Il ritorno...dei punti di non ritorno

 

La posizione degli elementi di inversione climatica nella criosfera (blu), nella biosfera (verde) e nell'oceano/atmosfera (arancione) e i livelli di riscaldamento globale ai quali i loro punti di non ritorno saranno probabilmente innescati (Science, 2022)

Ho avuto già modo di parlare dei cosiddetti tipping points (innanzi tutto qui, oppure con una generica ricerca del tag), ovvero i punti di non ritorno; considerando che quello scientifico è comunque un percorso in continuo cambiamento sarà il caso di tornarci su brevemente perché, quello dei punti di non ritorno, man mano che gli impatti ambientali dei cambiamenti climatici (il plurale è d’obbligo) diventano sempre più evidenti, rappresentano un ambito di interesse crescente.


Rapporto tra aumento della temperatura media dell'atmosfera e raggiungimento di determinati punti di non ritorno.
In evidenza il valore di 1,5 °C stabilito dall'Accordo di Parigi (The Guardian)

Il grafico precedente è autoesplicativo: mostra una serie di punti di non ritorno che rischiano di essere raggiunti o violati anche nel caso in cui gli aumenti della temperatura globale vengano mantenuti entro i limiti dell'obiettivo del famoso “Accordo di Parigi” che, ripetiamolo, ha un obiettivo a lungo termine di mantenere l'aumento della temperatura media globale «ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitare l'aumento della temperatura a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali».

Eppure, già nel 2023, ed ancora nel 2024, il mondo ha superato quel limite per la maggior parte dell’anno, se non per tutto, mettendo quindi in discussione la fattibilità a lungo termine del raggiungimento di quell'obiettivo. Nella recente COP29 l’effettiva volontà nel perseguire questo obiettivo è emersa in tutta la sua evidenza. 

Alcuni punti di non ritorno sono più a rischio di altri e, stando a quel che si è potuto evidenziare finora, sembra che i processi siano già partiti. Il che porta ad una considerazione inevitabile: l’inerzia del sistema climatico nell’adattarsi o nel reagire ai cambiamenti è tale che anche qualora riportassimo adesso le temperature ai livelli preindustriali l’effetto lo avremmo soltanto a posteriori, ma molto a posteriori.
Il grafico riassuntivo seguente è chiaro (in ascissa l’anno di riferimento): che ci si fermi subito (2050) ad una percentuale di biossidi di carbonio pari 450 ppm, prevista per il 2050, o si continui imperterriti fino a 1200 ppm (2100) si avrebbe dapprima una rapida diminuzione di CO2 del 20 percento in circa un secolo, dovuta all’assorbimento da parte della biosfera, e che la restituirà circa un altro secolo dopo; ma passato questo periodo iniziale avremo comunque, dopo circa altri 1000 anni, il valore iniziale di 280 ppm (livello preindustriale) maggiorato di circa un 40% in eccesso. Studi simili dimostrano scenari analoghi pur partendo da ipotesi diverse.

I punti di svolta più a rischio sono discussi di seguito (con ulteriore discussione in un rapporto su Science. Per chi volesse approfondire qui c’è un articolo pubblicato su Science nel settembre 2023.


Collasso e fusione della calotta glaciale della Groenlandia
Gli scienziati ritengono che la calotta glaciale della Groenlandia si scioglierà inevitabilmente, anche se l’utilizzo di combustibili fossili cessasse adesso. Il riscaldamento globale raggiunto ad oggi porterà a un innalzamento del livello causato dalla fusione di qualcosa come 1014 tonnellate di ghiaccio. Se il fenomeno dovesse interessare le altre calotte glaciali l’innalzamento del livello del mare sarebbe di diversi metri. Ricordate quanto scrivevo sul delta del Mekong? Così, giusto per fare un esempio.

Il solo riscaldamento causerebbe un aumento minimo di 27 cm perché si tiene conto solo del riscaldamento globale attuale e non di quello futuro; altri fattori che determinano la perdita di ghiaccio sono dovuti alla conformazione dei margini della calotta glaciale. Il sollevamento pari a 27 cm si verificherà inevitabilmente nel tempo, in quanto è dovuto al riscaldamento globale già verificatosi, come illustrato nel grafico precedente: si è superato il punto da cui non si può più tornare indietro.

Tutti i dati, da qualsiasi punto di vista li si voglia guardare, indicano che la fusione dei ghiacci groenlandesi procede in modo accelerato, dovuto non solo al riscaldamento dell’atmosfera, ma anche al crollo dei ghiacciai in corrispondenza della costa, a contatto con le acque sempre più calde e ad una sorta di effetto lubrificante alla base dei ghiacciai, osservato di recente, dovuto alla fusione delle superfici di base a contatto con la roccia, in grado di accelerare lo spostamento dei ghiacciai verso il mare.

