Dissipare. Dilapidare. Sprecare. Sperperare. Sciupare. Scialacquare.

Un antico proverbio Navajo dice: «non ereditiamo la terra dai nostri antenati, ma la prendiamo in prestito dai nostri figli».


La Global Footprint Network, società senza scopo di lucro, dal 2003 svolte innumerevoli attività in campo ecologico, a cominciare dal calcolo e dalle valutazioni dell’impronta ecologica che l’umanità lascia, con tutte le sue attività, sul nostro pianeta; tra le tante cose si occupa anche di calcolare un curioso parametro, il cosiddetto “Earth Overshoot Day”.

Immaginate che abbiate vinto alla lotteria o, visto come la penso, che abbiate ricevuto una cospicua eredità che vi fornisca un budget annuale con gli interessi che matura. Però ai primi di maggio lo avete già speso tutto e vi tocca andare a lavorare oppure intaccare il capitale, o dovrete fare debiti. L’anno successivo accadrà lo stesso, e i debiti si accumuleranno inesorabili, debiti che a un certo punto qualcuno dovrà saldare, e anno dopo anno quella data si avvicina sempre più all’inizio dell’anno finché, uno di questi a venire, sarete già indebitati al 1° gennaio.

E’ quanto sta accadendo in Italia e nel mondo nel rapporto tra le attività umane e le risorse naturali.

Quest’anno l’Earth Overshoot Day è caduto il 1° di agosto. I dettagli sul calcolo sono disponibili qui. Nel 1972 era il 10 dicembre, negli anni Ottanta è passato da novembre a ottobre e nel 2000 cadde il 22 settembre per poi velocemente galoppare fino al 1° agosto attuale. Questo è il giorno in cui, sui 365 giorni totali, l’umanità raggiunge la soglia di consumo di risorse naturali pari alla capacità della Terra di rigenerarle. Segna cioè la data in cui la domanda di risorse e servizi ecologici dell'umanità in un dato anno supera ciò che la Terra può rigenerare in quell'anno. Per sostenere questo deficit, proprio come l’ereditiero spendaccione, si liquidano le scorte di risorse ecologiche e si accumulano rifiuti, principalmente anidride carbonica nell'atmosfera.


Il termine «sostenibile», oggi abusato, aveva in origine un significato legato al mondo forestale: gestire una foresta tagliando soltanto quanto possa rigenerarsi nella stagione successiva. In breve, se mettiamo su un piatto della bilancia le risorse che la Terra è in grado di rigenerare ogni anno, la cosiddetta biocapacità, e se l’umanità consumasse ogni anno la stessa quantità di risorse, allora questa capacità planetaria sarebbe sostenibile. Purtroppo da oltre mezzo secolo non è più così e ci si allontana sempre di più dal punto di equilibrio.

Al passaggio di quella data si inizia ad andare oltre, a fare debiti che graveranno soprattutto sulle generazioni successive; da quel giorno viviamo al di sopra delle nostre possibilità. E siccome la mente umana è scarsamente preparata a gestire sistemi complessi, in senso metaforico e matematico, e non è affatto facile valutare l’impatto di tutte le attività umane, le retroazioni e gli effetti moltiplicativi del consumo e della distruzione delle risorse, c’è qualcuno che sostiene che quei calcoli siano addirittura sottostimati. E tutto questo nonostante il produrre per uno e consumare per quasi due possa essere squilibrato dal fatto che ci sono paesi che consumano fino a dieci volte più di altri.


E che questo parametro sia concreto è dimostrato dalla retrocessione del 2020, causata dalla pandemia di Covid-19, quando fu risospinto in avanti fino al 22 agosto, tre settimane dopo rispetto al 2019. Per soddisfare le nostre esigenze è stato calcolato che avremmo bisogno di 1,7 pianeti Terra e prima del 2050 saremo a 2 pianeti interi. Ma ne abbiamo uno solo, e le colonizzazioni marziane lasciamole agli scrittori di fantascienza come Bradbury o Weir.

Ovviamente sono medie, come il famoso un pollo e mezzo a testa in cui una delle teste si chiede che fine abbia fatto il mezzo pollo non pervenuto affatto sulla sua tavola.


Ci sono paesi che mostrano fortissime disparità con altre nazioni, tra questi l’Italia, in preoccupante settima posizione e con il suo overshoot day a metà maggio, addirittura sopra la Cina (che ha comunque un territorio enormemente maggiore in grado di assorbire gas serra). Pur tenendo in considerazione le osservazioni correttive fatte da alcuni scienziati, questa data non è un giochino per statistici, ma ha conseguenze nefaste sulle inevitabili conseguenze sulle inconsapevoli ed incolpevoli generazioni future.

