia. Sulla prima va detto che le critiche del filosofo nascevano dalla metodologia allora in uso nella psicanalisi, troppo legata al solo comportamento umano in risposta ad uno stimolo e priva di prove empiriche. Scienza purissima per Popper era d’altro canto il lavoro di Einstein.
Per mezzo del falsificazionismo, il nome che il filosofo diede alla propria soluzione, venne definita dunque la Scienza: un’ipotesi è scientifica se e solo se ha il potenziale di essere confutata da qualche possibile osservazione. Per essere scientifica, un'ipotesi deve correre un rischio, deve mettersi in gioco. Se una teoria non si assume alcun rischio perché è compatibile con ogni possibile osservazione, allora non è scientifica. E fin qui tutto bene. E questo concetto di rischio, legato ad aspetti probabilistici, lo troviamo anche in quel che comunemente è definito come consenso scientifico, di cui s’è scritto tempo fa.

Ma Popper usava l'idea della falsificazione anche in modo più ambizioso. Sosteneva che tutte le verifiche nella scienza hanno la forma di tentativi di confutare delle teorie mediante l'osservazione. L’aspetto cruciale è che non è mai possibile confermare o dimostrare una teoria mostrando che si accorda con le osservazioni. La conferma è un mito. L'unica cosa che un test osservazionale può fare è mostrare che una teoria è falsa. Alcuni degli scienziati che considerano Popper un eroe non realizzano che egli credeva che non è mai possibile confermare una teoria nemmeno in parte, indipendentemente da quante osservazioni la teoria ci aiuta a prevedere con successo. Prendiamo la teoria proposta da qualcuno e deduciamo da essa una previsione osservabile. Se le cose avvengono come da previsione, allora dobbiamo dire di non aver ancora falsificato la teoria. Ma, per Popper, non possiamo concludere che la teoria è vera, né che è probabilmente vera e neppure che è più probabile che sia vera di quanto fosse prima del test. La teoria potrebbe essere vera, ma non possiamo dire più di questo: potrebbero passare anni senza riuscire a falsificare una teoria ma per Popper ciò significherebbe che è semplicemente sopravvissuta ai tentativi di falsificazione.

Ciò non significa ovviamente che gli scienziati debbano trascorrere quasi tutto il loro tempo a tentare di falsificare una teoria, ma solo che dovremmo sempre mantenere un atteggiamento di cautela. Devono continuamente, in un certo qual modo, generare dubbi, persino sul loro stesso operato, evitando di cadere nella trappola, cosa che accade più frequentemente di quel che si pensi, di vedere evidenze che confermano le loro ipotesi anche quando non ce ne sono: e, che lo si creda o meno, molti scienziati riescono ad essere particolarmente vanitosi nei confronti delle loro idee.

La cattiva interpretazione, strumentale, del pensiero di Popper, apre le porte ai negazionisti di ogni epoca. Infine Popper pensava che le teorie semplici, (trattammo l’argomento qui) in molti casi, potessero essere falsificate facilmente ed è bene lavorarci perché si assumono dei rischi, cosa ad egli gradita. Non c'è motivo di pensare che una teoria semplice sia vera, ma è più semplice dimostrare che è falsa, e se lo è, e questa è una virtù. Un vero e proprio estremista quindi.

E sono queste, tra le altre, le idee che agiscono come motore della scienza e del suo progresso.

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Un altro grande filosofo della scienza che ha fornito strumenti interessanti è stato Thomas Kuhn, soprattutto con il suo concetto di cambiamento di paradigma (qui). Personalmente, come molti, non ritengo che la scienza subisca delle rivoluzioni con dei passaggi epocali, anche se il termine è stato spesso utilizzato a cominciare dalla cosiddetta rivoluzione galileiana; ma, soprattutto in epoca moderna ed ancor di più da quando l’interconnessione e la comunicazione tra scienziati è globalizzata, che la scienza possa presentare nel tempo teorie completamente dirompenti col passato è un evento assai improbabile. Kuhn sosteneva che siamo in presenza di una rivoluzione scientifica quando gli scienziati incontrano anomalie che non possono essere spiegate alla luce dei modelli, delle ipotesi, dei paradigmi insomma, vigenti.

imageIndipendentemente dal necessario cambiamento, ritengo che la scienza proceda con continuità e ciò che appare rivoluzionario dipende esclusivamente dal tipo di visione e dalla scala temporale utilizzata. Anche se, usando il termine in modo tradizionale, tra il 1550 e il 1700 circa, abbiamo avuto un “rivoluzione” scientifica questo non deve far pensare che esistano dei confini netti tra un periodo assolutamente straordinario e il resto della storia.

