Memento mori...necesse est!

 

per l'immagine Telmo Pievani: "Ripensare l'evoluzione umana", gennaio 2019

Introduzione

Nel precedente post abbiamo visto che, per buona parte della lunga storia dell’evoluzione delle specie che ha portato fino a noi, almeno 5 dei 7 milioni di anni a partire dall’antenato comune che abbiamo con le scimmie antropomorfe, la massa cerebrale non subì particolari incrementi. A partire da circa 2 milioni di anni fa, con la comparsa delle cosiddette habiline, le forme preumane come Homo abilis, le dimensioni del cervello iniziano ad aumentare in maniera pressoché esponenziale, la trasformazione morfologica più rapida nella complessità di un organismo.

Perché?

Sembra ormai assodato che il processo venne innescato da una modalità di evoluzione di tipo esclusivo, che prende il nome di coevoluzione genetico-culturale, nella quale, da un lato, l’innovazione culturale determinò un incremento della velocità di diffusione dei geni che favorivano intelligenza e cooperazione, mentre, dall’altro, il cambiamento genetico risultante aumentò la probabilità che si realizzare un’evoluzione culturale.

Qui occorre fare una doverosa precisazione. I cambiamenti genetici avvenivano, e avvengono, nelle modalità che conosciamo, a causa delle mutazioni casuali dovute soprattutto agli errori di copiatura del codice genetico, e che hanno portato alla comparsa di caratteri abilitanti quali la possibilità di opporre il pollice alle altre dita, la modifica anatomica della scatola cranica ad ospitare un cervello di maggiori dimensioni, lo spostamento delle vertebre ileo-sacrali a favorire la postura eretta, il bipedismo ed altro ancora: passo dopo passo nel corso di decine o centinaia di migliaia di anni.

Ma la coevoluzione bio-culturale ha fatto sì che la componente genetica preparasse gli organismi a cambiare abitudini culturali mentre, in parallelo, l’evoluzione culturale favoriva la diffusione di questi cambiamenti dando ai loro portatori maggiori possibilità di sopravvivenza e riproduzione; grazie anche alle caratteristiche emergenti di cooperazione e interazione sociale tra individui del gruppo.

E qui occorre aprire un’altra parentesi.

L’evoluzione per selezione naturale avviene continuamente in tutte le popolazioni di ogni specie, sia cambiando la frequenza dei geni sia mantenendola stabile. Ad un estremo, la frequenza è talmente veloce da produrre una nuova specie in una singola generazione e, all’estremo opposto, l’evoluzione è così lenta che alcune caratteristiche delle specie si mantengono simili a quelle degli antenati che vivevano decine se non centinaia milioni di anni prima (i cosiddetti fossili viventi).

Riducendo ai minimi elementi la teoria dell’evoluzione abbiamo che l’unità ereditaria interessata dalla mutazione è il gene ed il bersaglio della selezione naturale da parte dell’ambiente è il carattere determinato dal gene (semplificando, sappiamo che in realtà è sempre un pool di geni a determinare l’espressione del carattere, o meglio, del fenotipo). 

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con gruppi di individui geneticamente pressoché identici? Tra un essere umano e l’altro meno dello 0,1 percento di DNA varia. 

Tra selezione a livello di individuo e selezione a livello di gruppo è stata fatta spesso un’inutile confusione. Dovuta spesso ad alcuni divulgatori scientifici che parlano di evoluzione rivolgendosi ad un pubblico generico.

Il problema deriva dall’errore commesso nella distinzione tra unità ereditaria e oggetto della selezione.

La selezione a livello di individuo agisce sulle caratteristiche che influiscono sulla sopravvivenza e sulla riproduzione di un membro del gruppo, considerato a prescindere dalle sue interazioni con i compagni; questa selezione prevale nei primi stadi dell’evoluzione sociale, agli albori della formazione di ciò che ci ha reso umani, quando molti dei caratteri ereditari influenzavano il successo del singolo indipendentemente dalle sue interazioni con i compagni di gruppo. Per esempio, pur vivendo da solo per una parte della sua vita, il singolo individuo, rispetto ai compagni di gruppo, potrebbe assicurare a sé o ai propri discendenti una porzione maggiore di cibo e di spazio.

La selezione a livello di gruppo influenza invece le caratteristiche che prevedono l’interazione con i compagni, in modo che il successo dei geni di un individuo dipende almeno in parte dal successo della società cui appartiene. Faccio notare che ciò è riscontrabile in qualsiasi organizzazione sociale progredita, come ad esempio in quelle caratterizzate da caste di individui sterili (api, termiti, formiche…) dove la selezione di gruppo scavalca quasi interamente quella individuale.

Al centro del vastissimo spettro che va dall’individuo al gruppo l’umanità si posiziona al centro: la natura umana appare guidata dal conflitto tra selezione naturale, che promuove egoismo da parte dei singoli individui e dei loro familiari più prossimi, e la selezione di gruppo, che promuove altruismo ed empatia, cooperazione al servizio del gruppo.

La selezione di gruppo nell’evoluzione sociale è coerente con la genetica delle popolazioni e la sua presenza in tutto il regno animale (studi recentissimi ne intravedono qualcosa persino tra i vegetali) è sostenuta da prove consistenti sia raccolte sul campo che in laboratorio.

Negli anni Sessanta del XX secolo si fece strada una teoria alternativa, quella della cosiddetta fitness  inclusiva, alla base della nascente sociobiologia. Dopo anni, decenni, di discussioni, è ormai acclarato che non esiste nulla del genere: nessuno è mai riuscito a “misurarla” e le equazioni elaborate (ad hoc) per dimostrarla presentano problemi matematici notevoli. Non esiste alcuna prova che sia il singolo individuo, e non il gene, ad essere considerato unità della selezione e non serve quest’idea per spiegare il comportamento sociale complesso oggi abbondantemente dimostrato anche nei nostri parenti più prossimi come scimpanzè e bonobo.

Il carattere genetico, controllato dalle mutazioni, che influenza le interazioni, il comportamento di gruppo, fa emergere la selezione di gruppo. E ciò non vale solo per la scelta, governata dalla scelta femminile nella selezione sessuale, di un paio di occhi azzurri o nel taglio a mandorla, particolarmente graditi a favorirne la diffusione.

