Il lavoro di Charles D. Keeling. Ripassino per climascettici.

Scrivere questo post oggi, 21 febbraio 2024 sembra ancora una volta un puro esercizio di stile, pressoché inutile, vista l’esperienza che ognuno di noi ha fatto della scorsa torrida estate e che sta tuttora facendo, al termine ormai di questo non inverno. Un inverno caratterizzato da temperature pressoché primaverili, con massime tipiche del mese di aprile, una grave crisi di precipitazioni che sta creando le premesse per un anno a venire decisamente siccitoso e, non ultimo, un danno economico enorme per il settore turistico della montagna, degli sport invernali, con impianti che in Appennino non hanno praticamente mai aperto e sulle Alpi si apprestano a chiudere con almeno due mesi di anticipo. In tempi non sospetti e recenti si scriveva di siccità, prevenzione e adattamento, il governo attuale ha da poco varato il PNACC (Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici). Ma sono decenni che il quadro è completo, che ci sono i dati, fin da 1965 l'allora presidente USA Lyndon Johnson era stato messo al corrente dei cambiamenti climatici in atto e misurabili. 

Eppure ciò nonostante ci si scontra pressoché quotidianamente con le legioni di imbecilli di cui ci aveva avvisato Umberto Eco molto tempo fa. Ma, come scrivevo un paio di giorni fa, provo a non mollare.

Iniziamo da alcune assunzioni che, nonostante ogni qual si voglia tipo di evidenza, inequivocabilmente, dimostrano il contributo antropogenico del cambiamento climatico in atto, ma stentano ad abbattere il muro del negazionismo, soprattutto quello ignorante.

a) per quanto riguarda l’ammontare di biossido di carbonio[1] (CO2) nell’atmosfera del pianeta, rispetto al trascorso ultimo milione di anni, l’era attuale non ha precedenti;
b) a livello geologico le variazioni nella concentrazione di CO2 fanno parte della storia del pianeta, ma di ampiezza molto minore e su scale temporale molto maggiori (l’ultimo picco, pari a circa 300 ppm, risale a 350.000 anni fa, e le variazioni si distribuiscono su fasce temporali di migliaia se non decine di migliaia di anni);
c) livelli maggiori di CO2 nell’atmosfera sono correlati a epoche più calde, mentre livelli più bassi sono correlati a ere glaciali;
d) l’aumento è coinciso con l’inizio della moderna era industriale, con una velocità ed una ampiezza dell’aumento che corrisponde al consumo di combustibile fossile dovuto alle attività umane;
e) ci sono segni evidenti che le vicissitudini politiche ed economiche dell’umanità si riflettono nelle recenti oscillazioni della concentrazione di CO2 atmosferico;

Che il consumo di combustibili fossili abbia dato una notevole spinta alla crescita della produzione industriale è un fatto, così come sembra inequivocabile e ampiamente dimostrato che questo consumo incrementa la concentrazione di CO2 nell’atmosfera. L’epoca attuale è quindi una novità assoluta, dal punto di vista qualitativo e quantitativo, nella storia dell’umanità. Un cambiamento quantitativo destinato ad essere significativo dal punto di vista del clima globale.

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Charles David Keeling

clip_image004Ho già avuto modo di citare Charles David Keeling su queste pagine (qui e qui). Un chimico statunitense a cui un giorno capitò di dover risolvere un problema di geochimica: in una miscela di calcare, acqua e CO2 atmosferico come raggiunge l’equilibrio il carbonato? Con i primi due valori semplici da ricavare occorreva misurare il tenore di CO2 atmosferico. E quindi, costruendosi da solo uno strumento di precisione, iniziò le misure già alla fine degli anni Cinquanta.

Passando direttamente a ciò che più ci interessa Keeling fece innanzi tutto un paio di scoperte interessanti: la prima che di notte c'è più CO2 nell’aria, perché di notte i processi fotosintetici non avvengono, e quindi questo gas non viene utilizzato, a cui aggiungere il contributo in CO2 dovuto al ciclo ossidativo delle piante (che avviene tutto l’anno, di notte e di giorno)[2]. Inoltre lo strato a diretto contatto con il suolo, a causa della minor temperatura notturna è più denso e quindi più sottile, creando quindi un incremento nella concentrazione.