In breve: ai dubbi seguono nuove ipotesi, nuovi modelli, nuove verifiche e, laddove necessario, un cambio di paradigma.

Errare...scientificum est!

Quindi la scienza e/o gli scienziati sbagliano? Certo che sì, e per fortuna, anche se non si tratta di errori propriamente detti quale potrebbe essere un errore di calcolo…e non che anche i migliori non ne commettano!

Purtroppo, così come Popper viene citato a vanvera da complottisti e negazionisti per inculcare l’idea che quelle scientifiche sono chiacchiere che prima o poi verranno smentite, ecco che la quantificazione dei possibili errori nelle affermazioni scientifiche, il cambiamento di posizione (o paradigma che sia) da parte del mondo scientifico di fronte a fatti nuovi che falsificano le teorie precedenti, ecco che tutto questo viene strumentalmente preso come segno di debolezza della scienza e del suo metodo.

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Si potrebbero fare dozzine di esempi di casi in cui parte della comunità scientifica si oppone al gruppone maggioritario del consenso che, non certamente per alzata di mano, ritiene una determinata ipotesi, una teoria, un modello, validi ed in grado di soddisfare tutti i requisiti del metodo.

Lo spinoso tema del cambiamento climatico che, come evidente dai miei post, mi sta molto a cuore, è uno dei più ricchi di questo tipo di casi, ed è tra l’altro paradossale osservare, quasi esclusivamente sui social, potenti amplificatori della grancassa della falsa informazione, come nessuno si azzardi a smentire sofisticatissime teorie scientifiche, quali quelle cosmologiche, o di fisica quantistica, mentre ogni qual volta c’è un post in tema di cambiamento climatico a centinaia si buttano ad irriderlo (nella figura seguente osservate il diverso numero di commenti tra un post in tema di global warming ed uno che parla di vita marziana).

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Ricorderete certamente la famosa lettera dei 500, o le posizioni del Nobel John Clauser che definì quella sul clima “pseudoscienza giornalistica”. Pseudoscienza?

Ecco, in questo caso trovai molto curiosa l’attenzione che si rivolse a un Nobel per la fisica premiato per i suoi lavori sulla Meccanica Quantistica nel 2022, ma che non ha mai lavorato su nulla relativo al clima o alla fisica dell’atmosfera, mentre si è talvolta preferito ignorare i Nobel del 2021, sempre in fisica, conferiti a tre climatologi proprio per aver correttamente previsto e modellizzato il riscaldamento globale antropogenico.

Tutti scienziati...
L’opinione non suffragata di un singolo, per quanto illustre, non conta nulla a fronte dei tre pilastri principali del consenso scientifico: i dati, le equazioni e i modelli
. La stragrande maggioranza di coloro che si occupano di climatologia è soddisfatta dalla spiegazione antropogenica del riscaldamento globale, a fronte dei dati, delle equazioni e dei modelli a nostra disposizione, e nessuna delle ipotesi alternative, e men che meno le ‘opinioni alternative’, soddisfa questi criteri. E, accontentando Popper, aggiungo: al momento attuale.
Dopo tutto anche Lawrence Krauss (l’assonanza dei cognomi spesso li confonde!) è un fisico teorico, eppure le sue posizioni sono diametralmente opposte, per fortuna!

Tutto questo viene, ripeto, strumentalmente utilizzato per denigrare il più delle volte pur contemplando anche casi in cui, in buona fede, il dubbio della scienza genera incertezza e sfiducia: durante la pandemia ne abbiamo viste delle belle in proposito, causate soprattutto da una pessima attitudine alla comunicazione ed alla divulgazione da parte di molti addetti ai lavori.

I cambiamenti di posizione quindi, a volte considerati “frequenti” sulla base di una non chiara metrica temporale, trasformano la conoscenza scientifica in qualcosa di astratto, e fallace: questa idea di scienza in continua evoluzione e perennemente incompleta, caratteristiche virtuose, portano a pensare che la scienza sia soltanto un edificio intellettuale, una “spiegazione del mondo” come un’altra, come quelle di millenni di filosofia priva di prove, di empirismo, di conferme sperimentali.

Come spesso si sente dire, è solo una teoria, vera oggi e falsa domani. Perbacco! Lo dice anche Popper!...