Charles Darwin, che raramente sbagliava, aveva correttamente anticipato e dedotto, nel suo “L’origine dell’uomo”, che la competizione tra gruppi di esseri umani ha rappresentato un contributo rilevante rispetto alla comparsa di caratteristiche considerate da tutti molto nobili: generosità manifesta, coraggio, sacrificio, giustizia, saggia autorità. In altre parole i lati migliori della nostra natura non hanno bisogno di essere inculcati a forza dentro di noi sotto la minaccia del castigo divino ma, al contrario, sono biologicamente ereditati: grazie ad una conseguenza fortuita derivata dai principi fondamentali della selezione naturale siamo molto più di semplici selvaggi istruiti. Siamo naturalmente buoni, rimandando alla lettura del bellissimo libro, proprio con questo titolo, del compianto Frans de Waal.

Cultura…genetica

La coevoluzione geni-cultura ha determinato la diffusione dei geni che favorivano intelligenza e cooperazione e la probabilità che ciò portasse ad un’innovazione culturale fu da questi geni aumentata.

Fu cruciale il passaggio da una dieta vegetariana a una dieta ricca di carne cotta, probabilmente già in una delle specie australopitecine africane (forse già nella specie cui apparteneva la famosissima Lucy, oltre 3 milioni di anni fa). La carne cotta potrebbe, almeno all’inizio, esser stata consumata dopo il ritrovamento casuale di animali vittime di incendi.

Il passaggio si tradusse in una trasformazione ereditaria che interessò l’anatomia, la fisiologia e il comportamento. Il corpo si assottigliò, mandibola e dentatura divennero più piccole e leggere, il cranio aumentò di dimensioni assumendo una forma più sferica; anche la società cambiò, passando dal nomadismo puro alla creazione di punti di ritrovo geograficamente stabili ai quali tornare la sera. Le già citate habiline probabilmente impararono a procurarsi il fuoco dalle braci residuo di incendi, e a portarlo in quei siti controllandolo e mantenendolo vivo. Così come ancora oggi fanno, spostandolo da un accampamento all’altro, le tribù di cacciatori-raccoglitori che vivono tuttora in Sudafrica (le popolazioni più antiche del mondo!)

La condivisione della carne di prede più grandi, una ricostruzione corroborata dalle testimonianze fossili e dallo studio degli stili di vita dei cacciatori-raccoglitori contemporanei, preparò uno scenario pronto per lo sviluppo di cooperazione e divisione del lavoro. La selezione naturale, a livello di gruppo, favorì l’altruismo e la cooperazione con un meccanismo di rinforzo positivo tra evoluzione culturale e genetica. Ovviamente ciascuna delle due, da sola, avrebbe potuto determinare un incremento della velocità di crescita del volume cerebrale, ma insieme esercitarono il feedback tale da determinarne una crescita esponenziale, inizialmente lenta ma via via più rapida, fino al raggiungimento dei limiti fisici relativi alla dimensione del cranio.

Perché dobbiamo morire?

Il processo di invecchiamento è quanto di più utile esista per comprendere le contemporanee evoluzione genetica e culturale.

Tutte le specie, indipendentemente dal loro maggiore o minore successo adattativo, hanno una durata della vita caratteristica. Persino le piante hanno una durata della vita programmata.

Tra i biologi evoluzionisti, la teoria più diffusa per spiegare l’invecchiamento programmato e la morte, è che in ogni organismo vivente si sia evoluto uno stile di vita caratterizzato dal fatto che la maggior parte degli individui muore per cause esterne – malattia, incidente, difetti congeniti, malnutrizione, omicidio, guerra – molto prima di raggiungere la massima età possibile: situazione questa, che rappresentava la regola quando tra gli esseri umani soltanto pochi individui riuscivano a raggiungere i cinquant’anni!


La mortalità precoce, applicabile ancora oggi alla maggioranza degli esseri umani pur essendo spostata in avanti, ha comportato, per effetto della selezione naturale, un’anticipazione e un potenziamento del vigore e della spinta riproduttiva. Ha cioè programmato nei giovani una fisiologia e uno stato mentale più vivaci e vitali a svantaggio dei più anziani preferendo investire nelle risorse più giovani anziché in quelle in età media o avanzata.

L’evoluzione culturale, fin dal Paleolitico, ridusse le cause di morte, aumentando via via l’aspettativa di vita fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui l’età riproduttiva si è spostata in avanti fino all’età della menopausa. La nascita delle prime civiltà, l’avvento dell’agricoltura e la possibilità di immagazzinare cibo, insieme alla riduzione delle cause estreme di mortalità, cambiarono le condizioni, spostando la direzione della selezione naturale nel corso del ciclo vitale umano.

Un effetto inevitabile sulle generazioni future potrebbe quindi essere il cambiamento genetico complessivo a livello di popolazione, non solo quindi un allungamento della giovinezza e della fertilità fin oltre la mezza età, con un inizio della menopausa sempre più avanti negli anni marcando sia l’evoluzione culturale che quella genetica. Tutto ciò ovviamente, al netto di implicazioni e motivazioni d’altra natura, quali quelle geografiche o sociologiche.

E’ indubbio che la coevoluzione geni-cultura abbia favorito la rivoluzione delle habiline, che compirono un passo da gigante verso la condizione umana, spostando in avanti le lancette dell’invecchiamento e della morte, anche contrariamente a quel che naturalmente ci si aspetta da un sistema la cui efficienza è soltanto in apparenza in violazione dei principi della termodinamica. Ogni tanto spunta fuori qualcuno che afferma che gli esseri viventi violano il “Secondo principio della termodinamica”: semplificando, e con riferimento alla riproduzione sessuata, dalla fusione di un paio di cellule, maschile e femminile, organizzazione e complessità vanno via via aumentando per tutto il corso della vita: ma un organismo vivente non è un sistema chiuso, c’è all’origine del suo apparente violare le leggi dell’entropia, la fruizione continua di energia. Un sistema semplice formato da una pianta, dal Sole e dall’Universo tutto ne è la prova. Ne parlammo qui.

