Gli edifici residenziali e quelli commerciali sono presenti soprattutto nelle aree urbane, nelle città, che, ad oggi, vedono risiedere circa il 55% degli esseri umani (secondo stime ONU, nel 2050 si arriverà al 70%) e, cosa ancor più eclatante, il 75% delle emissioni di gas serra ha origine urbana con soltanto 25 mega città che da sole producono oltre il 52 percento delle emissioni mondiali. Le città hanno quindi un'impronta ecologica enorme: complessivamente occupano solamente circa il 3 percento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse globali e rilasciano i tre quarti del totale dei gas serra.
Per quanto gli effetti dell’umanità sulla Terra abbia radici che risalgono probabilmente già ai tempi della comparsa di Homo sapiens, circa 200.000 anni fa, le profonde alterazioni dell’ambiente urbanizzato, soprattutto a partire da un paio di secoli fa, non hanno precedenti, soprattutto per dimensioni, rispetto al passato.
L’aumento della popolazione delle aree urbanizzate ha enormemente contribuito al peggioramento della qualità degli ambienti abitati, a cominciare dai rifiuti prodotti che devono essere, inevitabilmente, portati all’esterno per essere trattati adeguatamente.
Come predetto le aree urbanizzate sono responsabili del consumo di enormi quantità di risorse, in relazione alla superficie occupata, e produce enormi quantità di emissioni serra. Paradossalmente mentre in passato popolazione e spazio occupato crescevano proporzionalmente si sta oggi invece notando che, da qualche decennio, gli spazi occupati crescono più della popolazione con alcuni casi di consumo di suolo in crescita nonostante la popolazione sia in calo.
Se si è previsto un notevole rallentamento se non l’arresto della crescita della popolazione mondiale per i prossimi decenni, così non sarà per quella delle aree urbane.
Alla luce di uno scenario estremo, a seguito di una ipotetica fusione plausibile e parziale delle estensioni glacializzate maggiori, ovvero delle aree polari e della Groenlandia, associata all’espansione termica delle acque degli oceani (argomento trattato qui), il conseguente innalzamento del livello medio dei mari, previsto di 1 metro entro il 2100, metterebbe in estrema difficoltà centinaia di città costiere di tutto il mondo. Il rapporto speciale più recente fornito da IPCC riporta che entro il secolo il livello del mare potrebbe salire dai 26 ai 77 centimetri nel caso di temperature medie più calde dei famosi 1,5 °C sanciti dall’Accordo di Parigi. Negli Stati Uniti sono circa 25 milioni gli abitanti che vivono in territori vulnerabili alle inondazioni, mentre in Europa un terzo della popolazione abita entro 50 km dalla costa. In Italia, in particolare, l’estensione totale delle coste a rischio inondazione è di quasi 6.000 kmq.
Ma quanto legato all’eventuale innalzamento del livello medio del mare è poca roba rispetto ad altri aspetti legati all’urbanizzazione.
I problemi principali delle città dipendono dalla loro estrema vulnerabilità e dall’elevato tasso di esposizione dovuto ai cambiamenti climatici che, in tale contesto ambientale, vedono condensati e amplificati i loro effetti, soprattutto perché interessano un’elevata percentuale della popolazione.
Le città sono infatti mediamente pressoché del tutto cementate e asfaltate, con pochissime aree permeabili e poche aree di carattere naturale, coperte cioè da suolo o vegetazione. La qualità della vita sarà via via peggiore con eventi quali ondate di calore e, di contro, precipitazioni intense, crescenti nel tempo in intensità e frequenza e le categorie più a rischio saranno, come atteso, anziani, bambini e disabili.
Le superfici costruite assorbono la radiazione solare sia direttamente che per riflessione, accumulando calore e liberandolo durante la notte (ecco perché nelle città durante le torride estati la minima non riesce a scendere su valori più tollerabili), cosa che rende le città mediamente più calde dell’ambiente rurale circostante, non potendo nemmeno beneficiare del contributo che la vegetazione offre alla mitigazione della temperatura.
Il calore assorbito si associa a quello prodotto dalla combustione dei carburanti, dagli impianti di climatizzazione e dall’industria.