All’insicurezza climatica se ne aggiunge una anche più pericolosa: l’insicurezza strutturale. Le maggiori riviste scientifiche mondiali, da quando è scattata l’infame guerra di aggressione contro l’Ucraina, stanno segnalando che il consumo crescente di risorse non rinnovabili aumenta la dipendenza da paesi inaffidabili, destabilizza intere regioni, genera conflitti e, ovviamente, fa aumentare i prezzi.

Il ritardo ormai trentennale nella transizione verso risorse rinnovabili, verso la riduzione dei consumi evitando gli sprechi dovuti all’apparente sontuosità del budget, dovrebbe condurci a rimarcare di più nel dibattito pubblico le gravi responsabilità di chi per tutto questo tempo, in buona o cattiva fede, ha contribuito a tale lentezza con argomenti speciosi e confusivi.

A quanto pare il dibattito pubblico in tal senso è amaramente assente. Forse perché argomenti come questo comportano scenari di processi troppo vasti e complicati per la nostra mente, tra l’altro per nulla abituata a ragionare in termini di benefici futuri lontani nel tempo, avidamente attaccata all’egoismo dell’oggi e subito. Dovremmo ripensare chi siamo e non vogliamo farlo, soprattutto in alcuni paesi estremamente ricchi di risorse naturali al punto da poterne sprecare a scapito del resto del mondo. Ed è proprio in questi contesti che si lascia la strada aperta ai negazionisti, ai complottisti, agli scettici del no a tutto che sbandierano i loro «va tutto bene!».

Certo, e ne scrissi qui, non deve mancare la speranza nel progresso, nel miglioramento delle capacità della Terra di rigenerare risorse, con nuove tecnologie in grado di moltiplicare l’efficienza di sfruttamento delle energie rinnovabili, nel perfezionamento di specie vegetali e animali e soprattutto nella ridistribuzione della ricchezza e nella drastica riduzione degli sprechi.

O forse ha ragione il grande naturalista David Attenborough, che con pessimismo disse: «chi crede nella crescita infinita su un pianeta fisicamente finito o è un pazzo o è un economista».

Personalmente resto ottimista, la creatività umana riuscirà prima o poi a trovare la soluzione che consentirà ad Homo sapiens di soggiornare ancora un po’ sulla Terra. Purché non si arrivi a quel punto già piuttosto malridotti come un ottantenne che potrà vivere fino a cento anni grazie ai progressi della medicina e della farmacologia…ma completamente rimbambito.

Ripeto, «non ereditiamo la terra dai nostri antenati, ma la prendiamo in prestito dai nostri figli».



Siamo un paese (bio)diverso

 

biodiversità

È di questi giorni la notizia che la Giunta Regionale abruzzese ha votato una delibera che prevede, a partire dal prossimo ottobre, l’abbattimento di 500 cervi, per contenere l’espansione di questi animali che furono appositamente reintrodotti in alcune zone della regione molti anni fa, talmente diffusi che li si può incontrare a volte tranquillamente a spasso di giorno nelle strade di alcuni paesi.

Non entro nel merito della decisione per non andare fuori tema, (personalmente non concordo, comunque occorre fare chiarezza sulla scarsa applicabilità delle alternative) ma ho voluto scrivere qualcosa sul difficile rapporto tra la ricerca del ritorno alle origini, del selvatico, e il necessario equilibrio con le esigenze territoriali mirate alla nostra stessa presenza, territori giunti fino a noi non tanto nonostante, quanto grazie alle trasformazioni attuate dalla nostra specie.

orso a spasso in abruzzo

Orsi, lupi, cinghiali, gatti selvatici, lontre, sciacalli dorati, linci, castori, cervi e immancabili volpi. Come fantasmi a quattro zampe si aggirano di notte, diffidenti e territoriali, scendono dai boschi verso le periferie di paesi e persino città, attratti dalla disponibilità e dall’abbondanza di cibo, pur temendo l’uomo

cinghiali per roma

Eppure ci sono più animali selvatici nelle favole che nel mondo. Il grado di antropizzazione è talmente elevato che se pesassimo tutti i mammiferi della Terra scopriremmo che oltre il 60 percento è rappresentato da animali da allevamento e un altro 30 percento abbondante è dato dal genere umano: quel che resta, solo il 4 percento, è dato dalla fauna selvatica, minacciato dalla caccia indiscriminata, dalla frammentazione degli habitat, da barriere rappresentate da strade senza attraversamenti per animali, da coltivazioni e urbanizzazioni pressoché infinite come ad esempio in Pianura Padana.

