Evoluzione del paesaggio, tutele e ambientalismo nel contesto del cambiamento climatico

«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni.
La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.»[1]

L'articolo 9 della Costituzione è diventato green. Recependo anche le direttive europee in materia oltre alla tutela del patrimonio artistico e del paesaggio, presenti nell’originale del 1948, a partire dall'8 febbraio 2022 e per decisione del Parlamento della Repubblica Italiana, prevede anche la salvaguardia dell'ambiente, della diversità e degli ecosistemi. La tutela.

E’ la Repubblica a tutelare, ovvero noi stessi, investendo anche gli enti locali delle tematiche legate alla gestione del territorio, mediando tra gli interessi o i diritti individuali e i benefici collettivi; considerando che la proprietà privata è la principale istituzione che governa il paesaggio agroforestale[2] ciò comporta innanzi tutto un problema di gestione collettiva, vista la frammentazione in un mosaico di proprietà che vanno dal demanio ai privati, dalle comunità montane ai monasteri con diritti spesso risalenti al Medioevo. Per coordinare il tutto serve una serie di istituzioni che colleghi chi possiede i terreni che esprimono le funzionalità degli ecosistemi alla miriade di beneficiari che possono pagare per averne un beneficio.

Ma prima ancora di arrivare a definire come esercitare, e chi debba eseguire, la quantità di azioni che sono riassunte nel verbo tutelare, va definito cosa tutelare.

Cos’è la natura, cos’è naturale?

C’è chi assegna alla natura il diritto di esercitare una sorta di sovranità naturale, dando voce ad un concetto fatto oggetto, scientificamente definito ed eticamente identificato, e chi invece ritiene che la natura sia solo un costrutto artificioso e astratto di origine storica e sociale, una costruzione culturale.

Tutto l’ambientalismo moderno che si infervora intorno al tema della protezione della natura spesso dimentica che ciò che sta difendendo è il risultato di profonde trasformazioni del paesaggio nei secoli, fin dal Neolitico, e il conflitto tra le due visioni crea polemiche sul rapporto tra natura e modernità.

Il futuro non può essere immaginato con il limite dell’iconografia fissa del suo paesaggio. I paesaggi sono il prodotto di secoli di mediazione con l’agricoltura e decenni di industrializzazione. Nonostante la presa di posizione della legislazione dei confronti della tutela di ambiente, ecosistemi, biodiversità o specie animali e vegetali resta ancora non ben definito il concetto di natura o naturale. La legittimità nell’esercizio delle norme dipende anche da chi/cosa è valido per essere tutelato.

clip_image004 L’Italia, ad esempio, è stata la prima nazione europea che ha istituito una forza scelta e orientata, in via prioritaria, all’applicazione della normativa ambientale. Ma questa, il Comando Tutela Ambientale e Transizione Ecologica dell’Arma dei Carabinieri, si occupa di salvaguardia del patrimonio naturale ma anche, e non solo, delle varie forme di inquinamento, del suolo, idrico, atmosferico ed acustico.

Scena da Into the WildRiferendoci alle sole terre emerse, il nostro pianeta è ormai quasi completamente antropizzato, trasformato e colonizzato dal genere umano. Se escludiamo gli ambienti più estremi, dalle caverne più profonde alle cime delle montagne, è diventato quasi impossibile trovare un angolo della superficie terrestre che non porti i segni dell'attività umana. Uno studio recente ha concluso che appena il 20% delle terre emerse è libero, privo della cosiddetta impronta ecologica. Dal calcolo è stato escluso quel 10% di superficie terrestre che è ricoperto da ghiacci, dall'Antartide a buona parte della Groenlandia, passando per i ghiacciai che ancora rimangono.

Paesaggio naturale canadeseUn'altra percentuale, compresa tra il 48 e il 56%, è quella occupata dalle aree a bassa influenza umana, quelle cioè dove la nostra attività è presente ma ancora gestibile (per esempio le zone di campagna dove si pratica ancora allevamento e agricoltura di sussistenza). Quel che resta è invece altamente antropizzato. Interessante è anche scoprire la distribuzione di queste aree: la maggior parte di quelle a influenza molto bassa sono zone fredde, aride o a quote molto elevate, mentre solo il 10% di praterie e foreste mostra una scarsa o nulla presenza dell'uomo e sono questi ultimi ambienti, i primi in assoluto a dover essere tutelati e su cui si deve agire affinché permangano in questo stato davvero naturale, intendendo in questo caso privo dei segni di antropizzazione, qualunque essi siano.

