Esistono davvero le «guerre per l’acqua»?

Risposta breve. No.

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Il bacino idrografico dei principali fiumi europei

Metà del territorio terrestre è attraversato da 300 bacini fluviali transnazionali. In Europa Reno e Danubio sono esemplificativi di questa transnazionalità, l’acqua scorre, non conosce confini. Il Danubio è considerato il fiume più internazionale del mondo scorrendo entro i confini di dieci paesi: Germania (7,5% del bacino idrografico), Austria (10,3%), Slovacchia (5,8%), Ungheria (11,7%), Croazia (4,5%), Serbia, Bulgaria (5,2%), Romania (28,9%), Moldavia (1,7%) e Ucraina (3,8%). Il suo bacino idrografico comprende parte di altri nove paesi: Italia (0,15%), Polonia (0,09%), Svizzera (0,32%), Repubblica Ceca (2,6%), Slovenia (2,2%), Bosnia ed Erzegovina (4,8%), Montenegro, Macedonia del Nord e Albania (0,04%).

clip_image004Il carattere transnazionale dell’acqua che scorre pone da sempre il problema della sovranità, delle potenzialità di azione e gestione dei diversi paesi interessati dalle acque dello stesso fiume, dalle possibilità di conflitto che potrebbero nascere tra paesi che si affacciano a sponde contrapposte quando i fiumi, come da millenni accade, siano usati come confini naturali, o tra paesi a monte ed a valle dei corsi d’acqua. Fin dalle prime civiltà mesopotamiche le città si sviluppavano lungo i corsi d’acqua, non potendo allontanarsi dalla risorsa che evitava loro l’aridità, ed entrando in contatto, spesso conflittuale, con quelle vicine man mano che si estendevano.

Molto spesso, con conflitti internazionali che divampano in quasi tutti i continenti e un profondo aumento della frequenza di siccità, la tesi delle «guerre per l’acqua» viene sistematicamente riproposta dalla maggioranza dei media o strumentalmente sbandierata dai politici. E’ proprio di questi giorni la dichiarazione del primo ministro israeliano ha fatto interrompere agli abitanti della Striscia di Gaza le forniture di luce, gas, carburanti, e acqua ovviamente.

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In passato si è tentato in modi diversi di gestire il problema della sovranità nazionale in relazione con i corsi d’acqua che attraversano paesi diversi, partendo dalle tesi a favore di una sovranità territoriale assoluta, che assegnerebbe ad un paese il diritto di utilizzare le acque che scorrono sul suo territorio come meglio creda, anche a danno dei paesi che condividono la risorsa idrica. Immaginate, ad esempio, l’enorme potere che avrebbe la Slovenia nei confronti dell’Isonzo.

Fortunatamente il diritto internazionale ritiene pessima questa visione della gestione, soprattutto perché i fiumi, nel loro naturale fluire, si spostano, creando o distruggendo territorio a seconda dei casi, con conseguenze problematiche per i paesi di confine. La storia del delta del Po’, inoltre pesantemente influenzato dall’opera umana, ne è un esempio.

clip_image008Un’altra visione è quella dell’integrità territoriale assoluta, che imporrebbe vincoli ai paesi a monte per proteggere quelli a valle: anche in questo caso il diritto internazionale non approva questa modalità, di cui un caso famoso è quello dell’Egitto che reclama diritti assoluti sul Nilo a monte, e quindi nei confronti del Sudan per cominciare, o dell’Etiopia.

Con queste due tesi entrambe lesive ora dell’una ora dell’altra parte si è andata affermando quella della sovranità territoriale limitata: nel caso l’acqua attraversi o sia essa stessa il confine tra due paesi nessuna delle due parti può vantare diritti assoluti su essa, con un’idea vecchia di secoli visto che già Bartolo da Sassoferrato, giurista del XIV secolo, si chiedeva chi vantasse diritti su terre emerse dopo un’alluvione del Tevere.

Comunque la si veda la cosa genera un equivoco: il concetto delle «guerre per l’acqua» ovvero, l’ipotesi tutta da dimostrare, che limitare la sovranità territoriale sulle acque condivise generi instabilità, conflittualità, che i problemi idrici siano precursori di quelli della sicurezza. La storia, e persino ricerche sociologiche e scientifiche, dimostrano che così non è, anzi, normalmente, la condivisione delle risorse idriche genera stabilità o può essere usata per riportare a condizioni di cooperazione e sicurezza reciproche.