In occasione dell’International Geophysical Year (1957-58) Keeling ed altri suoi colleghi, grazie al contributo di organismi di prestigio quali lo Scripps Institution of Oceanography e al US National Weather Service, diedero il via ad uno dei più significativi progetti scientifici a lungo termine mai portato avanti sulla Terra: iniziare una serie di misurazioni della concentrazione di biossido di carbonio in luoghi remoti della Terra, compresi il Polo Sud e Mauna Loa nelle Hawaii.

E fu alle Hawaii, con i dati dell'osservatorio di Mauna Loa, che Keeling fece un’ulteriore scoperta: per la prima volta fu osservato l’effetto stagionale che la vita esercita sull’atmosfera attraverso i processi di fotosintesi, processi che cambiarono la composizione dell’atmosfera terrestre; vita che tuttora continua a dettare la dinamica del CO2. Già dai primi anni delle misurazioni si osservò che, nel semestre estivo, più o meno da maggio a ottobre, la concentrazione andava via via calando, mentre in quello invernale, si registrava un progressivo aumento. Per la prima volta si assisteva alla sottrazione del CO2 dall’aria per consentire la crescita delle piante in estate, e alla sua restituzione nel corso dell’inverno seguente: il respiro del pianeta[3]. Si stima che le piante sottraggano all'atmosfera circa 120 Gton di carbonio con la fotosintesi e ne restituiscano circa 58 dalla respirazione e 59 dalla decomposizione dei terreni: un equilibrio tanto eccezionale quanto sottile.

La curva di Keeling
Ma l’osservazione più importante fu scoprire che, già in un brevissimo periodo di pochi anni, Keeling misurò un aumento della concentrazione anno dopo anno, anche se minimo, ancora più evidente nella stazione del Polo Sud che passò da 311,1 ppm nel settembre 1957 a 314 ppm nello stesso mese del 1959.

A conti fatti, Keeling scoprì che il tasso di crescita annuale medio, di circa 1,4 ppm l’anno, era più o meno quello atteso dalla combustione di fonti fossili in assenza di sottrazione da parte dell’atmosfera. Ma, pur essendo evidente che le medie del secondo anno erano più alte di quelle del primo, e quelle del terzo lo erano più di quelle del secondo, in mancanza di altri dati e soprattutto facendo della buona scienza, trarre delle correlazioni di causalità era prematuro. Occorreva effettuare misure regolari in località remote, per lunghi periodi, e filtrarle da ogni possibile rumore. E così fu: da oltre 60 anni, analizzatori di gas misurano l’assorbimento della radiazione infrarossa in campioni atmosferici e la confrontano con i tassi di assorbimento in campioni di riferimento che hanno concentrazioni definite di CO2.

Ecco come è nata la curva di Keeling, una delle curve più famose tra coloro i quali si occupano di climatologia e cambiamento climatico, qui aggiornata a pochi giorni fa! Il valore attuale è 424,97 ppm, il primo giorno di misurazioni, nel 1958, a Mauna Loa se ne registrarono 313.

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Il valore attuale è quindi circa il 30 percento superiore a quello iniziale; la curva, mediata nelle sue oscillazioni stagionali, ha una crescita tutto sommato piuttosto uniforme (i matematici usano il termine monotòna) con un aumento di circa 100 ppm in sessantadue anni, circa 1,6 ppm l’anno. Keeling nel 1960 aveva stimato che la produzione annuale di CO2 derivante dal consumo di combustibili fossili era pari a circa 1,4 ppm, lo stesso ordine di grandezza della crescita del tenore di gas serra.

Tutto il biossido di carbonio prodotto dal consumo di fonti fossili finisce in atmosfera? Oggi sappiamo che così non è, abbiamo i dati che lo dimostrano, perché il contributo da fossile è cresciuto di un fattore cinque da allora, di molto superiore a quello misurato da Keeling nello stesso periodo. E per questo Keeling aveva già una risposta: non dobbiamo aspettarci che tutto il CO2 che l’umanità produce contribuisca all’aumento del suo tenore atmosferico. Qualcuno potrebbe dire «per fortuna!», ma anche se questo gas può sciogliersi in acqua, dando vita all’acido carbonico, con una cospicua parte quindi assorbita dagli oceani, la cosa ha, tuttavia, come conseguenza diretta il fenomeno dell’acidificazione degli oceani. In altri termini, se l’assorbimento di questo gas serra da parte degli oceani ci dà una mano a mitigarne gli effetti in atmosfera, d’altra parte va a fare danni, e non pochi, in altro modo. 