Il paesaggio italiano nell’immaginario appare bucolico, immobile nella sua idealità fin dai tempi del Petrarca, ma così non è. E’ fortemente antropico, industrializzato, con industrie manifatturiera, di meccanica di altissima di precisione e di trasformazione dei materiali di valenza internazionale. La modernità si mimetizza col paesaggio storico e spesso la discussione del territorio si è focalizzata, direi fossilizzata, in maniera sproporzionata sul turismo, nascondendo il presente dietro il passato. Occorre assicurare anche il settore industriale, non certo a scapito dell’ambiente, ma la capacità di immaginare il futuro non può essere vincolato al mantenimento di quest’immagine; i paesaggi, certamente incantevoli, non vanno penalizzati né si dovrà rinunciare ad essi, ma occorre capire che sono il prodotto della mediazione di cui s’è detto.

Una parentesi ecologica: le foreste

Bilancio carbonicoForse a sorpresa per molti, l’Italia è il paese delle foreste. E cosa c’è di meglio di una foresta per parlare di biodiversità? Senza dimenticare che la maggioranza di questi ambienti così naturali sono frutto di operazioni di rimboschimento, pianificate e volute, opera dell’uomo, a volte inserendo specie arboree alloctone.

Poco più di undici milioni di ettari del nostro territorio sono ricoperti da foreste e boschi, il 36% del territorio, secondi tra i grandi paesi in Europa, dopo la Spagna (maggiori dettagli sull'estensione forestale in Europa sono disponibili qui). Le foreste vere e proprie occupano circa nove milioni di ettari, il resto sono macchie ed arbusteti. Oltre al ruolo importantissimo che hanno nell’assorbimento diretto dei gas serra[3] (circa 20 Mt/anno), anche se con risultati minori rispetto alle aspettative, è stato dimostrato che una gestione attenta del patrimonio forestale potrebbe contribuire da solo a ridurre del 10 percento le emissioni totali del nostro paese. A livello planetario assorbono oltre 11 Gt[4] all’anno, pari a circa 20% di tutte le emissioni antropogeniche.

Gestione forestale

CeppaiaSi dà però il caso che i boschi in Italia siano in buona parte cedui, ovvero boschi che vengono tagliati periodicamente, perlopiù per fornire legna da ardere, lasciando a terra il cosiddetto ceppo dal quale ricresceranno nuovi alberi, e questo metodo, quello della ceppaia è diffuso in tutta Europa da tempo immemore; in Italia ci sono 3,6 milioni di ettari di ceppaie, il 10% del territorio nazionale.

Questo tipo di utilizzo da una parte riduce le quantità di carbonio accumulate nel sottosuolo (alla morte dell’albero e dopo la sua caduta il processo di marcescenza accumula carbonio nel suolo, al netto di quello consumato dai processi di trasformazione) e dall’altra rende il terreno meno permeabile facendo defluire la pioggia più velocemente anziché esercitare azioni di rallentamento tipiche di una foresta.

Ed ecco che torniamo al problema della mediazione: una foresta deve essere gestita in modo da essere tutelata ma anche guidando le funzioni che ha rispetto alla comunità. Come mediare tra i diritti di sfruttamento del bosco ceduo di singoli proprietari e la mitigazione dei rischi di cittadini a valle di un bacino idrografico coperto da territori boschivi destinati al ruolo di ceppaie?

Proprietà e responsabilità

clip_image016Suoli e foreste rappresentano delle pubbliche utilità ovunque. Dei circa 100 milioni di chilometri quadrati di terra abitabile l’agricoltura (intesa nel suo insieme, dal pascolo alla coltivazione) ne copre 50 milioni, le foreste occupano altri 40 milioni e il resto, soprattutto arbusteti; 1,5 milioni di chilometri quadrati è quanto occupano le case degli esseri umani[5]. Ricordando che, tra proprietà e gestione del demanio, almeno il 35% delle foreste è privato e la maggior parte delle aree ad alta biodiversità è rivendicata come proprietà degli indigeni, abbiamo che circa i due terzi della terra abitabile, più di 60 milioni di chilometri quadrati, è privato o come minimo soggetta a rivendicazioni di qualcuno.

Il problema delle istituzioni in grado di collegare i proprietari dei terreni alla enorme collettività che trae beneficio dalle funzionalità degli ecosistemi è complesso e di non facile definizione. Ma va affrontato.