Miliardi di persone vivono nelle regioni costiere, il che rende le inondazioni dovute all'innalzamento del livello del mare uno dei maggiori impatti a lungo termine della crisi climatica. Se gli anni record di fusione che interessano la Groenlandia diventeranno un evento di routine entro la fine di questo secolo, allora la calotta glaciale produrrà un aumento del livello del mare di 78 cm.

Un aumento anche solo di una decina di centimetri ha effetti importanti in termini di aree costiere soggette ad inondazione ed erosione costiera.

Infine, ci sono prove del fatto che, circa 400.000 anni fa, con temperature più alte di 2-4 °C rispetto ad oggi, la calotta glaciale groenlandese scomparve del tutto, e il livello del mare aumentò di ben 7 metri! Circa 100.000 anni fa, con temperature che raggiunsero quei livelli sono per breve tempo, la fusione causò un innalzamento di 3,5 metri. Anche se le incertezze restano grandi non c’è motivo di sentirsi sollevati.

L'acqua di disgelo scorre dalla calotta glaciale nella baia di Baffin vicino a Pituffik, nel nord della Groenlandia. (Kerem Yücel/AFP/Getty Images)

Collasso e fusione della calotta glaciale dell'Antartide occidentale         

Il ghiacciaio Thwaites nell'Antartide occidentale potrebbe da solo innalzare significativamente i livelli del mare: viene attentamente monitorato per il pericolo potenziale che potrebbe rappresentare, dato che, se scivolasse nell'oceano, potrebbe causare l'innalzamento globale del livello dei mari di oltre mezzo metro, aprendo poi la strada allo scioglimento di tutto l'Antartide occidentale.

A marzo 2022 è crollata la banchisa Conger nell'Antartide orientale. Le piattaforme di ghiaccio che costituiscono le banchise agiscono come tappi che controllano i flussi di ghiaccio dalla terra al mare. Il ghiacciaio Thwaites agisce in modo simile, come un collo di bottiglia che protegge la calotta glaciale dell'Antartide occidentale. Se questa calotta glaciale dovesse sciogliersi completamente, aumenterebbe i livelli del mare di circa tre metri.

A dicembre 2021 la piattaforma di ghiaccio di fronte al ghiacciaio Thwaites mostrava enormi crepe, il che indicava che la piattaforma di ghiaccio antistante avrebbe potuto disintegrarsi entro un decennio, lasciando il ghiacciaio senza protezione. Il ghiacciaio Thwaites ha un'area delle dimensioni della Florida e contiene abbastanza ghiaccio da innalzare da solo il livello del mare di circa 60 cm.

È difficile figurarsi le dimensioni degli iceberg da quelle parti finché non li si vede da vicino, e non è infrequente vederne di alti come un grattacielo che si estende a perdita d’occhio. Nel 2015 si distaccò dal ghiacciaio Pine Island nel mare di Amundsen un ghiacciaio di quasi 600 chilometri quadrati, dieci volte Manhattan. Dal 2012 ad oggi, solo da questo ghiacciaio, si sono distaccate 60 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Uno degli ultimi si è staccato nel 2017 dal ghiacciaio Larsen: pesava 1000 miliardi di tonnellate e misurava quasi 6.000 chilometri quadrati. Per confronto il Molise ha una superficie di circa 4.500 chilometri quadrati.

La tendenza al riscaldamento ha sicuramente accelerato il fenomeno in Antartide, maggiormente nell’area occidentale, ma gli effetti maggiori che causano la perdita complessiva di massa vengono dalle correnti d’acqua più calde e che agiscono sulle piattaforme glaciali.

La piattaforma galleggiante viene indebolita dalle acque calde che fondono il ghiaccio in basso e questo, insieme ad altri effetti di superficie, rende instabile la piattaforma che si frammenta. A questo punto le correnti oceaniche possono continuare ad erodere il ghiaccio restante e i contrafforti, forniti dalla piattaforma di ghiaccio, che trattenevano il ghiacciaio retrostante, scompaiono. E il ghiacciaio può riversarsi completamente in mare, accelerando proprio perché non più trattenuto dal ghiaccio antistante.

Anche in questo caso, numerosi studi riportano che se anche le temperature tornassero ai livelli degli anni Settanta e Ottanta grazie a qualche effetto finora ignoto, non solo la destabilizzazione dei ghiacciai proseguirebbe, ma l’intera calotta dell’Antartide occidentale si destabilizzerebbe. Nel corso di secoli o millenni si avrebbe un ulteriore innalzamento del livello del mare di ulteriori tre metri.

(La fisica del cambiamento climatico. L.M. Krauss, 2022)

Moria delle barriere coralline tropicali

Anatomia dei coralli

Nei coralli sani, i polipi che costituiscono la colonia sono abitati da alghe (Zooxantelle) che forniscono il colore del corallo, i nutrienti e l'ossigeno, elementi di cui il corallo ha bisogno per sopravvivere. In condizioni stress, ad esempio a causa dell'aumento della temperatura dell'acqua, il corallo espelle queste alghe, il che lo rende fragile e suscettibile a malattie e morte. Il primo effetto evidente è che i coralli perdono il loro colore e si sbiancano. Dopo l’espulsione delle zooxantelle la maggior parte dei coralli muore di fame, perché manca il fornitore principale di energia. La moria degli organismi corallini riduce così i coralli a scheletri calcarei senza vita.