A questo punto, la correlazione quantitativa tra l’aumento osservato e il contributo di origine antropica è come minimo indicativa ma, ricordiamolo ancora, correlazione non implica causalità[4].

Prove dal passato

clip_image007Come ho avuto modo di scriverne in questo post sono ormai decenni che diverse fonti forniscono i dati che ci raccontano come sia cambiato il clima sulla Terra nel corso di tutta la sua lunghissima storia geologica: sono le analisi stratigrafiche dei depositi sedimentari, i carotaggi di sedimenti marini o di lunghe colonne di ghiaccio prelevate nell’Artide così come in Antartide, o dai ghiacciai, persino da quelli alpini, e la relativa analisi dei loro contenuti, compresa la composizione dell'aria fossile nelle micro bolle d'aria; lo studio dei depositi vegetali trasportati dal vento, le analisi palinologiche (dei pollini), la distribuzione di organismi unicellulari dal guscio calcareo (foraminiferi), quello del rapporto tra concentrazioni di isotopi diversi dell’ossigeno o del carbonio e persino le analisi dei microsedimenti lasciati sui fondali marini del Nord Atlantico: sedimenti rilasciati da giganteschi iceberg che andavano migrando e sciogliendosi, dopo essersi staccati per crollo dal fronte delle inimmaginabili estese calotte glaciali presenti nelle epoche più fredde del nostro pianeta. E questi ultimi studi sono quelli tra i più coraggiosamente intuitivi e curiosi, che hanno messo in relazione eventi tra loro apparentemente slegati quali la fusione di iceberg, normalmente collegata a periodi di riscaldamento, e che invece ha apportato enormi quantità di acqua dolce e fredda, talmente tanta da alterare lo schema della normale circolazione delle correnti oceaniche che avviene, di solito, per differenze di temperatura e salinità.

Tutti questi sono ciò che i climatologi chiamano proxy data, non potendo effettuare misurazioni dirette nel passato per ovvi motivi si deducono alcuni fatti dall’analisi indiretta, per procura, di altri elementi.

Le previsioni e le proiezioni che vengono quindi elaborate continuamente, o la possibilità statistica concretamente molto alta che le cose vadano e potranno andare proprio così è provato da come sono andate in passato.

Ed è proprio dal ghiaccio polare, o meglio dalle bolle d’aria che si formano durante il processo di compattazione della neve caduta, che provengono le informazioni fondamentali. E, allo scopo di dare la necessaria globalità, è sia ghiaccio artico come quello estratto in Groenlandia, col North Greenland Ice Core Project (NGRIP), un progetto finanziato dalla UE che ha effettuato carotaggi fino ad oltre 3.000 metri di profondità perforando la calotta glaciale groenlandese, o antartico, col grandioso esperimento internazionale, European Project for Ice Coring in Antarctica (EPICA) con dati ricavati da carotaggi spintisi fino a valori record: 3.270 metri di profondità, estraendo ghiaccio sempre più vecchio, fino a quai a 800.000 anni fa.

Come potete vedere dalla figura precedente i siti di perforazione e carotaggio in Antartide sono numerosi e, maggiore è la profondità raggiunta, più vecchio sarà il periodo di formazione del ghiaccio dovuto alla stratificazione della neve anno dopo anno, stratificazione con aspetti diversi in estate rispetto all’inverno e così, proprio come gli si fa con gli anelli di accrescimento degli alberi, è possibile contare gli anni. Quindi, misurare la composizione del gas nelle bolle d’aria significa ottenere la composizione del gas atmosferico in quel luogo a quel tempo.

A questo punto abbiamo i dati misurati dall’osservatorio a Mauna Loa dal 1958 in poi[5] e la media di quelli dei carotaggi provenienti da vari siti, tutti allineati come lecito attendersi, per quanto riguarda i valori prima del 1958.

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Mi sembra abbastanza evidente che, inserendo la curva di Keeling in ognuna delle curve che riportano i valori atmosferici derivanti dai carotaggi (o da qualsiasi altro dato proxy), l’impennata sia più che evidente. A conti fatti, dall'inizio dell'era industriale, sono bastati soltanto gli ultimi circa 60 anni per produrre il 40 percento delle emissioni antropiche.

E che cosa hanno in comune tutti questi bruschi cambiamenti di tendenza che rendono l’aumento del gas serra così concentrato nel tempo? In una parola, così accelerato?