Foresta pluvialeUn esempio tra tanti. Molti anni fa gli operatori del Canale di Panama si resero conto dello strettissimo legame tra la quantità d’acqua che fluiva in esso, rendendolo operativo, e la quantità di territorio occupato dalla foresta pluviale centroamericana. Man mano che quest’ultima veniva abbattuta e sostituita da terreni agricoli la quantità d’acqua nel canale diminuiva, mettendo a rischio sia la principale fonte d’entrate del paese sia gran parte del commercio marittimo mondiale che passa da lì. Soltanto dopo aver investito denaro proveniente dai profitti del canale, istituendo parchi nazionali per proteggere le foreste (ad oggi le più e meglio protette e studiate al mondo) e incentivando la gestione oculata del territorio a monte con sussidi di vario tipo, si è evitato l’aggravarsi della situazione. Un esempio di come la terra possa essere produttrice di servizi, qualcuno li chiama ecosistemici, che compensano i proprietari a monte per i benefici della gestione territoriale che si hanno a valle.

Anche gli emendamenti agli articoli costituzionali nazionali mostrano una nuova attenzione al territorio, non più soltanto un astratto concetto di paesaggio, ma un vero e proprio capitale ecologico. Ma mantenere gli ecosistemi come infrastruttura della modernità ha dei costi.

Ambientalismo e modernità

Rachel CarsonL’ambientalismo modernamente definito arriva al termine di un percorso tutto sommato breve. Parte dalle idee di Theodore Roosevelt di attuare una sorta di protezione dell’estetica rurale e inizia a concretizzarsi soltanto nel secondo dopoguerra quando il monitoraggio dell’ambiente, il ruolo della scienza nella gestione delle risorse e la crescita di discipline come l’ecologia e la meteorologia portano le scienze ambientali all’attenzione che meritano, persino con una maggiore autorità politica. Il primo vero e proprio manifesto ambientalista si ha nel 1962 con lo splendido libro di Rachel Carson, “Primavera silenziosa”, momento importantissimo dell’ambientalismo moderno e denuncia contro l’inquinamento industriale.

Club di RomaPochi anni dopo, nel 1968, il “Club di Roma” pone le basi per una vera e propria critica della modernità, andando oltre la denuncia e ponendo le basi affinché la scienza possa avere valore normativo. I rapporti pubblicati allora, con la collaborazione del famosissimo MIT, anche se condivisibili nella diagnosi non convinsero quasi mai nella terapia, focalizzati soprattutto sui limiti dello sviluppo che ricordavano da vicino teorie malthusiane.

Certamente col senno di poi, ma è comunque un insegnamento storico, il problema non è nemmeno la sovrappopolazione, ma la distribuzione dei diritti di accesso alle risorse. Nel 1990, ad esempio, meno della metà della popolazione della Terra aveva accesso a sistemi di distribuzione idrici centralizzati; oggi questi sistemi raggiungono il 60 percento della popolazione, un successo enorme se si tiene conto che nel frattempo siamo passati da 5,3 a quasi 8 miliardi di persone. Ovviamente, ciò non significa che sia partita una inesorabile marcia verso il progresso e il benessere per tutti.

Dalle idee del “Club di Roma” fu breve il passo fino agli estremi del cosiddetto marxismo ecologico che riteneva che «l'espansione estrema del sistema capitalista sia la causa dell'esclusione sociale, della povertà, della guerra e del degrado ambientale attraverso la globalizzazione e l'imperialismo, sotto la supervisione di stati repressivi e strutture transnazionali.», idee nate in Occidente ma che hanno trovato casa nel Partito Comunista Cinese.

Crisi energetica, maggiore attenzione ai problemi ambientali, soprattutto in paesi come Germania e Gran Bretagna che avevano livelli di inquinamento drammatici, ed altri fattori, crearono nei paesi più ricchi un ruolo di profeti di un nuovo modello di sviluppo, complice la deindustrializzazione dell’Occidente a vantaggio dello spostamento della produzione verso la Cina che iniziava ad assumere ruolo di potenza economica ed industriale, grazie anche alle riforme di Deng Xiaoping.

La Terra dalla LunaUn nuovo modello di sviluppo, alternativo a quelli pesantemente industriali di Unione Sovietica e Cina, prese forma e controllo a partire da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale e l’ONU. Nel 1972 nacque l’UNEP, United Nations Environment Programme, e la parola ambiente entra di diritto in ambito politico e pochi anni dopo l’idea di sviluppo sostenibile venne codificata mettendo al centro della crescita economica la definizione scientifica del pianeta, quel granellino azzurro perso nell’Universo, come casa comune.

Ma è nel 1992, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, che il Summit della Terra delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro pose la scienza a fondamento della pianificazione ambientale, cristallizzando l’idea di biodiversità, concetto e termine nati nel 1988, e la convenzione sui cambiamenti climatici. Il tutto col sottofondo della necessaria cooperazione internazionale.

