Ho già avuto modo di trattare diversi aspetti dell’argomento legato alla maggiore o minore disponibilità delle risorse idriche (in particolare qui, e anche qui), ma vorrei riprenderne alcuni punti salienti.
Indipendentemente da quale che sia il livello di riscaldamento che assumerà il pianeta, con alcune inarrestabili tendenze, e che dipendono dai tassi di emissione dei gas serra, soprattutto del biossido di carbonio, è fuori discussione che tutta l’umanità dovrà confrontarsi sia con problemi di gestione della sempre più scarsa disponibilità di acqua dolce, e di cattiva qualità, sia di acqua salata sempre più acida e invasiva in termini di salinizzazione delle falde costiere.
In particolare la zona mediterranea, decisamente semi-arida, secondo IPCC prevedono una riduzione della riserva idrica rinnovabile, superficiale e sotterranea, a causa delle modificazioni del flusso fluviale stagionale.
Del totale di acqua che cade (nel grafico la distribuzione dell’altezza di precipitazione annua media, in mm, del periodo 1961-2017 a confronto con il 2017) tra un terzo e la metà viene intercettato dalla vegetazione prima che possa raccogliersi nei corsi d’acqua e torna in atmosfera per evaporazione diretta o per traspirazione vegetale. Dei circa 300 miliardi di metri cubi che piovono in Italia ogni anno, solo considerando l’area agricola qualcosa come 100 miliardi di metri cubi l’anno evaporano o traspirano e tornano in atmosfera. I boschi intercettano circa un terzo di ciò che vi piove sopra: più o meno altri 30-40 miliardi di metri cubi.
E’ evidente che l’aumento delle temperature corrisponde ad un aumento della quantità di acqua che torna in atmosfera per evaporazione e per traspirazione. Il limite nevoso salirà di quota e di latitudine diminuendo il quantitativo di acqua immagazzinata e che parzialmente torna dalla fusione stagionale, come trattato di recente in questo post.
Tutto ciò sarà progressivamente accompagnato da un aumento dei periodi prolungati di siccità, cambiamenti nel regime delle precipitazioni, riduzione delle capacità delle falde e della loro ricarica, con i corsi d’acqua che acquisiranno carattere sempre più torrentizio mettendo a rischio non solo la quantità ma anche la qualità delle acque che, permanendo sempre meno tempo nel sottosuolo, non avranno il tempo necessario a subire i necessari processi di filtraggio e decantazione che le rendono potabili: aumenteranno i fenomeni di eutrofizzazione con incremento della concentrazione di nutrienti e di contaminanti dovuti all’attività umana. Anche l’ossigeno diminuirà creando ambienti anossici che potrebbero dar seguito alla proliferazione di cianobatteri, potenzialmente tossici.
Inoltre, le minori previste precipitazioni saranno affiancate da una loro maggiore intensità, in periodi molto brevi aumentando la necessità di governare situazioni sia legate al drenaggio, sia delle risorse sotterranee che dei depositi superficiali.
Potranno quindi verificarsi situazioni conflittuali dovuti alla gestione delle acque e delle loro priorità tra settore agricolo, civile, industriale ed energetico, soprattutto nella stagione calda. Se consideriamo che attualmente in Italia, quasi la metà del volume di acqua prelevata alla fonte non raggiunge gli utenti finali a causa delle dispersioni dalle reti di adduzione e distribuzione e che alcune delle perdite dipendono anche da prelievi abusivi.
Tornando alla perdita causata dalla progressiva scomparsa delle masse glaciali oltre che causare notevoli ripercussioni sulle temperature locali e sulla disponibilità complessiva di acque dolci, questa causerà aumenti delle portate fluviali invernali e di contro riduzione di quelle estive, con un importante aumento delle popolazioni interessate da fenomeni alluvionali.
L’altro grande settore di utilizzo della risorsa idrica è quello agricolo, e l’Italia è tra i paesi europei che fanno maggior ricorso all’irrigazione.
L’agricoltura sopperisce alla scarsità irrigando con acque che sono raccolte in fiumi e falde, che raccoglie tra i 100 e i 150 miliardi di metri cubi l’anno che vanno poi ad alimentare invasi e canali d’irrigazione o centrali idroelettriche, drenando verso il mare.
L’irrigazione richiede tra i 10 e 30 miliardi di metri cubi l’anno, variabilità enorme che dipende dalle condizioni climatiche. Ma mentre l’acqua che viene dalla falda attraverso un pozzo, o dal fiume, e che viene assorbita per fotosintesi o che in parte evapora, è acqua effettivamente consumata, quella che percola e torna in falda o al fiume attraverso il terreno fluirà a valle e potrà diventare la risorsa di un altro. Lo spreco di uno può diventare la fonte di un altro.
L’acqua potabile è l’elemento importante per distinguere tra uso e consumo, acqua che estrae meno di 10 miliardi di metri cubi l’anno dal totale dell’apporto, circa il 3 percento; un volume comparabile all’uso industriale dell’acqua ma tutto sommato entrambi minori perché, anche se a condizioni diverse, gran parte di quest’acqua torna sul territorio.