L’inizio dell’epoca in cui si è iniziato a bruciare, soprattutto su scala industriale, combustibili fossili.

Osservate la curva dall’anno zero. Gli ultimi duemila anni di storia dell’umanità, storia raccontata e scritta, testimoniata. O quella a partire da 10.000 anni fa, dalla rivoluzione neolitica come qualcuno l’ha definita, l’agricoltura e la pastorizia, la nascita della stanzialità e forse della prima importante impronta ecologica dell’umanità. Ma quello che più colpisce è quello che parte dal 1700 in poi: prima e dopo la rivoluzione industriale, prima e dopo l’invenzione del motore a vapore, perfezionato e migliorato da parte dell’ingegnere scozzese James Watt nel 1765 (ne scrissi qui).

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Il grafico precedente ci porta indietro di ben 800.000 anni, l’impennata recente diventa praticamente verticale, talmente breve è l’intervallo di tempo della curva di Keeling rispetto al passato geologico. Quei cicli di alti e bassi nel tenore di CO2 seguono quasi fedelmente i periodi interglaciali che intervallano le grandi glaciazioni, dovute a variazioni orbitali della Terra. Tra i molti e tra i primi che cercarono di mettere ordine tra quanto osservavano e le spiegazioni relative uno dei primi ad avere le idee chiare fu sicuramente l’ingegnere serbo Milutin Milanković, ne ho scritto approfonditamente qui.

Si nota immediatamente una cosa, evidenziata nella figura seguente: il tenore di CO2 è direttamente proporzionale alla temperatura dell’atmosfera, quanto più fa caldo quanto maggiore è il tasso di biossido di carbonio in atmosfera. Verrebbe da chiedersi se fa più caldo perché c’è più CO2 o c’è più CO2 perché fa più caldo? Ma, direbbe qualcuno, "i polli non fanno le uova perché da queste nascono". La spiegazione del fenomeno sta in due aspetti correlati: l’aumento della temperatura comporta la fusione delle calotte e dei ghiacciai continentali, oltre che ad un maggior tasso di evaporazione: di conseguenza il gas è liberato in atmosfera dalla criosfera e dall’idrosfera, inoltre al crescere della temperatura diminuisce la solubilità di questo gas in acqua. E questo causa un cosiddetto feedback positivo, un rinforzo. Quanto più aumenta il tenore di CO2 tanto più aumenta la temperatura rinforzando il periodo interglaciale. Al contrario, le temperature basse favoriscono la solubilità del gas in acqua[6]

Ricordate il problema dell'acidificazione degli oceani? A questo punto si potrebbe pensare che, visto che con l'aumento delle temperature i mari vedono la loro capacità di assorbimento del CO2 ridotto, il problema dell'acidificazione dovrebbe mitigarsi, purtroppo così non è perché i tassi di acidificazione crescono molto più velocemente del previsto. Entro il 2100, il pH degli oceani di superficie potrebbe scendere al di sotto di 7,8, ovvero più del 150% dello stato già corrosivo attuale, e potenzialmente anche di più in alcune parti particolarmente sensibili del pianeta come l'Oceano Artico. E comunque se gli oceani assorbono meno all'aumentare della temperatura, ciò significa che il gas serra resta in atmosfera, e se resta in atmosfera la temperatura aumenterà ulteriormente. Avete già capito: un altro feedback positivo.

La relazione tra CO2 e temperatura è nota e studiata almeno dalla prima metà del XIX secolo, dai lavori dell'americana Eunice Newton Foote e del fisico John Tyndall, ed è stata definitivamente consacrata dal lavoro di Svante Arrhenius del 1896. Ne ho parlato in dettaglio in questo post.

Tutti i dati sono pubblicamente disponibili sul sito della Scripps Institution of Oceanography, proprio quella con cui collaborò Keeling.

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Non ci resta che correlare
Torniamo adesso alle emissioni totali del solo CO2. Il sito del Global Carbon Project fornisce la curva che ci è necessaria. Quella a partire dal 1960, stesso periodo di quella di Keeling, Non è soltanto una coincidenza che anche questa abbia una crescita monotòna assimilabile a quella del tenore di CO2. Sono evidenti ed apprezzabili anche i momenti critici che comportarono un minor consumo di combustibili fossili con conseguente riduzione, minima ma apprezzabile, delle emissioni di gas serra.