BiodiversitàLa biodiversità. Indipendentemente dalla definizione ufficiale “la ricchezza di vita sulla terra: i milioni di piante, animali e microrganismi, i geni che essi contengono, i complessi ecosistemi che essi costituiscono nella biosfera” e ancora riferita “non solo alla forma e alla struttura degli esseri viventi, ma include anche la diversità intesa come abbondanza, distribuzione e interazione tra le diverse componenti del sistema” comprese le parti inorganiche e fisiche, come la misuriamo, come la tuteliamo, quale delle sue componenti senza penalizzare il risultato di quel che è oggi l’ambiente che abbiamo trasformato e che ci consente di sopravvivere pressoché sull’80% delle terre emerse? Come riduciamo a qualcosa di gestibile le sfere del pianeta, litosfera, idrosfera, atmosfera, biosfera e ovviamente noi, l’antroposfera[6]?

Anche il nuovo Art. 9 della Costituzione ha introdotto il termine biodiversità che, spesso in contrasto con l’uso comune, è declinato in moltissimi modi tecnici diversi; ma i tecnicismi mal si adattano a gestione per obiettivi, azioni efficaci e persino a valutazioni quantitative.

Sono i risultati a parlare: per quanto se ne parli non c’è mai stata una vera convergenza su come misurarla e proteggerla. Pochi risultati e scarsi successi: evidenziati drammaticamente dalla sesta estinzione di massa in corso.

Per tornare a legare il tema dell’acqua, conditio sine qua non per la vita stessa, a quello della biodiversità e del fallimento di misura e protezione possiamo portare ad esempio le acque dolci. Fiumi e bacini sono mal monitorati e quindi i risultati non sono precisi ma alcuni dati parlano chiaro. Le acque dolci occupano solo l’1 percento della superficie, ma ci vive circa il 10 percento delle specie presenti sulla Terra, compresi un terzo dei vertebrati e la metà delle specie di pesci. La situazione è drammatica. Negli ultimi 40 anni gli esseri umani sono triplicati e nello stesso periodo il numero di pesci, anfibi, uccelli, rettili e quant’altro legato a fiumi, laghi e paludi, è crollato dell’80 percento. Un’ecatombe.

Possiamo perfezionare quanto si vuole quell’articolo della Costituzione, portarlo a livello internazionale, ma senza sintesi politica resta solo una dichiarazione d’intenti, e il fatto che sia onorevole non ha alcun senso pratico.

Ambiente e politica

Consiglio di Sicurezza ONULa forza dei trattati internazionali, inclusi quelli ambientali, dipende dalla forza morale del consesso multilaterale. Il fatto che la Russia, un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’organo preposto a garantire la sicurezza degli obiettivi statutari, abbia ignorato deliberatamente la sovranità dell’Ucraina, stato membro dell’ONU, invadendola militarmente, occupandone parte del territorio, ha minato profondamente questa forza morale, già debole.

E l’ambientalismo occidentale, già polverizzato in dozzine di correnti, minato nell’immagine dagli atti sconsiderati di estremisti, risulta ancor più impreparato di prima, con risposte e atteggiamenti contraddittori per quanto comprensibili, quali ad esempio quelli della totale assenza di protesta di fronte alla riaccensione delle centrali a carbone a seguito della riduzione dei quantitativi di gas provenienti dalla Russia o persino, della rivalutazione dell’adozione del nucleare da parte di esponenti importanti di una linea di pensiero finora radicalmente opposta. In un contesto geopolitico profondamente cambiato non si può più sostenere una superiorità morale nella protezione assoluta della natura, senza considerare la natura dei singoli Stati coinvolti in quella protezione.

Più o meno in tutta Europa i partiti di sinistra parlano il linguaggio dei consessi internazionali e sono più attenti alle tematiche ambientali, quelli di destra parlano meno di ambiente e usano termini più funzionali a descrivere sicurezza e controllo. E, paradossalmente, questi ultimi prevalgono nelle comunità rurali.

In Italia è più o meno così. Nonostante la siccità del 2022 la sensibilità dell’elettorato nei confronti dei temi ambientali non è aumentata.

Si dirà, come spesso capita, che a causa dell’assenza di un adeguato linguaggio di mediazione tra comunità scientifica e popolazione, gli elettori non hanno capito. Tutt’altro. Il problema non è la distrazione degli elettori, soprattutto quelli che vivono su territori fragili, ma è la qualità dell’offerta politica.

Si pone troppo spesso molta enfasi sul valore normativo della scienza, quella che domina nei consessi internazionali, parlando di destini dell’umanità, ma al tempo stesso senza capire che possano essere legittime anche scelte contrastanti. L’urgenza è chiamata in causa come alibi e propulsore di qualsiasi soluzione.