(s)Conclusioni

Se non ci fosse morte non ci sarebbe evoluzione. Quindi, per quanto auspicabile che, in condizioni normali, si voglia rimandare il processo che si conclude con la morte, questa la si comprende a partire dalla vita, di cui è funzione: non si muore se non si è vivi. Se non si morisse, le generazioni non potrebbero avvicendarsi. E ciò, nel caso della società umana, avrebbe conseguenze evidenti.

La relazione tra evoluzione biologica e culturale è considerata la pietra filosofale dell’umanità che comprende se stessa. Siamo costruiti e ci comportiamo in questo modo o in un altro perché alcuni dei nostri comportamenti sono da considerare istinti programmati geneticamente, altri acquisiti in seguito all’apprendimento, anch’esso geneticamente predisposto, ed altri ancora come prodotto, vera e propria invenzione, dell’evoluzione culturale. Uno stadio della nostra evoluzione a lungo termine, e non il prodotto di quanto vediamo oggi.

Se la mia nascita è accidentale, la mia morte è una necessità (si veda anche qui).

L'aspettativa di vita in molti paesi si alza continuamente e abbiamo sfondato da poco gli 80; molti biologi credono esista comunque un limite strutturale di 120 anni. Inoltre vivere così a lungo dipende non solo dalla qualità della vita ma da chi pagherà le pensioni di così tanti vegliardi, sempre che, come ritengono i neurobiologi, non prevalgano comunque le degenerazioni cerebrali.

Comunque sia, morire non è una malattia da curare, ma una parte della vita, anche perché l'eternità ha un sacco di controindicazioni, a cominciare dal fatto che più si vive più si accumulano danni e mutazioni.

Fuor di metafora, la religione organizzata rappresenta per tutto questo il cosiddetto “elefante in salotto”. L’ingerenza che questa ha, con le sue storie che narrano di creazioni soprannaturali, ognuna delle quali identifica un diverso credo, influenza negativamente la capacità di comprendere la condizione umana.

Una cosa è possedere e condividere alcuni valori spirituali della religione in senso teologico, anche contemporaneamente ad una qualche fede nel divino e nell’esistenza di vita dopo la morte; ma ben altra cosa, completamente diversa, è scegliere di adottare una particolare storia soprannaturale della creazione. Anche se la fede in una di queste credenze garantisce ai membri di un credo religioso un senso di appartenenza confortante (personalmente non vedo appartenenza, empatia o altruismo dei fedeli una volta terminata la messa…), va detto che non tutte le storie della creazione possono essere vere allo stesso tempo, neppure due alla volta possono esserlo e, ragionando per assurdo, sono quindi tutte false. Ognuna è sostenuta dal dogma cieco della fede di appartenenza.

L'evoluzione, sottoposta al vaglio cieco della selezione naturale, è stata resa un po' meno cieca dall'evoluzione culturale, unicità delle specie Homo, grazie alla selezione di ciò che sappiamo far meglio: pensare.


Imprevedibilmente...

Stephen J. Gould, evoluzionista di Harvard, nel suo libro “La vita meravigliosa” sosteneva che, se potessimo riavvolgere il nastro dell'evoluzione della vita sulla Terra, e schiacciare play nuovamente, difficilmente otterremmo lo stesso film. Interrogarsi sul perché l’evoluzione biologica abbia seguito certe strade invece di altre è evidentemente di cruciale importanza perché mette in discussione l’origine dell’umanità stessa, ma insistere sul tema diventa presto troppo metafisico, per me. Preferisco concentrarmi sul colossale colpo di fortuna che ha portato fino a qui.

Questo post è in un certo modo collegato ad uno scritto successivamente, disponibile qui.

Il “cespuglio” evolutivo degli ominini. In basso a destra l’appunto del genio intuitivo di Charles Darwin

Il “cespuglio” evolutivo degli ominini.
In basso a destra l’appunto del genio intuitivo di Charles Darwin

Ormai è sempre più chiaro che la selezione naturale, così come per qualunque altra forma di vita, ha plasmato ogni aspetto della biologia umana. La selezione naturale, che agisce da gran maestro dell'evoluzione, implica che l'umanità non è stata pianificata da alcuna intelligenza superiore, ne è guidata verso alcun destino oltre le conseguenze delle nostre stesse azioni.

Il materiale umano è stato messo alla prova e rielaborato spesso in ognuna delle migliaia di generazioni succedutesi nel corso della sua storia geologica. Il successo per la nostra specie in evoluzione implica la sopravvivenza ogni ciclo riproduttivo. Un fallimento avrebbe come risultato un declino verso l'estinzione, che porrebbe così fine al gioco evolutivo. È già accaduto alla stragrande maggioranza delle altre specie, in molti casi davanti ai nostri occhi.

Lo stesso destino avrebbe potuto interessare i nostri antenati in un qualsiasi momento, negli ultimi sei milioni di anni. Come ogni altra specie che oggi sopravvive, la nostra è stata straordinariamente fortunata. Oltre il 98 percento delle specie evolutesi finora è scomparso, e queste specie sono state sostituite dalle numerose specie figlie dei sopravvissuti. Il risultato è stato l'instaurarsi di un equilibrio approssimativo tra estinzioni e comparsa di un certo numero di specie che si sono evolute passando da un'epoca alla seguente. La storia di ogni particolare linea di discendenza è un viaggio in un labirinto che cambia costantemente, irripetibile. Una volta sbagliata, un passo falso nell'evoluzione, perfino un solo ritardo nell'adattamento evolutivo, potrebbero essere fatali.

La durata media di una specie, tra i mammiferi nell'era cenozoica, ovvero nell'intervallo di tempo in cui sono vissuti i nostri antenati, è stata di circa mezzo milione di anni. La linea di discendenza che, alla fine, è giunta agli esseri umani anatomicamente moderni si è separata dall'antenato che condividiamo con gli scimpanzè, circa 7 milioni di anni fa. La sua fortuna dura da allora. Mentre nei tempi più duri le popolazioni preumane si sono ridotte, anche più volte, probabilmente a poche migliaia di individui, e molte delle specie a noi imparentate sono scomparse, la nostra linea di discendenza è riuscita a farsi strada nei sei milioni di anni del Quaternario, nonostante abbia rischiato a sua volta l'estinzione almeno una volta, quando, circa 70.000 anni fa, l’eruzione catastrofica del vulcano Toba in Indonesia indusse un cambiamento climatico tale da provocare la scomparsa della quasi totalità degli esseri umani che allora convivevano sulla Terra (sapiens, neanderthal, floresiensis, denisovani), riducendoli a poche migliaia di individui.