Ci sono altresì esempi che espongono il lato debole in modo tale da giustificare, in un certo qual modo, le posizioni scettiche? Sì, e moltissimi vengono dal campo della medicina, della farmacologia. Quanti farmaci, prodotti certamente con metodo (scientifico) e frutto di ricerca, si è in seguito scoperto essere dannosi se non letali? Quante terapie hanno subito confutazioni pesanti? Ma è questa scienza o pseudoscienza? Qual è infine la differenza?

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Solo i cretini non cambiano mai idea...
Generare nuove domande da ogni risposta ricevuta
. Così procede il metodo scientifico. Quel che sembra un difetto agli occhi di chi, spesso in malafede, fonda la sfiducia nella scienza su presupposti errati, è invece il pregio che rende il metodo scientifico, e la tecnologia che ne deriva, migliore di qualsiasi altro metodo si usi per osservare e descrivere il mondo, ben oltre il limite fisiologico dei nostri sensi: il principale vantaggio del metodo scientifico e della conoscenza che scaturisce dalla sua applicazione è proprio precisamente quello che ingenuamente si indica come il suo difetto: la capacità di saper tornare sui propri passi per progredire.

Gli scienziati, in presenza di nuovi dati o di una spiegazione più efficace, cambiano idea: e la conoscenza si perfeziona nel tempo rendendo l’interpretazione, la spiegazione, la previsione che dato x allora y, migliori di qualsiasi altra cosa si adotti. L’edificio della conoscenza viene riadattato, se necessario fin dalle fondamenta, o come più spesso accade, quanto si pensava prima diventa un caso particolare di quanto oggi è dato sapere.

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La fede, di qualsiasi tipo, con i suoi dogmi, e la pseudoscienza, restano invece inamovibili nel tempo, prive di qualsiasi confronto con la realtà, statiche e incapaci di evolvere nel tempo.

Tautologie...omeopatiche
Un esempio eclatante di pseudoscienza è dato dall’omeopatia.

L’omeopatia ha avuto fortune incostanti nei suoi due secoli di storia: nasce infatti ai primi dell’Ottocento ad opera di Samuel Hahnemann, un medico tedesco disilluso dall’impotenza della medicina del tempo, che si affidava principalmente a salassi, clisteri, purghe e sanguisughe. Come dargli torto, considerando l’epoca e gli usi?

Da allora alti e bassi si sono alternati in contrapposizione alla minore o maggiore fiducia dell’opinione pubblica nella medicina tradizionale. L’omeopatia si è quindi adattata, cambiando il modo di proporsi secondo le obiezioni ricevute e le convenienze del momento.

  • Le alte dosi originariamente usate nei preparati omeopatici procuravano più fastidi che guarigioni? Ecco le diluizioni estreme.
  • Le diluizioni lasciavano nient’altro che acqua? Ecco l’idea surreale della memoria dell’acqua.
  • Questa ipotesi stravagante e un’esperienza clinica coronata di successi non reggevano alle prove scientifiche? Ecco l’ipotesi di un effetto placebo.
  • L’omeopatia come “medicina alternativa” a quella tradizionale era messa al bando come un rischio per la salute pubblica? Ecco l’idea di una “medicina complementare” che accompagna quella tradizionale, senza sostituirla.

Insomma, come direbbe qualcuno, se la suonavano e se la cantavano, spinti soprattutto dagli enormi interessi delle case farmaceutiche che vendevano, e vendono, letteralmente acqua e zucchero, a peso d’oro.

Ma a parte queste scuse pronte all’occorrenza per autogiustificarsi, per secoli, la visione degli omeopati poneva alla base della loro teoria del funzionamento dei farmaci omeopatici, alcuni principi che sono rimasti gli stessi, inalterati: mai un dubbio, impossibilitati a migliorare né a fornire giustificazioni, che non fossero delle inutili e banali tautologie: il principio del similia similibus curantur, dovuta ad Hahnemann, e che, tradotta letteralmente, significa «i simili si curino coi simili», il principio dell’estrema diluizione o dei necessaria scuotimento, agitazione, mescolamento…la succussione (!) nella preparazione dei composti.

Ippocrate, padre fondatore della medicina, invece diceva contraria contrariis curentur, i contrari sono curati dai contrari. Ma tu guarda un po'!