Tutti questi bisogni in conflitto tra loro, se mal gestiti, illustrano il problema dei fiumi in secca: basta che piova meno o che faccia più caldo e le foreste vanno in sofferenza, aumentando il rischio incendi che generano un feedback negativo sul bilancio gli agricoltori che si trovano costretti ad estrarre più acqua dai fiumi per tentare di compensare e, con i volumi visti, basta davvero poco per portare a estrazioni enormi: l’estate del 2022 è stata emblematica con le ridotte o assenti precipitazioni e le temperature sopra la media.
La siccità appare quindi un sintomo dell’incapacità di riorganizzare usi e bisogni ed è questo che preoccupa a fronte di un cambiamento climatico secolare e in accelerazione. In genere, ad una maggior disponibilità d’acqua corrisponde un uso meno oculato.
E, per proprietà transitiva, la cosa vale per qualsiasi altro tipo di risorsa, come ho evidenziato in un mio precedente post.
Volendo riassumere i molteplici usi della risorsa idrica possiamo prendere la categorizzazione che normalmente viene utilizzata dalle autorità di bacino per effettuare analisi di vario tipo: idroelettrico, irriguo, consumo umano, igienico e assimilati, irrigazione di attrezzature, aree sportive e destinate a verde, pubblico, pescicoltura, industriale e altro ancora.
Per quanto riguarda produzione di energia elettrica e raffreddamento di impianti termoelettrici occorrono circa 19 miliardi di metri cubi d’acqua di cui però soltanto il 12% proviene da acque interne, mentre il restante arriva dal mare.
Entro il 2100 la diminuzione stimata delle portate è pari ad oltre il 40%, sia a causa della diminuzione delle precipitazioni sia per aumento dell’evapotraspirazione dovuta alle maggiori temperature.
I fenomeni di siccità e di riduzione delle portate, uniti a condizioni di sovra-sfruttamento, renderanno i corsi d’acqua e le falde sotterranee costiere più esposti all’azione del mare, con conseguente aumento della salinità delle riserve di acqua dolce. In alcuni casi, come nel delta del Po, l’ingressione del cuneo salino è già un fenomeno in atto.
Gli oceani si scaldano oggi molto più velocemente di quanto sia accaduto in passato e il tasso di riscaldamento è più che raddoppiato con un aumento senza precedenti nel corso dell’ultimo secolo. Per quanto riguarda il Mediterraneo, le anomali su base annua indicano un innalzamento della temperatura superficiale di circa 1,2 °C. L’aumento maggiore nel periodo invernale e primaverile si ha per l’Adriatico, con valori compresi tra 1,5 e 2 °C, mentre nel periodo estivo le anomalie più alte e diffuse si hanno nel Tirreno (circa 1,5 °C). Tutte le aree costiere italiane saranno soggette ad un aumento di temperatura rispetto al periodo 1980-2010, che varia da un minimo di 1,3 °C nelle zone del Mediterraneo centro-occidentale e nel mar Ligure a un massimo di 1,6 °C nell’Adriatico centro-settentrionale.
Del destino delle masse d’acqua salate, aumento della temperatura, espansione termica, capacità termica a lungo rilascio e in asincronia con le superfici emerse, innalzamento del livello medio e acidificazione abbiamo già scritto qui, e non occorre ripetersi.
Senza dune né cammelli…
Il fenomeno della desertificazione non va necessariamente associato con i tipici paesaggi nord-africani fatti di dune, sabbia e rocce né con quelli tipici di alcune ambientazioni dei film western. La desertificazione è più complessa perché è l’insieme dei processi che portano al degrado del suolo e al declino delle potenzialità produttive di un territorio, non solo determinate da cause naturali.
Negli ultimi 30 anni una percentuale stimata tra il 20 e il 30% della superfice terrestre ha mostrato un andamento in calo nella produttività e di questa, qualcosa come il 40% è affetta da fenomeni di desertificazione: la degradazione e l’impoverimento della terra nelle regioni aride coinvolge circa 250 milioni di persone direttamente e si stima che ogni anno si perdano circa 12 milioni di ettari di terreni fertili, più o meno quanto la copertura boscata e forestale del nostro paese. Oltre 100 paesi nel mondo (su 193!) sono coinvolti da fenomeni che riducono la possibilità di produzione alimentare e la biodiversità.
L’Europa ha già il 12% delle terre coltivate con evidenti segni di calo di produttività e un ulteriore 21% è a rischio di desertificazione. Spagna, Portogallo meridionale, Italia, Grecia sud-orientale, Cipro ed alcune aree della Bulgaria e della Romania che si affacciano sul Mar Nero sono in condizioni particolarmente gravi. Quasi il 20% del territorio italiano e greco è interessato da erosione produttiva.
Per quanto riguarda l’Italia il 70% del territorio della Sicilia è a rischio, il 58% in Molise, il 57% in Puglia, il 55% in Basilicata, e una porzione tra il 30 e il 50% in Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Umbria, Abruzzo e Campania. Mediamente il territorio italiano è al 20% in pericolo e presenta già zone con meno del 2% di sostanza organica contenuta nel terreno, soglia per la quale si può iniziare a parlare di deserto.