I punti salienti, dal bipedismo alla comparsa delle società complesse. Si notino i periodi di convivenza di più specie

I punti salienti, dal bipedismo alla comparsa delle società complesse.
Si notino i periodi di convivenza di più specie

In questi 7 milioni di anni la nostra specie ha continuato a esistere come un'entità in perpetua evoluzione, lungo un complesso labirintico cespuglio. Occasionalmente, si è divisa in due o più specie che hanno continuato a evolvere: finché ne è rimasta soltanto una, quella che - per puro caso - è diventata Homo sapiens. Le altre specie sorelle hanno continuato a evolvere a loro volta divergendo dalla linea di discendenza preumana. Con il tempo, ognuna di queste si è estinta o si è separata a sua volta come specie a parte. Alla fine, però, sono tutte scomparse.

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In evidenza, la linea nera, per le diverse specie, che divide un prima, lunghissimo, privo di crescita del cervello, da un dopo, in cui tutte le specie in breve tempo manifestano crescita esponenziale del cervello

In evidenza, la linea nera, per le diverse specie, che divide un prima, lunghissimo, privo di crescita del cervello, da un dopo, in cui tutte le specie in breve tempo manifestano crescita esponenziale del cervello



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Riferimenti bibliografici.
Edward O. Wilson – La nascita della creatività. 2017
Per le immagini – Ripensare l’evoluzione umana. Telmo Pievani. 2019





Acqua. Storie dal futuro annunciato.


Proprio in questi giorni è stata annunciata annunciata la prima ondata di calore in arrivo sul nostro paese, con temperature che supereranno, ancora una volta, le medie stagionali. Il fenomeno interesserà soprattutto le regioni centro-meridionali già provate da un lungo periodo di siccità, con innanzi tutto un aumento della quota di evaporazione traspirazione vegetali, mentre al nord è ormai da mesi che le precipitazioni sono abbondanti e violente. Il tutto, ovviamente, si riflette sulla produzione agricola, con conseguenze economiche negative per tutti.

Ho già avuto modo di trattare diversi aspetti dell’argomento legato alla maggiore o minore disponibilità delle risorse idriche (in particolare qui, e anche qui), ma vorrei riprenderne alcuni punti salienti.

clip_image002Indipendentemente da quale che sia il livello di riscaldamento che assumerà il pianeta, con alcune inarrestabili tendenze, e che dipendono dai tassi di emissione dei gas serra, soprattutto del biossido di carbonio, è fuori discussione che tutta l’umanità dovrà confrontarsi sia con problemi di gestione della sempre più scarsa disponibilità di acqua dolce, e di cattiva qualità, sia di acqua salata sempre più acida e invasiva in termini di salinizzazione delle falde costiere.

In particolare la zona mediterranea, decisamente semi-arida, secondo IPCC prevedono una riduzione della riserva idrica rinnovabile, superficiale e sotterranea, a causa delle modificazioni del flusso fluviale stagionale.

Del totale di acqua che cade (nel grafico la distribuzione dell’altezza di precipitazione annua media, in mm, del periodo 1961-2017 a confronto con il 2017) tra un terzo e la metà viene intercettato dalla vegetazione prima che possa raccogliersi nei corsi d’acqua e torna in atmosfera per evaporazione diretta o per traspirazione vegetale. Dei circa 300 miliardi di metri cubi che piovono in Italia ogni anno, solo considerando l’area agricola qualcosa come 100 miliardi di metri cubi l’anno evaporano o traspirano e tornano in atmosfera. I boschi intercettano circa un terzo di ciò che vi piove sopra: più o meno altri 30-40 miliardi di metri cubi.

clip_image004E’ evidente che l’aumento delle temperature corrisponde ad un aumento della quantità di acqua che torna in atmosfera per evaporazione e per traspirazione. Il limite nevoso salirà di quota e di latitudine diminuendo il quantitativo di acqua immagazzinata e che parzialmente torna dalla fusione stagionale, come trattato di recente in questo post.

Tutto ciò sarà progressivamente accompagnato da un aumento dei periodi prolungati di siccità, cambiamenti nel regime delle precipitazioni, riduzione delle capacità delle falde e della loro ricarica, con i corsi d’acqua che acquisiranno carattere sempre più torrentizio mettendo a rischio non solo la quantità ma anche la qualità delle acque che, permanendo sempre meno tempo nel sottosuolo, non avranno il tempo necessario a subire i necessari processi di filtraggio e decantazione che le rendono potabili: aumenteranno i fenomeni di eutrofizzazione con incremento della concentrazione di nutrienti e di contaminanti dovuti all’attività umana. Anche l’ossigeno diminuirà creando ambienti anossici che potrebbero dar seguito alla proliferazione di cianobatteri, potenzialmente tossici.

Inoltre, le minori previste precipitazioni saranno affiancate da una loro maggiore intensità, in periodi molto brevi aumentando la necessità di governare situazioni sia legate al drenaggio, sia delle risorse sotterranee che dei depositi superficiali.

Potranno quindi verificarsi situazioni conflittuali dovuti alla gestione delle acque e delle loro priorità tra settore agricolo, civile, industriale ed energetico, soprattutto nella stagione calda. Se consideriamo che attualmente in Italia, quasi la metà del volume di acqua prelevata alla fonte non raggiunge gli utenti finali a causa delle dispersioni dalle reti di adduzione e distribuzione e che alcune delle perdite dipendono anche da prelievi abusivi.

Tornando alla perdita causata dalla progressiva scomparsa delle masse glaciali oltre che causare notevoli ripercussioni sulle temperature locali e sulla disponibilità complessiva di acque dolci, questa causerà aumenti delle portate fluviali invernali e di contro riduzione di quelle estive, con un importante aumento delle popolazioni interessate da fenomeni alluvionali.