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Confrontiamo i progressi della medicina nello stesso periodo, soprattutto da quando il metodo scientifico è entrato in campo. Si pensi a come, dalle sanguisughe e dai salassi, o dalle teorie che fossero i miasmi ad uccidere la gente negli ospedali, o di colera per la strada, si sia passati ai vaccini, interrompendo le vere e proprie stragi di popolazioni fino a tempi recentissimi, all’insulina per il diabete, o alla chemio e radioterapia in campo oncologico. Se progresso c’è stato, ed è fuor di dubbio e provato dall’aumento dell’aspettativa di vita, è perché, di fronte a fatti nuovi e sempre più dettagliati, gli scienziati hanno abbandonato teorie più grossolane, imprecise o banalmente false, in favore di qualcosa di meglio, hanno cioè cambiato idea. Ecco ciò che rende la medicina moderna scienza e l’omeopatica pseudoscienza. Gli scienziati, nel loro insieme, cambiano anche radicalmente la propria teoria sul funzionamento del mondo, gli pseudoscienziati sono invece ancorati ad una fede che, non essendo supportata da fatti, è difesa per principio e dogmaticamente, invariabile nei secoli.

Zitto e calcola!
Ma allora, ci si chiederà, se le teorie sono suscettibili di mutamenti anche radicali nel corso della loro storia, come pensare che possano essere definitivamente vere? E se sono solo approssimativamente vere, come giustificare l'idea che progrediscano verso la verità? E ancora, se anche le entità non osservabili postulate dalle teorie passate sono state a volte abbandonate nel corso dello sviluppo storico delle teorie, come possiamo essere sicuri che le entità postulate dalla scienza di oggi non verranno abbandonate domani?

Domande lecite. Ma è così che funziona.

Imparando dai fatti, sempre ed in ogni campo, gli scienziati modificano le proprie idee e con esse la scienza; ciarlatani, pseudoscienziati e i fedeli di ogni credo nelle medicine alternative o in teorie pseudoscientifiche similari si aggrappano invece alle idee di secoli fa. Ma in questo caso antico equivale a vecchio, da buttare.

E non è infine nemmeno vero, né ha senso, affermare che, a causa dell’evoluzione del pensiero scientifico, ciò che oggi è dichiarato vero, domani risulterà falso, e che ciò che oggi appare inspiegabile e incompatibile con la conoscenza scientifica, domani lo sarà, dando un velo mistico ed esoterico alle affermazioni pseudoscientifiche e cialtrone.

È falso, perché spesso la conoscenza scientifica acquisita in passato non è stata cancellata come falsa, ma invece inglobata in quella moderna come caso meno esteso e come approssimazione particolare. Pur essendoci state teorie, nelle quali persino scienziati illustri credevano (le Teorie sull’Etere ad esempio) che sono state smentite dai fatti, e per cui quegli stessi scienziati hanno cambiato posizione, ce ne sono altre, come la meccanica newtoniana o, andando ancora più indietro nel tempo, la teoria idrostatica di Archimede, o ancora la descrizione della Terra come di un corpo approssimativamente sferico, che hanno resistito nei secoli, valide ancora oggi pur se rifinite o diventate casi particolari, approssimazioni di teorie più dettagliate e complete.

E l’affermazione è persino illogica, priva di senso, proprio perché la scienza moderna non fa affermazioni di verità assolute, ma approssima nel modo migliore quello che riscontriamo dall’esperienza diretta o attraverso i nostri strumenti; questa approssimazione può migliorare nel tempo, ma, e torniamo a Popper con cui abbiamo iniziato, non vi può essere garanzia né di un grado infinito di precisione né di una infinita completezza né infine di un’assoluta accuratezza in nessuna affermazione che uno scienziato fa.

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Affermazioni di questo tipo, per definizione, non possono trovare riscontro nei fatti, non fosse altro perché non abbiamo strumenti di misura o percezione della realtà a precisione infinita. D’altra parte, è proprio nella pseudoscienza che troviamo affermazioni che si dichiarano di grado di verità assoluto, ingannando e creando le trappole che servono per la sua diffusione: così come spesso, in assenza di prove, si sbatte il mostro in prima pagina sull’onda emozionale e irrazionale, la certezza attira, e si preferisce affidarsi a sistemi di pensiero assoluti, a bassa complessità e che non richiedono lo sforzo di accettare margini di errore intrinseci ad ogni singola parola pronunciata, come è tipico del discorso scientifico.