lontra
Ciò nonostante, siamo il paese che in Europa può vantare, quasi miracolosamente, la più alta biodiversità di piante e animali. Grazie alla conformazione irregolare del suo territorio, alla diversità degli ambienti e alla sua posizione di corridoio mediterraneo, in Italia vivono qualcosa come 10.000 specie di piante vascolari e 60.000 specie di animali. Da millenni siamo un laboratorio di biodiversità che si riflette anche della diversità culturale, linguistica e gastronomica del nostro paese.


Ma è una biodiversità a
rischio continuo.

È così che l’Italia selvatica non è ancora scomparsa del tutto, e addirittura rispunta, anche sottoforma di mandrie di cervi insostenibili. 

Consentitemi una divagazione. RaiPlay propone da anni diverse stagioni di una serie bellissima: Wild Italy, scritta, diretta, gestita e raccontata dal grandissimo Francesco Petretti, membro del comitato scientifico del WWF. Ne vedrete di incredibili...

La legge dichiara che la fauna selvatica è «patrimonio indisponibile dello Stato», i ripopolamenti selettivi sono stati voluti in numerose regioni (si pensi all’orso bruno in Trentino e in Alto Adige), l’abbandono delle montagne ha causato l’espansione dei boschi a favorire la diffusione delle specie selvatiche molto interessate ai nostri cervi, caprioli e camosci, e così piccoli branchi di lupi si sono ormai insediati stabilmente lungo tutta la penisola, dall’arco alpino fino alle Murge passando per la Maremma, sono stati visti persino sulle spiagge della Tenuta di San Rossore, l’isola ecologica protetta dal suo stato di tenuta riservata della Presidenza della Repubblica, oltre ad essere una splendida azienda agricola.

Oltre agli ormai residenti cervi, gli orsi marsicani, unici al mondo ed esclusivi di quelle zone d’Abruzzo, curiosi e golosi, passeggiano nelle strade dei piccoli paesi, e sono a rischio di estinzione dato l’esiguo numero di femmine adulte.

lupo appenninico

Dalla Slovenia sono arrivati, al pari dei lupi, gli splendidi, furtivi e opportunisti, sciacalli dorati del Balcani. Anche se sono meno di cento esemplari sparpagliati tra Nord Est, Emilia e Lombardia, qualcuno già sente i loro ululati serali.

Se le lontre scarseggiano resistendo nel Meridione, sono tornate a pescare nei torrenti alpini. Tornare è il verbo corretto, perché queste specie, come tante altre, erano autoctone nel territorio italiano molto prima della nostra presenza, e sono tornate inoltre a svolgere un prezioso ruolo di regolazione degli ecosistemi.

Ci sono specie con cui mantenere l’equilibrio è piuttosto difficile. I cinghiali, anche questi più o meno sciaguratamente e incoscientemente introdotti dall’uomo, sono voracissimi e dilagano ovunque, con avvistamenti di gruppi di madri e cucciolate a spasso per centralissime vie romane! Purtroppo spesso si ibridano con maiali al pascolo, e si ammalano mettendo a rischio la salute dei suini da allevamento.

Abbiamo anche gatti selvatici, schivi e timidissimi, ma comunque presenti con un migliaio di esemplari, e per restare tra i felini, addirittura una decina di linci italiane cacciano dal Friuli alla Val d’Aosta.

castoro europeo
Il castoro europeo, assente sul nostro territorio fin dal XVI secolo, è tornato, soprattutto nei boschi del Tarvisio, e un singolo maschio in cerca di una compagna, che troverà, è arrivato dall’Austria. Sono stati recentemente avvistati persino nella valle del Tevere in Umbria, e anche in Maremma. Certo, laddove presenti, qualche albero verrà abbattuto per le loro esigenze ingegneristiche, ma i loro sbarramenti contribuiscono ad accrescere la biodiversità, perché questi animali diversificano gli ecosistemi.

Tutte prove della sorprendente adattabilità della vita selvatica, che però non giustifica dover prenderla a fucilate per contenerla. Vedi i cervi di cui sopra...