Ricorderete che all’inizio si affermò che la correlazione quantitativa tra l’aumento osservato e il contributo di origine antropica è come minimo indicativa. Direi che a questo punto possiamo affermare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la correlazione è estremamente significativa: c’è un nesso di causalità.

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Cosa questo ha a che fare con il cambiamento climatico, col riscaldamento globale? Questa è un'altra storia, e ne ho scritto più volte…

Ma, a rischio di diventare pedante e noioso (e c’è ben poco da annoiarsi…) propongo un ultimo grafico. L’aumento della temperatura media del pianeta, a partire dal 1850, espressa in termini di anomalie rispetto alla temperatura media nel trentennio 1961-1990. Traete voi le correlazioni. Come tutti gli splendidi grafici di Our World in Data è interattivo.


Lo so, avevo detto che quello precedente sarebbe stato l'ultimo grafico, ma il prossimo parla da solo: fermare ora le emissioni comporta un ritorno a livelli preindustriali sempre più lontano nel tempo, e tanto più alto sarà il tasso esistente al momento in cui si interromperanno le emissioni addizionali tanto maggiore sarà il tempo di ritorno all'equilibrio. Ne ho parlato con dovizia di particolari in questo post.






[1] Ho già avuto modo di scriverlo. Più conosciuta forse come “anidride carbonica” ma ormai da moltissimo tempo “biossido di carbonio” è il nome corretto negli standard di nomenclatura chimica.
[2] Fotosintesi clorofilliana
[3] Ovviamente è un po’ più complicato di così: ne ho scritto qui.
[4] Questa cosa è ben nota a chi, come me, si è divertito a cercare correlazioni spurie di ogni tipo.
[5] E non solo comunque, ma sarà sufficiente fare riferimento a questi. Nella curva di Keeling riportata si precisa che alcuni dati derivano dall'osservatorio di Mauna Kea perché, durante una recente fase eruttiva del Mauna Loa la stazione non era disponibile.
[6] Un esempio immediato e intuitivo. Agitando una bottiglia di acqua gassata fredda, arricchita di CO2, si formano meno bolle che non facendolo con una bottiglia di acqua più calda. La bassa temperatura favorisce la solubilità.

Il canarino nella miniera del cambiamento climatico

E’ ormai prassi consolidata, alla quale non mi rassegno comunque, che ogni qual volta mi trovi a commentare o ad intervenire sui social in tema di cambiamento climatico, di riscaldamento globale o di argomenti a ciò connessi, debba confrontarmi nel solito stancante dibattito con taluni laddove dibattito non c’è. E, citando me stesso, fluctuat nec mergitur, non mollo, e continuerò incaponito, a cercare di contrastare le voci del dissenso ignorante, anche se il risultato fosse ricondurre sulla via della ragione, uno solo delle dozzine di inutili idioti che si incontrano quotidianamente.

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Sulla pagina da cui ho preso questa immagine (l’anomalia di temperatura di oggi, 19 febbraio 2024, comparata con le medie del periodo 1979-2020) è triste e desolante osservare ogni volta i soliti commenti. Triste perché questi esperti da tastiera, guardando solo al loro orticello, non si rendono conto che, stante il cambiamento climatico in atto, ci saranno dozzine di regioni del pianeta che andranno soggette a trasformazioni talmente importanti da rendere impensabile qualsiasi tipo di adattamento.

Non sono un climatologo. Ma nonostante questo, conoscendo quanto basta di fisica, di chimica, di geologia e di biologia, leggendo e studiando molto un tema che mi sta particolarmente a cuore, ho scritto almeno una dozzina di post divulgativi in tema: e l'ho fatto soprattutto perché nemmeno coloro i quali li hanno letti o li leggeranno sono climatologi. Sono persone che devono districarsi tra affermazioni contrastanti dei politici e dei media, schivare le bordate fatte di pura idiozia del commentatore medio(cre) dei social o del negazionista di turno. Quello che ha sempre un cugino che conosce un tipo che ne sa e la sa più lunga o che sciorina a pappagallo dei copia&incolla presi a casaccio senza nemmeno leggerli, figuriamoci capirli.

Se non è possibile spiegare le basi scientifiche e le predizioni associate al cambiamento climatico in modo semplice e accessibile, come possiamo pensare di ottenere un dibattito pubblico e un processo decisionale ragionevole sull'argomento?

L'obiettivo è innanzi tutto dare ai lettori una prospettiva informata sull'argomento: e ci sono dozzine di pagine, che grazie alla pazienza dei loro autori ci provano, così come ci provo su questo blog.