La grandezza del metodo scientifico sta invece proprio nel seguire le migliori misure effettuate e nel quantificare il grado d’errore, creando incertezza e spingendo a cambiare idea ogni qual volta sia evidente e necessario. Selezionando ogni volta le idee migliori nel progresso da plausibile a possibile, fino a probabile e molto probabile.

Ed è qui che va riposta la nostra fiducia, non nelle parole di chi secoli o millenni fa fece una scelta assoluta.

Archimede avrà pure gridato “Eureka!” qualche volta, ma non è così che procede la scienza.

Ghiacciai. Storie dal futuro annunciato.

Un paio di giorni fa è stato annunciato che il Venezuela è il primo paese al mondo a perdere completamente tutti i suoi ghiacciai. Quel che rimane è un residuo, declassificato in campo di ghiaccio, una macchia estesa per un paio di ettari e che inutilmente s’è tentato di salvare con delle coperture riflettenti.

Pochi anni fa il ghiacciaio del Pico Humboldt – a 4.940 metri di altezza -, che si trova, o meglio si trovava, nel Parco Nazionale della Sierra Nevada, era stato annunciato come l’ultimo ghiacciaio del Venezuela che sarebbe scomparso da lì a poco: facile e triste previsione. La crisi climatica ha accelerato il suo scioglimento che è diventato sempre più rapido durante l’ultima decade.

E intanto una nuova biodiversità ha già colonizzato le rocce rimaste nude.

C’era una volta…

clip_image004Viviamo in un periodo interglaciale, compreso tra due grandi glaciazioni, e i paesaggi glaciali sono tutt’altro che un qualcosa di statico se vengono visti nell’ottica di tempi molto lunghi. Stando ai dati a nostra disposizione ed in base allo studio delle tracce lasciate dai precedenti periodi interglaciali, è molto probabile che l’attuale interglaciale possa durare ancora per almeno 5.000 anni. Dopo di che inizierà una nuova fase di raffreddamento ed i ghiacci polari si espanderanno nuovamente, avanzeranno i ghiacciai continentali, le coltri si amplieranno anno dopo anno fino ad occupare aree di dimensioni confrontabili a quanto si verificò circa 18.000 anni fa, e conseguentemente all’aumento delle masse glaciali il livello medio dei mari tornerà ad abbassarsi.

In passato è andata così, diverse volte per altrettante fasi di alternanza glaciale-interglaciale, e ne abbiamo prove dirette e certe per lo meno per gli ultimi 800.000 anni.

I riflessi di queste oscillazioni furono notevoli e vari. Ne risentirono, in particolare, le diverse fasce di vegetazione che si spostarono verso l’equatore ad ogni espansione glaciale. In Europa, ad esempio, l’accurata interpretazione dei dati forniti dalla flora indica che la fascia della tundra eurasiatica venne occupata dai ghiacci delle calotte scandinava e siberiana occidentale. Così pure grandi zone un tempo ricoperte dalla foresta boreale, la taiga, e decidua furono invase dai ghiacci. Ben poco si salvò della foresta boreale, e dove nell’interglaciale si stendeva la foresta decidua si sviluppò una vegetazione tipica delle tundre.

Condizioni aride e ambienti tipici della steppa prevalsero su buona parte di Francia e Germania meridionale, e su vaste zone dell’Italia e della Spagna era diffuso l’ambiente della tundra arborata, dove boschetti di betulle, di querce, di pioppi e più vaste aree di pini e larici contribuivano a ridurre la monotonia del paesaggio.

Le temperature medie annue erano inferiori di almeno 10 °C su quasi tutta l’Europa e verso est, cioè più all’interno nel continente, la differenza fu certo maggiore.

Sovrapposte a queste oscillazioni climatiche misurabili con ordini di grandezza temporali di migliaia se non decine di migliaia di anni ci furono altre variazioni climatiche, meno decisive, ma comunque in grado di indurre notevoli cambiamenti ambientali con pesanti riflessi sugli esseri umani, che già da decine di migliaia di anni popolavano il continente Europeo, a volte con la convivenza di diverse specie (è noto che i Sapiens ebbero contatti ed episodi di incrocio anche con i Neandertal e i Denisovani). I dati ci permettono di riconoscere, all’interno della fase climatica interglaciale in cui viviamo, variazioni climatiche di piccola entità e hanno consentito di ipotizzare punte di clima più freddo delle medie precedenti con cicli di 2.500 anni ed un episodio recente circa 500 anni fa (la famosa Piccola Era Glaciale), durante il quale inverni particolarmente nevosi si succedettero nelle Alpi e in Scandinavia, con l’estensione delle aree con nevi perenni, con i ghiacciai che avanzando distruggevano pascoli e manufatti umani accompagnati da fenomeni meteorologici estremi che aumentarono notevolmente le portate dei corsi d’acqua con frequenti esondazioni. Avere fiumi e laghi congelati divenne una costante invernale per la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, la Germania e persino l’Italia: sul Tamigi congelato si teneva ogni anno una fiera, la laguna di Venezia appare congelata in numerose rappresentazioni dell’epoca, Casanova visse al freddo! Questa Piccola Era Glaciale durò circa 500 anni con ripercussioni notevoli: la popolazione islandese fu praticamente dimezzata, milioni di europei migrarono nel Nuovo Mondo.