Sono tornati gli animali così frequentemente rappresentati nelle opere medievali, nella saga del santo che parlava coi lupi. Ma non è una vittoria. Non ancora. L’antropizzazione in Italia resta schiacciante, con un incremento nel consumo di suolo che appare inarrestabile, con corsi d’acqua ingabbiati e coste cementificate.

E’ la vita selvatica che resiste e che dimostra come basti cessare le persecuzioni per vederla ripopolare gli angoli lasciati liberi dall’uomo, così come le piante tornano ad occupare qualsiasi interstizio non sia più sottoposto a controllo umano.

L’orso bruno trentino non sta invadendo le zone occupate e frequentate dall’uomo, sta tornando a casa sua, nelle vallate che abitava fino a metà Ottocento. Non è un alieno arrivato dallo spazio, va cercata la convivenza. E lo stesso dicasi per altre specie. 

Il nostro è un passato evolutivo ancora non del tutto scomparso, con la paura di essere predati e l’euforia della caccia, rito collettivo, il selvatico è un retaggio.

Le storie di questi animali migranti ci confermano ancora una volta che non siamo indispensabili.

Se per una qualche misteriosa ragione gli umani sparissero dalla nostra penisola, in pochissimo tempo la biodiversità si riprenderebbe i suoi spazi, fortunatamente.

Siamo un paese quindi diverso da molti altri, anzi, bio-diverso, manteniamolo.

 


Fidarsi della Scienza - Ripresa

 


Oltre due anni fa scrissi qualcosa a proposito della fiducia che occorre riporre nella scienza: potremmo anche non *fidarci* di qualche scienziato a titolo personale, non sarebbe la prima volta che scienziati al soldo dell’industria hanno mentito (si pensi alle bugie sul fumo da sigaretta diffuse fino agli anni Settanta), ma in generale dobbiamo fidarci della scienza.

E sulla base di questa fiducia non deve conoscere tregua la battaglia contro i luoghi comuni, la negazione delle evidenze, le pericolose disinformazioni fatte circolare, il più delle volte in base a trame precise e prederminate, le falsità conclamate. La storia delle idee, quando giuste, dimostra che questa sanno farsi strada fino ad affermarsi, come fu per la deriva dei continenti, lungamente avversata e poi rivelatasi corretta.

Pur basandosi su continui aggiustamenti e revisioni, errori o addirittura talvolta distorsioni intenzionali, la scienza riesce a fornirci una conoscenza affidabile e crescente e lo fa perché è un processo continuo di apprendimento, costantemente sottoposto all’analisi collettiva in trasformazione costante; il tutto confrontandosi con le evidenze sperimentali a costruire un consenso attorno a risultati prevedibili.

Non si tratta di relativismo ma del normale processo di apprendimento, lo stesso che fin da bambini ci guida alla scoperta del mondo, commettendo errori, correggendo e aggiornando le conoscenze pregresse. Con umiltà.

Attraverso il confronto intersoggettivo sui dati si costruisce l’oggettività scientifica ed è così che su temi spesso scottanti, come ad esempio sul fatto che non c’è correlazione alcuna tra vaccini e autismo, o tra vaccini e controllo della popolazione, si costruisce un consenso scientifico.

Purtroppo in Italia manca un’autorità centrale che parli a nome dell’intera comunità scientifica, come accade ad esempio in Gran Bretagna con la storica Royal Society inglese (fondata nel 1660, The President, Council, and Fellows of the Royal Society of London for Improving Natural Knowledge) e ciò comporta spesso che ogni scienziato parli a titolo personale su temi complessi, con uno spettro di visioni differenti che genera confusione e sfiducia.




A peggiorare le cose spesso gli scienziati italiani mettono in evidenza ed esaltano ciò su cui non vanno d’accordo piuttosto che le idee condivise generando nell’opinione pubblica l’impressione che la scienza sia molto più divisa di quanto non sia.

Comunicare alla società civile il consenso scientifico su temi rilevanti come il riscaldamento climatico o le pandemie è fondamentale e dovrebbe essere fatto da una voce istituzionale unica, né più né meno quel che fa in moltissimi paesi la figura del portavoce del governo.

Uno dei punti di forza della scienza è la sua omogeneità nel metodo e il rispetto della trafila completa della sperimentazione, a garantire l’affidabilità statistica dei risultati. Ci sono però problemi complessi, come quello relativo ai cambiamenti climatici, che vanno affrontati con una pluralità di approcci, e allora ben venga a rafforzare la scienza, anche la diversità, metodologica e intellettuale, delle persone che fanno scienza, che non va però confusa con quelle figure fuori dal coro che, senza base alcuna, annunciano scoperte strabilianti o confutazioni rivoluzionarie.