Se da un lato possono intimorire i dettagli dei modelli climatici su larga scala in grado di fornire previsioni accurate, la fisica del riscaldamento globale è semplice e si basa su principi scientifici elementari. E, per i più interessati, un gran numero di dati è accessibile su Internet liberamente.

Fate uno sforzo. Perché la scienza del cambiamento climatico deve essere il fondamento di ogni discussione e scelta politica. Non serve fare appello alle emozioni ed è del tutto sbagliato usare la strategia del terrore, tanto quanto è fuori luogo e deleterio adottare l'immobilismo negando le evidenze e la scienza.

Cercate di ottenere le corrette visione e comprensione per capire se quanto verrà proposto in termini di strategie specifiche sarà condivisibile, o per rifiutare i rischi dell'inazione.

E' il futuro dei nostri figli, dei nostri nipoti e pronipoti in gioco. E dipende da noi, da quanto vorremo e sapremo capire.

Il delta del Mekong. Anche quel che non vediamo ci riguarda

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Il cambiamento climatico è un fenomeno globale, e ciò significa innanzi tutto che non possiamo permetterci di evitare di porre attenzione su ciò che potrebbe succedere chissà dove: come tematica di portata globale, può manifestarsi in migliaia di modi diversi in migliaia di luoghi diversi (un accenno alle interconnessioni globali è disponibile in questo mio vecchio post sul fenomeno “ENSO - El Niño Southern Oscillation”).

Una delle più strazianti e straordinarie esplorazioni del XIX secolo fu quella del 1866 della Commissione francese per il fiume Mekong. In due anni fu coperta una distanza pari all’intera lunghezza dell’Africa: su venti uomini partiti da Saigon e arrivati fino alla Yangtze in Cina, sette non tornarono.

Ecco come uno scrittore descrive l’ultimo tratto del Mekong verso il mare.

«Il Mekong scende di soli sei metri negli ultimi ottocento chilometri, ma il delta è così basso che il fiume sembra, e spesso lo è, l'elemento più alto del paesaggio. Il terreno è così piatto che, da un ponte superiore, è necessario tenere conto della curvatura terrestre nel contare i piani di una pagoda distante…Dopo essersi spinto per migliaia di chilometri attraverso gole montane e fitte foreste, è come se il fiume non fosse convinto di farcela. Come dopo l'apertura di una paratoia, si diffonde attraverso la pianura, dipanandosi in fiumiciattoli, strattonando i ponti, crogiolandosi in lagune e, in generale, approfittando dei suoi primi e ultimi chilometri privi di ostacoli…Si dice che il delta produca più riso di qualsiasi altra regione al mondo di pari estensione. Prati e fango si trovano poco al di sotto della superficie d'acqua luccicante. Ma poiché la produzione del riso è una forma di coltura idroponica, negli ultimi sei mesi dell'anno i campi diventano laghi e il paesaggio diventa acquatico.» (da “Mad about the Mekong” di John Keay)

Poiché la parte inferiore del delta del Mekong, a sud di Phnom Penh, si trova poco al di sopra del livello del mare ed è straordinariamente piatta, la scarsa profondità del fiume genera una notevole variazione nel corso dell'anno. Nei pressi di Phnom Penh il fiume si unisce al Tonlé Sap e al suo sistema lacustre. A seconda delle stagioni e della profondità variabile del fiume, la direzione di scorrimento del Tonlé Sap si inverte: in alcuni periodi dell'anno diventa un affluente del Mekong, in altri periodi il flusso si inverte e le piene risalgono il fino al suo grande lago. Ma non è tutto.

Oltre ai suoi alti e bassi annuali, il delta del Mekong è sottoposto a una variazione giornaliera che, sebbene non sia unica al mondo, è in ogni caso abbastanza rara da aver attirato l'interesse dei primi viaggiatori occidentali - e da sorprendere tutti noi che ne sentiamo parlare per la prima volta. Per gran parte dell'anno, il delta sperimenta una sola alta marea giornaliera proveniente dal Mar Cinese circostante, e ovviamente una sola bassa marea, contrariamente alle più comuni due alte maree e due basse maree (maree diurne, questo è il nome che si da alle singole maree nel corso delle 24 ore).