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Ma che si stesse andando verso un generale incremento delle temperature o verso una diminuzione di ritorno ad un periodo più strettamente glaciale, ancor prima della fine di quel picco di freddo, le emissioni di gas serra di origine antropica hanno enormemente amplificato il riscaldamento, con immissione in atmosfera di quantitativi senza precedenti persino nella storia degli ultimi 800.000 anni (si veda un mio post precedente). E la correlazione tra quantità di biossido di carbonio e variazione delle temperature è un dato di fatto consolidato, noto fin dal XIX secolo e inequivocabilmente dovuto alle attività umane legate soprattutto all’utilizzo di combustibili fossili.

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Sul cucuzzolo della montagna, con ai piedi un paio di sci…

Cominciamo dal ghiacciaio dell’Adamello, il più grande d’Italia. Esteso per circa 18 kmq risulta già poca roba rispetto al più grande ghiacciaio delle Alpi, l’Aletsch in Svizzera, di circa 120 kmq; ancora meno, una macchiolina, rispetto al ghiacciaio Jostedalsbreen in Norvegia, che occupa una frastagliata ma vasta superficie di circa 800 kmq; ed è infine praticamente nulla in confronto agli 8.100 kmq di estensione del Varnajökull in Islanda.

Nel 1995, un noto geografo italiano, in un suo libro immaginava le Alpi nell’anno 3000, trasformate in un enorme «Parco Turistico Europeo», con sciatori dispersi su un fitto intreccio di piste che dall’Adamello, grazie anche all’innevamento artificiale, scendevano fino a valle per la gioia dei turisti provenienti da ogni dove sulla Terra ma anche dalle basi minerarie sparse nel sistema solare (…).

Nulla di tutto ciò è in vista, ed in molto meno tempo.

I modelli climatici utilizzanti scenari estremi di riscaldamento globale, bel al di sopra dei famosi 1,5°C dell’Accordo di Parigi, prevedono la fusione completa di tutte le superfici glacializzate delle Alpi entro il secolo. Il tasso di aumento del riscaldamento globale nei prossimi decenni determinerà la sorte delle masse glaciali sull’arco alpino. Ai ritmi degli ultimi 10 anni, perderemo il 65% del volume di ghiaccio nel giro di 25 anni. Con il ritiro del fronte glaciale dei ghiacciai principali fino a 3 km. Anche a quote elevate.

Uno studio condotto recentemente riporta che, anche se il riscaldamento globale si fermasse completamente oggi, la fusione dei ghiacciai alpini continuerebbe fino a far perdere il 34% del loro volume. Nel giro di 25 anni. Con un arretramento del fronte dei ghiacci dell’ordine di grandezza di chilometri, anche dei fronti glaciali più estesi: una perdita complessiva di superficie del 32% rispetto a oggi. Se, invece, continuiamo sulla traiettoria di global warming su cui ci troviamo oggi – che ci porterà verso +2,1-2,9°C entro fine secolo, ne scrissi qui – entro il 2050 le masse glaciali sulle Alpi si dimezzeranno. Fino a perdere 2/3 del volume se il tasso di riscaldamento aumenta in linea con quello registrato nell’ultimo decennio.

In poche parole l’analisi e il monitoraggio dello stato di avanzamento della fusione dei ghiacciai è un altro canarino del minatore, concetto di cui ho trattato tempo fa.
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Le montagne sono colpite in maniera particolarmente sensibile dal cambiamento climatico, ed è questo che le rende strumenti di monitoraggio, modellazione e previsione importanti. Paradossalmente subiscono inoltre una retroazione che ne compromette ulteriormente la tenuta in termini di ghiaccio: la fusione abbassa le quote, a quote inferiori fa mediamente più caldo, e ciò rinforza l’effetto del riscaldamento globale. Questo feedback positivo è ciò che ad esempio sta accelerando fortemente la fusione della calotta della Groenlandia.