clip_image010Non si può negare che le infrastrutture idriche possano essere un obiettivo militare, rappresentare tasselli strategici utilizzati da sempre: i Visigoti ai danni di Roma nel V secolo, sabotando l’afflusso di alcuni acquedotti e addirittura tentando di usarne le canalizzazioni sotterranee per entrare in città, e ancora più recentemente, quando le forze russe hanno interrotto l’approvvigionamento idrico di Mariupol’. L’acqua può ovviamente anche essere un’arma, come testimoniato dal sabotaggio della diga di Nova Kachovka lo scorso giugno, che ha rilasciato a valle qualcosa come 18 miliardi di metri cubi d’acqua. Azione comunque non certo unica nella storia: l’inondazione dell’Yser nella Prima Guerra Mondiale, la diga sul Dnipro fatta saltare dall’Armata Rossa per fermare l’avanzata tedesca nel 1941, e non ultima la distruzione delle grandi pompe che tenevano asciutto l’Agro Pontino da parte dei tedeschi tra l’ottobre del 1943 e il marzo del 1944, in piena stagione delle piogge (aggravato dalla ripresa e dall’estensione della malaria). Infine, non va dimenticato che i fiumi hanno sempre rappresentato elementi fondamentali per la tattica militare: dall’essere barriere geografiche rapidamente trasformabili in limiti pressoché invalicabili, facendo saltare o controllandone tutti i ponti, al rappresentare ostacoli di varia natura lungo le cui sponde spesso si svolgono le battaglie più intense (la Marna, la Somme, l’Isonzo, il Piave, il Tagliamento nella Prima Guerra Mondiale; la Mosella, il Reno, il Don o il Volga a Stalingrado nella seconda).

Ma anche se l’idrografia è parte del teatro di guerra ciò non significa che ne sia la causa. Nemmeno quando le condizioni ambientali diventano difficili si è riscontrato un nesso causale diretto con i conflitti. L’impegno militare, una guerra, non sono mai conseguenze dirette di condizioni materiali: ricorrere alla guerra è una scelta che non ha nulla a che fare, e per tornare all’acqua come risorsa, se la sua scarsità dovesse giustificare un conflitto fornirebbe ai politici un comodo alibi a coprire le loro responsabilità o la loro incapacità negoziale e impedirebbe alla comunità di esprimere opinioni o giudizi.

Ogni volta che si chiama in causa un fattore esterno a limitare la nostra responsabilità, una scusa insomma, il sospetto che sia strumentale deve essere immediato.

clip_image012Le guerre non si combattono mai solo per l’acqua e anzi, questa non impone conflitti ma addirittura aiuta a mitigarli. Ritornando al Danubio, ed alla sua presenza diretta o indiretta su ben 19 paesi europei, è possibile capire come una situazione idrica complessa spinga più alla cooperazione che al conflitto: quei 300 bacini fluviali che attraversano diversi confini nazionali per metà del territorio della Terra, devono essere visti come altrettanti strumenti di pace, allo scopo di concepire istituzioni valide affinché siano trasformati in strumenti efficaci di diplomazia. Nell’ottica inclusiva del Pontifex romano, il “costruttore di ponti”.

clip_image014La tesi delle «guerre per l’acqua» nasce moltissimo tempo fa ed è conseguenza diretta della diffusione mediatica di quel che oggi definiremmo un meme, per imitazione, non sempre virtuosa. Una delle più famose è quella che ha visto contrapposte Giordania ed Israele nella gestione del fiume Giordano, dove l’acqua giocò sì un ruolo chiave nel conflitto ma non ne fu la causa perché la valle del Giordano è sempre stata arida e, un paradosso solo apparente, la stessa acqua, le condizioni idriche difficili, facilitarono la pace quando l’Egitto, anni dopo, offrì le proprie acque ad Israele allo scopo di trovare un compromesso e favorire la stabilità regionale.

Questa tesi continuò a prendere corpo, generando un equivoco strumentalizzato soprattutto dai media, quando alla fine degli anni ’80, e poi ancora nel 1995, due egiziani di spicco, Boutros Booutros-Ghali, allora ministro di Saddat e poi Segretario Generale dell’ONU, e Ismail Serageldin, vicepresidente della Banca Mondiale, iniziarono a paventare la possibilità che conflitti futuri sarebbero stati combattuti per l’acqua; ma erano posizioni puramente retoriche o errori, come nel secondo caso, commessi nel tentativo di attirare l’attenzione sull’importanza della gestione dell’acqua. Tutti i media internazionali più importanti presero quel Water Wars per oro colato proiettando nel futuro terribili previsioni del tutto ingiustificate. Dozzine di studi sono stati compiuti allo scopo, e non emerge alcuna evidenza empirica che attribuisca all’acqua la causa diretta di un conflitto. E’ una scorciatoia per trasmettere l’urgenza, come il catastrofismo.