Come sanno gli australiani, lo sbiancamento dei coralli si sta verificando nella Grande Barriera Corallina. Le ricerche più recenti suggeriscono che il 90% della barriera corallina mostra segni di sbiancamento e un recente campionamento esteso su 911 aree nella Grande Barriera Corallina ha indicato che solo quattro di queste non mostravano segni di sbiancamento.

Lo sbiancamento dei coralli si sta verificando anche in altre barriere coralline in tutto il mondo: tra gli altri siti esaminati grande sofferenza si ha nelle barriere delle isole Cayman.

Le barriere coralline occupano circa lo 0,2% del fondale marino, ma ospitano il 25% delle specie marine e 4.000 specie di pesci. Forniscono riparo dai predatori, dalle tempeste e dalle onde, oltre a fornire cibo o lavoro a 500 milioni di persone in tutto il mondo. La Grande Barriera Corallina sostiene un'industria da 5 miliardi di dollari all'anno.

Solo negli ultimi 7 anni si sono registrati ben 3 eventi massivi di sbiancamento e morte dei coralli, il peggiore dei quali risalente al periodo 2016-2017. Nel 2017, infatti, si è abbattuto sulle coste del Queensland (Australia) il ciclone Debbie, una tempesta tropicale di categoria 4 con venti a 263 km/h che, insieme all'invasione corallivora dell’echinoderma Acanthaster planci (o stella corona di spine) e alle alte temperature dell’acqua, ha avuto un duro impatto sul 49% dei coralli della zona.

Che sia l’aumento delle temperature delle acque o una delle sue conseguenze, l’acidificazione degli oceani, a provocare lo sbiancamento dei coralli è da appurare, ma è evidente che la causa originale è, ancora una volta, il cambiamento climatico.

Disgelo del permafrost settentrionale

Il permafrost, come noto, è uno spesso strato di terreno sotterraneo che rimane sotto lo zero per tutto l'anno e si verifica principalmente nelle regioni polari; non va comunque dimenticato che il permafrost si forma anche sulle montagne, a quote superiori ai 2.600 metri alle nostre latitudini. E persino lo scioglimento di quest’ultimo provoca un aumento dei fenomeni di dissesto e di quelli franosi. Quando il permafrost si scioglie, rilascia metano e biossido di carbonio nell'atmosfera. E ciò accade perché il materiale organico congelato per migliaia di anni diventa disponibile per i microrganismi che lo convertono in gas serra. Il metano, in termini di capacità di agire come forzante del riscaldamento atmosferico, è circa 80 volte più potente del CO2 anche se rimane in circolo per circa 20 anni, molto meno che il biossido di carbonio.

Le prove dimostrano che il permafrost nella regione artica sta cambiando e degradando molto rapidamente. A prescindere dai danni diretti che causa in molte regioni urbanizzate della regione, che hanno costruito posando le fondamenta su pali direttamente nel permafrost, la modellazione indica che ciò porterà a grandi aumenti di metano, anche se il fenomeno non è ancora stato quantificato od osservato con certezza.

Ad ogni modo il risultato principale della fusione del ghiaccio del permafrost è la formazione di aree lacustri e paludose che agiscono come grandi emettitori di gas serra, metano in particolare.

L'Alaska, che fino a non molti anni fa aveva un bilancio tra emissioni e assorbimento pressoché pari a zero, è invece diventata un emettitore netto di gas serra a causa degli effetti dello scioglimento del permafrost.

Conclusioni
I punti di non ritorno discussi indicano, ancora una volta, l'urgenza di risposte globali al riscaldamento climatico. Il grafico del Guardian visto all’inizio, indica che mantenere il riscaldamento globale entro un massimo di 1,5 °C è, anche se in modo marginale, adeguato nella migliore delle ipotesi e l'obiettivo dovrebbe probabilmente essere inferiore.

A titolo di esempio si osservi il grafico qui sotto e relativo all’Australia, un paese tutto sommato che contribuisce in maniera irrisoria al cambiamento climatico (meno di 400 Mton di biossido di carbonio nel 2023, a fronte delle 35 Gton/anno complessive del mondo!)

Il grafico indica che la riduzione minima del 43% delle emissioni di gas serra auspicata dal governo australiano entro il 2030 (cioè adesso in pratica) non contribuisce a mantenere la di 1,5 °C, e c'è ancora molto da fare.

I valori riportati nel grafico sono relativi a Mton di CO2e, equivalente, a comprendere tutti i gas serra, e non solo il CO2.



 

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