Le Alpi in particolare stanno subendo un riscaldamento doppio rispetto a quello che si manifesta in altre aree, con un aumento di circa 2°C registrato nel corso del XX secolo, rispetto alla media che si è registrata nell’emisfero Nord, pari a circa la metà. Questa tendenza ha inoltre subito una tendenza accelerata negli ultimi 30 anni, accentuata alle quote più alte.

Tutti gli apparati glaciali alpini risultano in forte arretramento da almeno 30 anni, ancor più di quanto era successo nel periodo caldo precedente, tra il 1920 e il 1950. La sequenza di fotografie seguente, esposte nel Museo di Scienze Naturali di Vienna, è abbastanza eloquente, confrontando quattro ghiacciai austriaci con foto di inizio Novecento con la situazione dei primi anni 2000.

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Dati alla mano…

clip_image019Da diversi decenni il Comitato Glaciologico Italiano compila e tiene aggiornato un vero e proprio catasto dei ghiacciai italiani, presentando un quadro organico della situazione del glacialismo nelle montagne italiane: un quadro per nulla rassicurante. Nella figura seguente è riportata la distribuzione dei ghiacciai in Italia. Da segnalarne un altro, non in mappa, il più a sud d’Europa: il Calderone, sul versante nord del Corno Grande (Gran Sasso). Purtroppo pochi anni fa è stato declassato a glacionevato non avendo più nessuna delle caratteristiche di un ghiacciaio e ne rimane davvero poco.

 

 

 

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clip_image023Nel catasto si descrivono oltre 900 ghiacciai, compreso quello appenninico, per un totale di 368 kmq, più o meno 0,4 kmq per ghiacciaio: il dato relativo all’estensione media già da solo evidenzia quanto ridotta sia la superficie media e quindi l’estrema fragilità delle aree rimaste. I ghiacciai con area superiore a 1 kmq sono poco più del 9% del totale e da soli occupano quasi il 70% del totale. Gli ultimi a scomparire saranno gli unici tre ghiacciai con area superiore a 10 kmq che occupano circa il 10% dell’estensione glaciale complessiva: il già citato Adamello tra Lombardia e Trentino, il Forni in Lombardia e il Miage del gruppo del Monte Bianco in Val d’Aosta.

Rispetto al totale delle Alpi i 3770 ghiacciai del versante italiano rappresentano il 20% del totale del glacialismo e vanno dalle Alpi Marittime alle Alpi Giulie cambiando continuamente sia in dimensioni che tipologie: si passa da grandi estensioni omogenee, come l’Adamello, a ghiacciai di valle, a piccoli ghiacciai di pendio o ai piccolissimi glacionevati.

L’eterogeneità di tipi e distribuzione, dipendente da numerosi fattori, climatici e morfologici innanzi tutto, è ben rappresentata dall’elevata concentrazione tra Lombardia e Alto Adige, con oltre 400 corpi glaciali, 192 in Val d’Aosta, 115 in Trentino e 107 in Piemonte. D’altra parte la regione più glacializzata resta la Val d’Aosta col 36% della superficie totale, seguita dalla Lombardia (24%) e dall’Alto Adige (23%).

Sempre sul sito del Comitato Glaciologico Italiano è possibile confrontare i dati della rilevazione condotta nel periodo 1959-1962 con i dati di oltre 30 anni dopo.

Si è passati da 526 a 368 kmq di copertura glaciale, con una riduzione del 30%. Questi dati, se confrontati con la banca dati del World Glacier Inventory, che segnala la perdita di 478 ghiacciai e una riduzione areale del 27% nello stesso periodo, mostrano una tendenza per la catena alpina allineata all’andamento generale. E non è affatto un bel segnale nemmeno che quello che i corpi glaciali siano aumentati di circa 70 unità nel periodo: è segno che i grandi ghiacciai si frammentano in apparati più piccoli.

clip_image025La quota media degli apparati è il differenziale principale. I ghiacciai di Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Trentino e Piemonte, a quote più basse, hanno perso fino a metà della loro superficie, mentre quelli di Lombardia e Val d’Aosta hanno subito riduzione mediamente del 20%. I ghiacciai più piccoli, che rappresentano circa l’80% del totale, sono ovviamente quelli che hanno subito le riduzioni maggiori, e sono purtroppo anche quelli che maggiormente contribuiscono alle risorse idriche e idroelettriche locali.