La creatività aumenta con l’aumentare dell’eterogeneità dei gruppi di lavoro, e questo vale anche nella scienza. L’interconnessione capillare delle persone, e quindi delle loro idee, nell’era digitale, fa da substrato all’osservazione fatta da una varietà di punti di vista diversi e rafforza il filtro e la selezione delle idee giuste, anche considerando l’estrema specializzazione che scienziati e ricercatori oggi devono necessariamente adottare.

William Whewell, colui che nell’Ottocento inventò la parola “scienziato” lo disse già allora: «la spiegazione migliore si raggiunge facendo convergere una varietà di fonti e di evidenze eterogenee».

Il tutto condito da una necessaria dose di scetticismo sano all’interno della comunità scientifica, relativo alla richiesta di evidenze: non basta sapere che una certa idea è valida perché sostenuta da un collega scienziato, o perché è particolarmente attraente. Va verificata.

Lo scetticismo esterno è invece strumentale, corrosivo, al limite del demenziale, che punta a screditare la scienza in quanto tale. Nessuna forma di evidenza sarà mai sufficiente per far cambiare idea a chi nega che il riscaldamento climatico sia causato dalle attività umane. Quello dei negazionisti è un cocciuto rifiuto di accettare la realtà.


Il vero scettico è chi sa di non sapere.

Ci sono tante cose che non sappiamo, ma questo non è un motivo per non fidarsi della scienza e di fronte alle cosiddette fake news non basta smentirle nel merito, ma occorre anche mostrare come sono costruite ed i motivi per cui ingannano.

Limitarsi a smontare le bufale, magari con fare scocciato, ci porta a creare un dibattito dove non c’è, abbassandosi al piano di discussione cercato da quelli che Naomi Oreskes definì mercanti di dubbi, la cui strategia è proprio quella di dare l’impressione che ci sia un dibattito. Occorre invece spiegare al pubblico perché si tratta di disinformazione e chiamarla col suo nome: menzogna deliberata, deliberata perché dietro quelle bugie c’è una motivazione ideologica, sostenuta anche da persone istruite.




LUCA viveva negli oceani già 4,2 miliardi di anni fa

Lo scorso aprile avevo pubblicato un paio di post (qui e qui) dedicati a quanto ad oggi disponibile per formulare una teoria sull’origine della vita sulla Terra, che sia condivisibile e quanto più possibile sostenuta da evidenze.

Un nuovo studio ha permesso di stabilire che la forma ancestrale comune può essere retrodata a 4,2 miliardi di anni fa. Ovvero quanto definito appunto come LUCA, Last Universal Common Ancestor, comparsa poche centinaia di milioni di anni dopo la nascita del nostro pianeta.

Circa tre miliardi e mezzo di anni fa il primo qualcosa (in realtà forme batteriche già parecchio complesse nella loro semplicità rispetto alle successive) definibile come vivente ha fatto la sua comparsa sul nostro pianeta, e questo è quel che sappiamo.

Ma l’evoluzione era già in atto, dando vita ai 2,3 milioni di specie conosciute e catalogate ad oggi dalla scienza (2,3 milioni su un totale di specie viventi e vissute quasi inimmaginabile, qualcuno stima fino a 100 milioni di specie vissute finora): animali, piante, funghi e batteri, imparentati e interconnessi tra loro, e che oggi sono stati organizzati in un enorme e completo “albero della vita” o, più tecnicamente, un albero filogenetico. Questo modello evolutivo, un cespuglio intricatissimo a rappresentare l’evoluzione di forme di vita, ripercorso all’indietro nel tempo, porta inevitabilmente a constatare che, all’inizio, qualcosa di comune a tutti gli organismi, viventi o vissuti, sia esistito in un determinato momento, all’origine di tutta la Vita (con la V maiuscola, ad indicare il processo globale che ha portato dalla non-Vita ad ogni singola vita che ci circonda).


Ma prima? Quando è comparso LUCA?

Una nuova ricerca, pubblicata lo scorso 12 luglio su Nature, ipotizza che il periodo della comparsa di questo antenato comune, finora posto tra i 3,9 e i 4,1 miliardi di anni fa, sia in realtà retrodatabile a 4,2 miliardi di anni fa, i cui immediati discendenti sarebbero quindi sopravvissuti persino alla fase in cui la Terra subì un bombardamento meteoritico pressoché devastante.