Senza ricorrere alle ottime e tuttora valide spiegazioni che diede Newton a proposito del fenomeno delle maree e nonostante taluni che affermano che ancora oggi nessuno ha capito cosa le causi (…) la reale ampiezza e frequenza delle maree dipende dalle condizioni locali, soprattutto dalla conformazione e dalla combinazione di terre emerse e bacini marini.

Inoltre, il punto chiave è che la Luna non compie un’orbita intorno all’equatore terrestre ma ha un piano orbitale inclinato rispetto all’asse equatoriale (in cicli di 18 anni passa da 28 a 18 gradi). Anche se siamo abituati a vedere i mappamondi con l’asse terrestre inclinato di circa 23 gradi rispetto al piano orbitale visualizziamo la coppia Terra-Luna in un sistema di riferimento in cui l’asse di rotazione è verticale: aiuterà a vedere il piano orbitale della Luna intorno alla Terra, inclinato rispetto all’equatore. Come nella figura seguente:

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A grandi linee, data la latitudine del Vietnam e la posizione della Luna, mentre il delta del Mekong ruota insieme alla Terra, il mare della regione tende a sperimentare un’alta marea quando il Vietnam meridionale si trova sul lato esposto verso la Luna, dove il rigonfiamento è grande, e una bassa marea dodici ore dopo quando si trova dal lato opposto, dove l’acqua si è ritirata e non c’è alcun rigonfiamento. Tutto questo gioca un ruolo importante nel futuro dell’ecosistema del Mekong. Ancora Keay:

«Questa madre-di-tutte-le-maree giornaliera potrebbe, ovviamente, causare disastri al delta. Un'inondazione salata, anche solo una volta al giorno, potrebbe rapidamente inacidire la scodella di riso più grande del mondo e trasformare il verde abbagliante delle risaie in fangose boscaglie di mangrovie come quelle lungo il Donnai a valle di Saigon. Ciò che impedisce un tale disastro è l'imponenza del maestoso Mekong. La marea che avanza incontra il fiume che discende e, nel miglior esempio di equilibrio ecologico, scendono a patti. Il fiume si innalza, trovando la strada sbarrata dalla marea. L'arretramento del fiume, causato da una grande diurna, è evidente a monte fino a Phnom Penh e oltre. Ma lì, e nei successivi trecento o quattrocento chilometri a valle, la salinizzazione è pressoché assente…Il fiume protegge il delta dal suo nemico più letale perché l'innalzamento riguarda in massima parte le sue acque, e non quelle del Mar Cinese.»

Il Mekong contiene la più alta densità al mondo di pesci d'acqua dolce, e si stima che ospiti oltre mille specie ittiche. Considerando che il Mekong sostenta una popolazione di oltre 60 milioni di persone, da esso vengono pescati ogni anno più pesci d'acqua dolce che in tutti i laghi e i fiumi degli Stati Uniti messi insieme. Nel corso dell’anno, le sue inondazioni nutrono le risaie con acqua e limo, e rendono il delta la scodella di riso più grande del mondo. Credo non occorra aggiungere altro su cosa accadrebbe a causa dell’innalzamento medio del livello dei mari causato dall’aumento delle temperature.

E veniamo al punto
Mentre alcuni dei più drammatici impatti del cambiamento climatico a livello globale potrebbero non manifestarsi per decenni, o persino secoli, il Mekong potrebbe essere una delle prime vittime nella battaglia per scongiurare queste conseguenze. La scarsa profondità del fiume, la piattezza del delta e le inondazioni causate sia dalle stagioni sia dal delicato equilibrio tra le maree e la dinamica fluviale rendono il delta del Mekong particolarmente sensibile persino al più piccolo cambiamento in uno qualsiasi di questi sistemi nel breve periodo. Abbiamo già avuto modo di descrivere quanto preziosi possano essere i sistemi fluviali, a livello globale, in questo post.

Il delta del Mekong è come il canarino che i minatori si portavano in miniera che sarebbe stato il primo a morire per esalazioni di gas tossici. Ma c’è di più.

Come ho già avuto modo di dire in passato, proprio a causa della sua ricchezza e del suo impatto diretto sull’enorme popolazione che lo circonda, il delta del Mekong genererebbe conseguenze molto al di là dei confini del Sudest asiatico. Anche se le caratteristiche del Mekong sono molto particolare ci sono diverse altre regioni del mondo in condizioni simili, in precario equilibrio tra forze ambientali opposte: le pianure del Bangladesh o quelle della Florida, la foce del Mississippi, tanto per citarne qualcuna.