Il risultato finale è che i centri urbani hanno spesso temperature più elevate di 5-10 °C rispetto alle campagne circostanti, generando isole di calore con temperature notturne particolarmente elevate per effetto del rilascio differito del calore accumulato.
La struttura urbana influisce inoltre moltissimo sulla circolazione dell’aria impedendo la ventilazione e quindi limitando la dispersione del calore.
Recentemente si è visto come il sud-est asiatico e l’India stiano soffrendo una gravissima crisi climatica. L'India è storicamente soggetta a ondate di caldo estremo tra maggio e giugno, ma da qualche anno il caldo insopportabile arriva sempre prima e dura sempre più a lungo e nelle città si sono registrate temperature anche di 47 °C imponendo al governo decisioni mai prese in passato, quali la chiusura delle scuole per lo meno fino al prossimo 30 giugno.
L’andamento riscontrato in Italia risulta in linea con quanto osservato nel resto d’Europa e, in generale, su gran parte dell’emisfero nord: gli episodi di caldo intenso sono aumentati ovunque. Tra i vari lavori scientifici sull’argomento, uno dei più recenti è stato pubblicato nel 2020 sulla rivista Nature. Lo studio mostra un incremento, negli ultimi sessant’anni, sia della frequenza sia dell’intensità delle ondate di calore praticamente in tutto il mondo e in particolare nell’emisfero boreale. A tutto questo si aggiunga che è ormai certo che rispetto al resto d’Europa l’area mediterranea si scalda più rapidamente e dei vari paesi che vi si affacciano l’Italia è quella che scalda di più. Il pronostico, in assenza di interventi di contenimento del riscaldamento globale, è di un aumento significativo delle ondate di calore, e che saranno amplificate nei contesti urbani con generale incremento dei danni alla salute dovuti a stress termico.
L’inquinamento urbano aggrava ulteriormente la situazione. Le città, oltre ad essere quelle che da sole contribuiscono ad oltre la metà delle emissioni di gas serra, sono anche quelle che rilasciano sostanze quali anidride solforosa, ossido di azoto, monossido di carbonio, benzene, ozono e polveri sottili, compromettendo ulteriormente la qualità dell’aria. Le fonti di queste sostanze sono sia dirette, dovute cioè al traffico, al riscaldamento degli edifici o all’industria, ma anche indirettamente create dall’energia solare che innesca reazioni secondarie che portano alla formazione di nuovi inquinanti.
Secondo ISPRA le soglie di tolleranza consentite per ozono o polveri sottili è stato superato per oltre 30 giorni in dozzine di aree urbane.
Ne consegue che un aumento delle temperature e dell’irraggiamento, unito a modifiche nella circolazione e nella dispersione, rendono le città poli di aggregazione e concentrazione di questi composti. Uno degli effetti diretti sulla salute dei cittadini è l’aumento delle reazioni allergiche di varia natura e non solo: numerosi studi epidemiologici indicano che, tra le conseguenze dell’aumento delle temperature che continueranno ad interessare la Terra, sarà inevitabile la convivenza con un numero di malattie crescente, globalmente diffuse. Aumenteranno le malattie tipiche dei climi tropicali che quelle causate da agenti patogeni finora assenti o del tutto sconosciuti e, per niente trascurabile, la comunità scientifica internazionale ritiene che con l’aumentare delle temperature si diversificheranno anche le mutazioni e le aree di influenza di virus e batteri zoonotici, cioè quelli capaci di trasmettere le malattie dagli animali all’uomo, come nel caso della recente pandemia. Ancora, la promiscuità e la concentrazione tipica degli ambienti urbani agirà da amplificatore e i fenomeni di zoonosi diventeranno sempre più frequenti nei prossimi anni.
La disponibilità d’acqua è un altro elemento che renderà le città ancora più vulnerabili, soprattutto quelle che storicamente dipendono da fonti di approvvigionamento limitate.
Città che dipendono esclusivamente dai prelievi fluviali hanno già messo in evidenza quanto la siccità possa essere un evento più frequente del previsto, nonostante in Italia piova a sufficienza, ma sappiamo anche che l’importante non è solo ovviamente quanto piove, ma quando e soprattutto come: episodi di precipitazioni violente (quelle che i media hanno platealmente soprannominato bombe d’acqua) non contribuiscono alla ricarica delle falde.