La storia e i fatti dimostrano, anche se con dinamiche complesse, che i problemi transnazionali nella gestione delle risorse idriche, generano più cooperazione e collaborazione che conflitto e ci sono molti esempi di come, nel tempo, pur in presenza di tensioni o stati conflittuali, il governo della risorsa idrica comune non sia stato da questi influenzato.

Qualche storia recente

In Cina sono state costruite centinaia di dighe di piccole dimensioni ed una dozzina di dighe gigantesche nel bacino del Mekong. Ma non c’è stato né ci sono le evidenze per paventare la tesi di un conflitto, la cui causa sia l’acqua, tra il gigante asiatico e i paesi a valle, Thailandia, Cambogia, Laos e Vietnam. Anzi, è stato dimostrato scientificamente che la regolazione che le dighe del corso superiore offrivano nella gestione del fiume a valle erano un beneficio per tutti, più o meno confermato anche in occasione dei fenomeni estremi causati da El Niño nel 2010 (ne ho parlato qui) quando la gigantesca Diga delle Tre Gole sul Fiume Azzurro protesse da inondazioni catastrofiche i territori meridionali della Cina.

E con l’acqua fluiscono anche altre risorse, anche non materiali, come le competenze tecniche e scientifiche che consentono ad un paese di allargare la propria sfera di influenza, esattamente quel che ad esempio fecero gli Stati Uniti già con Truman nei confronti dei paesi in via di sviluppo.

Col cessare del colonialismo britannico emerse immediatamente come la suddivisione più o meno netta, e artificiosa, del bacino dell’Indo tra Pakistan e India, creasse non pochi problemi avendo lasciato, in pratica, la maggior parte della terra irrigata al Pakistan e le infrastrutture, i rubinetti, all’India. Questa cosiddetta «partizione del 1947» scatenò forse la più grande migrazione umana del XX secolo: qualcosa come 15 milioni di persone attraversarono i confini in un verso o nell’altro affiancati da migliaia di vittime causate da operazioni di pulizia etnica. Solo negli anni ’60 si ebbe un trattato, imperfetto ma rispettato, e che ha resistito al divenire di entrambi i paesi potenze nucleari e ad una serie di conflitti grandi e piccoli.

clip_image016Ancora il Nilo. La costruzione della gigantesca diga del Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) da parte dell’Etiopia sul Nilo Azzurro, principale affluente del Nilo con ben l’85% del flusso totale che raggiunge l’Egitto, ha ovviamente generato e sta tuttora creando posizioni contrapposte tra i paesi interessati, Sudan compreso, ma non situazioni tali da fare temere in un loro acuirsi. La strada è sempre quella cooperativa con l’Etiopia, che sta dimostrando che, a serbatoio pieno, l’impianto idroelettrico sarà un consumatore minimo e il Sudan potrà beneficiare di un flusso più regolare mentre l’Egitto potrà contare sulla diga di Assuan per qualsiasi riduzione temporanea, visto che questa contiene il doppio del flusso annuale del Nilo. O in altre occasioni la risorsa idrica è stata utilizzata come deterrente più o meno come si faceva con gli arsenali nucleari durante la Guerra Fredda.

Conclusioni

clip_image018In definitiva, l’acqua è troppo importante per essere oggetto di guerra. Non basta per garantire la pace ma, non avendo sostituti, non può non costringere i paesi a cooperare per una gestione comune. La cooperazione è la chiave per la sopravvivenza e, in tempi recentissimi, con la siccità della primavera del 2022, è esemplificativo quanto accaduto tra talebani e forze iraniane, laddove il fiume Helmand attraversa il confine tra l’Afghanistan e l’Iran. I talebani hanno reagito ai tentativi, spesso presunti, di scavare nuovi canali; di contro i contadini iraniani, alle prese da anni con problemi di siccità e infrastrutture insufficienti o inadeguate, hanno reagito e protestato per le minacce di interruzione del flusso e, tanto per cominciare, una marea di persone affamate ed assetate ha attraversato il confine, creando ulteriori pressioni sulle autorità iraniane. Il fiume Helmand drena il 40% del territorio afgano ed è una fonte d’acqua per l’Iran. Un trattato c’è, anche se imperfetto, ma mancano istituzioni migliori per cooperare, da ambo le parti.

Il deterioramento della sicurezza idrica portato dal cambiamento climatico ci obbliga nell’interesse di tutti, ad aiutare i paesi a cooperare, senza confini.

Considerando un punto di vista idrico la situazione storica e drammaticamente attuale, tra Russia e Ucraina merita un post a parte.

Nota bibliografica. Liberamente ispirato dal cap. VI di “Siccità. Un paese alla frontiera del clima”. Di Giulio Boccaletti, 2023.

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