Dopo le cause, le conseguenze…

clip_image027La Marmolada è un ghiacciaio simbolo. Le allarmanti previsioni ne danno la scomparsa per il 2035, in soli 25 anni si è praticamente dimezzato.

Come predetto la tendenza di riduzione ha subito una notevole accelerazione negli ultimi trent’anni, passando dal 27% di superficie dell’intero arco alpino tra XIX e XX secolo all’attuale media del 30% fin dalla metà degli anni Ottanta, qualcosa come il 2% l’anno.

La perdita totale degli apparati glaciali alpini si avrebbe quindi in tempi estremamente ridotti, osservabili direttamente alla scala umana di un paio di generazioni con le foto dei ghiacciai scattate dai nonni più che evidenti rispetto a quelle fatte dai nipoti, come nelle due immagini della Marmolada qui a fianco.

Man mano che le masse glaciali scompariranno, oltre 100 miliardi di metri cubi di acqua, a livello locale la cosa avrà delle ripercussioni notevoli sulle temperature e sulla disponibilità d’acqua dolce, intesa anche come fattore di uniformazione delle portate degli apporti idrici stagionali: senza i ghiacciai a monte le portate invernali aumenteranno e quelle estive si ridurranno notevolmente, i fenomeni alluvionali del semestre invernale potrebbero triplicare rispetto a quanto accadeva all’inizio del XX secolo.

Quel che accadrà al settore turistico rispetto ai danni causati dai cambiamenti idrogeologici diventa in pratica un’inezia.

Il permafrost, il terreno perennemente ghiacciato, esiste anche in alta montagna, e sulle Alpi, in funzione anche dell’esposizione, lo abbiamo dai 2.600 m di quota in su. Ovviamente è destinato a ridursi e scomparire: è stata calcolata la sua riduzione compresa tra il 20 e il 30% entro il 2050. Ciò sta a significare un aumento sensibile dell’instabilità dei versanti con aumento dei crolli e dei fenomeni franosi (sempre sulla Marmolada, è nella memoria recente l’episodio del 2022), oltre che smottamenti diffusi e frequenti. La fusione del ghiaccio del permafrost in regioni come la Siberia, l’Alaska, il Canada o la Scandinavia, potrebbe liberare un gas serra estremamente potente: il metano. Con un feedback di rinforzo del fenomeno sul fenomeno stesso causato dall’ulteriore aumento delle temperature.

Ma è l’acqua l’elemento più a rischio. Le Alpi sono state definite “la colonna d’acqua” dell’Europa e saranno caratterizzate da una generale riduzione della disponibilità idrica che si ripercuoterà sull’intero bilancio idrico del continente europeo. Ogni aumento di un grado della temperatura riduce l’acqua dolce del 20% che è destinata ad interessare il 10% della popolazione mondiale distribuita per lo più in aree già a rischio.

Almeno fino ai 2000 metri di quota le previsioni climatiche segnalano una riduzione del numero di giornate in cui la temperatura resta al di sotto di 0°C, con qualità e stabilità del manto nevoso sempre più compromesse; ma anche a quote superiori si assisterà a riduzioni complessive del volume annuale di neve. Sulle montagne appenniniche andrà anche peggio a causa delle quote inferiori e delle latitudini più meridionali.

Addio allo sci? Sembra proprio di sì. Ma questo è il minimo. Alpi rocciose e senza neve per i secoli a venire, già di per sé dipingono uno scenario drammatico per molte economie locali legate ai destini della stagione sciistica, ma saranno soprattutto all’origine dell’intero arco alpino e del continente europeo sempre più poveri d’acqua.

Concludo con un’altra coppia di immagini di confronto estremamente eloquenti. Spesso ci si dimentica che i ghiacciai sono presenti, o dovrei dire erano, anche nel cuore dell’Africa equatoriale: il monte Kenya, il Kilimangiaro, e soprattutto le montagne del Ruwenzori. Nelle foto la situazione del Monte Stanley (5.109 m slm), gruppo del Ruwenzori, tra Congo ed Uganda, fotografato nel 1906, a sinistra, e nel 2022.

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Riferimento bibliografico: "Viaggio nell'Italia dell'Antropocene" di Telmo Pievani e Mauro Varotto.