In Italia andiamo da un minimo di 15 miliardi di metri cubi in luglio a due picchi massimi, tra aprile e maggio con 27 e da novembre a dicembre, con 33. I vegetali seguono un ritmo adattato, con un picco a giugno di evaporazione di circa 25 miliardi di metri cubi che corrispondono a poco più delle precipitazioni medie del periodo.
In un mio post passato il tema relativo all’acqua è stato affrontato in dettaglio, compreso quello degli sprechi.
A questi problemi, come se non bastasse, vanno sommati quelli derivanti da eventi meteorologici estremi che renderanno allagamenti ed esondazioni fenomeni sempre più frequenti: Milano ha avuto, nel corso del solo 2019, 23 eventi totali di cui 18 dovuti a esondazioni dei soliti Seveso e Lambro, ed sono di queste ore le notizie che giungono da quelle zone. Maggio, statistiche alla mano, è per l'Italia un mese particolarmente piovoso. Il che significa che maggio è ormai il mese, per la nuova normalità climatica, da cui attendersi eventi estremi di questo tipo. A Roma, tra 2010 e 2019 si sono verificati 18 allagamenti intensi a seguito di piogge concentrate nel tempo.
Anche negli scenari con cambiamento più contenuto, l’Italia evidenzia una tendenza generalizzata all’aumento di frequenza e intensità di fenomeni di precipitazione su tutto il territorio nazionale, con un incremento del rischio meteorologico estremo di circa il 9%. Nelle aree urbane gli effetti collaterali dannosi ne saranno quindi amplificati.
Ovviamente l’assetto territoriale, le condizioni geografiche e idrogeologiche del territorio, forma e posizione delle città, contribuiscono a rendere questi ambienti particolarmente esposti a impatti negativi. Aree alluvionali e fondovalle sono stati ampiamente urbanizzati, il consumo del suolo crescente, che trasforma terreni permeabili in superfici impermeabili dovute a strade, piazze, parcheggi, che sostituisce argini e letti naturali di corsi d’acqua in superfici cementificate, contribuisce all’aumento delle onde di piena.
Dal secondo dopoguerra in poi il nostro paese ha visto una notevole espansione urbana, con occupazione di aree limitrofe ai corsi d’acqua, impermeabilizzazione della rete idrografica minore, crescita di insediamenti, occupazione di aree collinari e montane in territori fragili, riduzione degli spazi di fiumi e torrenti: tutto questo corrisponde all’acuirsi degli effetti dei fenomeni meteorologici, soprattutto se estremi. In Italia il 91% dei comuni risulta soggetta al pericolo di frane e alluvioni.
Se poi, alle già particolarmente critiche situazioni geomorfologiche, climatiche e meteorologiche, associamo qualità edilizia lontana dall’ottimale, assenza o precarietà delle opere di difesa, la vulnerabilità non può che aumentare.
Ripensare il modello urbano per l’esistente è pressoché impossibile ma occorre intervenire in fretta perché le città italiane, che coprono meno del 9% del territorio nazionale, ed ospitano il 56% della sua popolazione. Questo aspetto diventa ancora più importante perché saranno soprattutto le città la meta principale a cui aspireranno i “migranti ambientali” delle inevitabili future ondate migratorie. A titolo di esempio ricordo che a seguito dell’alluvione del Pakistan del 2010 qualcosa come 20 milioni di persone che persero tutto in poche ore furono costretti a spostarsi anche nei paesi confinanti; la Banca Mondiale stima che, entro il 2050, le migrazioni climatiche interesseranno quasi 150 milioni di persone che oggi vivono tra Africa subsahariana, Asia meridionale e America del sud. Le soluzioni abitative, la neutralità in termini di emissioni del tessuto urbano, di un territorio compromesso e in un clima ostile dovranno per forza essere riviste. Per non rischiare di trasformare le città in modo tale da creare ulteriore divario sociale come negli strati verticali della distopica Los Angeles di “Blade runner”.
La nuova normalità climatica rende le città sempre più vulnerabili ed esposte agli effetti di un clima che cambia, in un paese perfettamente adattato a quanto ormai non esiste più.
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Riferimento bibliografico: "Viaggio nell'Italia dell'Antropocene" di Telmo Pievani e Mauro Varotto.
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