Non molto tempo si fornirono le evidenze che un miliardo e mezzo di persone sono pronte a migrare dal sud del mondo verso il nord del mondo, e questo siamo noi: l’Occidente. Anzi, entro la fine del secolo il cambiamento climatico potrebbe portare, tra siccità da un lato e paradossalmente inondazioni dall’altro, qualcosa come tre miliardi e mezzo di persone a migrare o cercare di farlo. Un quinto della superficie terrestre potrà subire un incremento significativo di gravi inondazioni della durata di settimane, costringendo gli abitanti a spostarsi; e in opposizione all’abbondanza d’acqua centinaia di milioni di persone che dipendono dall’acqua dei ghiacciai resteranno letteralmente a bocca asciutta.

Ho scritto all’inizio che, come tematica di portata globale, il cambiamento climatico può manifestarsi in migliaia di modi diversi in migliaia di luoghi diversi. Nessun uomo è un’isola in un mondo interconnesso, nessun luogo o paese al mondo può dirsi totalmente immuni dall’impatto dei cambiamenti, per quanto all’apparenza piccolissimi, persino se dalla parte opposta del pianeta.

Off topic ma non troppo. Nota sulle aree fredde.

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Nell’immagine sull’anomalia termica presente all’inizio del post e da cui ho preso l’avvio sono presenti diverse aree mediamente più fredde.

clip_image010Presi dalla nostra primavera non ci abbiamo fatto caso, ma nel cuore del mese di gennaio 2024, numerosi record di temperatura minima giornaliera sono stati infranti dal Montana al Texas (USA), facendo precipitare decine di milioni di persone in condizioni pericolosamente fredde. Questa eccezionale ondata di freddo è stata segnata dall'intrusione dell'aria polare artica in regioni raramente esposte a tali condizioni, lasciando intense tempeste di neve sui Grandi Laghi e nel nord-est degli Stati Uniti.


E’ paradossale, ma solo in apparenza: l’aumento delle temperature in genere diminuisce la frequenza delle ondate di freddo, ma in alcuni casi può portare a ondate di freddo molto intenso in posti insoliti. Come può succedere?

 





clip_image012Nell’emisfero nord ci sono due vortici d’aria, uno sopra l’altro. Il più basso è la corrente a getto, un “fiume” d’aria piuttosto sinuoso, formato da venti che soffiano tutto l’anno da ovest a est, più o meno alle stesse quote degli aerei di linea. A una cinquantina di chilometri di quota c’è invece il vortice polare stratosferico, più o meno circolare, che anch’esso circonda il polo Nord, ma si forma solo in inverno. Entrambi questi vortici esistono in virtù delle grandi differenze di temperatura tra l’Artico e le medie latitudini. Differenze nel riscaldamento creano differenze di pressione, e l’aria tende a fluire dalle aree ad alta pressione per riempire i “vuoti” di bassa pressione, formando dei venti che poi sono trascinati verso est dal moto di rotazione della terra, disponendosi “a cintura”.
Ma se l’Artico si riscalda più delle medie latitudini, la differenza di temperatura tra zona polare boreale e medie latitudini diminuisce e con essa la differenza di pressione tra le due regioni. Ciò fa sì che le correnti d’aria perdano la loro spinta e la loro direzione ben determinata, diventando più tortuose. Parte dell’energia dissipata in tali ondeggiamenti, quando sono marcati e persistenti, si propaga verso l’alto e può “attaccare” il vortice polare stratosferico facendo sì che si divida in sotto-vortici. Questi tendono a sbandare verso sud, portando con sé aria molto fredda a discapito dell’Artico, che invece diventa più caldo del normale.

Attualmente, l’interazione tra clima e vortici polari è forse l’aspetto più incerto del legame tra riscaldamento globale ed eventi meteo estremi, ma le osservazioni sembrano comunque indicare che effettivamente il vortice polare stratosferico si stia trasformando. Prevedibilmente, qualcuno pensa che simili ondate di freddo smentiscano il riscaldamento globale, ma non è così: basta guardare le mappe delle anomalie di temperatura e la loro evoluzione negli anni. Non solo: anche i periodi più freddi di adesso sono, in media, più caldi delle ondate di freddo passate.

Per chi volesse giocherellare con tali mappe o con altre ancora questo sito offre tutto il necessario: Climate Reanalyzer.