L’altro grande settore di utilizzo della risorsa idrica è quello agricolo, e l’Italia è tra i paesi europei che fanno maggior ricorso all’irrigazione.

L’agricoltura sopperisce alla scarsità irrigando con acque che sono raccolte in fiumi e falde, che raccoglie tra i 100 e i 150 miliardi di metri cubi l’anno che vanno poi ad alimentare invasi e canali d’irrigazione o centrali idroelettriche, drenando verso il mare.

L’irrigazione richiede tra i 10 e 30 miliardi di metri cubi l’anno, variabilità enorme che dipende dalle condizioni climatiche. Ma mentre l’acqua che viene dalla falda attraverso un pozzo, o dal fiume, e che viene assorbita per fotosintesi o che in parte evapora, è acqua effettivamente consumata, quella che percola e torna in falda o al fiume attraverso il terreno fluirà a valle e potrà diventare la risorsa di un altro. Lo spreco di uno può diventare la fonte di un altro.

L’acqua potabile è l’elemento importante per distinguere tra uso e consumo, acqua che estrae meno di 10 miliardi di metri cubi l’anno dal totale dell’apporto, circa il 3 percento; un volume comparabile all’uso industriale dell’acqua ma tutto sommato entrambi minori perché, anche se a condizioni diverse, gran parte di quest’acqua torna sul territorio.

Tutti questi bisogni in conflitto tra loro, se mal gestiti, illustrano il problema dei fiumi in secca: basta che piova meno o che faccia più caldo e le foreste vanno in sofferenza, aumentando il rischio incendi che generano un feedback negativo sul bilancio gli agricoltori che si trovano costretti ad estrarre più acqua dai fiumi per tentare di compensare e, con i volumi visti, basta davvero poco per portare a estrazioni enormi: l’estate del 2022 è stata emblematica con le ridotte o assenti precipitazioni e le temperature sopra la media.

La siccità appare quindi un sintomo dell’incapacità di riorganizzare usi e bisogni ed è questo che preoccupa a fronte di un cambiamento climatico secolare e in accelerazione. In genere, ad una maggior disponibilità d’acqua corrisponde un uso meno oculato.

E, per proprietà transitiva, la cosa vale per qualsiasi altro tipo di risorsa, come ho evidenziato in un mio precedente post.

Volendo riassumere i molteplici usi della risorsa idrica possiamo prendere la categorizzazione che normalmente viene utilizzata dalle autorità di bacino per effettuare analisi di vario tipo: idroelettrico, irriguo, consumo umano, igienico e assimilati, irrigazione di attrezzature, aree sportive e destinate a verde, pubblico, pescicoltura, industriale e altro ancora.

clip_image006Per quanto riguarda produzione di energia elettrica e raffreddamento di impianti termoelettrici occorrono circa 19 miliardi di metri cubi d’acqua di cui però soltanto il 12% proviene da acque interne, mentre il restante arriva dal mare.

Entro il 2100 la diminuzione stimata delle portate è pari ad oltre il 40%, sia a causa della diminuzione delle precipitazioni sia per aumento dell’evapotraspirazione dovuta alle maggiori temperature.



 

 

 

clip_image008I fenomeni di siccità e di riduzione delle portate, uniti a condizioni di sovra-sfruttamento, renderanno i corsi d’acqua e le falde sotterranee costiere più esposti all’azione del mare, con conseguente aumento della salinità delle riserve di acqua dolce. In alcuni casi, come nel delta del Po, l’ingressione del cuneo salino è già un fenomeno in atto.

Gli oceani si scaldano oggi molto più velocemente di quanto sia accaduto in passato e il tasso di riscaldamento è più che raddoppiato con un aumento senza precedenti nel corso dell’ultimo secolo. Per quanto riguarda il Mediterraneo, le anomali su base annua indicano un innalzamento della temperatura superficiale di circa 1,2 °C. L’aumento maggiore nel periodo invernale e primaverile si ha per l’Adriatico, con valori compresi tra 1,5 e 2 °C, mentre nel periodo estivo le anomalie più alte e diffuse si hanno nel Tirreno (circa 1,5 °C). Tutte le aree costiere italiane saranno soggette ad un aumento di temperatura rispetto al periodo 1980-2010, che varia da un minimo di 1,3 °C nelle zone del Mediterraneo centro-occidentale e nel mar Ligure a un massimo di 1,6 °C nell’Adriatico centro-settentrionale.

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Del destino delle masse d’acqua salate, aumento della temperatura, espansione termica, capacità termica a lungo rilascio e in asincronia con le superfici emerse, innalzamento del livello medio e acidificazione abbiamo già scritto qui, e non occorre ripetersi.









Senza dune né cammelli…

clip_image012Il fenomeno della desertificazione non va necessariamente associato con i tipici paesaggi nord-africani fatti di dune, sabbia e rocce né con quelli tipici di alcune ambientazioni dei film western. La desertificazione è più complessa perché è l’insieme dei processi che portano al degrado del suolo e al declino delle potenzialità produttive di un territorio, non solo determinate da cause naturali.

Negli ultimi 30 anni una percentuale stimata tra il 20 e il 30% della superfice terrestre ha mostrato un andamento in calo nella produttività e di questa, qualcosa come il 40% è affetta da fenomeni di desertificazione: la degradazione e l’impoverimento della terra nelle regioni aride coinvolge circa 250 milioni di persone direttamente e si stima che ogni anno si perdano circa 12 milioni di ettari di terreni fertili, più o meno quanto la copertura boscata e forestale del nostro paese. Oltre 100 paesi nel mondo (su 193!) sono coinvolti da fenomeni che riducono la possibilità di produzione alimentare e la biodiversità.

L’Europa ha già il 12% delle terre coltivate con evidenti segni di calo di produttività e un ulteriore 21% è a rischio di desertificazione. Spagna, Portogallo meridionale, Italia, Grecia sud-orientale, Cipro ed alcune aree della Bulgaria e della Romania che si affacciano sul Mar Nero sono in condizioni particolarmente gravi. Quasi il 20% del territorio italiano e greco è interessato da erosione produttiva.