La definizione scientifica di un problema, per quanto accurata, non aiuta da sola a stabilire come spendere i soldi, chi debba fare sacrifici e, soprattutto chi debba decidere.

L’ambientalismo moderno si veste di un mantello scientifico che serve solo a nascondere la natura fortemente politica delle sue soluzioni, e blocca un dibattito onesto e necessario sulle migliaia di implicazioni, non solo locali, che ne derivano.

L’urgenza come scusa ha inoltre creato un grave equivoco: che sia la scienza a guidare l’agire politico nel rapporto tra la società e l’ambiente, lasciando poco spazio alla politica vera, quella discussa con e tra cittadini, che parlano di casa loro.

L’ambientalismo è una riserva di energia politica, il fervore che provoca tra i più giovani lo dimostra. Ma spesso i fronti che ne hanno abbracciato la retorica non sono progressisti bensì hanno dato prova di conservatorismo. Giustizia, progresso, libertà, equità e diritto di realizzazione della persona (Art. 3 della Costituzione) vengono subordinati sic et simpliciter alla tutela dell’ambiente, un ambiente del tutto astratto.

E per questo che gli elettori, più o meno in tutta Europa, non hanno premiato i politici ambientalisti. Il pieno sviluppo della persona umana, ancora inattuato per molti nella nostra società, deve passare da un’idea di crescita sociale ed economica e non sarà possibile vincolare totalmente lo sviluppo del paesaggio, perché esso si renderà necessario e inevitabile a fronte del cambiamento climatico, più forte e drammatico in Europa che nel resto del mondo, più nell’area mediterranea che nel resto del continente, più in Italia che altrove, più nel Mezzogiorno che nel Triveneto. L’ecologia dovrà essere necessariamente costruita, bilanciando interessi economici, sociali, culturali e, non ultimi, ecologici.

Senza nulla togliere al valore dei meravigliosi paesaggi che rendono unico il nostro paese, così come molti altri, che siano tutelati come spesso accade dall'istituzione dei Parchi Nazionali, o patrimonio dell'umanità, l’ambientalismo vero deve avere il coraggio di descrivere il futuro fisico del paese, la trasformazione del territorio dal quale dipendiamo per tutto: energia, cibo, sicurezza idrica, cultura. E soprattutto che la legittimità delle scelte non sia subordinata alla scienza ma da questa guidata.

Voglio infine citare l'amico Aldo Piombino che nel suo recentissimo post ha dato un esempio concreto di ciò che può essere inteso come evoluzione del paesaggio integrato con le esigenze economiche ed industriali e soprattutto alla luce del cambiamento climatico.





[1] Costituzione della Repubblica Italiana, art. 9 (con emendamenti del febbraio 2022)

[2] La proprietà privata è maggioritaria a livello mondiale. Persino nella Cina comunista lo stato consente ai privati di acquisire diritti di usufrutto senza ovviamente titolo di proprietà, nell’ex Unione Sovietica tra il 1900 e il 2000 sono stati privatizzati 1.200.000 chilometri quadrati di territorio, almeno un quinto delle foreste sono private e un altro 15 percento è pubblico ma gestito da privati, le rivendicazioni di proprietà delle popolazioni indigene coprono circa l’80 percento delle aree ad alta biodiversità.

[3] Da lungo tempo è entrato nell’uso comune parlare di gas serra quando ci si riferisce ai gas che riescono a trattenere, in maniera consistente, una parte considerevole della componente infrarossa, in altri termini, del calore.

[4] Mt e Gt stanno rispettivamente per mega-tonnellata e giga-tonnellata, 106 t e 109 t, rispettivamente.

[5] La concentrazione urbana, ad oggi, è pari a circa il 55% degli esseri umani e, secondo stime ONU, nel 2050 si arriverà al 70%; il 75% delle emissioni di gas serra ha origine urbana con soltanto 25 mega città che da sole producono oltre il 52 percento delle emissioni mondiali.

[6] Pur essendo ovviamente parte della biosfera, il genere umano si è guadagnato una sfera distinta, considerata l’azione che è in grado di esercitare sul pianeta.

Nota bibliografica. Liberamente ispirato dal cap. VIII di “Siccità. Un paese alla frontiera del clima”. Di Giulio Boccaletti, 2023.

Nessun commento:

Posta un commento

L'Amministratore del blog rimuoverà a suo insindacabile giudizio ogni commento ritenuto inadeguato od inappropriato.
Per motivi tuttora ignoti anziché un account Google come da impostazione, ne viene richiesto uno Blogger. In altre parole, per ora non potete sottoporre commenti. Spiacente.