Fidarsi della Scienza - Ripresa

 


Oltre due anni fa scrissi qualcosa a proposito della fiducia che occorre riporre nella scienza: potremmo anche non *fidarci* di qualche scienziato a titolo personale, non sarebbe la prima volta che scienziati al soldo dell’industria hanno mentito (si pensi alle bugie sul fumo da sigaretta diffuse fino agli anni Settanta), ma in generale dobbiamo fidarci della scienza.

E sulla base di questa fiducia non deve conoscere tregua la battaglia contro i luoghi comuni, la negazione delle evidenze, le pericolose disinformazioni fatte circolare, il più delle volte in base a trame precise e prederminate, le falsità conclamate. La storia delle idee, quando giuste, dimostra che questa sanno farsi strada fino ad affermarsi, come fu per la deriva dei continenti, lungamente avversata e poi rivelatasi corretta.

Pur basandosi su continui aggiustamenti e revisioni, errori o addirittura talvolta distorsioni intenzionali, la scienza riesce a fornirci una conoscenza affidabile e crescente e lo fa perché è un processo continuo di apprendimento, costantemente sottoposto all’analisi collettiva in trasformazione costante; il tutto confrontandosi con le evidenze sperimentali a costruire un consenso attorno a risultati prevedibili.

Non si tratta di relativismo ma del normale processo di apprendimento, lo stesso che fin da bambini ci guida alla scoperta del mondo, commettendo errori, correggendo e aggiornando le conoscenze pregresse. Con umiltà.

Attraverso il confronto intersoggettivo sui dati si costruisce l’oggettività scientifica ed è così che su temi spesso scottanti, come ad esempio sul fatto che non c’è correlazione alcuna tra vaccini e autismo, o tra vaccini e controllo della popolazione, si costruisce un consenso scientifico.

Purtroppo in Italia manca un’autorità centrale che parli a nome dell’intera comunità scientifica, come accade ad esempio in Gran Bretagna con la storica Royal Society inglese (fondata nel 1660, The President, Council, and Fellows of the Royal Society of London for Improving Natural Knowledge) e ciò comporta spesso che ogni scienziato parli a titolo personale su temi complessi, con uno spettro di visioni differenti che genera confusione e sfiducia.




A peggiorare le cose spesso gli scienziati italiani mettono in evidenza ed esaltano ciò su cui non vanno d’accordo piuttosto che le idee condivise generando nell’opinione pubblica l’impressione che la scienza sia molto più divisa di quanto non sia.

Comunicare alla società civile il consenso scientifico su temi rilevanti come il riscaldamento climatico o le pandemie è fondamentale e dovrebbe essere fatto da una voce istituzionale unica, né più né meno quel che fa in moltissimi paesi la figura del portavoce del governo.

Uno dei punti di forza della scienza è la sua omogeneità nel metodo e il rispetto della trafila completa della sperimentazione, a garantire l’affidabilità statistica dei risultati. Ci sono però problemi complessi, come quello relativo ai cambiamenti climatici, che vanno affrontati con una pluralità di approcci, e allora ben venga a rafforzare la scienza, anche la diversità, metodologica e intellettuale, delle persone che fanno scienza, che non va però confusa con quelle figure fuori dal coro che, senza base alcuna, annunciano scoperte strabilianti o confutazioni rivoluzionarie.

La creatività aumenta con l’aumentare dell’eterogeneità dei gruppi di lavoro, e questo vale anche nella scienza. L’interconnessione capillare delle persone, e quindi delle loro idee, nell’era digitale, fa da substrato all’osservazione fatta da una varietà di punti di vista diversi e rafforza il filtro e la selezione delle idee giuste, anche considerando l’estrema specializzazione che scienziati e ricercatori oggi devono necessariamente adottare.

William Whewell, colui che nell’Ottocento inventò la parola “scienziato” lo disse già allora: «la spiegazione migliore si raggiunge facendo convergere una varietà di fonti e di evidenze eterogenee».

Il tutto condito da una necessaria dose di scetticismo sano all’interno della comunità scientifica, relativo alla richiesta di evidenze: non basta sapere che una certa idea è valida perché sostenuta da un collega scienziato, o perché è particolarmente attraente. Va verificata.

Lo scetticismo esterno è invece strumentale, corrosivo, al limite del demenziale, che punta a screditare la scienza in quanto tale. Nessuna forma di evidenza sarà mai sufficiente per far cambiare idea a chi nega che il riscaldamento climatico sia causato dalle attività umane. Quello dei negazionisti è un cocciuto rifiuto di accettare la realtà.


Il vero scettico è chi sa di non sapere.

Ci sono tante cose che non sappiamo, ma questo non è un motivo per non fidarsi della scienza e di fronte alle cosiddette fake news non basta smentirle nel merito, ma occorre anche mostrare come sono costruite ed i motivi per cui ingannano.

Limitarsi a smontare le bufale, magari con fare scocciato, ci porta a creare un dibattito dove non c’è, abbassandosi al piano di discussione cercato da quelli che Naomi Oreskes definì mercanti di dubbi, la cui strategia è proprio quella di dare l’impressione che ci sia un dibattito. Occorre invece spiegare al pubblico perché si tratta di disinformazione e chiamarla col suo nome: menzogna deliberata, deliberata perché dietro quelle bugie c’è una motivazione ideologica, sostenuta anche da persone istruite.




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