Il più antico antenato comune degli esseri viventi sulla Terra non era molto diverso dai complessi batteri che esistono oggi, e viveva tra l’altro in un ecosistema insieme ad altre specie batteriche e di virus. A questo proposito, uno degli aspetti molto interessanti della ricerca è che possedeva un sistema immunitario primitivo, dimostrando così che anche 4,2 miliardi di anni fa, l’antenato era impegnato in una corsa agli armamenti con i virus: in altre parole, il meccanismo dell’evoluzione per selezione naturale era già in atto, come logico attendersi.

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Qualsiasi forma di vita cellulare ha in comune con le altre alcune caratteristiche chiave: le proteine sono i loro elementi costitutivi, il DNA è quanto a disposizione per realizzarle con le stesse modalità di gestione e trasmissione dell’informazione e, non ultimo, la moneta energetica comune è data dall’ATP (adenosina trifosfato). Non sono coincidenze, ma la prova che tutta la Vita così come conosciuta oggi ha un’origine comune.

La vita è più antica di quel che sapevamo

Come predetto, prima di questo studio, si stimava che LUCA avesse avuto origine circa 3,9 miliardi di anni fa, considerando l’estrema difficoltà che comporta la datazione dei processi genetici avvenuti molto tempo fa. 

La nuova ricerca è riuscita a collocare con maggiore precisione questa sorta di protobatterio nel passato confrontando tutti i geni di 700 specie viventi di batteri e Archaea, microbi simili a batteri (ma che con essi hanno ben poco in comune) e che spesso vivono ambienti dalle caratteristiche estreme, ad altissime temperature o pressione, in acque acide o in assenza di ossigeno, definendone quindi la categoria di estremofili. La scelta di queste specie è dipesa dal convincimento che siano le forme di vita più antiche, mentre le cellule eucariote si sono evolute successivamente, molto probabilmente da meccanismi di assorbimento e simbiosi di forme batteriche all’interno di altre forme unicellulari dall'unione di questi due tipi di cellule, processi quindi di endosimbiosi (ne scrissi qui)

Contando le mutazioni (utilizzando quindi la tecnica del cosiddetto “orologio molecolare”) i ricercatori hanno contato i cambiamenti del genoma avvenuti nel tempo, soprattutto in quanto presente in 57 geni condivisi da tutte le 700 specie e, utilizzando il tasso di mutazione stimato, hanno calcolato quando LUCA è vissuto. La stima, come predetto, è 4,2 miliardi di anni fa. E non era solo.

Tra i 4,5 e i 4 miliardi di anni fa, durante il cosiddetto Adeano, la Terra era un luogo inospitale con oceani caldi e pochissimo ossigeno nell'atmosfera. Classificando i geni in base al ruolo che svolgono nella cellula, i ricercatori sono stati in grado di dedurre qualcosa sulle condizioni di vita e sul metabolismo dell’antenato comune.

clip_image006Indubbiamente viveva negli oceani, vicino ad alcune sorgenti idrotermali, fonte di minerali e composti utili come catalizzatori e fonti energetiche, resistendo a temperature estremamente elevate. I processi “respiratori”, in un ambiente privo di ossigeno, erano demandati alla metabolizzazione di altre sostanze; ancora oggi molti batteri utilizzano questa forma di anaerobiosi, e infine utilizzavano sottoprodotti di altri organismi presenti nello stesso ambiente.

La prova che LUCA non era la sola forma vivente viene proprio dalla ricostruzione del suo metabolismo perché si è scoperto, sempre con confronti basati su sofisticate tecniche di genetica molecolare, che LUCA, per produrre energia, utilizzava materiale organico che altri microbi stavano già scomponendo, e ci sono prove sorprendenti che possedesse anche geni che potevano proteggerlo dalle infezioni virali.

Un ecosistema rigoglioso quindi, anche in un lontano passato, con risvolti e implicazioni interessanti su ciò che gli scienziati si aspettano di scoprire su altri pianeti.

La morale è che un pianeta, per poter ospitare forme di vita, potrebbe essere del tutto diverso e non necessariamente somigliare alla Terra, o ad uno dei suoi innumerevoli ambienti, così come la conosciamo oggi: è più che possibile ipotizzare forme di vita presenti in ambienti che, a parità di altre condizioni, sarebbero considerati del tutto inospitali rispetto ai nostri parametri.

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