Per quanto riguarda l’Italia il 70% del territorio della Sicilia è a rischio, il 58% in Molise, il 57% in Puglia, il 55% in Basilicata, e una porzione tra il 30 e il 50% in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania. Mediamente il territorio italiano è al 20% in pericolo e presenta già zone con meno del 2% di sostanza organica contenuta nel terreno, soglia per la quale si può iniziare a parlare di deserto.

Le cause sono molteplici e non solo ambientali. E ovviamente non interessano solo il Mediterraneo.

clip_image014Ovviamente il fenomeno della desertificazione è legato alle precipitazioni in termini di quantità, distribuzione e intensità, all’aumento della temperatura e degli episodi di siccità, da non confondere con l’aridità. Quest’ultima è una caratteristica climatica strutturale, causata da scarsità di precipitazioni cronica, meno di 200-400 mm annui di precipitazione (la media italiana è circa 900-1000 mm/anno), spesso legata a forte evaporazione che sottrae umidità a terreni e vegetazione; la siccità è invece episodica, e può colpire aree meno aride nel caso in cui le precipitazioni di un determinato periodo siano sensibilmente inferiori alla media.

I settori produttivi agroindustriali, necessitanti di un apporto costante e garantito di acqua, non hanno la necessaria resilienza per superare i periodi di siccità, a differenza degli ecosistemi naturali. Occorre inoltre distinguere tra siccità meteorologica, per periodi inferiori a 3 mesi, agronomica, da 3 a 6 mesi, e idrologica, da 6-12 mesi e oltre, che comporta una consistente riduzione delle falde acquifere e delle portate dei corsi d’acqua.

Nelle zone aride, dove l’acqua basta a malapena per uno scarso sostentamento, un periodo di siccità anche breve può portare al collasso del delicato equilibrio tra risorse e produzione, con conseguenti crisi alimentari, abbandono dei territori, migrazioni e conflitti.

I processi che portano alla desertificazione non sono determinati solo o necessariamente da variabili naturali, ma a questi spesso si aggiunge l’opera dell’uomo che utilizza o sfrutta le risorse in modalità competitiva e non sostenibile.

Nonostante l’Italia sia mediamente un paese ricco d’acqua, soprattutto grazie alla presenza di estesi acquiferi nei terreni calcarei e alluvionali che favoriscono l’accumulo nel sottosuolo, la ricchezza di acqua è compromessa da un uso dissennato della risorsa, con prelievi eccessivi, assenza di pianificazione e inquinamento puntiforme ma diffuso di natura urbana, agricola o industriale. L’aumento dei fabbisogni e la concentrazione dei consumi in aree limitate ha spesso portato ad un prelievo eccessivo con abbassamento del livello di falda con conseguenti alterazioni dei rapporti tra gli acquiferi sotterranei e i corsi d’acqua o, come abbiamo visto, ingressione di acque marine e conseguente salinizzazione.

clip_image016Non ultimi, anche gli incendi innescano un processo che può contribuire alla desertificazione, con effetti negativi su struttura e composizione del suolo e delle comunità vegetali dovute alle alte temperature; possono ad esempio rendere il terreno meno permeabile e quindi più esposto a processi erosivi. Ci sono prove evidente di gravi problemi idrologici sviluppati nella stagione piovosa su terreni precedentemente colpiti da incendi. Negli ultimi 10 anni in Italia sono andati perduti circa 600.000 ettari di bosco, innescati (quasi) sempre da cause non naturali direttamente o indirettamente dovute all’attività dell’uomo.

L’impiego del fuoco per la pulizia dei pascoli o la malacoltivazione di terreni poveri e fortemente acclivi in alcune aree del sud Italia a clima arido o semiarido del bacino del Mediterraneo è costantemente accompagnato da fenomeni di desertificazione.

A volte i processi dei degrado del suolo sono il risultato diretto della meccanizzazione. Paradossalmente, grazie alla sempre maggiore potenza dei mezzi agricoli, in particolare i trattori, molte colture realizzate seguendo le curve di livello del terreno sono state trasformate in percorsi che seguono la massima pendenza dello stesso, aggravando gli effetti sui processi di erosione e ruscellamento delle acque.

Infine, le aree aride e soggette a desertificazione incipiente sono molto più polverose: combattere la desertificazione può avere ricadute positive sulla diminuzione delle masse di sabbia trasportate dal vento anche per centinaia di chilometri, sulle polveri sottili di origine minerale dannose per la salute e ancora, il materiale sabbioso che si deposita in mare, se ricco di ferro come spesso accade, può favorire le condizioni per la proliferazione di fitoplancton che, se da un lato contribuirebbe ad un aumento dei tasso di cattura del biossido di carbonio, d’altra parte potrebbe alterare l’equilibrio dell’ecosistema locale.

Non basta quindi il semplice cambiamento nel regime delle temperature e delle precipitazioni, ma soprattutto di perdita di produttività e di disponibilità idrica spesso indotte da usi impropri e sconsiderati nell’utilizzo del suolo e del territorio.

La parola deserto viene dal latino, desertus, participio passato di deserere, che significa abbandonare. Il “deserto” più pericoloso è proprio l’abbandono. Non accorgersi del deserto che stiamo creando.

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Riferimento bibliografico: "Viaggio nell'Italia dell'Antropocene" di Telmo Pievani e Mauro Varotto.


Città. Storie dal futuro annunciato.

In un paio di post precedenti (qui e qui) ho avuto modo di trattare argomenti legati all’urbanizzazione ed ai risvolti che il cambiamento climatico avrà, prima di quanto si pensi, sul contesto delle città.

Gli edifici residenziali e quelli commerciali sono presenti soprattutto nelle aree urbane, nelle città, che, ad oggi, vedono risiedere circa il 55% degli esseri umani (secondo stime ONU, nel 2050 si arriverà al 70%) e, cosa ancor più eclatante, il 75% delle emissioni di gas serra ha origine urbana con soltanto 25 mega città che da sole producono oltre il 52 percento delle emissioni mondiali. Le città hanno quindi un'impronta ecologica enorme: complessivamente occupano solamente circa il 3 percento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse globali e rilasciano i tre quarti del totale dei gas serra.