Le cause sono molteplici e non solo ambientali. E ovviamente non interessano solo il Mediterraneo.
Ovviamente il fenomeno della desertificazione è legato alle precipitazioni in termini di quantità, distribuzione e intensità, all’aumento della temperatura e degli episodi di siccità, da non confondere con l’aridità. Quest’ultima è una caratteristica climatica strutturale, causata da scarsità di precipitazioni cronica, meno di 200-400 mm annui di precipitazione (la media italiana è circa 900-1000 mm/anno), spesso legata a forte evaporazione che sottrae umidità a terreni e vegetazione; la siccità è invece episodica, e può colpire aree meno aride nel caso in cui le precipitazioni di un determinato periodo siano sensibilmente inferiori alla media.
I settori produttivi agroindustriali, necessitanti di un apporto costante e garantito di acqua, non hanno la necessaria resilienza per superare i periodi di siccità, a differenza degli ecosistemi naturali. Occorre inoltre distinguere tra siccità meteorologica, per periodi inferiori a 3 mesi, agronomica, da 3 a 6 mesi, e idrologica, da 6-12 mesi e oltre, che comporta una consistente riduzione delle falde acquifere e delle portate dei corsi d’acqua.
Nelle zone aride, dove l’acqua basta a malapena per uno scarso sostentamento, un periodo di siccità anche breve può portare al collasso del delicato equilibrio tra risorse e produzione, con conseguenti crisi alimentari, abbandono dei territori, migrazioni e conflitti.
I processi che portano alla desertificazione non sono determinati solo o necessariamente da variabili naturali, ma a questi spesso si aggiunge l’opera dell’uomo che utilizza o sfrutta le risorse in modalità competitiva e non sostenibile.
Nonostante l’Italia sia mediamente un paese ricco d’acqua, soprattutto grazie alla presenza di estesi acquiferi nei terreni calcarei e alluvionali che favoriscono l’accumulo nel sottosuolo, la ricchezza di acqua è compromessa da un uso dissennato della risorsa, con prelievi eccessivi, assenza di pianificazione e inquinamento puntiforme ma diffuso di natura urbana, agricola o industriale. L’aumento dei fabbisogni e la concentrazione dei consumi in aree limitate ha spesso portato ad un prelievo eccessivo con abbassamento del livello di falda con conseguenti alterazioni dei rapporti tra gli acquiferi sotterranei e i corsi d’acqua o, come abbiamo visto, ingressione di acque marine e conseguente salinizzazione.
Non ultimi, anche gli incendi innescano un processo che può contribuire alla desertificazione, con effetti negativi su struttura e composizione del suolo e delle comunità vegetali dovute alle alte temperature; possono ad esempio rendere il terreno meno permeabile e quindi più esposto a processi erosivi. Ci sono prove evidente di gravi problemi idrologici sviluppati nella stagione piovosa su terreni precedentemente colpiti da incendi. Negli ultimi 10 anni in Italia sono andati perduti circa 600.000 ettari di bosco, innescati (quasi) sempre da cause non naturali direttamente o indirettamente dovute all’attività dell’uomo.
L’impiego del fuoco per la pulizia dei pascoli o la malacoltivazione di terreni poveri e fortemente acclivi in alcune aree del sud Italia a clima arido o semiarido del bacino del Mediterraneo è costantemente accompagnato da fenomeni di desertificazione.
A volte i processi dei degrado del suolo sono il risultato diretto della meccanizzazione. Paradossalmente, grazie alla sempre maggiore potenza dei mezzi agricoli, in particolare i trattori, molte colture realizzate seguendo le curve di livello del terreno sono state trasformate in percorsi che seguono la massima pendenza dello stesso, aggravando gli effetti sui processi di erosione e ruscellamento delle acque.
Infine, le aree aride e soggette a desertificazione incipiente sono molto più polverose: combattere la desertificazione può avere ricadute positive sulla diminuzione delle masse di sabbia trasportate dal vento anche per centinaia di chilometri, sulle polveri sottili di origine minerale dannose per la salute e ancora, il materiale sabbioso che si deposita in mare, se ricco di ferro come spesso accade, può favorire le condizioni per la proliferazione di fitoplancton che, se da un lato contribuirebbe ad un aumento dei tasso di cattura del biossido di carbonio, d’altra parte potrebbe alterare l’equilibrio dell’ecosistema locale.
Non basta quindi il semplice cambiamento nel regime delle temperature e delle precipitazioni, ma soprattutto di perdita di produttività e di disponibilità idrica spesso indotte da usi impropri e sconsiderati nell’utilizzo del suolo e del territorio.
La parola deserto viene dal latino, desertus, participio passato di deserere, che significa abbandonare. Il “deserto” più pericoloso è proprio l’abbandono. Non accorgersi del deserto che stiamo creando.
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Riferimento bibliografico: "Viaggio nell'Italia dell'Antropocene" di Telmo Pievani e Mauro Varotto.
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