Per quanto gli effetti dell’umanità sulla Terra abbia radici che risalgono probabilmente già ai tempi della comparsa di Homo sapiens, circa 200.000 anni fa, le profonde alterazioni dell’ambiente urbanizzato, soprattutto a partire da un paio di secoli fa, non hanno precedenti, soprattutto per dimensioni, rispetto al passato.

L’aumento della popolazione delle aree urbanizzate ha enormemente contribuito al peggioramento della qualità degli ambienti abitati, a cominciare dai rifiuti prodotti che devono essere, inevitabilmente, portati all’esterno per essere trattati adeguatamente.

Come predetto le aree urbanizzate sono responsabili del consumo di enormi quantità di risorse, in relazione alla superficie occupata, e produce enormi quantità di emissioni serra. Paradossalmente mentre in passato popolazione e spazio occupato crescevano proporzionalmente si sta oggi invece notando che, da qualche decennio, gli spazi occupati crescono più della popolazione con alcuni casi di consumo di suolo in crescita nonostante la popolazione sia in calo.

Se si è previsto un notevole rallentamento se non l’arresto della crescita della popolazione mondiale per i prossimi decenni, così non sarà per quella delle aree urbane.

Alla luce di uno scenario estremo, a seguito di una ipotetica fusione plausibile e parziale delle estensioni glacializzate maggiori, ovvero delle aree polari e della Groenlandia, associata all’espansione termica delle acque degli oceani (argomento trattato qui), il conseguente innalzamento del livello medio dei mari, previsto di 1 metro entro il 2100, metterebbe in estrema difficoltà centinaia di città costiere di tutto il mondo. Il rapporto speciale più recente fornito da IPCC riporta che entro il secolo il livello del mare potrebbe salire dai 26 ai 77 centimetri nel caso di temperature medie più calde dei famosi 1,5 °C sanciti dall’Accordo di Parigi. Negli Stati Uniti sono circa 25 milioni gli abitanti che vivono in territori vulnerabili alle inondazioni, mentre in Europa un terzo della popolazione abita entro 50 km dalla costa. In Italia, in particolare, l’estensione totale delle coste a rischio inondazione è di quasi 6.000 kmq.

Ma quanto legato all’eventuale innalzamento del livello medio del mare è poca roba rispetto ad altri aspetti legati all’urbanizzazione. 

I problemi principali delle città dipendono dalla loro estrema vulnerabilità e dall’elevato tasso di esposizione dovuto ai cambiamenti climatici che, in tale contesto ambientale, vedono condensati e amplificati i loro effetti, soprattutto perché interessano un’elevata percentuale della popolazione.

clip_image004Le città sono infatti mediamente pressoché del tutto cementate e asfaltate, con pochissime aree permeabili e poche aree di carattere naturale, coperte cioè da suolo o vegetazione. La qualità della vita sarà via via peggiore con eventi quali ondate di calore e, di contro, precipitazioni intense, crescenti nel tempo in intensità e frequenza e le categorie più a rischio saranno, come atteso, anziani, bambini e disabili.

Le superfici costruite assorbono la radiazione solare sia direttamente che per riflessione, accumulando calore e liberandolo durante la notte (ecco perché nelle città durante le torride estati la minima non riesce a scendere su valori più tollerabili), cosa che rende le città mediamente più calde dell’ambiente rurale circostante, non potendo nemmeno beneficiare del contributo che la vegetazione offre alla mitigazione della temperatura.

Il calore assorbito si associa a quello prodotto dalla combustione dei carburanti, dagli impianti di climatizzazione e dall’industria.

clip_image005Il risultato finale è che i centri urbani hanno spesso temperature più elevate di 5-10 °C rispetto alle campagne circostanti, generando isole di calore con temperature notturne particolarmente elevate per effetto del rilascio differito del calore accumulato.

La struttura urbana influisce inoltre moltissimo sulla circolazione dell’aria impedendo la ventilazione e quindi limitando la dispersione del calore.

Recentemente si è visto come il sud-est asiatico e l’India stiano soffrendo una gravissima crisi climatica. L'India è storicamente soggetta a ondate di caldo estremo tra maggio e giugno, ma da qualche anno il caldo insopportabile arriva sempre prima e dura sempre più a lungo e nelle città si sono registrate temperature anche di 47 °C imponendo al governo decisioni mai prese in passato, quali la chiusura delle scuole per lo meno fino al prossimo 30 giugno.

L’andamento riscontrato in Italia risulta in linea con quanto osservato nel resto d’Europa e, in generale, su gran parte dell’emisfero nord: gli episodi di caldo intenso sono aumentati ovunque. Tra i vari lavori scientifici sull’argomento, uno dei più recenti è stato pubblicato nel 2020 sulla rivista Nature. Lo studio mostra un incremento, negli ultimi sessant’anni, sia della frequenza sia dell’intensità delle ondate di calore praticamente in tutto il mondo e in particolare nell’emisfero boreale. A tutto questo si aggiunga che è ormai certo che rispetto al resto d’Europa l’area mediterranea si scalda più rapidamente e dei vari paesi che vi si affacciano l’Italia è quella che scalda di più. Il pronostico, in assenza di interventi di contenimento del riscaldamento globale, è di un aumento significativo delle ondate di calore, e che saranno amplificate nei contesti urbani con generale incremento dei danni alla salute dovuti a stress termico.

clip_image007L’inquinamento urbano aggrava ulteriormente la situazione. Le città, oltre ad essere quelle che da sole contribuiscono ad oltre la metà delle emissioni di gas serra, sono anche quelle che rilasciano sostanze quali anidride solforosa, ossido di azoto, monossido di carbonio, benzene, ozono e polveri sottili, compromettendo ulteriormente la qualità dell’aria. Le fonti di queste sostanze sono sia dirette, dovute cioè al traffico, al riscaldamento degli edifici o all’industria, ma anche indirettamente create dall’energia solare che innesca reazioni secondarie che portano alla formazione di nuovi inquinanti.

Secondo ISPRA le soglie di tolleranza consentite per ozono o polveri sottili è stato superato per oltre 30 giorni in dozzine di aree urbane.

 

Ne consegue che un aumento delle temperature e dell’irraggiamento, unito a modifiche nella circolazione e nella dispersione, rendono le città poli di aggregazione e concentrazione di questi composti. Uno degli effetti diretti sulla salute dei cittadini è l’aumento delle reazioni allergiche di varia natura e non solo: numerosi studi epidemiologici indicano che, tra le conseguenze dell’aumento delle temperature che continueranno ad interessare la Terra, sarà inevitabile la convivenza con un numero di malattie crescente, globalmente diffuse. Aumenteranno le malattie tipiche dei climi tropicali che quelle causate da agenti patogeni finora assenti o del tutto sconosciuti e, per niente trascurabile, la comunità scientifica internazionale ritiene che con l’aumentare delle temperature si diversificheranno anche le mutazioni e le aree di influenza di virus e batteri zoonotici, cioè quelli capaci di trasmettere le malattie dagli animali all’uomo, come nel caso della recente pandemia. Ancora, la promiscuità e la concentrazione tipica degli ambienti urbani agirà da amplificatore e i fenomeni di zoonosi diventeranno sempre più frequenti nei prossimi anni.

clip_image009La disponibilità d’acqua è un altro elemento che renderà le città ancora più vulnerabili, soprattutto quelle che storicamente dipendono da fonti di approvvigionamento limitate.

Città che dipendono esclusivamente dai prelievi fluviali hanno già messo in evidenza quanto la siccità possa essere un evento più frequente del previsto, nonostante in Italia piova a sufficienza, ma sappiamo anche che l’importante non è solo ovviamente quanto piove, ma quando e soprattutto come: episodi di precipitazioni violente (quelle che i media hanno platealmente soprannominato bombe d’acqua) non contribuiscono alla ricarica delle falde.

In Italia andiamo da un minimo di 15 miliardi di metri cubi in luglio a due picchi massimi, tra aprile e maggio con 27 e da novembre a dicembre, con 33. I vegetali seguono un ritmo adattato, con un picco a giugno di evaporazione di circa 25 miliardi di metri cubi che corrispondono a poco più delle precipitazioni medie del periodo.

clip_image011In un mio post passato il tema relativo all’acqua è stato affrontato in dettaglio, compreso quello degli sprechi.

A questi problemi, come se non bastasse, vanno sommati quelli derivanti da eventi meteorologici estremi che renderanno allagamenti ed esondazioni fenomeni sempre più frequenti: Milano ha avuto, nel corso del solo 2019, 23 eventi totali di cui 18 dovuti a esondazioni dei soliti Seveso e Lambro, ed sono di queste ore le notizie che giungono da quelle zone. Maggio, statistiche alla mano, è per l'Italia un mese particolarmente piovoso. Il che significa che maggio è ormai il mese, per la nuova normalità climatica, da cui attendersi eventi estremi di questo tipo. A Roma, tra 2010 e 2019 si sono verificati 18 allagamenti intensi a seguito di piogge concentrate nel tempo.

 

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clip_image013Anche negli scenari con cambiamento più contenuto, l’Italia evidenzia una tendenza generalizzata all’aumento di frequenza e intensità di fenomeni di precipitazione su tutto il territorio nazionale, con un incremento del rischio meteorologico estremo di circa il 9%. Nelle aree urbane gli effetti collaterali dannosi ne saranno quindi amplificati.

Ovviamente l’assetto territoriale, le condizioni geografiche e idrogeologiche del territorio, forma e posizione delle città, contribuiscono a rendere questi ambienti particolarmente esposti a impatti negativi. Aree alluvionali e fondovalle sono stati ampiamente urbanizzati, il consumo del suolo crescente, che trasforma terreni permeabili in superfici impermeabili dovute a strade, piazze, parcheggi, che sostituisce argini e letti naturali di corsi d’acqua in superfici cementificate, contribuisce all’aumento delle onde di piena.

clip_image017Dal secondo dopoguerra in poi il nostro paese ha visto una notevole espansione urbana, con occupazione di aree limitrofe ai corsi d’acqua, impermeabilizzazione della rete idrografica minore, crescita di insediamenti, occupazione di aree collinari e montane in territori fragili, riduzione degli spazi di fiumi e torrenti: tutto questo corrisponde all’acuirsi degli effetti dei fenomeni meteorologici, soprattutto se estremi. In Italia il 91% dei comuni risulta soggetta al pericolo di frane e alluvioni.

Se poi, alle già particolarmente critiche situazioni geomorfologiche, climatiche e meteorologiche, associamo qualità edilizia lontana dall’ottimale, assenza o precarietà delle opere di difesa, la vulnerabilità non può che aumentare.

clip_image019Ripensare il modello urbano per l’esistente è pressoché impossibile ma occorre intervenire in fretta perché le città italiane, che coprono meno del 9% del territorio nazionale, ed ospitano il 56% della sua popolazione. Questo aspetto diventa ancora più importante perché saranno soprattutto le città la meta principale a cui aspireranno i “migranti ambientali” delle inevitabili future ondate migratorie. A titolo di esempio ricordo che a seguito dell’alluvione del Pakistan del 2010 qualcosa come 20 milioni di persone che persero tutto in poche ore furono costretti a spostarsi anche nei paesi confinanti; la Banca Mondiale stima che, entro il 2050, le migrazioni climatiche interesseranno quasi 150 milioni di persone che oggi vivono tra Africa subsahariana, Asia meridionale e America del sud. Le soluzioni abitative, la neutralità in termini di emissioni del tessuto urbano, di un territorio compromesso e in un clima ostile dovranno per forza essere riviste. Per non rischiare di trasformare le città in modo tale da creare ulteriore divario sociale come negli strati verticali della distopica Los Angeles di “Blade runner”.

La nuova normalità climatica rende le città sempre più vulnerabili ed esposte agli effetti di un clima che cambia, in un paese perfettamente adattato a quanto ormai non esiste più.

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Riferimento bibliografico: "Viaggio nell'Italia dell'Antropocene" di Telmo Pievani e Mauro Varotto.